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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE
Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”
Corso di laurea specialistica in Sociologia
Il Dragone e l'Elefante.
Cultura e istituzioni nello
sviluppo economico di Cina e India
Tesi in Sociologia Economica
Relatore:
Prof. Carlo Trigilia
Candidato:
Matteo Rezzonico
Anno Accademico 2008 / 2009

 1
INDICE
INTRODUZIONE p. 4
CAPITOLO I – Max Weber e l'Asia p. 7
1. Introduzione p. 7
1.1. Lo studio sulle grandi religioni universali p. 8
1.2. Questioni metodologiche p. 10
1.3. Multifattorialità e bidirezionalità nel pensiero weberiano p. 12
1.4. Il concetto di capitalismo moderno p. 14
2. La religione come fattore culturale fondamentale p. 15
2.1. Adattamento al mondo e fuga dal mondo p. 16
2.2. Demagizzazione e superamento del dualismo etico p. 19
2.3. Sistema delle caste, carisma magico dei mandarini e p. 21
struttura sociale
3. Altri fattori culturali p. 24
3.1. La paura magica delle innovazioni p. 24
3.2. La questione dell'etica e dell'ethos p. 26
4. I fattori istituzionali p. 28
4.1. Il ruolo della città p. 28
4.2. Assenza di uno stato legale-razionale p. 32
4.3. Assenza di una scienza razionale p. 37
4.4. La grande famiglia asiatica p. 39
5. Osservazioni conclusive p. 41
CAPITOLO II – Il dibattito critico sulla tesi weberiana p. 42
1. Introduzione p. 42
2. Le critiche alla tesi weberiana p. 43

 2
2.1. L'approccio generale weberiano p. 43
2.2. Le economie asiatiche tradizionali p. 45
2.3. Fattori culturali e religiosi p. 48
2.4. Fattori istituzionali p. 49
3. Ipotesi alternative p. 53
3.1. Teorie di classe e teorie di mercato: la classificazione di p. 54
Hamilton
3.2. Controllo dei mari, scoperte geografiche e colonialismo p. 56
4. Osservazioni conclusive p. 60
CAPITOLO III – Diverse vie verso la modernizzazione: il contributo p. 62
di Barrington Moore
1. Introduzione p. 62
2. La tesi di Barrington Moore p. 63
2.1. Rivoluzioni borghesi e democrazia p. 65
2.2. Modernizzazione dall'alto e autoritarismo p. 69
2.3. Rivoluzioni contadine e comunismo p. 72
3. La Cina e la rivoluzione comunista p. 75
3.1. La situazione sociale alla vigilia della caduta dell'impero p. 75
3.2. La fase dell'incertezza p. 80
3.3. La rivoluzione e la vittoria dei comunisti p. 82
4. Il paradosso della democrazia indiana p. 85
4.1. La situazione sociale nell'India coloniale p. 85
4.2. L'indipendenza e l'assenza di rivoluzioni p. 88
5. Osservazioni conclusive p. 92
CAPITOLO IV – I due volti del capitalismo cinese p. 95
1. Introduzione p. 95
2. Il periodo maoista e le ragioni delle riforme di Deng Xiaoping p. 96
3. Ruolo dello stato e capitalismo dall'alto p. 100

 3
3.1. Contenuti e limiti delle riforme p. 100
3.2. Il legame tra stato e imprese p. 107
4. Il dualismo del capitalismo cinese p. 112
5. L'imprenditorialità cinese e il capitalismo dal basso p. 114
5.1. Le caratteristiche del modello imprenditoriale cinese p. 114
5.2. Hong Kong e la diaspora cinese p. 120
5.3. Guanxi e capitale sociale p. 123
6. Osservazioni conclusive p. 128
CAPITOLO V – Tendenze recenti dell'economia indiana p. 130
1. Introduzione p. 130
2. L'India dopo l'indipendenza: l'Hindu rate of growth p. 132
2.1. Le ideologie alla base delle scelte economiche del periodo
post-indipendenza p. 132
2.2. Il modello di sviluppo nehruviano e le ragioni del suo p. 137
abbandono
3. Il nuovo modello di sviluppo e il Bharantiya rate of growth p. 142
3.1. Le riforme degli anni Ottanta e Novanta p. 142
3.2. Le riforme incompiute e i loro limiti p. 146
4. Sviluppo settoriale anomalo: una crescita fondata sui servizi p. 151
4.1. Industria p. 153
4.2. Servizi p. 158
5. Osservazioni conclusive p. 161
CONCLUSIONI p. 164
1. I fattori weberiani e il capitalismo indiano e cinese p. 164
2. Due modelli a confronto p. 175
BIBLIOGRAFIA p. 179
4
INTRODUZIONE
Negli ultimi decenni si è sentito continuamente parlare dei notevoli risultati in
termini di sviluppo economico della Cina, e da qualche anno sembra di poter
intravedere nel percorso dell'India un andamento altrettanto positivo. I successi dei
due giganti asiatici sono un fatto acclarato, ma l'interpretazione di questo fenomeno
e delle sue cause rimane tuttora una questione aperta. All'interno di tale ambito di
riferimento, questo lavoro si propone di dare un contributo alla discussione su due
punti centrali a partire dalla prospettiva della sociologia economica.
Il primo riguarda la recente diffusione del capitalismo in contesti sociali,
culturali e religiosi che fino a pochi decenni fa si erano dimostrati terreni sui quali
le logiche del mercato faticavano ad attecchire. Come aveva sottolineato Max
Weber quasi cent'anni fa, le società tradizionali di Cina ed India presentavano dei
caratteri non favorevoli ad uno sviluppo autonomo ed endogeno del capitalismo. In
particolare, nello svolgimento di questa tesi si cercherà di porre l'accento sul ruolo
cruciale avuto in questo senso dai fattori culturali e istituzionali. I primi fanno
principalmente riferimento all'influenza avuta dalle dottrine religiose sul
comportamento economico dei fedeli e sulla formazione di un ethos particolare sia
sul piano lavorativo che nel relazionarsi al mondo. I secondi riguardano invece
l'insieme delle norme che contraddistinguono un sistema sociale e ne plasmano
struttura e funzionamento. Muovendosi all'interno di questo spazio concettuale, si
proverà a mostrare quali ostacoli allo sviluppo del capitalismo siano stati rimossi,
quali permangano e quali invece si siano addirittura tramutati in vantaggi nella fase
del capitalismo maturo, permettendo secondo alcuni commentatori alle società
asiatiche di adattarsi meglio dei paesi occidentali al nuovo modello di produzione e
di essere più competitive.
5
Il secondo punto sul quale si impernia questo lavoro è l'analisi del ruolo svolto
dai fattori culturali e istituzionali nell'orientare la scelta di un particolare percorso
verso la modernizzazione e nel dare vita a due tipi di capitalismo diversi. Senza
volerci affidare ad un cieco determinismo, si è comunque cercato di mostrare come
il modello economico indiano e quello cinese attuali siano in buona parte il
risultato dell'interazione di fattori sociali preesistenti. Attraverso questo punto di
vista particolare, si è provato ad offrire una spiegazione di alcune differenze
rilevanti nelle strategie di crescita dei due paesi simboleggiate dalla metafora del
dragone cinese e dell'elefante indiano.
Il lavoro si sviluppa attraverso un percorso composto da cinque capitoli. Il
primo è interamente dedicato alla celebre tesi di Weber sulle ragioni del mancato
sviluppo autonomo del capitalismo in Asia. In particolare, come si è già detto,
l'attenzione si è concentrata sui fattori culturali e istituzionali. Da una parte è stato
quindi affrontato il ruolo svolto dalle dottrine filosofico-religiose del
Confucianesimo e dell'Induismo e dalle loro etiche economiche nel plasmare in
senso tradizionalistico il comportamento degli individui e nell'ostacolare
l'affermazione dell'economia di mercato. Dall'altra si è messo in evidenza il
rapporto tra l'economia e fattori istituzionali come la città, il tipo di stato e di
diritto, la scienza e la famiglia. Il secondo capitolo si occupa invece delle critiche
rivolte alla teoria weberiana, mirate a ridimensionare l'importanza per lo sviluppo
economico dei caratteri da essa individuati. A queste critiche fa seguito un accenno
a diverse tesi alternative o complementari che tendono a spiegare il crescente
divario creatosi sia in termini tecnologici e militari che economici tra Occidente e
Oriente attraverso il ricorso a fattori contingenti come la scoperta dell'America e
l'insieme di elementi ben riassumibile con la fortunata espressione "vele e
cannoni"1
. Questi due capitoli iniziali costituiscono la prima parte del lavoro,
centrata sullo studio delle caratteristiche sociali della Cina e dell'India tradizionali.
La seconda parte è formata dal quarto e dal quinto capitolo, che si occupano delle
tendenze più recenti dell'economia dei due paesi asiatici. In questa struttura il terzo

























































1
Cfr. Carlo Cipolla, Vele e cannoni, Bologna, Il Mulino, 1983.
6
capitolo svolge la funzione di un ponte che permette di colmare il salto
rappresentato dal passaggio dalle società tradizionali a quelle moderne. Questo
collegamento si è basato sulle tesi di Barrington Moore, che nel suo noto testo Le
origini sociali della dittatura e della democrazia2
mostra come determinate
caratteristiche strutturali delle società premoderne possano influire sia sul percorso
verso la modernizzazione che sull'esito di tale processo.
Dopo aver operato questa connessione, negli ultimi due capitoli vengono
trattate separatamente, ma in modo simmetrico, le esperienze dei due giganti
asiatici degli ultimi decenni, sempre prestando un'attenzione particolare ai fattori
culturali e istituzionali coinvolti. Nel quarto capitolo, dopo una breve introduzione
sull'eredità del maoismo, si è posto l'accento sulle riforme avviate a partire dal
1978 da Deng Xiaoping, per giungere a parlare dei loro straordinari esiti in campo
economico. In particolare, si è cercato di evidenziare come lo sviluppo attuale
dell'economia cinese corra su due binari paralleli costituiti da un lato dalle grandi
aziende – spesso pubbliche – e dall’altro dalle reti di piccole imprese che traggono
forza dal modello dell'imprenditorialità cinese. Allo stesso modo, nel quinto
capitolo si è tentato di porre in luce lo sviluppo del capitalismo indiano partendo
dalle condizioni del periodo immediatamente successivo all'indipendenza, per poi
occuparsi delle riforme degli ultimi decenni e degli effetti che hanno avuto sul
settore industriale e su quello dei servizi. Infine, nelle pagine conclusive di questo
lavoro sono presentate alcune considerazioni che hanno lo scopo di illustrare in che
modo il percorso fatto offra degli elementi per rispondere alle due domande
centrali appena poste. Da una parte si è provato ad illustrare come sia stato
possibile superare gli ostacoli allo sviluppo del capitalismo evidenziati da Weber,
mentre dall’altra l'accento è stato posto sul confronto tra i due modelli economici
che sono scaturiti dalle esperienze dei due grandi paesi asiatici.

























































2
Barrington Moore, Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari terrieri e
contadini nella formazione del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1971.
7
CAPITOLO I
MAX WEBER E L'ASIA
1. Introduzione
Una tesi che si pone come obiettivo la comprensione dell'influenza dei fattori
culturali e istituzionali sullo sviluppo di tipi diversi di capitalismo in Cina e in
India non può non prendere le mosse da un'analisi del pensiero di Max Weber
sull'argomento. Rispetto a questo proposito potrebbero sorgere due problemi. Da
una parte ci si potrebbe interrogare sull'attualità di uno studio condotto quasi
cent'anni fa e considerato in alcuni suoi tratti superato dagli specialisti. Dall'altra
potrebbero sorgere dei dubbi sull'utilità di una ricerca che si concentra sulle società
tradizionali dei due paesi, e non sulla comprensione delle realtà economiche
contemporanee che rappresentano il fulcro del nostro lavoro.
Partendo da quest'ultimo problema – che appare di più facile soluzione – basti
ricordare la massima secondo cui nulla nasce dal nulla. Le differenze tra le società
attuali (o tra le loro strutture economiche) possono essere comprese solo alla luce
delle situazioni storiche dalle quali sono scaturite. In particolare, si cercherà qui di
porre l'accento sulla rilevanza di alcuni degli aspetti religiosi, culturali e
istituzionali delle società a matrice confuciana e induista.
Per quanto riguarda invece la questione dell'attualità delle tesi weberiane,
bisogna fare una netta distinzione tra affermazioni specifiche e spirito generale
dell'opera. Non c'è dubbio infatti che molte osservazioni particolari non fossero del
tutto corrette, dati lo stadio all'epoca embrionale degli studi sul tema e il problema
delle fonti su cui si tornerà in seguito. Nonostante ciò, la stragrande maggioranza
8
degli studiosi contemporanei riconosce il fatto che le tesi fondamentali di Weber su
Confucianesimo e Induismo non siano ancora state confutate, e rappresentino a
tutt'oggi un'interpretazione valida e con la quale chiunque voglia occuparsi del
tema è costretto a confrontarsi. Con questo non si vuole affermare che tali tesi non
siano state criticate. Anzi, come si cercherà di mostrare nel secondo capitolo, molti
autori ne hanno messo in discussione la correttezza o l'importanza relativa rispetto
ad altre spiegazioni. Ciò che rende queste tesi speciali non è il fatto che nessuno le
abbia contraddette, ma il fatto che nessuno le abbia ignorate. In questo senso si può
davvero affermare che il lavoro di Weber su Cina e India abbia rappresentato una
pietra miliare nel proprio ambito di studio, e si spera che questa appaia al lettore
una ragione sufficiente per dedicare tanto spazio al pensiero del sociologo tedesco.
Fatta questa premessa, ci si può addentrare nel contributo weberiano vero e
proprio.
1.1. Lo studio sulle grandi religioni universali
L'interesse di Weber per la Cina e l'India è nato nel contesto dei suoi studi
comparati sulle grandi religioni universali1
. Tali studi comprendono anche il
celebre saggio sull'etica protestante e sulle sette americane, nonché un trattato
sull'Ebraismo antico. In realtà il progetto avrebbe dovuto includere anche un saggio
sul Cristianesimo delle origini ed uno sull'Islam, ma l'improvvisa morte di Weber
non ha permesso che questo quadro si compisse.
L'idea fondamentale era quella di affrontare in chiave comparata le grandi
religioni universali per riuscire a spiegare alcune delle ragioni per le quali il
capitalismo moderno si sia sviluppato solo in Occidente. In questo senso bisogna
riconoscere che l'interesse per le società asiatiche fosse in buona parte legato alla
volontà di capire meglio l'Europa. Nonostante ciò, la scelta delle società e delle
religioni da confrontare al Protestantesimo non fu casuale. Perché non venne scelta
l'Africa? Perché non le civiltà precolombiane dell'America centrale e meridionale?

























































1
Max Weber, Sociologia della religione, Torino, Edizioni di Comunità, 2002.
9
Probabilmente la ragione principale va ricercata nel fatto che a Weber non
interessava capire semplicemente perché non si fosse sviluppato un capitalismo di
tipo moderno e industriale in una determinata società. Ciò che interessava al
sociologo tedesco era capire perché tale sviluppo non avesse avuto luogo
nonostante alcune condizioni materiali ed in parte anche culturali e istituzionali
fossero favorevoli. È quel 'nonostante' ad aver guidato la selezione delle società e
delle religioni da studiare. Per esempio, nel caso della Cina Weber individua molti
elementi che avrebbero potuto far pensare ad un'evoluzione in senso capitalistico
già nel Settecento:
Con un aumento di popolazione così gigantesco quale quello che avvenne in Cina dopo
l'inizio del secolo XVIII, collegato con un continuo aumento delle riserve di metalli
preziosi, si dovrebbe ammettere – secondo prospettive europee – l'esistenza di una
possibilità molto favorevole per lo sviluppo del capitalismo.2
A questi caratteri se ne potrebbero aggiungere molti altri elencati nel testo
weberiano, come la natura non ascrittiva del ceto dominante dei mandarini, la
presenza di tecnologie produttive e agricole avanzate, l'esistenza di un mercato
molto vasto e l'apprezzamento dei valori mondani da parte del Confucianesimo.
Allo stesso modo, in India si potrebbero individuare aspetti favorevoli in caratteri
quali il livello tecnologico raggiunto, l'elevata specializzazione professionale e la
frammentazione politico-istituzionale che si prestava ad analogie con la situazione
delle città-stato medievali italiane e tedesche. Ma allora perché il capitalismo non si
sviluppò in modo indipendente anche in tali paesi? Questa è la domanda alla quale
Weber ha cercato di dare una risposta con le proprie ricerche, ed è pure la domanda
che ci guiderà per il resto di questo capitolo. Prima di affrontare questo tema però,
appare opportuno porre l'accento su alcune premesse di carattere metodologico e
legate alle concezioni di fondo weberiane.

























































2
Ivi, vol. II, p. 119.
10
1.2. Questioni metodologiche
Sul piano del metodo, un primo elemento da evidenziare è il problema delle
fonti. Weber non era in grado in leggere testi originali in ideogrammi cinesi o in
sanscrito, e per questo era costretto a fare affidamento solo sulle traduzioni
disponibili in inglese o in tedesco. Questo fatto, di cui il sociologo era ben
conscio3
, espone l'intero lavoro a due pericoli. Il primo è legato ad un problema di
quantità, e cioè al fatto che i testi tradotti non fossero molti, limitando le possibilità
di lettura dello studioso. Il secondo pericolo è meno evidente e per questo molto
più insidioso. Si tratta di un problema di qualità, nel senso che sarebbe ingenuo
pensare che la scelta dei testi meritevoli di traduzione non fosse influenzata da
concezioni e pregiudizi occidentali4
. Tali meccanismi di selezione possono aver
giocato un ruolo rilevante nell'aver spinto Weber a sopravvalutare il peso relativo o
la diffusione di determinate posizioni filosofiche o convinzioni e pratiche religiose.
Un secondo aspetto metodologico che va messo in luce per cogliere l'essenza
del lavoro weberiano e per prevenire critiche ingiuste è dato dall'uso dei tipi ideali.
Senza dilungarsi sullo strumento del tipo ideale in quanto tale, si può comunque
dire che si tratta della selezione consapevole di alcuni tratti della realtà ritenuti
particolarmente significativi in relazione ad un fine particolare, e della successiva
costruzione di una struttura concettuale che unisca tali tratti in un quadro coerente5
.
Applicato alla ricerca sulle grandi religioni mondiali, questo procedimento
presuppone una rinuncia ad ogni ambizione di esaustività nell'esposizione delle
caratteristiche delle religioni considerate. Questo è il prezzo da pagare per
evidenziare gli aspetti rilevanti in relazione ad un fine, che nel caso di Weber è la

























































3
"La misura delle traduzioni delle vere «fonti» (ossia delle iscrizioni e dei documenti) in parte
(specialmente in Cina) è ancora molto esigua, in rapporto a ciò che è presente e importante", in Max
Weber, op. cit., vol. II, p. 46.
4
Cfr. le osservazioni sviluppate a questo riguardo da J. Duncan e M. Derrett, "A Post-Weberian
Approach to Indian Social Organization and Reform of Law in Present-Day India", in AAVV, Max
Weber e l'India. Atti del Convegno Internazionale sulla tesi weberiana della razionalizzazione in
rapporto all'Induismo e al Buddhismo (1983), Torino, Pubblicazioni del Cesmeo, 1986, p. 80.
5
Cfr., per esempio, Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Milano, Edizioni di Comunità,
1994, p. 329.
11
comprensione del comportamento economico delle diverse civiltà analizzate. Come
sostiene lui stesso, bisogna "porre in forte rilievo quei tratti che sono propri di ogni
singola religione in antitesi con le altre, e che sono al tempo stesso importanti per il
nostro contesto"6
. Una precisazione di questo tipo è importante, perché ci permette
di capire le ragioni per cui l'autore dedica poco spazio ad alcuni elementi di una
religione centrali da un punto di vista teologico, ma magari poco utili in relazione
al comportamento economico, mentre si dilunga su questioni apparentemente
marginali che però hanno una diretta connessione con un particolare atteggiamento
connesso alla sfera economica.
Ma la citazione weberiana introduce anche un terzo ed ultimo aspetto
metodologico fondamentale: l'uso sistematico della comparazione. Si tratta di un
approccio di cui è quasi impossibile esagerare l'importanza, in quanto è il cardine
sul quale si impernia tutta la ricerca sulle grandi religioni universali. Non
disponendo di un laboratorio in cui fare esperimenti su alcune variabili sociali
mantenendo tutte le altre costanti, Weber intuisce che le scienze sociali non
possano far altro che setacciare la realtà a caccia di situazioni simili che hanno
portato ad esiti diversi o al contrario di situazioni profondamente diverse che hanno
condotto a risultati analoghi. Solo attraverso questi confronti si possono avanzare
ipotesi su quali variabili siano rilevanti rispetto ad un determinato fenomeno e quali
invece siano ininfluenti. Questo approccio permette anche di dare una risposta più
esauriente al perché Weber non abbia scelto le società africane o precolombiane.
Come qualunque appassionato delle scienze fisiche sa bene, i risultati di un
esperimento sono poco significativi se si è permesso ad un numero elevato di
variabili rilevanti di oscillare invece di mantenerle costanti ed osservare le
alterazioni di una o due di esse ceteris paribus. Allo stesso modo, Weber non
avrebbe potuto formulare le sue tesi confrontando la società occidentale con realtà
che con essa non avevano niente in comune come quelle africane e precolombiane.
Cina e India invece apparivano al sociologo tedesco come le società più simili a

























































6
Max Weber, op. cit., vol. II, p. 31-32.
12
quelle occidentali, rendendo un po' più agevole il confronto e quindi la
formulazione di ipotesi sul rapporto tra variabili e risultati.
1.3. Multifattorialità e bidirezionalità nel pensiero weberiano
Oltre ai tratti metodologici illustrati, ci sono alcune caratteristiche della
concezione weberiana da esporre brevemente, in quanto se fossero state meglio
comprese avrebbero probabilmente risparmiato al grande sociologo molti attacchi
privi di fondamento.
Un primo aspetto è dato dalla convinzione weberiana dell'importanza della
multifattorialità nella spiegazione dei fenomeni sociali. Mentre altri autori, come
Marx, avevano la tendenza a puntare tutto su un unico fattore imprescindibile dal
quale tutti gli altri dovevano in qualche modo derivare, Weber era convinto che
nessun fenomeno sociale potesse essere spiegato facendo ricorso ad una sola
variabile. Al contrario, dovevano esserci diverse concause che, interagendo l'una
con l'altra, producessero un particolare risultato. È vero, Weber si è sempre
occupato in modo particolare dei fattori religiosi e istituzionali, in parte perché li
riteneva di grande importanza e in parte perché era convinto che sul piano
dell'analisi dei fattori economici Marx avesse già svolto un lavoro eccellente e ci
fosse poco da aggiungere alle sue teorie. Ciò che molti critici passati e presenti
hanno però dimenticato è che nonostante il focus dei suoi studi fosse puntato sulla
rilevanza delle religioni nell'influenzare il comportamento economico, Weber non
ha mai sostenuto che tra questi due ambiti intercorresse un legame esclusivo, come
appare chiaramente da questo passaggio:
Nessuna etica economica è stata mai determinata soltanto religiosamente. […] Ma, in ogni
caso, tra i fattori determinanti dell'etica economica rientra tuttavia – come uno soltanto dei
fattori, si noti – anche la determinazione religiosa della condotta di vita.7

























































7
Ivi, vol. II, p. 8.
13
L'autore tedesco aveva semplicemente scorto uno spazio di studio ancora
relativamente inesplorato, e aveva deciso di dedicarsi ad esso. In questo senso è
interessante la tesi secondo cui Weber può essere visto come il creatore del
concetto di 'capitale spirituale', e cioè dell'idea che "le credenze e le prospettive
individuali possano influenzare il comportamento e la predisposizione economici in
modo significativo e possano essere usati per conferire vantaggi competitivi"8
.
Ma c'è un'altra questione che porta spesso a fraintendimenti del pensiero
weberiano. Il grande studioso non ha mai sostenuto che fosse solo la religione a
plasmare le istituzioni secolari e il comportamento economico, ma era anzi
convinto della bidirezionalità, della reciprocità del rapporto di influenza tra la
religione e le altre sfere sociali, per cui anche queste ultime avevano un peso
rispetto all'indirizzo preso dalla dottrina. Si tratta di quello che il grande sociologo
chiamava 'l'altro lato della catena causale', mettendo però in guardia anche nei
confronti del pericolo opposto, e cioè del cedere alla concezione materialistica
marxiana per cui la religione non era che un elemento sovrastrutturale. Da una
parte viene infatti riconosciuto come l'interesse materiale delle classi dominanti –
nel nostro caso i letterati confuciani e i brahmani – avesse un notevole impatto su
determinati precetti religiosi, e come soprattutto in Cina i mandarini facessero un
uso per molti versi strumentale della magia e del Taoismo, in cui non credevano,
con il semplice scopo di 'addomesticare' le masse e garantire la continuità di un
ordinamento sociale in cui si trovavano al vertice e di cui potevano largamente
beneficiare. Weber pose più volte l'accento su tale strumentalità, come si avrà
modo di mostrare nel corso del capitolo, ma dall'altra parte tenne anche ad
affermare come nonostante tutto "per quanto profonde siano state, nel caso singolo,
le influenze sociali, economicamente e politicamente determinate, su un'etica
religiosa, questa ha tratto la sua impronta in primo luogo da fonti religiose – in
modo primario dal contenuto del loro annuncio e della loro promessa"9
. Se da un
lato si riconosce quindi l'influenza delle altre sfere sociali sulla religione, dall'altro

























































8
Barnaby Marsh, "The Role of Spiritual Capital in Economic Behavior", in Victor Nee e Richard
Swedberg, On Capitalism, Stanford, Stanford University Press, 2007, p. 182.
9
Max Weber, op. cit., vol. II, pp. 9-10.
14
si rivendica una sorta di indipendenza per cui quest'ultima non possa mai essere
semplicemente subordinata a quelle.
1.4. Il concetto di capitalismo moderno
Un ultimo punto sul quale occorre fare chiarezza prima di affrontare in
dettaglio le tesi weberiane su Cina e India è dato dall'uso che Weber fa del termine
'capitalismo'. Quando in relazione all'Asia si parla di mancato sviluppo del
capitalismo, in realtà si sottintende il riferimento ad un tipo particolare di
capitalismo, e cioè a quello 'moderno' o 'industriale'10
. La tipologia dei capitalismi
proposta da Weber prevede che questa forma di organizzazione economica possa
assumere caratteri diversi a seconda della sfera di riferimento (della circolazione o
della produzione) e del tipo di risorse su cui si fonda (economiche o politiche). Per
essere definito 'moderno', il capitalismo deve operare nella sfera della produzione e
fare affidamento su risorse di tipo economico. In particolare, secondo Weber ci
sono alcuni requisiti da soddisfare. I bisogni materiali vanno soddisfatti attraverso
imprese private che producono per il mercato sulla base di un calcolo di redditività
del capitale e impiegando forza lavoro salariata formalmente libera. Questa
precisazione è importante perché molti studiosi hanno criticato Weber per aver
sostenuto l'assenza di capitalismo in Asia. In realtà, sia in Cina che in India delle
forme di capitalismo sono esistite per secoli, se non addirittura per millenni, ma si è
trattato di "forme fondate sull'usura o sull'appalto delle imposte o su un'economia
di bottino: si è cioè trattato di un capitalismo speculativo o predatorio, non certo di
un capitalismo orientato in senso razionale-formale"11
. Fatta questa premessa, si
può capire cosa si intendesse con il riferimento al mancato sviluppo del capialismo
in Asia.

























































10
Per tutta la trattazione della tipologia dei capitalismi nella concezione weberiana, cfr. Carlo Trigilia,
Sociologia economica, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. I, pp. 195-201.
11
Pietro Rossi, "L'analisi sociologica delle «religioni universali»", in Pietro Rossi (a cura di), Max
Weber e l'analisi del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1981, p. 142.
15
Un'altra critica ricorrente riguarda il fatto di non aver intravisto le potenzialità
insite nella realtà cinese e resesi evidenti con l'esplosione del capitalismo negli
ultimi decenni. Anche queste critiche appaiono il risultato di un fraintendimento
del pensiero weberiano. Va infatti esplicitata una netta distinzione tra diffusione a
partire dall'esterno e sviluppo autonomo del capitalismo12
. Il sociologo tedesco ha
sempre sostenuto che in Cina non ci fossero le condizioni per uno sviluppo
autonomo del capitalismo, per varie ragioni che si cercherà di esporre nel corso del
capitolo. Nonostante ciò ha chiaramente affermato come una volta introdotto
dall'esterno il capitalismo avrebbe trovato nella società cinese terreno fertile per
attecchire e prosperare: "Il Cinese sarebbe – con ogni probabilità – altrettanto
capace, presumibilmente ancor più del Giapponese, di appropriarsi del capitalismo
pervenuto tecnicamente ed economicamente al suo pieno sviluppo nell'ambito della
civiltà moderna"13
. Si avrà comunque modo di tornare più volte su questo tema nel
corso del lavoro.
A questo punto appare possibile cominciare ad analizzare in dettaglio le teorie
weberiane sul mancato sviluppo del capitalismo in Cina e in India. In tal senso si è
scelto di operare una suddivisione dei paragrafi secondo la classica distinzione tra
fattori culturali e istituzionali, assegnando uno spazio a parte ai fattori prettamente
religiosi in ragione della loro importanza per il quadro complessivo.
2. La religione come fattore culturale fondamentale
Le dottrine religiose (e le etiche economiche che ne derivano) erano per Weber
uno dei fattori più rilevanti in relazione allo sviluppo del capitalismo. A questo
proposito appare però necessario circoscrivere il campo di riflessione alle religioni
dominanti delle aree prese in considerazione. In particolare, per quanto riguarda la
Cina ci si concentrerà solamente sul Confucianesimo, con un'unica deroga per

























































12
Su questa distinzione, cfr. Gary Hamilton e Cheng-Shu Kao, "Max Weber and the Analysis of East
Asian Industrialisation", in International Sociology, London-Thousand Oaks, SAGE, 1987, n. 3, vol. II,
p. 291.
13
Max Weber, op. cit., vol. II, p. 312.
16
alcune riflessioni sull'uso strumentale del Taoismo da parte degli amministratori
imperiali. Nel caso indiano le energie saranno invece rivolte all'Induismo,
escludendo dall'analisi altre religioni presenti in quell'area geografica come il
Buddhismo, il Jainismo e l'Islam. Una decisione di questo tipo è inevitabile e fu
sostanzialmente già messa in atto da Weber. La scelta di queste due religioni è
dovuta a solide ragioni, come la loro diffusione all'interno delle aree in questione e
soprattutto il fatto che i ceti dominanti – letterati confuciani e brahmani –
legittimassero proprio attraverso tali dottrine la propria posizione nell'ordinamento
sociale e ne fossero i principali sostenitori.
Per prima cosa si porrà l'accento sui diversi orientamenti religiosi nei confronti
del mondo. Successivamente si cercherà di illustrare ragioni e conseguenze del
mancato compimento dei processi di demagizzazione e di superamento del
dualismo etico sia in Cina che in India. Infine si proverà ad evidenziare quali siano
state le influenze dottrinali sulla formazione di una particolare struttura sociale.
2.1. Adattamento al mondo e fuga dal mondo
Una prima differenza fondamentale tra Confucianesimo e Induismo sta
nell'orientamento generale nei confronti del mondo. Il primo ha tra i suoi tratti
fondamentali una profonda intra-mondanità legata all'assenza nel pensiero
confuciano di qualunque riferimento a realtà ultra-terrene da raggiungere dopo la
morte. Tutta l'attenzione di tale dottrina era rivolta al miglioramento della propria
condizione terrena, e non ad ipotetici premi e compensazioni in una vita futura.
Come sottolinea Luciano Cavalli nel suo importante lavoro su Weber intitolato
Religione e società, al confuciano
manca ogni preoccupazione per l'Aldilà; anzi, ogni tentativo di porre problemi di
sopravvivenza ultraterrena è considerato una frode. L'etica confuciana di adattamento al
17
mondo può procurare, oltre a una lunga e felice vita sulla terra, solo un onorato nome oltre
la tomba – un bene che il confuciano, per la verità, pone sopra ogni altro.14
A questo carattere intra-mondano va aggiunta una concezione cosmocentrica
dell'universo, e cioè l'idea che non esista un Dio dalle sembianze umane che avanza
pretese etiche, ma semplicemente una forza impersonale ed eterna all'interno di un
ordinamento cosmico in perfetto equilibrio. L'insieme dei due elementi citati
portava secondo Weber ad un atteggiamento di adattamento al mondo e ai suoi
ordinamenti, compresi quelli politici. Le istituzioni imperiali erano infatti
apprezzate perché portatrici di ordine ed equilibrio sociale sul modello
dell'architettura del cosmo. In generale, tale atteggiamento tendeva ad attribuire
all'ordine un'importanza vitale. Quest'idea è resa efficacemente da un antico
pensatore confuciano – citato da Weber – secondo il quale sarebbe "meglio vivere
come un cane e in pace piuttosto che da uomo e in anarchia"15
. La differenza
rispetto al Calvinismo appare in questo caso evidente, dato che quest'ultimo
avrebbe potuto scegliere per motto la celebre massima 'fiat iustitia et pereat
mundus'.
Nonostante il carattere intra-mondano di entrambe le dottrine, la presenza di un
Dio etico portò i credenti a concepire sé stessi come strumenti nelle mani del
Signore per plasmare il mondo a sua immagine. Questo approccio portò i calvinisti
ad agire per cambiare la realtà terrena invece di adattarsi ad essa. In relazione al
capitalismo, non è difficile intuire come tale orientamento fosse dotato di maggiore
dinamicità e capacità trasformativa.
Il caso indiano presenta invece un paradosso di fondo, è cioè la costruzione di
un'intera realtà sociale sulla base di un orientamento fortemente ultra-mondano,
come illustrato da Shmuel Eisenstadt nelle sue osservazioni sull'opera weberiana.

























































14
Luciano Cavalli, Max Weber. Religione e società, Bologna, Il Mulino, 1968, p. 248.
15
La massima è di Cheng Chi-Tung ed è citata da Weber in Sociologia della religione, cit., vol. II, p.
230.
18
Nel caso dell'Induismo […] non ci troviamo di fronte a sette appartate o a «virtuosi»
religiosi che si ritirano dal mondo terreno, bensì a uno sforzo consapevole di modellamento
o riplasmazione del medesimo, di costruzione di civiltà universali, che però,
paradossalmente, risponde a orientamenti ultra-mondani o a orientamenti che sembrano
negare il mondo terreno, ovverossia quello stesso mondo che costituisce l'ambito di siffatta
costruzione.16
Ci sono due presupposti dottrinali indispensabili per produrre una situazione di
questo tipo: il samsara e il karman. Il primo concetto può essere tradotto con il
termine 'reincarnazione'. Ogni indù, per essere tale, deve credere nella
trasmigrazione delle anime e nella continua ruota delle rinascite. Dopo la morte, lo
spirito abbandona il corpo per rinascere nelle vesti di un altro essere umano. La
dottrina del karman prevede invece che ci sia una sorta di compensazione tra le
vite, per cui chi si è comportato bene è destinato a reincarnarsi in un individuo di
una casta di livello più elevato. Questo meccanismo può essere efficacemente
descritto per mezzo di una similitudine finanziaria, come fa Pietro Rossi: "Il
calcolo dei meriti e delle colpe viene a configurarsi come una specie di conto
corrente, in cui il saldo stabilisce se l'anima trasmigrerà, in futuro, in una casta
superiore oppure in una casta inferiore"17
. L'unico modo per sottrarsi a questo ciclo
infinito di morti e rinascite era quello di raggiungere uno stato di tale distacco dal
mondo da guadagnarsi la vita eterna e l'unione con il divino nel cosiddetto nirvana.
Si trattava di "distaccarsi dal mondo dei sensi, delle eccitazioni psichiche, delle
passioni, degli impulsi e dei desideri, delle considerazioni della vita quotidiana
ordinate secondo mezzi e scopi, per creare le condizioni preliminari di uno stato
finale"18
.
In questo contesto, l'intera costruzione dottrinale indiana faceva sì che gli
individui tendessero a concentrarsi più sulle vite future che su quella presente, in
netta contrapposizione con quanto avveniva in Cina. Come afferma Cavalli, il

























































16
Shmuel Eisenstadt, Civiltà comparate. Le radici storiche della modernizzazione, Napoli, Liguori,
1990, p. 180.
17
Pietro Rossi, op. cit., p. 141.
18
Max Weber, op. cit., vol. III, p. 166.
19
risultato di tale concezione era che "la svalutazione del mondo, che ogni religione
di redenzione porta con sé, poteva qui diventare solo fuga dal mondo, e il suo
strumento supremo poteva essere solo la contemplazione mistica, non la condotta
ascetica"19
. La realtà terrena veniva vista come qualcosa di passeggero, fugace, a
cui rispondere con distacco se non addirittura con disprezzo. Anche in questo caso
è abbastanza evidente come il disinteresse per il mondo non potesse aiutare la
nascita del capitalismo moderno.
2.2. Demagizzazione e superamento del dualismo etico
Uno dei caratteri fondamentali del Calvinismo consisteva nell'aver portato a
compimento il processo di demagizzazione iniziato nel 'periodo assiale'20
con la
nascita delle grandi religioni universali. Questo processo ha condotto alla graduale
eliminazione della magia sia dalla religione che dalle altre sfere della vita. Il
Confucianesimo e l'Induismo non erano però giunti al termine di questo percorso,
rimanendo in parte intrappolati in una visione del mondo che lo assimilava ad un
'giardino incantato'. La spiegazione di questo fenomeno era secondo Weber
individuabile nella mancata apparizione in Oriente di una profezia con pretese
etiche nei confronti delle masse: "Dove non vi fu una profezia con promesse
determinate a trascinarle in un movimento religioso di carattere etico, le masse
lasciate a se stesse rimasero […] prigioniere della pesante primitività della
magia"21
.
Nel caso indiano la situazione era palese. Tutta la società si fondava su
presupposti e rituali di carattere magico. In particolare, la stessa divisione in caste
era motivata dalla convinzione dell'esistenza di diversi gradi di purezza rituale e di

























































19
Luciano Cavalli, op. cit., p. 317.
20
Con questo termine, coniato dal filosofo tedesco Karl Jaspers, si indica il periodo che va dal IX al III
secolo a.C., e che ha il suo culmine intorno al 500. Questo momento storico è caratterizzato
dall'apparizione quasi simultanea di personaggi straordinari che hanno dato vita a buona parte delle più
importanti religioni e tradizioni filosofiche del mondo, come Confucio, Buddha, i profeti ebraici e
Socrate. Per una trattazione approfondita di questo tema, cfr. Karl Jaspers, Origine e senso della storia,
Milano, Edizioni di Comunità, 1972.
21
Max Weber, op. cit., vol. II, p. 17.
20
una differenza qualitativa tra gli appartenenti a gruppi sociali diversi. Inoltre i
brahmani erano i discendenti degli antichi stregoni, e le loro mansioni principali
riguardavano pratiche rituali e sacrifici.
La Cina imperiale rappresenta invece un caso più ambiguo nei suoi rapporti
con il mondo magico. Il Confucianesimo era infatti abbastanza scettico nei
confronti della magia, ma il suo ruolo di religione dello stato e dell'ordine lo
portava a tollerarla in quanto indispensabile per il controllo delle masse. I precetti
confuciani erano adatti alle esigenze pratiche e spirituali dello strato di letterati
colti che li aveva prodotti, ma trascuravano completamente i bisogni delle masse
non istruite. Per questo motivo l'amministrazione statale si mostrava molto
tollerante nei confronti del Taoismo, intriso di credenze magiche e decisamente più
adeguato alle necessità spirituali della maggior parte della popolazione. Questa
dottrina nacque inizialmente come una corrente confuciana, ma si staccò
gradualmente dal credo ufficiale, assumendo sempre più un carattere popolare in
polemica con l'orientamento intellettualistico del Confucianesimo classico. In realtà
però la diffusione del Taoismo non dispiaceva ai mandarini che, come si vedrà in
relazione alla paura magica delle innovazioni, potevano usare tale dottrina in modo
strumentale per garantire il mantenimento dello status quo, e quindi dei propri
privilegi e dell'ordine sociale a cui Confucio aspirava. Anzi, anche nel
Confucianesimo era bene che si continuasse a credere nel carisma magico degli alti
funzionari e nel fatto che se fossero stati cacciati l'equilibrio cosmico ne avrebbe
risentito.
Ogni attacco alla magia si presentava come un pericolo per la propria potenza: «chi
impedirà all'imperatore di fare ciò che vuole, se egli non crede più agli omina e ai
portenta?» – fu per esempio la risposta decisiva di un letterato al suggerimento di farla
finita con quest'assurdità. La fede magica faceva parte dei fondamenti costituzionali della
distribuzione del potere di governo cinese.22

























































22
Ivi, vol. II, p. 259.
21
In sostanza, si può vedere come la magia rappresentasse un elemento
importante per garantire ai ceti dominanti dei mandarini e dei brahmani di
continuare ad essere tali, anche se non è possibile determinare con precisione dove
finisse la sincera credenza nella magia e dove cominciasse il suo uso strumentale.
Probabilmente però, ciò che conta di più dal nostro punto di vista è che il resto
della società ci credeva, e quindi il comportamento economico assunto ne veniva
influenzato in vari modi, come verrà illustrato in seguito.
L'altro processo fondamentale iniziato con il periodo assiale e portato a
compimento solo dal Cristianesimo – questa volta anche dal Cattolicesimo – è
quello del superamento del dualismo etico. Le religioni precedenti imponevano ai
credenti una sorta di doppia morale. Da una parte c'era il comportamento da tenere
nei confronti dei membri della stessa tribù, che vietava inganni, sfruttamento e
ricerca di profitto, favorendo invece atteggiamenti fondati sulla reciprocità.
Dall'altra c'era la morale esterna, che riguardava i rapporti con tutti gli individui al
di fuori della tribù e che risultava priva di qualunque vincolo etico. Il Cristianesimo
invece, con le sue aspirazioni di carattere universale e con la convinzione che tutti
gli esseri umani siano figli di uno stesso Dio, portò al superamento di questo
dualismo, con conseguenze positive di vario tipo anche sulle possibilità di sviluppo
del capitalismo, come si vedrà parlando della città, oppure semplicemente
immaginando che la maggiore fiducia nel prossimo possa aver favorito gli scambi
commerciali tra estranei. Per contro, in Cina e in India questo processo non giunse
mai a compimento. La causa principale di questo fatto può essere individuata
secondo Weber, come nel caso della demagizzazione, nel mancato avvento in Asia
di una profezia etica.
2.3. Sistema delle caste, carisma magico dei mandarini e struttura sociale
L'ultimo elemento da affrontare riguardo al ruolo diretto giocato da
Confucianesimo e Induismo nello sviluppo capitalistico consiste nell'influenza dei
principi religiosi sulla struttura sociale, anche se non va mai dimenticato 'l'altro lato
22
della catena causale', e cioè il fatto che un particolare ordinamento sociale può aver
avuto un peso nella determinazione di alcuni precetti religiosi in vista della propria
auto-conservazione.
Nella società indiana c'è un elemento della struttura sociale di derivazione
chiaramente religiosa che per importanza sovrasta tutti gli altri: il sistema delle
caste. Per Weber le caste sono una variante estrema del concetto di ceto23
caratterizzata da una totale chiusura verso l'esterno e dalla definizione di confini di
carattere magico e legati al diverso grado di purezza rituale dei gruppi sociali. In
concreto, le caste si contraddistinguono per una rigida endogamia e per prescrizioni
che limitano fortemente la commensalità rituale. A ciò va aggiunto il dogma
dell'immutabilità degli ordinamenti mondani, secondo cui non si può aspirare a
migliorare la propria condizione nel corso della vita, ma si deve solamente
rispettare l'insieme dei doveri rituali della propria casta (dharma) per raggiungere
uno status più elevato nella vita successiva.
Una struttura di questo tipo trova nell'Induismo non solo la propria
legittimazione, ma probabilmente anche le ragioni della propria origine. Riguardo
al primo aspetto, si può sostenere che la dottrina del karman fornisse una
spiegazione convincente a quelle che potevano altrimenti apparire come ingiustizie
sociali. L'individuo nasce nella casta che si è meritato nelle vite precedenti e "un
Indù ortodosso, dinanzi alla lamentevole situazione di un individuo appartenente a
una casta impura, penserà soltanto che egli deve espiare peccati particolarmente
numerosi, compiuti in un'esistenza precedente"24
. Il secondo aspetto però è forse il
più interessante. L'idea è che la spiegazione dell'origine delle caste possa essere
ricercata nell'orientamento ultra-terreno dell'Induismo. Tale orientamento avrebbe
infatti favorito l'adattamento della struttura della società mondana alla struttura
immaginata dell'ultra-mondanità, a cui si attribuiva un'importanza maggiore.

























































23
Cfr. Max Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1995, vol. IV, pp. 35-36.
24
Max Weber, Sociologia della religione, cit., vol. III, p. 120.
23
La struttura sociale fondata sulle caste ha rappresentato per Weber il maggiore
ostacolo alla nascita indipendente del capitalismo in India, e lo ha fatto in diversi
modi di cui si cercherà di rendere conto nel corso del capitolo.
Il caso cinese è in questo senso profondamente differente, perché non esiste in
esso niente di neppure paragonabile alle caste. Ciò non significa che il
Confucianesimo non abbia avuto un peso rilevante nel plasmare (e legittimare)
l'ordinamento politico e sociale. Va però riconosciuto che qui, non fosse altro che
per l'ordine degli eventi, il rapporto causa-effetto tra prescrizioni religiose e
struttura sociale non è del tutto chiaro. Confucio era infatti un funzionario statale,
ed è quindi ovvio che la dottrina filosofico-religiosa da lui fondata fosse
largamente influenzata da una visione della realtà in linea con la sua appartenenza
di ceto.
Questa relazione con l'ufficio statale […] rimase di fondamentale importanza per il tipo di
spiritualità di questo strato […] e fu inevitabile che ciò avesse come conseguenza lo
sviluppo di una dottrina ortodossa unitaria adattata a questa situazione.25
In quest'ottica si può ben capire il continuo riferimento all'ordine sociale e al
mantenimento dell'equilibrio. Si può inoltre intuire dove trovi uno dei suoi
fondamenti la virtù fondamentale del Confucianesimo, e cioè la pietà filiale. Tale
principio consiste nella subordinazione del figlio al padre, e per estensione a tutti i
superiori. Nel quadro di una religione di burocrati, si può ben capire che
l'importanza delle gerarchie, della disciplina e dell'obbedienza incondizionata fosse
enfatizzata in modo particolare.
Ci sono però abitudini e prescrizioni più antiche del Confucianesimo stesso,
che hanno esercitato su di esso una grande influenza. In particolare, si fa qui
riferimento al culto degli antenati, dalle origini antichissime ma ripreso con forza
da Confucio. Tale culto aveva tra i suoi effetti sulla struttura sociale l'attribuzione
di particolare importanza ai legami familiari, agendo così da amplificatore della

























































25
Ivi, vol. II, p. 172.
24
pietà filiale. Esso rappresentava inoltre uno dei maggiori fattori di ancoramento alla
tradizione, e come tale veniva apprezzato dai letterati confuciani come elemento
d'ordine e di preservazione dell'ordinamento sociale.
In generale, si può affermare che sia nel caso cinese che in quello indiano le
religioni abbiano operato sulle strutture sociali nella direzione del mantenimento
dell'ordinamento socio-politico esistente e di un più generale tradizionalismo. Il
Calvinismo, per contro, favoriva il cambiamento sociale, rendendo possibile
l'emergere di ordinamenti più adatti allo sviluppo capitalistico.
3. Altri fattori culturali
Oltre al fattore religioso in quanto tale, ci sono almeno due questioni che
Weber evidenzia come freni allo sviluppo capitalistico. Da una parte c'è la paura
magica delle innovazioni con i suoi effetti paralizzanti, mentre dall'altra vengono
messe in luce etiche economiche incompatibili con il modello del capitalismo
moderno.
3.1. La paura magica delle innovazioni
Come si è già avuto modo di sottolineare, la magia ha giocato per secoli un
ruolo importante sia nella cultura indiana che in quella cinese. Ciò su cui va posto
l'accento ora è però l'effetto prodotto sul comportamento economico e sull'adozione
di innovazioni nel campo della produzione. Le somiglianze in questo ambito tra
Cina e India sono molte, a partire dal risultato. Il timore di matrice religiosa di
fronte a qualunque innovazione sociale, economica o produttiva rendeva entrambe
queste realtà estremamente tradizionalistiche e sostanzialmente imprigionate in
quello che Weber chiamava 'immobilismo magico'.
In realtà le ragioni dottrinali non erano del tutto accomunabili. In India era
infatti la paura di non rispettare il proprio dharma – il proprio dovere rituale di
casta – a spaventare i credenti. La miriade di sottocaste che componeva la società
25
indiana era infatti strutturata in buona parte attorno all'attività lavorativa svolta.
Cambiando professione, o addirittura semplicemente cambiando procedimento
nella lavorazione di uno stesso oggetto, si poteva sconfinare nel territorio di altre
sottocaste e violare così le prescrizioni religiose indù. La stessa tecnica produttiva
assumeva infatti carattere magico, ed ogni deviazione rispetto ad essa poteva
andare contro il dharma. Ovviamente il timore era dato dalla convinzione che una
violazione in questo senso avrebbe potuto comportare un arretramento sociale in
una vita successiva. Nel caso cinese invece era la credenza nell'esistenza degli
spiriti a spaventare i potenziali innovatori. Se il Confucianesimo si fondava
sull'idea di un equilibrio cosmico da preservare, il timore era che qualunque
cambiamento rispetto alla tradizione potesse infastidire gli spiriti e spingerli ad
operare contro l'armonia cosmica, portando a catastrofi naturali o di altro genere.
In entrambi i casi è quindi il mancato compimento del processo di
demagizzazione a provocare questi risultati. C'è però un altro elemento che non va
trascurato, e su cui Weber pone l'accento a più riprese nel corso del suo saggio. Ciò
che accomuna Confucianesimo e Induismo è il fatto che le classi dominanti, che
notoriamente avevano interesse – anche materiale – al mantenimento dello status
quo, erano al contempo custodi delle rispettive dottrine filosofico-religiose. Appare
dunque probabile che accanto a genuine credenze nelle forze magiche ci fosse
anche un uso strumentale della religione al fine di garantirsi anche in futuro la
propria posizione di preminenza ed i benefici ad essa connessi. Ad esempio, la
tolleranza dei letterati confuciani nei confronti del Taoismo, intriso di primitivi
timori magici, andava in questa direzione, come magistralmente illustrato da
Weber.
Questa tolleranza non comportava affatto un apprezzamento positivo, ma era piuttosto la
sprezzante «tolleranza» che costituisce l'atteggiamento naturale di ogni burocrazia laica di
fronte alla religione, moderato soltanto dal bisogno di sottomissione delle masse.26

























































26
Ivi, vol. II, p. 281.
26
Il giudizio weberiano è in questo caso inequivocabile. Allo stesso modo, i
brahmani erano i principali sostenitori di un sistema di caste del quale si trovavano
al vertice e da cui traevano ricchezza e prestigio. Questo li spingeva a condannare
ogni cambiamento in un sistema che per la sua natura rigida era già poco incline
alle innovazioni.
3.2. La questione dell'etica e dell'ethos
Qualunque riflessione sugli effetti di un'etica particolare sul comportamento
economico non può prescindere, nel quadro nell'opera weberiana, dall'assunzione
dell'etica calvinista come riferimento costante e termine di paragone. L'ipotesi
dell'esistenza di una particolare 'affinità elettiva' tra quest'etica e lo sviluppo del
capitalismo moderno è infatti una delle teorizzazioni più conosciute dell'intera
produzione weberiana, se non la più celebre in assoluto. Oltre ai temi già affrontati
della volontà di plasmare il mondo ad immagine di Dio e del compimento del
processo di demagizzazione, c'è un elemento di cruciale importanza per lo sviluppo
di un ethos particolarmente adatto allo sviluppo capitalistico. Si tratta della dottrina
della predestinazione, e cioè della convinzione che ogni individuo al momento
della nascita sia già stato assegnato da Dio alla categoria degli eletti o a quella dei
dannati secondo criteri che sfuggono alla comprensione dell'intelletto umano e
senza alcuna possibilità di cambiare tale verdetto per mezzo delle azioni compiute
nel corso della vita. Mentre apparentemente una concezione di questo tipo potrebbe
portare ad un atteggiamento fatalistico e irresponsabile, secondo Weber l'effetto
prodotto era esattamente il contrario. Il desiderio – anzi, il bisogno – di sapere se si
fosse destinati al paradiso o all'inferno creava nel fedele una profonda tensione che
lo spingeva a cercare nella realtà mondana indizi del proprio stato di grazia. E qui
sta il passaggio centrale per l'ethos economico. I calvinisti si convinsero infatti che
il successo professionale e l'accumulazione di ricchezze rappresentassero un segno
della benevolenza divina. Il lavoro divenne così il centro della vita dei credenti,
assumendo la connotazione religiosa del Beruf, della vocazione. Allo stesso tempo
27
però, oltre ad aver reso eticamente accettabile l'arricchimento personale, la dottrina
sosteneva anche che i beni posseduti non fossero che una sorta di prestito concesso
da Dio, e non andassero quindi sperperati, ma dovessero essere risparmiati.
L'insieme di questi due elementi – la ricerca della ricchezza come segno divino e la
costrizione etica al risparmio – condusse ad un effetto estremamente favorevole
allo sviluppo del capitalismo. Infatti, non potendo spendere il denaro guadagnato,
gli imprenditori protestanti furono spinti a reinvestirlo al fine ad accumulare ancora
più ricchezze e di ottenere quindi una prova più credibile della propria salvezza
eterna.
Questa lunga parentesi sul Calvinismo è importante in relazione allo studio su
Cina e India. L'idea fondamentale è che l'assenza di questo ethos peculiare sia uno
degli elementi più utili per spiegare il mancato sviluppo capitalistico, anche se
spesso si è dato a quest'argomentazione un peso eccessivo all'interno della teoria
weberiana.
Nel caso indiano, un problema fondamentale era rappresentato dal fatto che
"non esisteva alcuna etica privata e sociale universalmente valida, ma soltanto
un'etica specifica per ogni ceto"27
. Questo fatto era una diretta conseguenza della
dottrina del dharma, che assegnava ad ogni casta diritti e doveri rituali specifici,
facendo sì che ciò che poteva apparire sconveniente per alcuni gruppi sociali fosse
perfettamente normale per altri. Ogni tensione etica veniva appianata sostenendo il
semplice bisogno di rispettare il proprio dharma e, siccome nessuno di questi
prevedeva una costrizione etica al risparmio o altri meccanismi che potessero
portare a favorire il reinvestimento dei propri guadagni, un potente fattore di
sviluppo capitalistico veniva a mancare.
In Cina invece l'elemento davvero rilevante secondo Weber era la totale
assenza di qualunque tensione tra ordine mondano ed extra-mondano, nel senso che
non credendo in un vero e proprio aldilà i cinesi non avvertivano costrizioni etiche
particolari. La spiccata intramondanità del Confucianesimo faceva sì che ci si
concentrasse soltanto sul miglioramento della propria condizione terrena, e quindi

























































27
Ivi, vol. III, p. 140.
28
la ricchezza era accumulata semplicemente nell'ottica di un consumo futuro.
L'unico ethos davvero diffuso tra i letterati confuciani era quello che Weber
chiamava 'ethos del dovere d'ufficio', e cioè un senso di attaccamento al ruolo
ricoperto nell'amministrazione pubblica e di profondo rispetto e subordinazione
verso i superiori. Questo genere di atteggiamento non aveva però risvolti
economici in particolare rilievo. Anche in questo caso, lo sviluppo del capitalismo
non trasse certo giovamento dall'assenza delle caratteristiche peculiari dell'etica
calvinista o di tratti differenti ma risultanti in un comportamento economico
analogo.
4. I fattori istituzionali
I principali fattori istituzionali indicati da Weber come ostacoli allo sviluppo
capitalistico del continente asiatico sono tutti formulati per contrasto rispetto
all'esperienza europea, e possono essere suddivisi in quattro categorie. La prima
riguarda la celebre distinzione tra città orientale ed occidentale. La seconda si
concentra sul ruolo svolto dallo stato legale-razionale rispetto a quello
patrimoniale. Il mancato sviluppo di una scienza razionale asiatica rappresenta
invece il terzo fattore rilevante. Infine, l'ultima categoria si riferisce all'importanza
della grande famiglia allargata nell'esperienza asiatica.
4.1. Il ruolo della città
Uno dei fattori istituzionali a cui si fa ricorso più spesso per spiegare le
diversità in termini di comportamento economico tra Oriente ed Occidente è dato
dal ruolo sociale rivestito dalla città. In particolare, la differenza fondamentale può
essere imputata all'assenza nei centri urbani asiatici di autonomia su tre piani
differenti ma strettamente connessi: militare, politico ed economico. A questo
proposito, va osservato come in Europa ci sia una lunga tradizione di indipendenza,
che va dalle città-stato della Grecia classica ai comuni medievali disseminati
29
soprattutto sull'asse che dall'Italia centrale si dirige verso il nord della Germania. In
Asia, al contrario, questo genere di libertà dei centri urbani era pressoché
inesistente, relegando tali insediamenti ad un ruolo puramente amministrativo e
subordinato ai voleri dell'imperatore o dei principi e re indiani. Prima di provare a
delineare le caratteristiche e i motivi di queste differenze è però importante
accennare alle ragioni per le quali l'autonomia cittadina poteva giovare
maggiormente allo sviluppo del capitalismo rispetto al modello orientale.
Prima di tutto, le dimensioni limitate e la natura stessa del suolo urbano
rendevano inevitabile l'importazione delle risorse necessarie al sostentamento degli
abitanti, rendendo possibile l'aumento del volume dei traffici commerciali ed il
conseguente allargamento del mercato indispensabile a qualunque sviluppo
capitalistico. Certo, gli stessi problemi di approvvigionamento riguardavano anche
i centri asiatici, ma mentre in Europa la struttura politica imponeva il ricorso ad una
forma di regolazione fondata sui meccanismi del mercato, in Cina e in India si
poteva facilmente ricorrere allo strumento della redistribuzione, facendo ricadere
l'onere del mantenimento dei residenti delle aree urbane sui contadini delle zone
rurali. In questo senso appare corretta l'analisi weberiana secondo cui in queste
realtà c'è sempre stato un "fortissimo favoreggiamento degli abitanti delle città a
spese di quelli della campagna"28
. In secondo luogo, l'impossibilità di una gestione
autarchica delle città, dettata dalle loro stesse dimensioni, non poteva che
incoraggiare l'imprenditorialità di artigiani e commercianti, dando vita a quella
borghesia urbana che avrà poi un ruolo centrale nelle prime fasi dello sviluppo
capitalistico. Infine, proprio sotto le pressioni della borghesia appena costituita, le
città europee liberarono giuridicamente sia la terra sotto la propria giurisdizione
che i contadini dai precedenti obblighi feudali, rendendo così possibile la nascita
del mercato immobiliare e di quello del lavoro libero e salariato.
Tutti gli elementi appena citati ebbero chiaramente un ruolo nel favorire la
nascita del capitalismo moderno, anche se appare difficile stabilire se presi
singolarmente fossero determinanti o meno. Ad ogni modo, ora si può tornare alla

























































28
Ivi, vol. II, p. 45.
30
domanda posta in precedenza, e cioè perché in Asia non si verificò mai il passaggio
a città militarmente, politicamente ed economicamente autonome. Bisogna dire che
tali ragioni sono in realtà abbastanza differenti nei casi di India e Cina, anche se
hanno dato origine a risultati simili in termini di mancata indipendenza urbana.
Nel caso cinese, l'elemento determinante va ricercato probabilmente nella
presenza di uno stato centrale unitario e dotato di grande forza sia militare che
amministrativa. Mentre in Europa la capacità di controllo del Sacro Romano
Impero era ridotta e il pericolo di rivolte locali era molto elevato, l'Impero cinese,
dotato di un esercito proprio e non appesantito dai vincoli feudali, era in grado di
gestire più efficacemente il territorio. Le stesse città non erano nate
spontaneamente e poi assoggettate al potere imperiale, ma nella maggior parte dei
casi erano semplicemente "un prodotto razionale dell'amministrazione"29
, e cioè da
un lato un luogo in cui far convogliare le merci provenienti dalle campagne per poi
redistribuirle, e dall'altro un presidio militare per mezzo del quale mantenere il
controllo del territorio. Non a caso – come ricorda lo stesso Weber – l'ideogramma
cinese per indicare la città è lo stesso che designa la fortezza. Ovviamente dei
centri urbani di questo tipo non potevano avere nessun potere né militare, né
politico autonomo. Anche sul piano economico però avevano le mani legate,
perché la forma di regolazione delle attività economiche di tipo redistributivo su
cui si fondava tutto l'apparato amministrativo imperiale esigeva che le merci non
venissero vendute sul mercato al miglior offerente, ma venissero in buona parte
cedute allo stato sotto forma di tributi per poi essere reindirizzate secondo criteri
politici e gerarchici. I beni più pregiati venivano inviati ai grandi centri sulla costa
o direttamente alla corte imperiale, mentre quelli di minor valore venivano
redistribuiti ed in buona parte confiscati dagli amministratori locali, secondo una
prassi simile a quella dei governatori delle antiche province romane.
Il caso dell'India è profondamente differente. Qui infatti non è mai esistito uno
stato in grado di unificare sotto uno stesso vessillo tutto il subcontinente, fatta
eccezione per la parentesi rappresentata dal Grande Impero Moghul, la cui fugace

























































29
Ivi, vol. II, p. 61.
31
apparizione non può però essere paragonata alla millenaria stabilità dell'Impero
cinese. Per gran parte della sua storia la struttura politica indiana è stata
caratterizzata da un'elevata frammentazione e dalla presenza di una miriade di
piccoli regni e principati locali. In questo senso la situazione appare molto più
simile a quella del Medioevo europeo, ma nonostante ciò le città indiane sono
sempre rimaste in mano a principi e maharaja e non hanno mai sperimentato
l'autonomia necessaria allo sviluppo della borghesia urbana e del capitalismo.
Questo fatto può essere spiegato solo sulla base di ragioni diverse da quelle
prospettate per il caso cinese. In Europa infatti le città che si sono guadagnate la
propria autonomia l'hanno fatto sulla base di una 'fratellanza giurata' di cittadini
dotati di armamenti propri e capaci di coalizzarsi per rovesciare militarmente il
regime esistente e mettere in fuga il principe locale. Questa era la vera essenza
della cittadinanza, di quel senso di comune appartenenza ad un unico gruppo
identificabile con la città stessa che permetteva a persone di estrazione sociale
diversa di combattere fianco a fianco per un obiettivo condiviso. Secondo Weber,
questo senso di fratellanza era stato reso possibile dal superamento del dualismo
etico, ed in particolare dall'idea cristiana di essere tutti figli dello stesso Dio e
quindi tutti fratelli. Una teorizzazione di questo tipo in India era semplicemente
inconcepibile. Come si è cercato di mostrare, il sistema delle caste si fondava
sull'idea di una differenza ontologica tra gli individui, per cui alcuni erano talmente
più puri di altri che la semplice presenza nella stessa stanza di un appartenente ad
una casta inferiore poteva richiedere complesse cerimonie di purificazione. Inoltre,
come ricorda lo stesso Weber,
ogni fratellanza di qualsiasi epoca presupponeva la comunità alimentare: non quella reale,
praticata quotidianamente, ma la sua possibilità rituale. L'ordinamento delle caste escludeva
proprio questa. Una piena «fratellanza» tra le caste era ed è impossibile, perché rientra nei
principi costitutivi delle caste che almeno la piena commensalità tra caste diverse abbia
barriere ritualmente insuperabili.30

























































30
Ivi, vol. III, p. 38.
32
Tutto ciò produceva tra le caste un profondo senso di estraneità, quando non di
aperta ostilità, impedendo lo sviluppo di una borghesia urbana e l'unione delle forze
necessaria per riuscire a sconfiggere militarmente il principe e a conquistare
l'autonomia politica.
4.2. Assenza di uno stato legale-razionale
Un secondo elemento istituzionale particolarmente rilevante per spiegare il
mancato sviluppo del capitalismo moderno in Asia è rappresentato dall'assenza di
uno stato legale-razionale moderno. Secondo Weber per essere razionale uno stato
doveva avere due requisiti fondamentali. Da una parte era richiesta una regolazione
giuridica delle modalità di accesso al potere politico e dei suoi limiti. Dall'altra si
esigeva la presenza di un apparato burocratico moderno, e cioè di un corpo di
funzionari specializzati sottoposti alla legge nella loro azione e selezione. A questo
modello tipicamente occidentale l'Asia contrapponeva quello dello stato
patrimoniale, e cioè una situazione in cui lo stato è patrimonio privato del sovrano,
il quale rispetto al primo punto non ha limiti al proprio potere, e in relazione al
secondo controlla un'amministrazione formata da suoi dipendenti personali.
Come si può intuire, un elemento centrale per il successo del modello di stato
occidentale moderno risiedeva quindi nel parallelo sviluppo di una scienza
giuridica razionale dotata di impersonalità e universalità. In tal senso, ogni
distinzione tra gli aspetti legati all'organizzazione dello stato e quelli di carattere
giuridico appare in qualche modo artificiale, e per questo si cercherà di sviluppare
una riflessione unica sull'argomento che tenga conto di entrambi gli aspetti.
Per Weber lo stato legale-razionale era un requisito imprescindibile per lo
sviluppo del capitalismo. I limiti giuridici posti all'operato dei detentori del potere e
della pubblica amministrazione erano cruciali per garantire una maggiore
prevedibilità della legge, e quindi una migliore calcolabilità dei rischi connessi al
mancato rispetto dei contratti o alle difficoltà nella riscossione dei debiti. Queste
certezze favorivano l'assunzione di maggiori rischi da parte degli imprenditori, e
33
quindi la tendenza a farsi carico di grandi investimenti a capitale fisso difficilmente
convertibili e monetizzabili ma di estrema importanza per lo sviluppo industriale.
Oltre a questo aspetto di carattere giuridico, va sottolineato anche come una
gestione razionale ed efficiente del gettito fiscale rendeva possibili maggiori
investimenti nelle infrastrutture necessarie allo sviluppo economico.
Le domande che sorgono spontanee a questo punto sono due. Perché in Asia
non sono nati stati legali-razionali simili a quelli europei? E perché i modelli
alternativi hanno svolto un ruolo di freno rispetto allo sviluppo capitalistico?
Trovare risposte esaustive a questi quesiti è difficile, ma si proverà ad evidenziare
alcune caratteristiche del modello cinese e di quello indiano giudicate da Weber
particolarmente significative.
A prima vista può stupire la classificazione dell'Impero cinese come stato
patrimoniale. Infatti l'unità politica di un territorio così vasto aveva portato con sé
un apparato di funzionari fortemente gerarchizzato e dalle dimensioni
impressionanti. Tutto il sistema cinese si reggeva sul ruolo svolto dai mandarini, e
cioè dal ceto dominante di letterati confuciani che controllava il territorio da un
punto di vista amministrativo in modo capillare per conto dell'imperatore. Si può
tranquillamente affermare che privando l'Impero di questi funzionari l'intero
edificio statale cinese sarebbe crollato. I mandarini costituivano infatti l'unico
canale di comunicazione tra il centro e la periferia, tra il palazzo dell'imperatore e il
villaggio più remoto. Studiare il modello dello stato cinese significa quindi prima
di tutto analizzare le caratteristiche che contraddistinguono i letterati confuciani
come ceto. I tratti evidenziati da Weber in relazione ai funzionari di uno stato
legale-razionale sono tre: i meccanismi di selezione impersonali, i limiti al loro
potere nello svolgimento del proprio operato e la specializzazione professionale.
Il primo requisito appare decisamente soddisfatto. La selezione dei mandarini
avveniva infatti per mezzo di giganteschi esami di stato a cui chiunque poteva
partecipare indipendentemente dalla propria provenienza sociale. Tali esami si
basavano sulla conoscenza dei classici della letteratura confuciana e sulle doti
letterarie dei candidati. Un sistema di questo genere può essere spiegato facilmente
34
ricordando che l'immenso potere dei mandarini poteva costituire una minaccia per
l'imperatore. Impedendo il passaggio delle cariche di padre in figlio come nel
modello feudale, il potere centrale si assicurava che nessuno potesse accumulare
tanta influenza da costituire un pericolo per la dinastia.
Il secondo requisito, e cioè l'effettiva imposizione di limiti all'operato degli
amministratori locali, colloca invece la Cina fuori dai confini dello stato legale-
razionale. La durata limitata delle cariche e l'inconsistenza dei controlli da parte
dello stato centrale facevano sì che la maggiore preoccupazione dei mandarini
fosse quella di accaparrare più risorse possibile nel corso del proprio mandato per
arricchirsi e per mantenere una nutrita schiera di clienti e consulenti di vario
genere. Gli strumenti per accumulare ricchezza potevano andare dalla sottrazione
allo stato di buona parte delle entrate fiscali alla corruzione vera e propria. Il fatto
rilevante è comunque che le dimensioni dell'impero rendevano pressoché
impossibile per il potere centrale controllare i funzionari.
Il terzo requisito – la specializzazione – è però quello che più di tutti esclude la
possibilità di collocare lo stato cinese tra quelli legali-razionali. Il criterio delle
competenze specifiche non veniva in nessun modo considerato al momento degli
esami e dell'assegnazione delle cariche. Come già affermato, gli esami cinesi non
miravano ad accertare conoscenze specialistiche adatte all'amministrazione del
territorio o a mansioni specifiche in ambito burocratico, ma si limitavano a
misurare le competenze letterarie dei candidati. Questo poneva ovviamente seri
dubbi sull'efficace gestione pratica dei problemi quotidiani di un territorio, ma
discendeva direttamente dalla concezione confuciana della vita e della conoscenza.
Il gentiluomo [confuciano] non era «uno strumento»; era invece, nel suo auto-
perfezionamento che si adatta al mondo, uno scopo autonomo ultimo, non già un mezzo in
vista di scopi oggettivi di qualsiasi specie. Questo principio centrale dell'etica confuciana
rifiutava la specializzazione, la burocrazia specializzata moderna e l'istruzione specializzata,
ma soprattutto l'addestramento economico al profitto.31

























































31
Ivi, vol. II, pp. 309-310.
35
Oltre a questi impedimenti di carattere culturale, c'erano anche delle difficoltà
tecniche non meno importanti nell'ostacolare un'amministrazione razionale del
territorio. Per cercare di contrastare corruzione e gestione personalistica del potere,
ai mandarini veniva impedito di ottenere cariche pubbliche nella provincia di
provenienza. Questa norma di apparente buon senso poneva però due questioni
rilevanti. Prima di tutto i funzionari finivano per non comprendere il dialetto locale
e per doversi affidare a traduttori tanto necessari quanto inaffidabili. In secondo
luogo ogni provincia possedeva leggi e consuetudini giuridiche particolari, che
anche in questo caso imponevano al funzionario il ricorso a consulenti locali sulla
cui buona fede si poteva spesso discutere. L'insieme di questi elementi non
permette di classificare la burocrazia cinese come razionale, nonostante alcuni
caratteri apparentemente simili e le indubbie capacità organizzative che si celavano
dietro una struttura amministrativa dalle dimensioni impressionanti.
L'altro aspetto rilevante dello stato cinese è rappresentato da un tipo di
legittimazione del potere del tutto particolare e strettamente connesso alla
concezione del mondo confuciana. L'idea fondamentale era che l'imperatore fosse
necessario al mantenimento dell'ordine cosmico, cercando di porre rimedio agli
squilibri tra le eterne forza dello yin e dello yang per mezzo del suo carisma
magico.
Il carisma magico dell'imperatore doveva confermarsi anche nei successi bellici […], ma
soprattutto nel clima propizio al raccolto e nel buono stato della tranquillità e dell'ordine
interno. […] Egli doveva legittimarsi come «figlio del cielo», cioè come signore approvato
dal cielo, mediante il benessere del popolo.32
Le condizioni necessarie al mantenimento del potere erano quindi quanto di
più lontano ci fosse da prescrizioni di carattere giuridico. Un imperatore poteva
addirittura essere destituito a causa di un prolungato periodo di siccità o per un
terremoto particolarmente violento.

























































32
Ivi, vol. II, p. 76.
36
Il caso degli stati indiani è profondamente diverso da quello appena analizzato,
e Weber se ne occupa molto meno approfonditamente. In ogni caso, in modo
simmetrico rispetto alla situazione precedente, appare possibile individuare
nell'Induismo e nel ceto dominante dei brahmani le cause principali del mancato
sviluppo di uno stato legale-razionale, e questo per varie ragioni. Prima di tutto non
si capisce come possa nascere un diritto razionale e universalistico in una realtà in
cui la dottrina religiosa affermi l'esistenza di una differenza qualitativa e di
carattere magico tra gli individui appartenenti a caste diverse. Le norme erano
infatti profondamente influenzate dal pensiero indù e fondate quindi su convinzioni
di carattere magico invece che formale-razionale. In secondo luogo, la concezione
di stato legale-razionale di Weber prevedeva una netta separazione tra potere
religioso e politico. Gli stati indiani si fondavano invece sul ruolo centrale svolto
nell'amministrazione dalla casta dei brahmani, assimilando tali realtà a quelle di un
modello di tipo ierocratico. Infine, i brahmani – essenzialmente dei sacerdoti – non
avevano nessuna formazione specializzata che li rendesse dei validi amministratori
pubblici. Come nel caso cinese, è stata probabilmente la gestione economicamente
inefficiente delle risorse dello stato, oltre alla già citata questione dell'incertezza
giuridica, a frenare maggiormente un sviluppo capitalistico autonomo.
Dopo aver parlato delle caratteristiche del modello cinese e di quello indiano,
bisogna ora fare qualche accenno alle condizioni storiche che hanno permesso lo
sviluppo di uno stato legale-razionale in Occidente e non in Asia. Weber riteneva
che la variabile determinante fosse rappresentata dal feudalesimo occidentale in
opposizione a quello orientale o alla sua sostituzione con un apparato burocratico
alle dirette dipendenze del sovrano come nel caso cinese. Il rapporto feudale
prevalente in Europa era infatti sostanzialmente concepito come un contratto tra
pari basato su uno scambio, e più specificamente su una "concessione di diritti, in
particolare di usufrutti su un fondo o un terreno oppure di un potere politico
territoriale, in cambio di servizi in guerra o nell'amministrazione"33
. Una relazione
di questo tipo, fondata su un accordo tra due parti formalmente uguali, fu

























































33
Max Weber, Economia e società, cit., vol. IV, p. 173.
37
fondamentale per lo sviluppo dello stato legale-razionale. L'idea che si diffuse fu
infatti che il monarca non potesse fare tutto ciò che voleva, ma dovesse attenersi ai
termini del patto stretto con i nobili, riconoscendo loro dei diritti e ponendo quindi
un limite almeno formale al proprio potere legittimo. Come si può immaginare, la
definizione di tale limite è storicamente dipesa dalle variazioni dei rapporti di forza
tra monarchia ed aristocrazia, ma dal nostro punto di vista ciò che conta è il
principio, che sta alla base dello stato moderno. In Asia invece, anche dove un
sistema feudale era diffuso, questa logica contrattualistica non esisteva, ed era
sostituita da una concezione patrimonialistica dello stato e da un rapporto di fedeltà
gerarchica che rendeva queste realtà più simili ad apparati burocratici che a vere e
proprie strutture feudali. In alcuni casi invece, come nella Cina dei mandarini, il
feudalesimo era stato eliminato da molti secoli e sostituito con il sistema
burocratico fondato sugli esami di stato. Relazioni di questo tipo non prevedevano
limiti giuridici specifici al potere reale o imperiale, e questo è uno dei motivi
principali per cui lo stato legale-razionale si è sviluppato in Occidente e non in
Oriente, con tutte le ricadute sul sistema economico a cui si è già accennato.
4.3. Assenza di una scienza razionale
La Rivoluzione scientifica e la moderna scienza razionale in generale hanno
sicuramente rappresentato un elemento cruciale per l'evoluzione del nascente
capitalismo europeo in senso industriale. La continua innovazione tecnologica è
infatti uno dei presupposti di un sistema economico fondato sul reinvestimento dei
profitti e sull'aumento dell'efficienza produttiva in un ambiente fortemente
competitivo. Le innovazioni di carattere incrementale offrono appunto la possibilità
di raggiungere questi obiettivi. Ci sono poi alcune situazioni – per la verità
piuttosto rare – in cui una scoperta o un'invenzione sono talmente radicali da
rivoluzionare interi settori produttivi e da crearne di nuovi, come i recenti esempi
delle bio-tecnologie e dell'informatica mostrano bene. La storia dell'industria
38
occidentale è scandita da queste creazioni, che vanno dalla macchina a vapore alle
scoperte nel campo della chimica e della fisica.
Il comune denominatore di tutte queste innovazioni è per Weber la scienza
razionale. Con quest'espressione il sociologo tedesco intendeva un particolare tipo
di progresso scientifico guidato da due elementi. Il primo è il metodo sperimentale,
e cioè l'approccio alla natura come a qualcosa che può essere studiato in laboratorio
attraverso esperimenti che riproducano artificialmente determinati fenomeni,
raccogliendo dati sensibili e analizzandoli con l'obiettivo di individuare
comportamenti ricorrenti e di formulare teorie generali a partire da questi. Il
secondo elemento è invece costituito dall'uso del simbolismo matematico, che – per
parafrasare Galileo – rappresenta il linguaggio per mezzo del quale poter descrivere
il mondo circostante e un modo per favorirne la 'calcolabilità'. La definizione di
Weber è particolarmente rilevante perché appare evidente come l'accento non
venga posto direttamente sul livello tecnico raggiunto, ma piuttosto sul metodo per
mezzo del quale raggiungerlo. Non c'è dubbio, tuttavia, che storicamente
all'adozione di questo metodo si sia accompagnata un'esplosione di vitalità della
scienza in tutte le direzioni che non ha eguali nella storia dell'umanità.
Ma come si collocano Cina e India rispetto a questo discorso? Weber è
categorico nell'affermare che in nessuna delle due sia mai apparsa una scienza
razionale nel senso da lui inteso, anche se – come si avrà modo di mostrare nel
prossimo capitolo – lo sviluppo europeo fu debitore nei confronti dell'Oriente per
molte invenzioni importanti. La ragione fondamentale di questo mancato sviluppo
in senso razionale può essere individuata secondo lo studioso tedesco in un
carattere culturale fondamentale comune alla società indiana e a quella cinese, e
cioè nel mancato compimento del processo di demagizzazione di cui si è già
parlato. La convinzione che il mondo fosse un luogo incantato, popolato da
spiritelli capricciosi e da altre forze soprannaturali, rendeva impossibile concepire
l'idea della ripetibilità di un esperimento e quindi del valore universale di
un'osservazione particolare.
39
A questa ragione se ne aggiungono altre di carattere più specifico. Per quanto
riguarda la Cina, un freno ulteriore era rappresentato dal rifiuto posto dai letterati
confuciani ad ogni specializzazione di carattere tecnico-strumentale sulla base di
un orientamento più mirato al miglioramento interiore della persona nel suo
complesso. La cultura cinese era così completamente rivolta all'apprendimento a
memoria dei classici, che però a differenza della ricerca scientifica, "era
semplicemente un'appropriazione di pensieri preesistenti"34
.
Nel caso dell'India un secondo ostacolo insormontabile era dato dalla dottrina
del karman e dall'idea dell'esistenza di una logica etico-compensatoria. Come
afferma con acume Weber in un passaggio: "l'universo della causalità naturale e
l'universo postulato della causalità etico-compensatoria si contrapponevano l'uno
all'altro in un contrasto inconciliabile"35
. A ciò va pure aggiunto un tratto in
qualche modo simile a quello illustrato per i letterati confuciani. Si tratta del
sostanziale disinteresse dell'indù per le vicende del mondo in quanto tale, che
portava a preferire alla scienza la ricerca di strumenti di liberazione dal mondo per
mezzo della gnosi. La scienza era quindi ritenuta dagli indiani una risposta
inadeguata rispetto allo scopo di conoscenza prefissato.
4.4. La grande famiglia asiatica
Un ultimo fattore istituzionale che potrebbe aver frenato lo sviluppo del
capitalismo in Asia può essere riscontrato nel ruolo sociale centrale ricoperto dalla
famglia in senso allargato. Sia in India che in Cina la famiglia e il clan contavano
più dell'individuo stesso. Questo atteggiamento affondava le proprie radici nelle
caratteristiche profonde della società induista e di quella confuciana.
Nel primo caso risulta evidente come un ordinamento sociale fondato sul
sistema delle caste e quindi su una gerarchia che faceva dei principi ascrittivi il
criterio fondamentale per l'assegnazione di diritti e doveri particolari (il dharma)

























































34
Max Weber, Sociologia della religione, cit., vol. II, p. 224.
35
Max Weber, Considerazioni intermedie. Il destino dell'Occidente, Roma, Armando, 1995, p. 95.
40
non potesse non attribuire al clan familiare un'importanza particolare. Lo stesso
carisma magico era un attributo del gruppo, e non del singolo, tanto da spingere
Weber a parlare di 'carisma gentilizio'.
In Cina, nonostante una mobilità sociale decisamente maggiore e l'avversione
del potere imperiale per ogni forma di carica pubblica ereditaria, la famiglia non
ricopriva un ruolo di rilevanza minore che in India. Come si è già avuto modo di
mostrare, due dei principi fondamentali del Confucianesimo erano il culto degli
antenati e la pietà filiale. Entrambi erano per loro natura portati a rafforzare la
solidarietà e la coesione interne alla famiglia, in quanto la prima tendeva a
ricordare la provenienza da antenati comuni, mentre la seconda presupponeva uno
stretto rapporto intergenerazionale. Tali principi, cruciali per la stabilità
dell'ordinamento politico, non si limitavano ad influenzare indirettamente il
comportamento degli individui, ma incidevano in modo sistematico su leggi e
consuetudini sociali. Ad esempio, le terre potevano essere possedute solo dalle
famiglie, e non da singoli individui. Inoltre, ogni impresa economica andava
condivisa, e pure nella scelta degli interlocutori commerciali le logiche di clan
prevalevano su quelle imperniate sull'efficienza. Infine, la famiglia aveva il dovere
di fornire ai propri membri servizi assistenziali come cibo e medicinali, e
soprattutto sceglieva quali individui dovessero studiare e ne finanziava la
formazione, affinché questi potessero raggiungere cariche pubbliche di prestigio e
rendere ricco l'intero gruppo parentale.
Tirando le somme del discorso, Weber avanza due conclusioni. Da una parte
mette in luce come sia in Cina che in India la famiglia fosse un elemento soffocante
per l'identità e per le aspirazioni personali, ponendo anche dei limiti giuridici
concreti alle possibilità di impresa economica individuale. Dall'altra parte, un
approccio di questo genere rendeva difficoltosa una razionalizzazione del
comportamento economico in senso impersonale e favoriva invece lo scambio di
favori tra familiari e conoscenti a scapito dell'efficienza, andando a sommarsi alle
ragioni prettamente religiose del mancato superamento del dualismo etico. Così si
potrebbe affermare con Cavalli che la grande famiglia asiatica "è il primo ostacolo
41
concretamente rappresentato allo sviluppo capitalistico [in quanto] Weber vede
nella grande famiglia un impedimento alla razionalizzazione dei rapporti economici
sul piano legale e su quello pratico"36
.
5. Osservazioni conclusive
Giunti alla fine del capitolo, si spera di essere riusciti a mettere in luce
l'importanza fondamentale dei fattori religiosi, culturali e istituzionali nel
determinare il comportamento economico all'interno della società cinese e di quella
indiana dei secoli passati. In particolare, si è cercato di sottolineare quelli che per
Weber erano i freni principali allo sviluppo indipendente del capitalismo moderno
in Asia. Probabilmente nessuno degli ostacoli illustrati dal sociologo tedesco era
insormontabile se preso singolarmente, ma la somma di tutti gli elementi di cui si è
parlato nel corso del capitolo ha impedito che India e Cina potessero generare
autonomamente una versione moderna ed industriale del sistema economico
capitalista.
Secondo alcuni autori però Weber avrebbe esagerato nel conferire importanza
ad alcune delle variabili prese in esame nelle pagine precedenti. Allo stesso tempo,
altri studiosi hanno avanzato ipotesi alternative o integrative per cercare di spiegare
perché il capitalismo sia nato proprio in Europa e cosa abbia determinato
l'immenso vantaggio accumulato negli ultimi cinquecento anni dall'Occidente in
termini di capacità produttiva, e quindi di potere economico, politico e militare. Il
prossimo capitolo si occupa proprio di alcune di queste teorie e degli autori che le
hanno sostenute.

























































36
Luciano Cavalli, op. cit., p. 296.
42
CAPITOLO II
IL DIBATTITO CRITICO SULLA TESI WEBERIANA
1. Introduzione
Questo capitolo si divide in due parti distinte ma tra loro legate. Da un lato
sono analizzate diverse critiche rivolte in modo diretto a parti specifiche della tesi
weberiana nel tentativo di confutarle o di attenuarne l'importanza relativa per lo
sviluppo economico. Dall'altro sono state raccolte alcune delle spiegazioni
contemporanee più diffuse e autorevoli sul mancato sviluppo autonomo del
capitalismo in Asia e sulle ragioni del vantaggio occidentale. Tali teorie non si
pongono in aperto contrasto con Weber e non avanzano critiche esplicite alla sua
opera, ma certamente cercano di essere alternative credibili per l'esplicazione del
medesimo fenomeno. In questo senso si potrebbe dire che le opinioni sostenute
nella prima parte del capitolo mirino a distruggere l'edificio teorico weberiano,
mentre quelle della seconda vogliano costruirne di nuovi nello stesso luogo, spesso
cercando pure di sfruttare le solide fondamenta poste dal grande sociologo tedesco.
Tali fondamenta, anche se danneggiate da qualche attacco andato a segno, possono
infatti sopportare il peso di aggiunte successive, grazie soprattutto all'idea di
multifattorialità di cui sono intrise. Weber non pretendeva infatti che le ragioni da
lui evidenziate fossero le uniche valide per spiegare un fenomeno, ritenendo invece
che nuove concause potessero essere individuate da altri studiosi. Alcuni degli
autori a cui si farà riferimento nelle prossime pagine, che tendono a vedere la
propria teoria esplicativa – spesso monofattoriale – come l'unica corretta,
dovrebbero imparare da Weber sotto questo punto di vista.
43
2. Le critiche alla tesi weberiana
È inevitabile che alcune parti del pensiero di Weber sull'Asia comincino ad
accusare i colpi dell'età, acuiti da problemi come quello delle fonti a cui si è già
fatto riferimento. Nonostante ciò sembra che nessuna critica, a dispetto dei
molteplici tentativi, sia riuscita a scalfire più di tanto il nocciolo della tesi esposta.
Certo, ci sono stati autori che hanno proposto soltanto la correzione di aspetti
particolari, come Eisenstadt, e altri che hanno condotto una critica più sistematica,
come Jack Goody. Anche questi ultimi però hanno dovuto riconoscere i molti pregi
e l'importanza dell'opera weberiana, come il fatto di averle dedicato interi volumi
dimostra.
Cercando di rimanere il più possibile fedeli alla struttura espositiva del primo
capitolo, si è deciso di suddividere le critiche in quattro categorie, riferite
rispettivamente all'approccio weberiano nel suo complesso, al giudizio sullo stato
dell'economia asiatica prima dell'avvento degli europei, ai fattori culturali e
religiosi ed infine ai fattori istituzionali.
2.1. L'approccio generale weberiano
Il riferimento principale è rappresentato in questo caso dalla posizione di
Goody. L'idea di fondo del celebre antropologo britannico è tanto chiara quanto
dirompente. Lo sviluppo del capitalismo moderno in Occidente non è dovuto ad un
suo essere unico e speciale, ma ad un semplice vantaggio di carattere temporaneo,
le cui radici possono essere individuate – come verrà mostrato nella seconda parte
del capitolo – in fenomeni come la scoperta del Nuovo Mondo e una temporanea
supremazia navale e militare. Per Goody tutto il resto sarebbe mito, sarebbe quello
che gli studiosi occidentali vogliono vedere, e cioè l'idea della propria civiltà come
qualcosa di radicalmente diverso – e migliore – rispetto a tutte le altre.
44
Il punto di partenza del ragionamento di Goody è che le differenze tra Oriente
ed Occidente siano in realtà molto minori di quanto le analisi della maggior parte
degli studiosi tendono a far credere. Da questo punto di vista appare plausibile che
il metodo weberiano, fondato sulla comparazione e sui tipi ideali, possa aver
accentuato le differenze tra le due realtà a scapito delle molte somiglianze presenti.
Certo, un approccio che si focalizzasse sulla diversità era necessario, ma forse può
aver portato a trascurare l'altra faccia della medaglia. Bisogna inoltre riconoscere
che il ragionamento di Goody è ben supportato dalla tesi esposta nel saggio
L'Oriente in Occidente e accompagnata da molti documenti storici, secondo cui "il
totale isolamento reciproco implicito nelle distinzioni categoriche, tra queste aree,
che contrassegnano tante teorie e speculazioni delle moderne discipline sociali e
storiche, non è mai esistito"1
.
Un altro elemento portato a sostegno dell'idea di differenze tutto sommato
ridotte tra Europa e Asia è dato dall'osservazione dei successi economici e in
campo tecnologico di molte realtà asiatiche prima del Cinquecento e nella seconda
metà del Novecento. Diversità profonde non avrebbero dovuto permettere né gli
uni né gli altri. Quest'argomentazione appare debole se usata contro la tesi
weberiana, perché se da un lato il successo del capitalismo in Estremo Oriente è un
dato appurato, dall'altro lo è altrettanto il fatto che tale modo di produzione sia stato
importato dall'Occidente e non abbia origini autonome.
Accettando sulla base degli argomenti appena esposti l'idea che il vantaggio
occidentale non sia una costante storica, ma una situazione contingente, si giunge a
concludere con Goody che "è impossibile spiegare questo divario temporaneo
distribuendo vantaggi permanenti a una squadra o all'altra"2
. È questo il
trabocchetto nel quale sono caduti molti studiosi occidentali. È stato preso uno
specifico vantaggio storico ed è stato impropriamente generalizzato e trasformato
in una superiorità di lunga durata. Inoltre – prosegue Goody – anche questi
vantaggi specifici sono stati spesso esagerati, se non addirittura del tutto inventati,

























































1
Jack Goody, L'Oriente in Occidente. Una riscoperta delle civiltà orientali, Bologna, Il Mulino, 1999,
p. 375.
2
Ivi, p. 326.
45
sulla base di una scarsa conoscenza delle realtà asiatiche, che ha portato a
considerare unici dei tratti invece presenti anche in Asia.
A questo punto Goody propone la sua visione alternativa sull'innegabile
vantaggio europeo che ha permesso, tra le altre cose, lo sviluppo del capitalismo
moderno. L'idea è quella che l'andamento storico del confronto economico e
tecnologico tra Oriente ed Occidente possa essere assimilato al movimento di un
pendolo, le cui oscillazioni determinerebbero il temporaneo vantaggio di uno o
dell'altro.
Osservata in una prospettiva di longue durée, ci fu un'alternanza di successi fondata sulle
comuni realizzazioni dell'età del bronzo. Nel corso dei secoli osserviamo il pendolo
oscillare. In un periodo storico si verifica un progresso da una parte, in un altro stadio da
un'altra. […] L'alternanza è resa possibile da interruzioni da una parte e da rapidi progressi
dall'altra.3
In conclusione, si può dire che la critica di Goody a Weber si concentri sul
fatto di aver confuso una semplice oscillazione del pendolo con "l'esistenza di una
«miracolosa» unicità"4
. In questo senso, si potrebbe provare ad estendere la
metafora fisica dell'antropologo britannico dicendo che l'errore fondamentale di
Weber potrebbe essere stato quello di aver scambiato un movimento pendolare per
quello di un piano inclinato, in cui più il tempo passa e più la biglia accelera il suo
moto, accrescendo così il divario rispetto alle rivali rimaste ferme in cima al
pendio.
2.2. Le economie asiatiche tradizionali
Nell'opera weberiana sembra che le economie asiatiche tradizionali siano
sempre state in qualche modo inferiori a quelle europee, o comunque lo fossero già
da alcuni secoli al momento dell'avvento della rivoluzione industriale in Inghilterra.

























































3
Ivi, pp. 332-333.
4
Ivi, p. 13.
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  • 1. UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” Corso di laurea specialistica in Sociologia Il Dragone e l'Elefante. Cultura e istituzioni nello sviluppo economico di Cina e India Tesi in Sociologia Economica Relatore: Prof. Carlo Trigilia Candidato: Matteo Rezzonico Anno Accademico 2008 / 2009
  • 2. 
 1 INDICE INTRODUZIONE p. 4 CAPITOLO I – Max Weber e l'Asia p. 7 1. Introduzione p. 7 1.1. Lo studio sulle grandi religioni universali p. 8 1.2. Questioni metodologiche p. 10 1.3. Multifattorialità e bidirezionalità nel pensiero weberiano p. 12 1.4. Il concetto di capitalismo moderno p. 14 2. La religione come fattore culturale fondamentale p. 15 2.1. Adattamento al mondo e fuga dal mondo p. 16 2.2. Demagizzazione e superamento del dualismo etico p. 19 2.3. Sistema delle caste, carisma magico dei mandarini e p. 21 struttura sociale 3. Altri fattori culturali p. 24 3.1. La paura magica delle innovazioni p. 24 3.2. La questione dell'etica e dell'ethos p. 26 4. I fattori istituzionali p. 28 4.1. Il ruolo della città p. 28 4.2. Assenza di uno stato legale-razionale p. 32 4.3. Assenza di una scienza razionale p. 37 4.4. La grande famiglia asiatica p. 39 5. Osservazioni conclusive p. 41 CAPITOLO II – Il dibattito critico sulla tesi weberiana p. 42 1. Introduzione p. 42 2. Le critiche alla tesi weberiana p. 43
  • 3. 
 2 2.1. L'approccio generale weberiano p. 43 2.2. Le economie asiatiche tradizionali p. 45 2.3. Fattori culturali e religiosi p. 48 2.4. Fattori istituzionali p. 49 3. Ipotesi alternative p. 53 3.1. Teorie di classe e teorie di mercato: la classificazione di p. 54 Hamilton 3.2. Controllo dei mari, scoperte geografiche e colonialismo p. 56 4. Osservazioni conclusive p. 60 CAPITOLO III – Diverse vie verso la modernizzazione: il contributo p. 62 di Barrington Moore 1. Introduzione p. 62 2. La tesi di Barrington Moore p. 63 2.1. Rivoluzioni borghesi e democrazia p. 65 2.2. Modernizzazione dall'alto e autoritarismo p. 69 2.3. Rivoluzioni contadine e comunismo p. 72 3. La Cina e la rivoluzione comunista p. 75 3.1. La situazione sociale alla vigilia della caduta dell'impero p. 75 3.2. La fase dell'incertezza p. 80 3.3. La rivoluzione e la vittoria dei comunisti p. 82 4. Il paradosso della democrazia indiana p. 85 4.1. La situazione sociale nell'India coloniale p. 85 4.2. L'indipendenza e l'assenza di rivoluzioni p. 88 5. Osservazioni conclusive p. 92 CAPITOLO IV – I due volti del capitalismo cinese p. 95 1. Introduzione p. 95 2. Il periodo maoista e le ragioni delle riforme di Deng Xiaoping p. 96 3. Ruolo dello stato e capitalismo dall'alto p. 100
  • 4. 
 3 3.1. Contenuti e limiti delle riforme p. 100 3.2. Il legame tra stato e imprese p. 107 4. Il dualismo del capitalismo cinese p. 112 5. L'imprenditorialità cinese e il capitalismo dal basso p. 114 5.1. Le caratteristiche del modello imprenditoriale cinese p. 114 5.2. Hong Kong e la diaspora cinese p. 120 5.3. Guanxi e capitale sociale p. 123 6. Osservazioni conclusive p. 128 CAPITOLO V – Tendenze recenti dell'economia indiana p. 130 1. Introduzione p. 130 2. L'India dopo l'indipendenza: l'Hindu rate of growth p. 132 2.1. Le ideologie alla base delle scelte economiche del periodo post-indipendenza p. 132 2.2. Il modello di sviluppo nehruviano e le ragioni del suo p. 137 abbandono 3. Il nuovo modello di sviluppo e il Bharantiya rate of growth p. 142 3.1. Le riforme degli anni Ottanta e Novanta p. 142 3.2. Le riforme incompiute e i loro limiti p. 146 4. Sviluppo settoriale anomalo: una crescita fondata sui servizi p. 151 4.1. Industria p. 153 4.2. Servizi p. 158 5. Osservazioni conclusive p. 161 CONCLUSIONI p. 164 1. I fattori weberiani e il capitalismo indiano e cinese p. 164 2. Due modelli a confronto p. 175 BIBLIOGRAFIA p. 179
  • 5. 4 INTRODUZIONE Negli ultimi decenni si è sentito continuamente parlare dei notevoli risultati in termini di sviluppo economico della Cina, e da qualche anno sembra di poter intravedere nel percorso dell'India un andamento altrettanto positivo. I successi dei due giganti asiatici sono un fatto acclarato, ma l'interpretazione di questo fenomeno e delle sue cause rimane tuttora una questione aperta. All'interno di tale ambito di riferimento, questo lavoro si propone di dare un contributo alla discussione su due punti centrali a partire dalla prospettiva della sociologia economica. Il primo riguarda la recente diffusione del capitalismo in contesti sociali, culturali e religiosi che fino a pochi decenni fa si erano dimostrati terreni sui quali le logiche del mercato faticavano ad attecchire. Come aveva sottolineato Max Weber quasi cent'anni fa, le società tradizionali di Cina ed India presentavano dei caratteri non favorevoli ad uno sviluppo autonomo ed endogeno del capitalismo. In particolare, nello svolgimento di questa tesi si cercherà di porre l'accento sul ruolo cruciale avuto in questo senso dai fattori culturali e istituzionali. I primi fanno principalmente riferimento all'influenza avuta dalle dottrine religiose sul comportamento economico dei fedeli e sulla formazione di un ethos particolare sia sul piano lavorativo che nel relazionarsi al mondo. I secondi riguardano invece l'insieme delle norme che contraddistinguono un sistema sociale e ne plasmano struttura e funzionamento. Muovendosi all'interno di questo spazio concettuale, si proverà a mostrare quali ostacoli allo sviluppo del capitalismo siano stati rimossi, quali permangano e quali invece si siano addirittura tramutati in vantaggi nella fase del capitalismo maturo, permettendo secondo alcuni commentatori alle società asiatiche di adattarsi meglio dei paesi occidentali al nuovo modello di produzione e di essere più competitive.
  • 6. 5 Il secondo punto sul quale si impernia questo lavoro è l'analisi del ruolo svolto dai fattori culturali e istituzionali nell'orientare la scelta di un particolare percorso verso la modernizzazione e nel dare vita a due tipi di capitalismo diversi. Senza volerci affidare ad un cieco determinismo, si è comunque cercato di mostrare come il modello economico indiano e quello cinese attuali siano in buona parte il risultato dell'interazione di fattori sociali preesistenti. Attraverso questo punto di vista particolare, si è provato ad offrire una spiegazione di alcune differenze rilevanti nelle strategie di crescita dei due paesi simboleggiate dalla metafora del dragone cinese e dell'elefante indiano. Il lavoro si sviluppa attraverso un percorso composto da cinque capitoli. Il primo è interamente dedicato alla celebre tesi di Weber sulle ragioni del mancato sviluppo autonomo del capitalismo in Asia. In particolare, come si è già detto, l'attenzione si è concentrata sui fattori culturali e istituzionali. Da una parte è stato quindi affrontato il ruolo svolto dalle dottrine filosofico-religiose del Confucianesimo e dell'Induismo e dalle loro etiche economiche nel plasmare in senso tradizionalistico il comportamento degli individui e nell'ostacolare l'affermazione dell'economia di mercato. Dall'altra si è messo in evidenza il rapporto tra l'economia e fattori istituzionali come la città, il tipo di stato e di diritto, la scienza e la famiglia. Il secondo capitolo si occupa invece delle critiche rivolte alla teoria weberiana, mirate a ridimensionare l'importanza per lo sviluppo economico dei caratteri da essa individuati. A queste critiche fa seguito un accenno a diverse tesi alternative o complementari che tendono a spiegare il crescente divario creatosi sia in termini tecnologici e militari che economici tra Occidente e Oriente attraverso il ricorso a fattori contingenti come la scoperta dell'America e l'insieme di elementi ben riassumibile con la fortunata espressione "vele e cannoni"1 . Questi due capitoli iniziali costituiscono la prima parte del lavoro, centrata sullo studio delle caratteristiche sociali della Cina e dell'India tradizionali. La seconda parte è formata dal quarto e dal quinto capitolo, che si occupano delle tendenze più recenti dell'economia dei due paesi asiatici. In questa struttura il terzo 























































 1 Cfr. Carlo Cipolla, Vele e cannoni, Bologna, Il Mulino, 1983.
  • 7. 6 capitolo svolge la funzione di un ponte che permette di colmare il salto rappresentato dal passaggio dalle società tradizionali a quelle moderne. Questo collegamento si è basato sulle tesi di Barrington Moore, che nel suo noto testo Le origini sociali della dittatura e della democrazia2 mostra come determinate caratteristiche strutturali delle società premoderne possano influire sia sul percorso verso la modernizzazione che sull'esito di tale processo. Dopo aver operato questa connessione, negli ultimi due capitoli vengono trattate separatamente, ma in modo simmetrico, le esperienze dei due giganti asiatici degli ultimi decenni, sempre prestando un'attenzione particolare ai fattori culturali e istituzionali coinvolti. Nel quarto capitolo, dopo una breve introduzione sull'eredità del maoismo, si è posto l'accento sulle riforme avviate a partire dal 1978 da Deng Xiaoping, per giungere a parlare dei loro straordinari esiti in campo economico. In particolare, si è cercato di evidenziare come lo sviluppo attuale dell'economia cinese corra su due binari paralleli costituiti da un lato dalle grandi aziende – spesso pubbliche – e dall’altro dalle reti di piccole imprese che traggono forza dal modello dell'imprenditorialità cinese. Allo stesso modo, nel quinto capitolo si è tentato di porre in luce lo sviluppo del capitalismo indiano partendo dalle condizioni del periodo immediatamente successivo all'indipendenza, per poi occuparsi delle riforme degli ultimi decenni e degli effetti che hanno avuto sul settore industriale e su quello dei servizi. Infine, nelle pagine conclusive di questo lavoro sono presentate alcune considerazioni che hanno lo scopo di illustrare in che modo il percorso fatto offra degli elementi per rispondere alle due domande centrali appena poste. Da una parte si è provato ad illustrare come sia stato possibile superare gli ostacoli allo sviluppo del capitalismo evidenziati da Weber, mentre dall’altra l'accento è stato posto sul confronto tra i due modelli economici che sono scaturiti dalle esperienze dei due grandi paesi asiatici. 























































 2 Barrington Moore, Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari terrieri e contadini nella formazione del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1971.
  • 8. 7 CAPITOLO I MAX WEBER E L'ASIA 1. Introduzione Una tesi che si pone come obiettivo la comprensione dell'influenza dei fattori culturali e istituzionali sullo sviluppo di tipi diversi di capitalismo in Cina e in India non può non prendere le mosse da un'analisi del pensiero di Max Weber sull'argomento. Rispetto a questo proposito potrebbero sorgere due problemi. Da una parte ci si potrebbe interrogare sull'attualità di uno studio condotto quasi cent'anni fa e considerato in alcuni suoi tratti superato dagli specialisti. Dall'altra potrebbero sorgere dei dubbi sull'utilità di una ricerca che si concentra sulle società tradizionali dei due paesi, e non sulla comprensione delle realtà economiche contemporanee che rappresentano il fulcro del nostro lavoro. Partendo da quest'ultimo problema – che appare di più facile soluzione – basti ricordare la massima secondo cui nulla nasce dal nulla. Le differenze tra le società attuali (o tra le loro strutture economiche) possono essere comprese solo alla luce delle situazioni storiche dalle quali sono scaturite. In particolare, si cercherà qui di porre l'accento sulla rilevanza di alcuni degli aspetti religiosi, culturali e istituzionali delle società a matrice confuciana e induista. Per quanto riguarda invece la questione dell'attualità delle tesi weberiane, bisogna fare una netta distinzione tra affermazioni specifiche e spirito generale dell'opera. Non c'è dubbio infatti che molte osservazioni particolari non fossero del tutto corrette, dati lo stadio all'epoca embrionale degli studi sul tema e il problema delle fonti su cui si tornerà in seguito. Nonostante ciò, la stragrande maggioranza
  • 9. 8 degli studiosi contemporanei riconosce il fatto che le tesi fondamentali di Weber su Confucianesimo e Induismo non siano ancora state confutate, e rappresentino a tutt'oggi un'interpretazione valida e con la quale chiunque voglia occuparsi del tema è costretto a confrontarsi. Con questo non si vuole affermare che tali tesi non siano state criticate. Anzi, come si cercherà di mostrare nel secondo capitolo, molti autori ne hanno messo in discussione la correttezza o l'importanza relativa rispetto ad altre spiegazioni. Ciò che rende queste tesi speciali non è il fatto che nessuno le abbia contraddette, ma il fatto che nessuno le abbia ignorate. In questo senso si può davvero affermare che il lavoro di Weber su Cina e India abbia rappresentato una pietra miliare nel proprio ambito di studio, e si spera che questa appaia al lettore una ragione sufficiente per dedicare tanto spazio al pensiero del sociologo tedesco. Fatta questa premessa, ci si può addentrare nel contributo weberiano vero e proprio. 1.1. Lo studio sulle grandi religioni universali L'interesse di Weber per la Cina e l'India è nato nel contesto dei suoi studi comparati sulle grandi religioni universali1 . Tali studi comprendono anche il celebre saggio sull'etica protestante e sulle sette americane, nonché un trattato sull'Ebraismo antico. In realtà il progetto avrebbe dovuto includere anche un saggio sul Cristianesimo delle origini ed uno sull'Islam, ma l'improvvisa morte di Weber non ha permesso che questo quadro si compisse. L'idea fondamentale era quella di affrontare in chiave comparata le grandi religioni universali per riuscire a spiegare alcune delle ragioni per le quali il capitalismo moderno si sia sviluppato solo in Occidente. In questo senso bisogna riconoscere che l'interesse per le società asiatiche fosse in buona parte legato alla volontà di capire meglio l'Europa. Nonostante ciò, la scelta delle società e delle religioni da confrontare al Protestantesimo non fu casuale. Perché non venne scelta l'Africa? Perché non le civiltà precolombiane dell'America centrale e meridionale? 























































 1 Max Weber, Sociologia della religione, Torino, Edizioni di Comunità, 2002.
  • 10. 9 Probabilmente la ragione principale va ricercata nel fatto che a Weber non interessava capire semplicemente perché non si fosse sviluppato un capitalismo di tipo moderno e industriale in una determinata società. Ciò che interessava al sociologo tedesco era capire perché tale sviluppo non avesse avuto luogo nonostante alcune condizioni materiali ed in parte anche culturali e istituzionali fossero favorevoli. È quel 'nonostante' ad aver guidato la selezione delle società e delle religioni da studiare. Per esempio, nel caso della Cina Weber individua molti elementi che avrebbero potuto far pensare ad un'evoluzione in senso capitalistico già nel Settecento: Con un aumento di popolazione così gigantesco quale quello che avvenne in Cina dopo l'inizio del secolo XVIII, collegato con un continuo aumento delle riserve di metalli preziosi, si dovrebbe ammettere – secondo prospettive europee – l'esistenza di una possibilità molto favorevole per lo sviluppo del capitalismo.2 A questi caratteri se ne potrebbero aggiungere molti altri elencati nel testo weberiano, come la natura non ascrittiva del ceto dominante dei mandarini, la presenza di tecnologie produttive e agricole avanzate, l'esistenza di un mercato molto vasto e l'apprezzamento dei valori mondani da parte del Confucianesimo. Allo stesso modo, in India si potrebbero individuare aspetti favorevoli in caratteri quali il livello tecnologico raggiunto, l'elevata specializzazione professionale e la frammentazione politico-istituzionale che si prestava ad analogie con la situazione delle città-stato medievali italiane e tedesche. Ma allora perché il capitalismo non si sviluppò in modo indipendente anche in tali paesi? Questa è la domanda alla quale Weber ha cercato di dare una risposta con le proprie ricerche, ed è pure la domanda che ci guiderà per il resto di questo capitolo. Prima di affrontare questo tema però, appare opportuno porre l'accento su alcune premesse di carattere metodologico e legate alle concezioni di fondo weberiane. 























































 2 Ivi, vol. II, p. 119.
  • 11. 10 1.2. Questioni metodologiche Sul piano del metodo, un primo elemento da evidenziare è il problema delle fonti. Weber non era in grado in leggere testi originali in ideogrammi cinesi o in sanscrito, e per questo era costretto a fare affidamento solo sulle traduzioni disponibili in inglese o in tedesco. Questo fatto, di cui il sociologo era ben conscio3 , espone l'intero lavoro a due pericoli. Il primo è legato ad un problema di quantità, e cioè al fatto che i testi tradotti non fossero molti, limitando le possibilità di lettura dello studioso. Il secondo pericolo è meno evidente e per questo molto più insidioso. Si tratta di un problema di qualità, nel senso che sarebbe ingenuo pensare che la scelta dei testi meritevoli di traduzione non fosse influenzata da concezioni e pregiudizi occidentali4 . Tali meccanismi di selezione possono aver giocato un ruolo rilevante nell'aver spinto Weber a sopravvalutare il peso relativo o la diffusione di determinate posizioni filosofiche o convinzioni e pratiche religiose. Un secondo aspetto metodologico che va messo in luce per cogliere l'essenza del lavoro weberiano e per prevenire critiche ingiuste è dato dall'uso dei tipi ideali. Senza dilungarsi sullo strumento del tipo ideale in quanto tale, si può comunque dire che si tratta della selezione consapevole di alcuni tratti della realtà ritenuti particolarmente significativi in relazione ad un fine particolare, e della successiva costruzione di una struttura concettuale che unisca tali tratti in un quadro coerente5 . Applicato alla ricerca sulle grandi religioni mondiali, questo procedimento presuppone una rinuncia ad ogni ambizione di esaustività nell'esposizione delle caratteristiche delle religioni considerate. Questo è il prezzo da pagare per evidenziare gli aspetti rilevanti in relazione ad un fine, che nel caso di Weber è la 























































 3 "La misura delle traduzioni delle vere «fonti» (ossia delle iscrizioni e dei documenti) in parte (specialmente in Cina) è ancora molto esigua, in rapporto a ciò che è presente e importante", in Max Weber, op. cit., vol. II, p. 46. 4 Cfr. le osservazioni sviluppate a questo riguardo da J. Duncan e M. Derrett, "A Post-Weberian Approach to Indian Social Organization and Reform of Law in Present-Day India", in AAVV, Max Weber e l'India. Atti del Convegno Internazionale sulla tesi weberiana della razionalizzazione in rapporto all'Induismo e al Buddhismo (1983), Torino, Pubblicazioni del Cesmeo, 1986, p. 80. 5 Cfr., per esempio, Pietro Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Milano, Edizioni di Comunità, 1994, p. 329.
  • 12. 11 comprensione del comportamento economico delle diverse civiltà analizzate. Come sostiene lui stesso, bisogna "porre in forte rilievo quei tratti che sono propri di ogni singola religione in antitesi con le altre, e che sono al tempo stesso importanti per il nostro contesto"6 . Una precisazione di questo tipo è importante, perché ci permette di capire le ragioni per cui l'autore dedica poco spazio ad alcuni elementi di una religione centrali da un punto di vista teologico, ma magari poco utili in relazione al comportamento economico, mentre si dilunga su questioni apparentemente marginali che però hanno una diretta connessione con un particolare atteggiamento connesso alla sfera economica. Ma la citazione weberiana introduce anche un terzo ed ultimo aspetto metodologico fondamentale: l'uso sistematico della comparazione. Si tratta di un approccio di cui è quasi impossibile esagerare l'importanza, in quanto è il cardine sul quale si impernia tutta la ricerca sulle grandi religioni universali. Non disponendo di un laboratorio in cui fare esperimenti su alcune variabili sociali mantenendo tutte le altre costanti, Weber intuisce che le scienze sociali non possano far altro che setacciare la realtà a caccia di situazioni simili che hanno portato ad esiti diversi o al contrario di situazioni profondamente diverse che hanno condotto a risultati analoghi. Solo attraverso questi confronti si possono avanzare ipotesi su quali variabili siano rilevanti rispetto ad un determinato fenomeno e quali invece siano ininfluenti. Questo approccio permette anche di dare una risposta più esauriente al perché Weber non abbia scelto le società africane o precolombiane. Come qualunque appassionato delle scienze fisiche sa bene, i risultati di un esperimento sono poco significativi se si è permesso ad un numero elevato di variabili rilevanti di oscillare invece di mantenerle costanti ed osservare le alterazioni di una o due di esse ceteris paribus. Allo stesso modo, Weber non avrebbe potuto formulare le sue tesi confrontando la società occidentale con realtà che con essa non avevano niente in comune come quelle africane e precolombiane. Cina e India invece apparivano al sociologo tedesco come le società più simili a 























































 6 Max Weber, op. cit., vol. II, p. 31-32.
  • 13. 12 quelle occidentali, rendendo un po' più agevole il confronto e quindi la formulazione di ipotesi sul rapporto tra variabili e risultati. 1.3. Multifattorialità e bidirezionalità nel pensiero weberiano Oltre ai tratti metodologici illustrati, ci sono alcune caratteristiche della concezione weberiana da esporre brevemente, in quanto se fossero state meglio comprese avrebbero probabilmente risparmiato al grande sociologo molti attacchi privi di fondamento. Un primo aspetto è dato dalla convinzione weberiana dell'importanza della multifattorialità nella spiegazione dei fenomeni sociali. Mentre altri autori, come Marx, avevano la tendenza a puntare tutto su un unico fattore imprescindibile dal quale tutti gli altri dovevano in qualche modo derivare, Weber era convinto che nessun fenomeno sociale potesse essere spiegato facendo ricorso ad una sola variabile. Al contrario, dovevano esserci diverse concause che, interagendo l'una con l'altra, producessero un particolare risultato. È vero, Weber si è sempre occupato in modo particolare dei fattori religiosi e istituzionali, in parte perché li riteneva di grande importanza e in parte perché era convinto che sul piano dell'analisi dei fattori economici Marx avesse già svolto un lavoro eccellente e ci fosse poco da aggiungere alle sue teorie. Ciò che molti critici passati e presenti hanno però dimenticato è che nonostante il focus dei suoi studi fosse puntato sulla rilevanza delle religioni nell'influenzare il comportamento economico, Weber non ha mai sostenuto che tra questi due ambiti intercorresse un legame esclusivo, come appare chiaramente da questo passaggio: Nessuna etica economica è stata mai determinata soltanto religiosamente. […] Ma, in ogni caso, tra i fattori determinanti dell'etica economica rientra tuttavia – come uno soltanto dei fattori, si noti – anche la determinazione religiosa della condotta di vita.7 























































 7 Ivi, vol. II, p. 8.
  • 14. 13 L'autore tedesco aveva semplicemente scorto uno spazio di studio ancora relativamente inesplorato, e aveva deciso di dedicarsi ad esso. In questo senso è interessante la tesi secondo cui Weber può essere visto come il creatore del concetto di 'capitale spirituale', e cioè dell'idea che "le credenze e le prospettive individuali possano influenzare il comportamento e la predisposizione economici in modo significativo e possano essere usati per conferire vantaggi competitivi"8 . Ma c'è un'altra questione che porta spesso a fraintendimenti del pensiero weberiano. Il grande studioso non ha mai sostenuto che fosse solo la religione a plasmare le istituzioni secolari e il comportamento economico, ma era anzi convinto della bidirezionalità, della reciprocità del rapporto di influenza tra la religione e le altre sfere sociali, per cui anche queste ultime avevano un peso rispetto all'indirizzo preso dalla dottrina. Si tratta di quello che il grande sociologo chiamava 'l'altro lato della catena causale', mettendo però in guardia anche nei confronti del pericolo opposto, e cioè del cedere alla concezione materialistica marxiana per cui la religione non era che un elemento sovrastrutturale. Da una parte viene infatti riconosciuto come l'interesse materiale delle classi dominanti – nel nostro caso i letterati confuciani e i brahmani – avesse un notevole impatto su determinati precetti religiosi, e come soprattutto in Cina i mandarini facessero un uso per molti versi strumentale della magia e del Taoismo, in cui non credevano, con il semplice scopo di 'addomesticare' le masse e garantire la continuità di un ordinamento sociale in cui si trovavano al vertice e di cui potevano largamente beneficiare. Weber pose più volte l'accento su tale strumentalità, come si avrà modo di mostrare nel corso del capitolo, ma dall'altra parte tenne anche ad affermare come nonostante tutto "per quanto profonde siano state, nel caso singolo, le influenze sociali, economicamente e politicamente determinate, su un'etica religiosa, questa ha tratto la sua impronta in primo luogo da fonti religiose – in modo primario dal contenuto del loro annuncio e della loro promessa"9 . Se da un lato si riconosce quindi l'influenza delle altre sfere sociali sulla religione, dall'altro 























































 8 Barnaby Marsh, "The Role of Spiritual Capital in Economic Behavior", in Victor Nee e Richard Swedberg, On Capitalism, Stanford, Stanford University Press, 2007, p. 182. 9 Max Weber, op. cit., vol. II, pp. 9-10.
  • 15. 14 si rivendica una sorta di indipendenza per cui quest'ultima non possa mai essere semplicemente subordinata a quelle. 1.4. Il concetto di capitalismo moderno Un ultimo punto sul quale occorre fare chiarezza prima di affrontare in dettaglio le tesi weberiane su Cina e India è dato dall'uso che Weber fa del termine 'capitalismo'. Quando in relazione all'Asia si parla di mancato sviluppo del capitalismo, in realtà si sottintende il riferimento ad un tipo particolare di capitalismo, e cioè a quello 'moderno' o 'industriale'10 . La tipologia dei capitalismi proposta da Weber prevede che questa forma di organizzazione economica possa assumere caratteri diversi a seconda della sfera di riferimento (della circolazione o della produzione) e del tipo di risorse su cui si fonda (economiche o politiche). Per essere definito 'moderno', il capitalismo deve operare nella sfera della produzione e fare affidamento su risorse di tipo economico. In particolare, secondo Weber ci sono alcuni requisiti da soddisfare. I bisogni materiali vanno soddisfatti attraverso imprese private che producono per il mercato sulla base di un calcolo di redditività del capitale e impiegando forza lavoro salariata formalmente libera. Questa precisazione è importante perché molti studiosi hanno criticato Weber per aver sostenuto l'assenza di capitalismo in Asia. In realtà, sia in Cina che in India delle forme di capitalismo sono esistite per secoli, se non addirittura per millenni, ma si è trattato di "forme fondate sull'usura o sull'appalto delle imposte o su un'economia di bottino: si è cioè trattato di un capitalismo speculativo o predatorio, non certo di un capitalismo orientato in senso razionale-formale"11 . Fatta questa premessa, si può capire cosa si intendesse con il riferimento al mancato sviluppo del capialismo in Asia. 























































 10 Per tutta la trattazione della tipologia dei capitalismi nella concezione weberiana, cfr. Carlo Trigilia, Sociologia economica, Bologna, Il Mulino, 1998, vol. I, pp. 195-201. 11 Pietro Rossi, "L'analisi sociologica delle «religioni universali»", in Pietro Rossi (a cura di), Max Weber e l'analisi del mondo moderno, Torino, Einaudi, 1981, p. 142.
  • 16. 15 Un'altra critica ricorrente riguarda il fatto di non aver intravisto le potenzialità insite nella realtà cinese e resesi evidenti con l'esplosione del capitalismo negli ultimi decenni. Anche queste critiche appaiono il risultato di un fraintendimento del pensiero weberiano. Va infatti esplicitata una netta distinzione tra diffusione a partire dall'esterno e sviluppo autonomo del capitalismo12 . Il sociologo tedesco ha sempre sostenuto che in Cina non ci fossero le condizioni per uno sviluppo autonomo del capitalismo, per varie ragioni che si cercherà di esporre nel corso del capitolo. Nonostante ciò ha chiaramente affermato come una volta introdotto dall'esterno il capitalismo avrebbe trovato nella società cinese terreno fertile per attecchire e prosperare: "Il Cinese sarebbe – con ogni probabilità – altrettanto capace, presumibilmente ancor più del Giapponese, di appropriarsi del capitalismo pervenuto tecnicamente ed economicamente al suo pieno sviluppo nell'ambito della civiltà moderna"13 . Si avrà comunque modo di tornare più volte su questo tema nel corso del lavoro. A questo punto appare possibile cominciare ad analizzare in dettaglio le teorie weberiane sul mancato sviluppo del capitalismo in Cina e in India. In tal senso si è scelto di operare una suddivisione dei paragrafi secondo la classica distinzione tra fattori culturali e istituzionali, assegnando uno spazio a parte ai fattori prettamente religiosi in ragione della loro importanza per il quadro complessivo. 2. La religione come fattore culturale fondamentale Le dottrine religiose (e le etiche economiche che ne derivano) erano per Weber uno dei fattori più rilevanti in relazione allo sviluppo del capitalismo. A questo proposito appare però necessario circoscrivere il campo di riflessione alle religioni dominanti delle aree prese in considerazione. In particolare, per quanto riguarda la Cina ci si concentrerà solamente sul Confucianesimo, con un'unica deroga per 























































 12 Su questa distinzione, cfr. Gary Hamilton e Cheng-Shu Kao, "Max Weber and the Analysis of East Asian Industrialisation", in International Sociology, London-Thousand Oaks, SAGE, 1987, n. 3, vol. II, p. 291. 13 Max Weber, op. cit., vol. II, p. 312.
  • 17. 16 alcune riflessioni sull'uso strumentale del Taoismo da parte degli amministratori imperiali. Nel caso indiano le energie saranno invece rivolte all'Induismo, escludendo dall'analisi altre religioni presenti in quell'area geografica come il Buddhismo, il Jainismo e l'Islam. Una decisione di questo tipo è inevitabile e fu sostanzialmente già messa in atto da Weber. La scelta di queste due religioni è dovuta a solide ragioni, come la loro diffusione all'interno delle aree in questione e soprattutto il fatto che i ceti dominanti – letterati confuciani e brahmani – legittimassero proprio attraverso tali dottrine la propria posizione nell'ordinamento sociale e ne fossero i principali sostenitori. Per prima cosa si porrà l'accento sui diversi orientamenti religiosi nei confronti del mondo. Successivamente si cercherà di illustrare ragioni e conseguenze del mancato compimento dei processi di demagizzazione e di superamento del dualismo etico sia in Cina che in India. Infine si proverà ad evidenziare quali siano state le influenze dottrinali sulla formazione di una particolare struttura sociale. 2.1. Adattamento al mondo e fuga dal mondo Una prima differenza fondamentale tra Confucianesimo e Induismo sta nell'orientamento generale nei confronti del mondo. Il primo ha tra i suoi tratti fondamentali una profonda intra-mondanità legata all'assenza nel pensiero confuciano di qualunque riferimento a realtà ultra-terrene da raggiungere dopo la morte. Tutta l'attenzione di tale dottrina era rivolta al miglioramento della propria condizione terrena, e non ad ipotetici premi e compensazioni in una vita futura. Come sottolinea Luciano Cavalli nel suo importante lavoro su Weber intitolato Religione e società, al confuciano manca ogni preoccupazione per l'Aldilà; anzi, ogni tentativo di porre problemi di sopravvivenza ultraterrena è considerato una frode. L'etica confuciana di adattamento al
  • 18. 17 mondo può procurare, oltre a una lunga e felice vita sulla terra, solo un onorato nome oltre la tomba – un bene che il confuciano, per la verità, pone sopra ogni altro.14 A questo carattere intra-mondano va aggiunta una concezione cosmocentrica dell'universo, e cioè l'idea che non esista un Dio dalle sembianze umane che avanza pretese etiche, ma semplicemente una forza impersonale ed eterna all'interno di un ordinamento cosmico in perfetto equilibrio. L'insieme dei due elementi citati portava secondo Weber ad un atteggiamento di adattamento al mondo e ai suoi ordinamenti, compresi quelli politici. Le istituzioni imperiali erano infatti apprezzate perché portatrici di ordine ed equilibrio sociale sul modello dell'architettura del cosmo. In generale, tale atteggiamento tendeva ad attribuire all'ordine un'importanza vitale. Quest'idea è resa efficacemente da un antico pensatore confuciano – citato da Weber – secondo il quale sarebbe "meglio vivere come un cane e in pace piuttosto che da uomo e in anarchia"15 . La differenza rispetto al Calvinismo appare in questo caso evidente, dato che quest'ultimo avrebbe potuto scegliere per motto la celebre massima 'fiat iustitia et pereat mundus'. Nonostante il carattere intra-mondano di entrambe le dottrine, la presenza di un Dio etico portò i credenti a concepire sé stessi come strumenti nelle mani del Signore per plasmare il mondo a sua immagine. Questo approccio portò i calvinisti ad agire per cambiare la realtà terrena invece di adattarsi ad essa. In relazione al capitalismo, non è difficile intuire come tale orientamento fosse dotato di maggiore dinamicità e capacità trasformativa. Il caso indiano presenta invece un paradosso di fondo, è cioè la costruzione di un'intera realtà sociale sulla base di un orientamento fortemente ultra-mondano, come illustrato da Shmuel Eisenstadt nelle sue osservazioni sull'opera weberiana. 























































 14 Luciano Cavalli, Max Weber. Religione e società, Bologna, Il Mulino, 1968, p. 248. 15 La massima è di Cheng Chi-Tung ed è citata da Weber in Sociologia della religione, cit., vol. II, p. 230.
  • 19. 18 Nel caso dell'Induismo […] non ci troviamo di fronte a sette appartate o a «virtuosi» religiosi che si ritirano dal mondo terreno, bensì a uno sforzo consapevole di modellamento o riplasmazione del medesimo, di costruzione di civiltà universali, che però, paradossalmente, risponde a orientamenti ultra-mondani o a orientamenti che sembrano negare il mondo terreno, ovverossia quello stesso mondo che costituisce l'ambito di siffatta costruzione.16 Ci sono due presupposti dottrinali indispensabili per produrre una situazione di questo tipo: il samsara e il karman. Il primo concetto può essere tradotto con il termine 'reincarnazione'. Ogni indù, per essere tale, deve credere nella trasmigrazione delle anime e nella continua ruota delle rinascite. Dopo la morte, lo spirito abbandona il corpo per rinascere nelle vesti di un altro essere umano. La dottrina del karman prevede invece che ci sia una sorta di compensazione tra le vite, per cui chi si è comportato bene è destinato a reincarnarsi in un individuo di una casta di livello più elevato. Questo meccanismo può essere efficacemente descritto per mezzo di una similitudine finanziaria, come fa Pietro Rossi: "Il calcolo dei meriti e delle colpe viene a configurarsi come una specie di conto corrente, in cui il saldo stabilisce se l'anima trasmigrerà, in futuro, in una casta superiore oppure in una casta inferiore"17 . L'unico modo per sottrarsi a questo ciclo infinito di morti e rinascite era quello di raggiungere uno stato di tale distacco dal mondo da guadagnarsi la vita eterna e l'unione con il divino nel cosiddetto nirvana. Si trattava di "distaccarsi dal mondo dei sensi, delle eccitazioni psichiche, delle passioni, degli impulsi e dei desideri, delle considerazioni della vita quotidiana ordinate secondo mezzi e scopi, per creare le condizioni preliminari di uno stato finale"18 . In questo contesto, l'intera costruzione dottrinale indiana faceva sì che gli individui tendessero a concentrarsi più sulle vite future che su quella presente, in netta contrapposizione con quanto avveniva in Cina. Come afferma Cavalli, il 























































 16 Shmuel Eisenstadt, Civiltà comparate. Le radici storiche della modernizzazione, Napoli, Liguori, 1990, p. 180. 17 Pietro Rossi, op. cit., p. 141. 18 Max Weber, op. cit., vol. III, p. 166.
  • 20. 19 risultato di tale concezione era che "la svalutazione del mondo, che ogni religione di redenzione porta con sé, poteva qui diventare solo fuga dal mondo, e il suo strumento supremo poteva essere solo la contemplazione mistica, non la condotta ascetica"19 . La realtà terrena veniva vista come qualcosa di passeggero, fugace, a cui rispondere con distacco se non addirittura con disprezzo. Anche in questo caso è abbastanza evidente come il disinteresse per il mondo non potesse aiutare la nascita del capitalismo moderno. 2.2. Demagizzazione e superamento del dualismo etico Uno dei caratteri fondamentali del Calvinismo consisteva nell'aver portato a compimento il processo di demagizzazione iniziato nel 'periodo assiale'20 con la nascita delle grandi religioni universali. Questo processo ha condotto alla graduale eliminazione della magia sia dalla religione che dalle altre sfere della vita. Il Confucianesimo e l'Induismo non erano però giunti al termine di questo percorso, rimanendo in parte intrappolati in una visione del mondo che lo assimilava ad un 'giardino incantato'. La spiegazione di questo fenomeno era secondo Weber individuabile nella mancata apparizione in Oriente di una profezia con pretese etiche nei confronti delle masse: "Dove non vi fu una profezia con promesse determinate a trascinarle in un movimento religioso di carattere etico, le masse lasciate a se stesse rimasero […] prigioniere della pesante primitività della magia"21 . Nel caso indiano la situazione era palese. Tutta la società si fondava su presupposti e rituali di carattere magico. In particolare, la stessa divisione in caste era motivata dalla convinzione dell'esistenza di diversi gradi di purezza rituale e di 























































 19 Luciano Cavalli, op. cit., p. 317. 20 Con questo termine, coniato dal filosofo tedesco Karl Jaspers, si indica il periodo che va dal IX al III secolo a.C., e che ha il suo culmine intorno al 500. Questo momento storico è caratterizzato dall'apparizione quasi simultanea di personaggi straordinari che hanno dato vita a buona parte delle più importanti religioni e tradizioni filosofiche del mondo, come Confucio, Buddha, i profeti ebraici e Socrate. Per una trattazione approfondita di questo tema, cfr. Karl Jaspers, Origine e senso della storia, Milano, Edizioni di Comunità, 1972. 21 Max Weber, op. cit., vol. II, p. 17.
  • 21. 20 una differenza qualitativa tra gli appartenenti a gruppi sociali diversi. Inoltre i brahmani erano i discendenti degli antichi stregoni, e le loro mansioni principali riguardavano pratiche rituali e sacrifici. La Cina imperiale rappresenta invece un caso più ambiguo nei suoi rapporti con il mondo magico. Il Confucianesimo era infatti abbastanza scettico nei confronti della magia, ma il suo ruolo di religione dello stato e dell'ordine lo portava a tollerarla in quanto indispensabile per il controllo delle masse. I precetti confuciani erano adatti alle esigenze pratiche e spirituali dello strato di letterati colti che li aveva prodotti, ma trascuravano completamente i bisogni delle masse non istruite. Per questo motivo l'amministrazione statale si mostrava molto tollerante nei confronti del Taoismo, intriso di credenze magiche e decisamente più adeguato alle necessità spirituali della maggior parte della popolazione. Questa dottrina nacque inizialmente come una corrente confuciana, ma si staccò gradualmente dal credo ufficiale, assumendo sempre più un carattere popolare in polemica con l'orientamento intellettualistico del Confucianesimo classico. In realtà però la diffusione del Taoismo non dispiaceva ai mandarini che, come si vedrà in relazione alla paura magica delle innovazioni, potevano usare tale dottrina in modo strumentale per garantire il mantenimento dello status quo, e quindi dei propri privilegi e dell'ordine sociale a cui Confucio aspirava. Anzi, anche nel Confucianesimo era bene che si continuasse a credere nel carisma magico degli alti funzionari e nel fatto che se fossero stati cacciati l'equilibrio cosmico ne avrebbe risentito. Ogni attacco alla magia si presentava come un pericolo per la propria potenza: «chi impedirà all'imperatore di fare ciò che vuole, se egli non crede più agli omina e ai portenta?» – fu per esempio la risposta decisiva di un letterato al suggerimento di farla finita con quest'assurdità. La fede magica faceva parte dei fondamenti costituzionali della distribuzione del potere di governo cinese.22 























































 22 Ivi, vol. II, p. 259.
  • 22. 21 In sostanza, si può vedere come la magia rappresentasse un elemento importante per garantire ai ceti dominanti dei mandarini e dei brahmani di continuare ad essere tali, anche se non è possibile determinare con precisione dove finisse la sincera credenza nella magia e dove cominciasse il suo uso strumentale. Probabilmente però, ciò che conta di più dal nostro punto di vista è che il resto della società ci credeva, e quindi il comportamento economico assunto ne veniva influenzato in vari modi, come verrà illustrato in seguito. L'altro processo fondamentale iniziato con il periodo assiale e portato a compimento solo dal Cristianesimo – questa volta anche dal Cattolicesimo – è quello del superamento del dualismo etico. Le religioni precedenti imponevano ai credenti una sorta di doppia morale. Da una parte c'era il comportamento da tenere nei confronti dei membri della stessa tribù, che vietava inganni, sfruttamento e ricerca di profitto, favorendo invece atteggiamenti fondati sulla reciprocità. Dall'altra c'era la morale esterna, che riguardava i rapporti con tutti gli individui al di fuori della tribù e che risultava priva di qualunque vincolo etico. Il Cristianesimo invece, con le sue aspirazioni di carattere universale e con la convinzione che tutti gli esseri umani siano figli di uno stesso Dio, portò al superamento di questo dualismo, con conseguenze positive di vario tipo anche sulle possibilità di sviluppo del capitalismo, come si vedrà parlando della città, oppure semplicemente immaginando che la maggiore fiducia nel prossimo possa aver favorito gli scambi commerciali tra estranei. Per contro, in Cina e in India questo processo non giunse mai a compimento. La causa principale di questo fatto può essere individuata secondo Weber, come nel caso della demagizzazione, nel mancato avvento in Asia di una profezia etica. 2.3. Sistema delle caste, carisma magico dei mandarini e struttura sociale L'ultimo elemento da affrontare riguardo al ruolo diretto giocato da Confucianesimo e Induismo nello sviluppo capitalistico consiste nell'influenza dei principi religiosi sulla struttura sociale, anche se non va mai dimenticato 'l'altro lato
  • 23. 22 della catena causale', e cioè il fatto che un particolare ordinamento sociale può aver avuto un peso nella determinazione di alcuni precetti religiosi in vista della propria auto-conservazione. Nella società indiana c'è un elemento della struttura sociale di derivazione chiaramente religiosa che per importanza sovrasta tutti gli altri: il sistema delle caste. Per Weber le caste sono una variante estrema del concetto di ceto23 caratterizzata da una totale chiusura verso l'esterno e dalla definizione di confini di carattere magico e legati al diverso grado di purezza rituale dei gruppi sociali. In concreto, le caste si contraddistinguono per una rigida endogamia e per prescrizioni che limitano fortemente la commensalità rituale. A ciò va aggiunto il dogma dell'immutabilità degli ordinamenti mondani, secondo cui non si può aspirare a migliorare la propria condizione nel corso della vita, ma si deve solamente rispettare l'insieme dei doveri rituali della propria casta (dharma) per raggiungere uno status più elevato nella vita successiva. Una struttura di questo tipo trova nell'Induismo non solo la propria legittimazione, ma probabilmente anche le ragioni della propria origine. Riguardo al primo aspetto, si può sostenere che la dottrina del karman fornisse una spiegazione convincente a quelle che potevano altrimenti apparire come ingiustizie sociali. L'individuo nasce nella casta che si è meritato nelle vite precedenti e "un Indù ortodosso, dinanzi alla lamentevole situazione di un individuo appartenente a una casta impura, penserà soltanto che egli deve espiare peccati particolarmente numerosi, compiuti in un'esistenza precedente"24 . Il secondo aspetto però è forse il più interessante. L'idea è che la spiegazione dell'origine delle caste possa essere ricercata nell'orientamento ultra-terreno dell'Induismo. Tale orientamento avrebbe infatti favorito l'adattamento della struttura della società mondana alla struttura immaginata dell'ultra-mondanità, a cui si attribuiva un'importanza maggiore. 























































 23 Cfr. Max Weber, Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1995, vol. IV, pp. 35-36. 24 Max Weber, Sociologia della religione, cit., vol. III, p. 120.
  • 24. 23 La struttura sociale fondata sulle caste ha rappresentato per Weber il maggiore ostacolo alla nascita indipendente del capitalismo in India, e lo ha fatto in diversi modi di cui si cercherà di rendere conto nel corso del capitolo. Il caso cinese è in questo senso profondamente differente, perché non esiste in esso niente di neppure paragonabile alle caste. Ciò non significa che il Confucianesimo non abbia avuto un peso rilevante nel plasmare (e legittimare) l'ordinamento politico e sociale. Va però riconosciuto che qui, non fosse altro che per l'ordine degli eventi, il rapporto causa-effetto tra prescrizioni religiose e struttura sociale non è del tutto chiaro. Confucio era infatti un funzionario statale, ed è quindi ovvio che la dottrina filosofico-religiosa da lui fondata fosse largamente influenzata da una visione della realtà in linea con la sua appartenenza di ceto. Questa relazione con l'ufficio statale […] rimase di fondamentale importanza per il tipo di spiritualità di questo strato […] e fu inevitabile che ciò avesse come conseguenza lo sviluppo di una dottrina ortodossa unitaria adattata a questa situazione.25 In quest'ottica si può ben capire il continuo riferimento all'ordine sociale e al mantenimento dell'equilibrio. Si può inoltre intuire dove trovi uno dei suoi fondamenti la virtù fondamentale del Confucianesimo, e cioè la pietà filiale. Tale principio consiste nella subordinazione del figlio al padre, e per estensione a tutti i superiori. Nel quadro di una religione di burocrati, si può ben capire che l'importanza delle gerarchie, della disciplina e dell'obbedienza incondizionata fosse enfatizzata in modo particolare. Ci sono però abitudini e prescrizioni più antiche del Confucianesimo stesso, che hanno esercitato su di esso una grande influenza. In particolare, si fa qui riferimento al culto degli antenati, dalle origini antichissime ma ripreso con forza da Confucio. Tale culto aveva tra i suoi effetti sulla struttura sociale l'attribuzione di particolare importanza ai legami familiari, agendo così da amplificatore della 























































 25 Ivi, vol. II, p. 172.
  • 25. 24 pietà filiale. Esso rappresentava inoltre uno dei maggiori fattori di ancoramento alla tradizione, e come tale veniva apprezzato dai letterati confuciani come elemento d'ordine e di preservazione dell'ordinamento sociale. In generale, si può affermare che sia nel caso cinese che in quello indiano le religioni abbiano operato sulle strutture sociali nella direzione del mantenimento dell'ordinamento socio-politico esistente e di un più generale tradizionalismo. Il Calvinismo, per contro, favoriva il cambiamento sociale, rendendo possibile l'emergere di ordinamenti più adatti allo sviluppo capitalistico. 3. Altri fattori culturali Oltre al fattore religioso in quanto tale, ci sono almeno due questioni che Weber evidenzia come freni allo sviluppo capitalistico. Da una parte c'è la paura magica delle innovazioni con i suoi effetti paralizzanti, mentre dall'altra vengono messe in luce etiche economiche incompatibili con il modello del capitalismo moderno. 3.1. La paura magica delle innovazioni Come si è già avuto modo di sottolineare, la magia ha giocato per secoli un ruolo importante sia nella cultura indiana che in quella cinese. Ciò su cui va posto l'accento ora è però l'effetto prodotto sul comportamento economico e sull'adozione di innovazioni nel campo della produzione. Le somiglianze in questo ambito tra Cina e India sono molte, a partire dal risultato. Il timore di matrice religiosa di fronte a qualunque innovazione sociale, economica o produttiva rendeva entrambe queste realtà estremamente tradizionalistiche e sostanzialmente imprigionate in quello che Weber chiamava 'immobilismo magico'. In realtà le ragioni dottrinali non erano del tutto accomunabili. In India era infatti la paura di non rispettare il proprio dharma – il proprio dovere rituale di casta – a spaventare i credenti. La miriade di sottocaste che componeva la società
  • 26. 25 indiana era infatti strutturata in buona parte attorno all'attività lavorativa svolta. Cambiando professione, o addirittura semplicemente cambiando procedimento nella lavorazione di uno stesso oggetto, si poteva sconfinare nel territorio di altre sottocaste e violare così le prescrizioni religiose indù. La stessa tecnica produttiva assumeva infatti carattere magico, ed ogni deviazione rispetto ad essa poteva andare contro il dharma. Ovviamente il timore era dato dalla convinzione che una violazione in questo senso avrebbe potuto comportare un arretramento sociale in una vita successiva. Nel caso cinese invece era la credenza nell'esistenza degli spiriti a spaventare i potenziali innovatori. Se il Confucianesimo si fondava sull'idea di un equilibrio cosmico da preservare, il timore era che qualunque cambiamento rispetto alla tradizione potesse infastidire gli spiriti e spingerli ad operare contro l'armonia cosmica, portando a catastrofi naturali o di altro genere. In entrambi i casi è quindi il mancato compimento del processo di demagizzazione a provocare questi risultati. C'è però un altro elemento che non va trascurato, e su cui Weber pone l'accento a più riprese nel corso del suo saggio. Ciò che accomuna Confucianesimo e Induismo è il fatto che le classi dominanti, che notoriamente avevano interesse – anche materiale – al mantenimento dello status quo, erano al contempo custodi delle rispettive dottrine filosofico-religiose. Appare dunque probabile che accanto a genuine credenze nelle forze magiche ci fosse anche un uso strumentale della religione al fine di garantirsi anche in futuro la propria posizione di preminenza ed i benefici ad essa connessi. Ad esempio, la tolleranza dei letterati confuciani nei confronti del Taoismo, intriso di primitivi timori magici, andava in questa direzione, come magistralmente illustrato da Weber. Questa tolleranza non comportava affatto un apprezzamento positivo, ma era piuttosto la sprezzante «tolleranza» che costituisce l'atteggiamento naturale di ogni burocrazia laica di fronte alla religione, moderato soltanto dal bisogno di sottomissione delle masse.26 























































 26 Ivi, vol. II, p. 281.
  • 27. 26 Il giudizio weberiano è in questo caso inequivocabile. Allo stesso modo, i brahmani erano i principali sostenitori di un sistema di caste del quale si trovavano al vertice e da cui traevano ricchezza e prestigio. Questo li spingeva a condannare ogni cambiamento in un sistema che per la sua natura rigida era già poco incline alle innovazioni. 3.2. La questione dell'etica e dell'ethos Qualunque riflessione sugli effetti di un'etica particolare sul comportamento economico non può prescindere, nel quadro nell'opera weberiana, dall'assunzione dell'etica calvinista come riferimento costante e termine di paragone. L'ipotesi dell'esistenza di una particolare 'affinità elettiva' tra quest'etica e lo sviluppo del capitalismo moderno è infatti una delle teorizzazioni più conosciute dell'intera produzione weberiana, se non la più celebre in assoluto. Oltre ai temi già affrontati della volontà di plasmare il mondo ad immagine di Dio e del compimento del processo di demagizzazione, c'è un elemento di cruciale importanza per lo sviluppo di un ethos particolarmente adatto allo sviluppo capitalistico. Si tratta della dottrina della predestinazione, e cioè della convinzione che ogni individuo al momento della nascita sia già stato assegnato da Dio alla categoria degli eletti o a quella dei dannati secondo criteri che sfuggono alla comprensione dell'intelletto umano e senza alcuna possibilità di cambiare tale verdetto per mezzo delle azioni compiute nel corso della vita. Mentre apparentemente una concezione di questo tipo potrebbe portare ad un atteggiamento fatalistico e irresponsabile, secondo Weber l'effetto prodotto era esattamente il contrario. Il desiderio – anzi, il bisogno – di sapere se si fosse destinati al paradiso o all'inferno creava nel fedele una profonda tensione che lo spingeva a cercare nella realtà mondana indizi del proprio stato di grazia. E qui sta il passaggio centrale per l'ethos economico. I calvinisti si convinsero infatti che il successo professionale e l'accumulazione di ricchezze rappresentassero un segno della benevolenza divina. Il lavoro divenne così il centro della vita dei credenti, assumendo la connotazione religiosa del Beruf, della vocazione. Allo stesso tempo
  • 28. 27 però, oltre ad aver reso eticamente accettabile l'arricchimento personale, la dottrina sosteneva anche che i beni posseduti non fossero che una sorta di prestito concesso da Dio, e non andassero quindi sperperati, ma dovessero essere risparmiati. L'insieme di questi due elementi – la ricerca della ricchezza come segno divino e la costrizione etica al risparmio – condusse ad un effetto estremamente favorevole allo sviluppo del capitalismo. Infatti, non potendo spendere il denaro guadagnato, gli imprenditori protestanti furono spinti a reinvestirlo al fine ad accumulare ancora più ricchezze e di ottenere quindi una prova più credibile della propria salvezza eterna. Questa lunga parentesi sul Calvinismo è importante in relazione allo studio su Cina e India. L'idea fondamentale è che l'assenza di questo ethos peculiare sia uno degli elementi più utili per spiegare il mancato sviluppo capitalistico, anche se spesso si è dato a quest'argomentazione un peso eccessivo all'interno della teoria weberiana. Nel caso indiano, un problema fondamentale era rappresentato dal fatto che "non esisteva alcuna etica privata e sociale universalmente valida, ma soltanto un'etica specifica per ogni ceto"27 . Questo fatto era una diretta conseguenza della dottrina del dharma, che assegnava ad ogni casta diritti e doveri rituali specifici, facendo sì che ciò che poteva apparire sconveniente per alcuni gruppi sociali fosse perfettamente normale per altri. Ogni tensione etica veniva appianata sostenendo il semplice bisogno di rispettare il proprio dharma e, siccome nessuno di questi prevedeva una costrizione etica al risparmio o altri meccanismi che potessero portare a favorire il reinvestimento dei propri guadagni, un potente fattore di sviluppo capitalistico veniva a mancare. In Cina invece l'elemento davvero rilevante secondo Weber era la totale assenza di qualunque tensione tra ordine mondano ed extra-mondano, nel senso che non credendo in un vero e proprio aldilà i cinesi non avvertivano costrizioni etiche particolari. La spiccata intramondanità del Confucianesimo faceva sì che ci si concentrasse soltanto sul miglioramento della propria condizione terrena, e quindi 























































 27 Ivi, vol. III, p. 140.
  • 29. 28 la ricchezza era accumulata semplicemente nell'ottica di un consumo futuro. L'unico ethos davvero diffuso tra i letterati confuciani era quello che Weber chiamava 'ethos del dovere d'ufficio', e cioè un senso di attaccamento al ruolo ricoperto nell'amministrazione pubblica e di profondo rispetto e subordinazione verso i superiori. Questo genere di atteggiamento non aveva però risvolti economici in particolare rilievo. Anche in questo caso, lo sviluppo del capitalismo non trasse certo giovamento dall'assenza delle caratteristiche peculiari dell'etica calvinista o di tratti differenti ma risultanti in un comportamento economico analogo. 4. I fattori istituzionali I principali fattori istituzionali indicati da Weber come ostacoli allo sviluppo capitalistico del continente asiatico sono tutti formulati per contrasto rispetto all'esperienza europea, e possono essere suddivisi in quattro categorie. La prima riguarda la celebre distinzione tra città orientale ed occidentale. La seconda si concentra sul ruolo svolto dallo stato legale-razionale rispetto a quello patrimoniale. Il mancato sviluppo di una scienza razionale asiatica rappresenta invece il terzo fattore rilevante. Infine, l'ultima categoria si riferisce all'importanza della grande famiglia allargata nell'esperienza asiatica. 4.1. Il ruolo della città Uno dei fattori istituzionali a cui si fa ricorso più spesso per spiegare le diversità in termini di comportamento economico tra Oriente ed Occidente è dato dal ruolo sociale rivestito dalla città. In particolare, la differenza fondamentale può essere imputata all'assenza nei centri urbani asiatici di autonomia su tre piani differenti ma strettamente connessi: militare, politico ed economico. A questo proposito, va osservato come in Europa ci sia una lunga tradizione di indipendenza, che va dalle città-stato della Grecia classica ai comuni medievali disseminati
  • 30. 29 soprattutto sull'asse che dall'Italia centrale si dirige verso il nord della Germania. In Asia, al contrario, questo genere di libertà dei centri urbani era pressoché inesistente, relegando tali insediamenti ad un ruolo puramente amministrativo e subordinato ai voleri dell'imperatore o dei principi e re indiani. Prima di provare a delineare le caratteristiche e i motivi di queste differenze è però importante accennare alle ragioni per le quali l'autonomia cittadina poteva giovare maggiormente allo sviluppo del capitalismo rispetto al modello orientale. Prima di tutto, le dimensioni limitate e la natura stessa del suolo urbano rendevano inevitabile l'importazione delle risorse necessarie al sostentamento degli abitanti, rendendo possibile l'aumento del volume dei traffici commerciali ed il conseguente allargamento del mercato indispensabile a qualunque sviluppo capitalistico. Certo, gli stessi problemi di approvvigionamento riguardavano anche i centri asiatici, ma mentre in Europa la struttura politica imponeva il ricorso ad una forma di regolazione fondata sui meccanismi del mercato, in Cina e in India si poteva facilmente ricorrere allo strumento della redistribuzione, facendo ricadere l'onere del mantenimento dei residenti delle aree urbane sui contadini delle zone rurali. In questo senso appare corretta l'analisi weberiana secondo cui in queste realtà c'è sempre stato un "fortissimo favoreggiamento degli abitanti delle città a spese di quelli della campagna"28 . In secondo luogo, l'impossibilità di una gestione autarchica delle città, dettata dalle loro stesse dimensioni, non poteva che incoraggiare l'imprenditorialità di artigiani e commercianti, dando vita a quella borghesia urbana che avrà poi un ruolo centrale nelle prime fasi dello sviluppo capitalistico. Infine, proprio sotto le pressioni della borghesia appena costituita, le città europee liberarono giuridicamente sia la terra sotto la propria giurisdizione che i contadini dai precedenti obblighi feudali, rendendo così possibile la nascita del mercato immobiliare e di quello del lavoro libero e salariato. Tutti gli elementi appena citati ebbero chiaramente un ruolo nel favorire la nascita del capitalismo moderno, anche se appare difficile stabilire se presi singolarmente fossero determinanti o meno. Ad ogni modo, ora si può tornare alla 























































 28 Ivi, vol. II, p. 45.
  • 31. 30 domanda posta in precedenza, e cioè perché in Asia non si verificò mai il passaggio a città militarmente, politicamente ed economicamente autonome. Bisogna dire che tali ragioni sono in realtà abbastanza differenti nei casi di India e Cina, anche se hanno dato origine a risultati simili in termini di mancata indipendenza urbana. Nel caso cinese, l'elemento determinante va ricercato probabilmente nella presenza di uno stato centrale unitario e dotato di grande forza sia militare che amministrativa. Mentre in Europa la capacità di controllo del Sacro Romano Impero era ridotta e il pericolo di rivolte locali era molto elevato, l'Impero cinese, dotato di un esercito proprio e non appesantito dai vincoli feudali, era in grado di gestire più efficacemente il territorio. Le stesse città non erano nate spontaneamente e poi assoggettate al potere imperiale, ma nella maggior parte dei casi erano semplicemente "un prodotto razionale dell'amministrazione"29 , e cioè da un lato un luogo in cui far convogliare le merci provenienti dalle campagne per poi redistribuirle, e dall'altro un presidio militare per mezzo del quale mantenere il controllo del territorio. Non a caso – come ricorda lo stesso Weber – l'ideogramma cinese per indicare la città è lo stesso che designa la fortezza. Ovviamente dei centri urbani di questo tipo non potevano avere nessun potere né militare, né politico autonomo. Anche sul piano economico però avevano le mani legate, perché la forma di regolazione delle attività economiche di tipo redistributivo su cui si fondava tutto l'apparato amministrativo imperiale esigeva che le merci non venissero vendute sul mercato al miglior offerente, ma venissero in buona parte cedute allo stato sotto forma di tributi per poi essere reindirizzate secondo criteri politici e gerarchici. I beni più pregiati venivano inviati ai grandi centri sulla costa o direttamente alla corte imperiale, mentre quelli di minor valore venivano redistribuiti ed in buona parte confiscati dagli amministratori locali, secondo una prassi simile a quella dei governatori delle antiche province romane. Il caso dell'India è profondamente differente. Qui infatti non è mai esistito uno stato in grado di unificare sotto uno stesso vessillo tutto il subcontinente, fatta eccezione per la parentesi rappresentata dal Grande Impero Moghul, la cui fugace 























































 29 Ivi, vol. II, p. 61.
  • 32. 31 apparizione non può però essere paragonata alla millenaria stabilità dell'Impero cinese. Per gran parte della sua storia la struttura politica indiana è stata caratterizzata da un'elevata frammentazione e dalla presenza di una miriade di piccoli regni e principati locali. In questo senso la situazione appare molto più simile a quella del Medioevo europeo, ma nonostante ciò le città indiane sono sempre rimaste in mano a principi e maharaja e non hanno mai sperimentato l'autonomia necessaria allo sviluppo della borghesia urbana e del capitalismo. Questo fatto può essere spiegato solo sulla base di ragioni diverse da quelle prospettate per il caso cinese. In Europa infatti le città che si sono guadagnate la propria autonomia l'hanno fatto sulla base di una 'fratellanza giurata' di cittadini dotati di armamenti propri e capaci di coalizzarsi per rovesciare militarmente il regime esistente e mettere in fuga il principe locale. Questa era la vera essenza della cittadinanza, di quel senso di comune appartenenza ad un unico gruppo identificabile con la città stessa che permetteva a persone di estrazione sociale diversa di combattere fianco a fianco per un obiettivo condiviso. Secondo Weber, questo senso di fratellanza era stato reso possibile dal superamento del dualismo etico, ed in particolare dall'idea cristiana di essere tutti figli dello stesso Dio e quindi tutti fratelli. Una teorizzazione di questo tipo in India era semplicemente inconcepibile. Come si è cercato di mostrare, il sistema delle caste si fondava sull'idea di una differenza ontologica tra gli individui, per cui alcuni erano talmente più puri di altri che la semplice presenza nella stessa stanza di un appartenente ad una casta inferiore poteva richiedere complesse cerimonie di purificazione. Inoltre, come ricorda lo stesso Weber, ogni fratellanza di qualsiasi epoca presupponeva la comunità alimentare: non quella reale, praticata quotidianamente, ma la sua possibilità rituale. L'ordinamento delle caste escludeva proprio questa. Una piena «fratellanza» tra le caste era ed è impossibile, perché rientra nei principi costitutivi delle caste che almeno la piena commensalità tra caste diverse abbia barriere ritualmente insuperabili.30 























































 30 Ivi, vol. III, p. 38.
  • 33. 32 Tutto ciò produceva tra le caste un profondo senso di estraneità, quando non di aperta ostilità, impedendo lo sviluppo di una borghesia urbana e l'unione delle forze necessaria per riuscire a sconfiggere militarmente il principe e a conquistare l'autonomia politica. 4.2. Assenza di uno stato legale-razionale Un secondo elemento istituzionale particolarmente rilevante per spiegare il mancato sviluppo del capitalismo moderno in Asia è rappresentato dall'assenza di uno stato legale-razionale moderno. Secondo Weber per essere razionale uno stato doveva avere due requisiti fondamentali. Da una parte era richiesta una regolazione giuridica delle modalità di accesso al potere politico e dei suoi limiti. Dall'altra si esigeva la presenza di un apparato burocratico moderno, e cioè di un corpo di funzionari specializzati sottoposti alla legge nella loro azione e selezione. A questo modello tipicamente occidentale l'Asia contrapponeva quello dello stato patrimoniale, e cioè una situazione in cui lo stato è patrimonio privato del sovrano, il quale rispetto al primo punto non ha limiti al proprio potere, e in relazione al secondo controlla un'amministrazione formata da suoi dipendenti personali. Come si può intuire, un elemento centrale per il successo del modello di stato occidentale moderno risiedeva quindi nel parallelo sviluppo di una scienza giuridica razionale dotata di impersonalità e universalità. In tal senso, ogni distinzione tra gli aspetti legati all'organizzazione dello stato e quelli di carattere giuridico appare in qualche modo artificiale, e per questo si cercherà di sviluppare una riflessione unica sull'argomento che tenga conto di entrambi gli aspetti. Per Weber lo stato legale-razionale era un requisito imprescindibile per lo sviluppo del capitalismo. I limiti giuridici posti all'operato dei detentori del potere e della pubblica amministrazione erano cruciali per garantire una maggiore prevedibilità della legge, e quindi una migliore calcolabilità dei rischi connessi al mancato rispetto dei contratti o alle difficoltà nella riscossione dei debiti. Queste certezze favorivano l'assunzione di maggiori rischi da parte degli imprenditori, e
  • 34. 33 quindi la tendenza a farsi carico di grandi investimenti a capitale fisso difficilmente convertibili e monetizzabili ma di estrema importanza per lo sviluppo industriale. Oltre a questo aspetto di carattere giuridico, va sottolineato anche come una gestione razionale ed efficiente del gettito fiscale rendeva possibili maggiori investimenti nelle infrastrutture necessarie allo sviluppo economico. Le domande che sorgono spontanee a questo punto sono due. Perché in Asia non sono nati stati legali-razionali simili a quelli europei? E perché i modelli alternativi hanno svolto un ruolo di freno rispetto allo sviluppo capitalistico? Trovare risposte esaustive a questi quesiti è difficile, ma si proverà ad evidenziare alcune caratteristiche del modello cinese e di quello indiano giudicate da Weber particolarmente significative. A prima vista può stupire la classificazione dell'Impero cinese come stato patrimoniale. Infatti l'unità politica di un territorio così vasto aveva portato con sé un apparato di funzionari fortemente gerarchizzato e dalle dimensioni impressionanti. Tutto il sistema cinese si reggeva sul ruolo svolto dai mandarini, e cioè dal ceto dominante di letterati confuciani che controllava il territorio da un punto di vista amministrativo in modo capillare per conto dell'imperatore. Si può tranquillamente affermare che privando l'Impero di questi funzionari l'intero edificio statale cinese sarebbe crollato. I mandarini costituivano infatti l'unico canale di comunicazione tra il centro e la periferia, tra il palazzo dell'imperatore e il villaggio più remoto. Studiare il modello dello stato cinese significa quindi prima di tutto analizzare le caratteristiche che contraddistinguono i letterati confuciani come ceto. I tratti evidenziati da Weber in relazione ai funzionari di uno stato legale-razionale sono tre: i meccanismi di selezione impersonali, i limiti al loro potere nello svolgimento del proprio operato e la specializzazione professionale. Il primo requisito appare decisamente soddisfatto. La selezione dei mandarini avveniva infatti per mezzo di giganteschi esami di stato a cui chiunque poteva partecipare indipendentemente dalla propria provenienza sociale. Tali esami si basavano sulla conoscenza dei classici della letteratura confuciana e sulle doti letterarie dei candidati. Un sistema di questo genere può essere spiegato facilmente
  • 35. 34 ricordando che l'immenso potere dei mandarini poteva costituire una minaccia per l'imperatore. Impedendo il passaggio delle cariche di padre in figlio come nel modello feudale, il potere centrale si assicurava che nessuno potesse accumulare tanta influenza da costituire un pericolo per la dinastia. Il secondo requisito, e cioè l'effettiva imposizione di limiti all'operato degli amministratori locali, colloca invece la Cina fuori dai confini dello stato legale- razionale. La durata limitata delle cariche e l'inconsistenza dei controlli da parte dello stato centrale facevano sì che la maggiore preoccupazione dei mandarini fosse quella di accaparrare più risorse possibile nel corso del proprio mandato per arricchirsi e per mantenere una nutrita schiera di clienti e consulenti di vario genere. Gli strumenti per accumulare ricchezza potevano andare dalla sottrazione allo stato di buona parte delle entrate fiscali alla corruzione vera e propria. Il fatto rilevante è comunque che le dimensioni dell'impero rendevano pressoché impossibile per il potere centrale controllare i funzionari. Il terzo requisito – la specializzazione – è però quello che più di tutti esclude la possibilità di collocare lo stato cinese tra quelli legali-razionali. Il criterio delle competenze specifiche non veniva in nessun modo considerato al momento degli esami e dell'assegnazione delle cariche. Come già affermato, gli esami cinesi non miravano ad accertare conoscenze specialistiche adatte all'amministrazione del territorio o a mansioni specifiche in ambito burocratico, ma si limitavano a misurare le competenze letterarie dei candidati. Questo poneva ovviamente seri dubbi sull'efficace gestione pratica dei problemi quotidiani di un territorio, ma discendeva direttamente dalla concezione confuciana della vita e della conoscenza. Il gentiluomo [confuciano] non era «uno strumento»; era invece, nel suo auto- perfezionamento che si adatta al mondo, uno scopo autonomo ultimo, non già un mezzo in vista di scopi oggettivi di qualsiasi specie. Questo principio centrale dell'etica confuciana rifiutava la specializzazione, la burocrazia specializzata moderna e l'istruzione specializzata, ma soprattutto l'addestramento economico al profitto.31 























































 31 Ivi, vol. II, pp. 309-310.
  • 36. 35 Oltre a questi impedimenti di carattere culturale, c'erano anche delle difficoltà tecniche non meno importanti nell'ostacolare un'amministrazione razionale del territorio. Per cercare di contrastare corruzione e gestione personalistica del potere, ai mandarini veniva impedito di ottenere cariche pubbliche nella provincia di provenienza. Questa norma di apparente buon senso poneva però due questioni rilevanti. Prima di tutto i funzionari finivano per non comprendere il dialetto locale e per doversi affidare a traduttori tanto necessari quanto inaffidabili. In secondo luogo ogni provincia possedeva leggi e consuetudini giuridiche particolari, che anche in questo caso imponevano al funzionario il ricorso a consulenti locali sulla cui buona fede si poteva spesso discutere. L'insieme di questi elementi non permette di classificare la burocrazia cinese come razionale, nonostante alcuni caratteri apparentemente simili e le indubbie capacità organizzative che si celavano dietro una struttura amministrativa dalle dimensioni impressionanti. L'altro aspetto rilevante dello stato cinese è rappresentato da un tipo di legittimazione del potere del tutto particolare e strettamente connesso alla concezione del mondo confuciana. L'idea fondamentale era che l'imperatore fosse necessario al mantenimento dell'ordine cosmico, cercando di porre rimedio agli squilibri tra le eterne forza dello yin e dello yang per mezzo del suo carisma magico. Il carisma magico dell'imperatore doveva confermarsi anche nei successi bellici […], ma soprattutto nel clima propizio al raccolto e nel buono stato della tranquillità e dell'ordine interno. […] Egli doveva legittimarsi come «figlio del cielo», cioè come signore approvato dal cielo, mediante il benessere del popolo.32 Le condizioni necessarie al mantenimento del potere erano quindi quanto di più lontano ci fosse da prescrizioni di carattere giuridico. Un imperatore poteva addirittura essere destituito a causa di un prolungato periodo di siccità o per un terremoto particolarmente violento. 























































 32 Ivi, vol. II, p. 76.
  • 37. 36 Il caso degli stati indiani è profondamente diverso da quello appena analizzato, e Weber se ne occupa molto meno approfonditamente. In ogni caso, in modo simmetrico rispetto alla situazione precedente, appare possibile individuare nell'Induismo e nel ceto dominante dei brahmani le cause principali del mancato sviluppo di uno stato legale-razionale, e questo per varie ragioni. Prima di tutto non si capisce come possa nascere un diritto razionale e universalistico in una realtà in cui la dottrina religiosa affermi l'esistenza di una differenza qualitativa e di carattere magico tra gli individui appartenenti a caste diverse. Le norme erano infatti profondamente influenzate dal pensiero indù e fondate quindi su convinzioni di carattere magico invece che formale-razionale. In secondo luogo, la concezione di stato legale-razionale di Weber prevedeva una netta separazione tra potere religioso e politico. Gli stati indiani si fondavano invece sul ruolo centrale svolto nell'amministrazione dalla casta dei brahmani, assimilando tali realtà a quelle di un modello di tipo ierocratico. Infine, i brahmani – essenzialmente dei sacerdoti – non avevano nessuna formazione specializzata che li rendesse dei validi amministratori pubblici. Come nel caso cinese, è stata probabilmente la gestione economicamente inefficiente delle risorse dello stato, oltre alla già citata questione dell'incertezza giuridica, a frenare maggiormente un sviluppo capitalistico autonomo. Dopo aver parlato delle caratteristiche del modello cinese e di quello indiano, bisogna ora fare qualche accenno alle condizioni storiche che hanno permesso lo sviluppo di uno stato legale-razionale in Occidente e non in Asia. Weber riteneva che la variabile determinante fosse rappresentata dal feudalesimo occidentale in opposizione a quello orientale o alla sua sostituzione con un apparato burocratico alle dirette dipendenze del sovrano come nel caso cinese. Il rapporto feudale prevalente in Europa era infatti sostanzialmente concepito come un contratto tra pari basato su uno scambio, e più specificamente su una "concessione di diritti, in particolare di usufrutti su un fondo o un terreno oppure di un potere politico territoriale, in cambio di servizi in guerra o nell'amministrazione"33 . Una relazione di questo tipo, fondata su un accordo tra due parti formalmente uguali, fu 























































 33 Max Weber, Economia e società, cit., vol. IV, p. 173.
  • 38. 37 fondamentale per lo sviluppo dello stato legale-razionale. L'idea che si diffuse fu infatti che il monarca non potesse fare tutto ciò che voleva, ma dovesse attenersi ai termini del patto stretto con i nobili, riconoscendo loro dei diritti e ponendo quindi un limite almeno formale al proprio potere legittimo. Come si può immaginare, la definizione di tale limite è storicamente dipesa dalle variazioni dei rapporti di forza tra monarchia ed aristocrazia, ma dal nostro punto di vista ciò che conta è il principio, che sta alla base dello stato moderno. In Asia invece, anche dove un sistema feudale era diffuso, questa logica contrattualistica non esisteva, ed era sostituita da una concezione patrimonialistica dello stato e da un rapporto di fedeltà gerarchica che rendeva queste realtà più simili ad apparati burocratici che a vere e proprie strutture feudali. In alcuni casi invece, come nella Cina dei mandarini, il feudalesimo era stato eliminato da molti secoli e sostituito con il sistema burocratico fondato sugli esami di stato. Relazioni di questo tipo non prevedevano limiti giuridici specifici al potere reale o imperiale, e questo è uno dei motivi principali per cui lo stato legale-razionale si è sviluppato in Occidente e non in Oriente, con tutte le ricadute sul sistema economico a cui si è già accennato. 4.3. Assenza di una scienza razionale La Rivoluzione scientifica e la moderna scienza razionale in generale hanno sicuramente rappresentato un elemento cruciale per l'evoluzione del nascente capitalismo europeo in senso industriale. La continua innovazione tecnologica è infatti uno dei presupposti di un sistema economico fondato sul reinvestimento dei profitti e sull'aumento dell'efficienza produttiva in un ambiente fortemente competitivo. Le innovazioni di carattere incrementale offrono appunto la possibilità di raggiungere questi obiettivi. Ci sono poi alcune situazioni – per la verità piuttosto rare – in cui una scoperta o un'invenzione sono talmente radicali da rivoluzionare interi settori produttivi e da crearne di nuovi, come i recenti esempi delle bio-tecnologie e dell'informatica mostrano bene. La storia dell'industria
  • 39. 38 occidentale è scandita da queste creazioni, che vanno dalla macchina a vapore alle scoperte nel campo della chimica e della fisica. Il comune denominatore di tutte queste innovazioni è per Weber la scienza razionale. Con quest'espressione il sociologo tedesco intendeva un particolare tipo di progresso scientifico guidato da due elementi. Il primo è il metodo sperimentale, e cioè l'approccio alla natura come a qualcosa che può essere studiato in laboratorio attraverso esperimenti che riproducano artificialmente determinati fenomeni, raccogliendo dati sensibili e analizzandoli con l'obiettivo di individuare comportamenti ricorrenti e di formulare teorie generali a partire da questi. Il secondo elemento è invece costituito dall'uso del simbolismo matematico, che – per parafrasare Galileo – rappresenta il linguaggio per mezzo del quale poter descrivere il mondo circostante e un modo per favorirne la 'calcolabilità'. La definizione di Weber è particolarmente rilevante perché appare evidente come l'accento non venga posto direttamente sul livello tecnico raggiunto, ma piuttosto sul metodo per mezzo del quale raggiungerlo. Non c'è dubbio, tuttavia, che storicamente all'adozione di questo metodo si sia accompagnata un'esplosione di vitalità della scienza in tutte le direzioni che non ha eguali nella storia dell'umanità. Ma come si collocano Cina e India rispetto a questo discorso? Weber è categorico nell'affermare che in nessuna delle due sia mai apparsa una scienza razionale nel senso da lui inteso, anche se – come si avrà modo di mostrare nel prossimo capitolo – lo sviluppo europeo fu debitore nei confronti dell'Oriente per molte invenzioni importanti. La ragione fondamentale di questo mancato sviluppo in senso razionale può essere individuata secondo lo studioso tedesco in un carattere culturale fondamentale comune alla società indiana e a quella cinese, e cioè nel mancato compimento del processo di demagizzazione di cui si è già parlato. La convinzione che il mondo fosse un luogo incantato, popolato da spiritelli capricciosi e da altre forze soprannaturali, rendeva impossibile concepire l'idea della ripetibilità di un esperimento e quindi del valore universale di un'osservazione particolare.
  • 40. 39 A questa ragione se ne aggiungono altre di carattere più specifico. Per quanto riguarda la Cina, un freno ulteriore era rappresentato dal rifiuto posto dai letterati confuciani ad ogni specializzazione di carattere tecnico-strumentale sulla base di un orientamento più mirato al miglioramento interiore della persona nel suo complesso. La cultura cinese era così completamente rivolta all'apprendimento a memoria dei classici, che però a differenza della ricerca scientifica, "era semplicemente un'appropriazione di pensieri preesistenti"34 . Nel caso dell'India un secondo ostacolo insormontabile era dato dalla dottrina del karman e dall'idea dell'esistenza di una logica etico-compensatoria. Come afferma con acume Weber in un passaggio: "l'universo della causalità naturale e l'universo postulato della causalità etico-compensatoria si contrapponevano l'uno all'altro in un contrasto inconciliabile"35 . A ciò va pure aggiunto un tratto in qualche modo simile a quello illustrato per i letterati confuciani. Si tratta del sostanziale disinteresse dell'indù per le vicende del mondo in quanto tale, che portava a preferire alla scienza la ricerca di strumenti di liberazione dal mondo per mezzo della gnosi. La scienza era quindi ritenuta dagli indiani una risposta inadeguata rispetto allo scopo di conoscenza prefissato. 4.4. La grande famiglia asiatica Un ultimo fattore istituzionale che potrebbe aver frenato lo sviluppo del capitalismo in Asia può essere riscontrato nel ruolo sociale centrale ricoperto dalla famglia in senso allargato. Sia in India che in Cina la famiglia e il clan contavano più dell'individuo stesso. Questo atteggiamento affondava le proprie radici nelle caratteristiche profonde della società induista e di quella confuciana. Nel primo caso risulta evidente come un ordinamento sociale fondato sul sistema delle caste e quindi su una gerarchia che faceva dei principi ascrittivi il criterio fondamentale per l'assegnazione di diritti e doveri particolari (il dharma) 























































 34 Max Weber, Sociologia della religione, cit., vol. II, p. 224. 35 Max Weber, Considerazioni intermedie. Il destino dell'Occidente, Roma, Armando, 1995, p. 95.
  • 41. 40 non potesse non attribuire al clan familiare un'importanza particolare. Lo stesso carisma magico era un attributo del gruppo, e non del singolo, tanto da spingere Weber a parlare di 'carisma gentilizio'. In Cina, nonostante una mobilità sociale decisamente maggiore e l'avversione del potere imperiale per ogni forma di carica pubblica ereditaria, la famiglia non ricopriva un ruolo di rilevanza minore che in India. Come si è già avuto modo di mostrare, due dei principi fondamentali del Confucianesimo erano il culto degli antenati e la pietà filiale. Entrambi erano per loro natura portati a rafforzare la solidarietà e la coesione interne alla famiglia, in quanto la prima tendeva a ricordare la provenienza da antenati comuni, mentre la seconda presupponeva uno stretto rapporto intergenerazionale. Tali principi, cruciali per la stabilità dell'ordinamento politico, non si limitavano ad influenzare indirettamente il comportamento degli individui, ma incidevano in modo sistematico su leggi e consuetudini sociali. Ad esempio, le terre potevano essere possedute solo dalle famiglie, e non da singoli individui. Inoltre, ogni impresa economica andava condivisa, e pure nella scelta degli interlocutori commerciali le logiche di clan prevalevano su quelle imperniate sull'efficienza. Infine, la famiglia aveva il dovere di fornire ai propri membri servizi assistenziali come cibo e medicinali, e soprattutto sceglieva quali individui dovessero studiare e ne finanziava la formazione, affinché questi potessero raggiungere cariche pubbliche di prestigio e rendere ricco l'intero gruppo parentale. Tirando le somme del discorso, Weber avanza due conclusioni. Da una parte mette in luce come sia in Cina che in India la famiglia fosse un elemento soffocante per l'identità e per le aspirazioni personali, ponendo anche dei limiti giuridici concreti alle possibilità di impresa economica individuale. Dall'altra parte, un approccio di questo genere rendeva difficoltosa una razionalizzazione del comportamento economico in senso impersonale e favoriva invece lo scambio di favori tra familiari e conoscenti a scapito dell'efficienza, andando a sommarsi alle ragioni prettamente religiose del mancato superamento del dualismo etico. Così si potrebbe affermare con Cavalli che la grande famiglia asiatica "è il primo ostacolo
  • 42. 41 concretamente rappresentato allo sviluppo capitalistico [in quanto] Weber vede nella grande famiglia un impedimento alla razionalizzazione dei rapporti economici sul piano legale e su quello pratico"36 . 5. Osservazioni conclusive Giunti alla fine del capitolo, si spera di essere riusciti a mettere in luce l'importanza fondamentale dei fattori religiosi, culturali e istituzionali nel determinare il comportamento economico all'interno della società cinese e di quella indiana dei secoli passati. In particolare, si è cercato di sottolineare quelli che per Weber erano i freni principali allo sviluppo indipendente del capitalismo moderno in Asia. Probabilmente nessuno degli ostacoli illustrati dal sociologo tedesco era insormontabile se preso singolarmente, ma la somma di tutti gli elementi di cui si è parlato nel corso del capitolo ha impedito che India e Cina potessero generare autonomamente una versione moderna ed industriale del sistema economico capitalista. Secondo alcuni autori però Weber avrebbe esagerato nel conferire importanza ad alcune delle variabili prese in esame nelle pagine precedenti. Allo stesso tempo, altri studiosi hanno avanzato ipotesi alternative o integrative per cercare di spiegare perché il capitalismo sia nato proprio in Europa e cosa abbia determinato l'immenso vantaggio accumulato negli ultimi cinquecento anni dall'Occidente in termini di capacità produttiva, e quindi di potere economico, politico e militare. Il prossimo capitolo si occupa proprio di alcune di queste teorie e degli autori che le hanno sostenute. 























































 36 Luciano Cavalli, op. cit., p. 296.
  • 43. 42 CAPITOLO II IL DIBATTITO CRITICO SULLA TESI WEBERIANA 1. Introduzione Questo capitolo si divide in due parti distinte ma tra loro legate. Da un lato sono analizzate diverse critiche rivolte in modo diretto a parti specifiche della tesi weberiana nel tentativo di confutarle o di attenuarne l'importanza relativa per lo sviluppo economico. Dall'altro sono state raccolte alcune delle spiegazioni contemporanee più diffuse e autorevoli sul mancato sviluppo autonomo del capitalismo in Asia e sulle ragioni del vantaggio occidentale. Tali teorie non si pongono in aperto contrasto con Weber e non avanzano critiche esplicite alla sua opera, ma certamente cercano di essere alternative credibili per l'esplicazione del medesimo fenomeno. In questo senso si potrebbe dire che le opinioni sostenute nella prima parte del capitolo mirino a distruggere l'edificio teorico weberiano, mentre quelle della seconda vogliano costruirne di nuovi nello stesso luogo, spesso cercando pure di sfruttare le solide fondamenta poste dal grande sociologo tedesco. Tali fondamenta, anche se danneggiate da qualche attacco andato a segno, possono infatti sopportare il peso di aggiunte successive, grazie soprattutto all'idea di multifattorialità di cui sono intrise. Weber non pretendeva infatti che le ragioni da lui evidenziate fossero le uniche valide per spiegare un fenomeno, ritenendo invece che nuove concause potessero essere individuate da altri studiosi. Alcuni degli autori a cui si farà riferimento nelle prossime pagine, che tendono a vedere la propria teoria esplicativa – spesso monofattoriale – come l'unica corretta, dovrebbero imparare da Weber sotto questo punto di vista.
  • 44. 43 2. Le critiche alla tesi weberiana È inevitabile che alcune parti del pensiero di Weber sull'Asia comincino ad accusare i colpi dell'età, acuiti da problemi come quello delle fonti a cui si è già fatto riferimento. Nonostante ciò sembra che nessuna critica, a dispetto dei molteplici tentativi, sia riuscita a scalfire più di tanto il nocciolo della tesi esposta. Certo, ci sono stati autori che hanno proposto soltanto la correzione di aspetti particolari, come Eisenstadt, e altri che hanno condotto una critica più sistematica, come Jack Goody. Anche questi ultimi però hanno dovuto riconoscere i molti pregi e l'importanza dell'opera weberiana, come il fatto di averle dedicato interi volumi dimostra. Cercando di rimanere il più possibile fedeli alla struttura espositiva del primo capitolo, si è deciso di suddividere le critiche in quattro categorie, riferite rispettivamente all'approccio weberiano nel suo complesso, al giudizio sullo stato dell'economia asiatica prima dell'avvento degli europei, ai fattori culturali e religiosi ed infine ai fattori istituzionali. 2.1. L'approccio generale weberiano Il riferimento principale è rappresentato in questo caso dalla posizione di Goody. L'idea di fondo del celebre antropologo britannico è tanto chiara quanto dirompente. Lo sviluppo del capitalismo moderno in Occidente non è dovuto ad un suo essere unico e speciale, ma ad un semplice vantaggio di carattere temporaneo, le cui radici possono essere individuate – come verrà mostrato nella seconda parte del capitolo – in fenomeni come la scoperta del Nuovo Mondo e una temporanea supremazia navale e militare. Per Goody tutto il resto sarebbe mito, sarebbe quello che gli studiosi occidentali vogliono vedere, e cioè l'idea della propria civiltà come qualcosa di radicalmente diverso – e migliore – rispetto a tutte le altre.
  • 45. 44 Il punto di partenza del ragionamento di Goody è che le differenze tra Oriente ed Occidente siano in realtà molto minori di quanto le analisi della maggior parte degli studiosi tendono a far credere. Da questo punto di vista appare plausibile che il metodo weberiano, fondato sulla comparazione e sui tipi ideali, possa aver accentuato le differenze tra le due realtà a scapito delle molte somiglianze presenti. Certo, un approccio che si focalizzasse sulla diversità era necessario, ma forse può aver portato a trascurare l'altra faccia della medaglia. Bisogna inoltre riconoscere che il ragionamento di Goody è ben supportato dalla tesi esposta nel saggio L'Oriente in Occidente e accompagnata da molti documenti storici, secondo cui "il totale isolamento reciproco implicito nelle distinzioni categoriche, tra queste aree, che contrassegnano tante teorie e speculazioni delle moderne discipline sociali e storiche, non è mai esistito"1 . Un altro elemento portato a sostegno dell'idea di differenze tutto sommato ridotte tra Europa e Asia è dato dall'osservazione dei successi economici e in campo tecnologico di molte realtà asiatiche prima del Cinquecento e nella seconda metà del Novecento. Diversità profonde non avrebbero dovuto permettere né gli uni né gli altri. Quest'argomentazione appare debole se usata contro la tesi weberiana, perché se da un lato il successo del capitalismo in Estremo Oriente è un dato appurato, dall'altro lo è altrettanto il fatto che tale modo di produzione sia stato importato dall'Occidente e non abbia origini autonome. Accettando sulla base degli argomenti appena esposti l'idea che il vantaggio occidentale non sia una costante storica, ma una situazione contingente, si giunge a concludere con Goody che "è impossibile spiegare questo divario temporaneo distribuendo vantaggi permanenti a una squadra o all'altra"2 . È questo il trabocchetto nel quale sono caduti molti studiosi occidentali. È stato preso uno specifico vantaggio storico ed è stato impropriamente generalizzato e trasformato in una superiorità di lunga durata. Inoltre – prosegue Goody – anche questi vantaggi specifici sono stati spesso esagerati, se non addirittura del tutto inventati, 























































 1 Jack Goody, L'Oriente in Occidente. Una riscoperta delle civiltà orientali, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 375. 2 Ivi, p. 326.
  • 46. 45 sulla base di una scarsa conoscenza delle realtà asiatiche, che ha portato a considerare unici dei tratti invece presenti anche in Asia. A questo punto Goody propone la sua visione alternativa sull'innegabile vantaggio europeo che ha permesso, tra le altre cose, lo sviluppo del capitalismo moderno. L'idea è quella che l'andamento storico del confronto economico e tecnologico tra Oriente ed Occidente possa essere assimilato al movimento di un pendolo, le cui oscillazioni determinerebbero il temporaneo vantaggio di uno o dell'altro. Osservata in una prospettiva di longue durée, ci fu un'alternanza di successi fondata sulle comuni realizzazioni dell'età del bronzo. Nel corso dei secoli osserviamo il pendolo oscillare. In un periodo storico si verifica un progresso da una parte, in un altro stadio da un'altra. […] L'alternanza è resa possibile da interruzioni da una parte e da rapidi progressi dall'altra.3 In conclusione, si può dire che la critica di Goody a Weber si concentri sul fatto di aver confuso una semplice oscillazione del pendolo con "l'esistenza di una «miracolosa» unicità"4 . In questo senso, si potrebbe provare ad estendere la metafora fisica dell'antropologo britannico dicendo che l'errore fondamentale di Weber potrebbe essere stato quello di aver scambiato un movimento pendolare per quello di un piano inclinato, in cui più il tempo passa e più la biglia accelera il suo moto, accrescendo così il divario rispetto alle rivali rimaste ferme in cima al pendio. 2.2. Le economie asiatiche tradizionali Nell'opera weberiana sembra che le economie asiatiche tradizionali siano sempre state in qualche modo inferiori a quelle europee, o comunque lo fossero già da alcuni secoli al momento dell'avvento della rivoluzione industriale in Inghilterra. 























































 3 Ivi, pp. 332-333. 4 Ivi, p. 13.