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Luigi Prosperetti *
Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per
violazione della normativa antitrust

Sommario
Principali tipologie di danno ....................................................... 2
Restrizioni della produzione........................................................ 3
Abusi escludenti .......................................................................... 5
La prova del danno ...................................................................... 9
4.1
Illecito, danno e nesso causale: aspetti generali .......................... 9
4.2
La prova del comportamento illecito ........................................ 10
4.3
Prova del nesso causale ............................................................. 11
4.4
Prova del danno ......................................................................... 13
4.5
Componenti del danno antitrust ................................................ 14
4.6
Mitigazione del danno nell’illecito antitrust ............................. 15
4.7
La logica economica e la logica giuridica nella quantificazione
del danno ................................................................................... 16
5.
Danni da abuso per sfruttamento ............................................... 18
6.
Il passing-on .............................................................................. 21
7.
Danni da abusi escludenti.......................................................... 27
7.1
Criteri incerti per il danno sociale ............................................. 27
7.2
Danno privato ............................................................................ 29
8.
Danni punitivi e profitti dell’autore dell’illecito ....................... 31
8.1
I danni multipli .......................................................................... 32
8.2
I danni ed il profitto dell’autore dell’illecito ............................. 36
9.
La valutazione del danno antitrust ............................................ 39
9.1
Metodi e tecniche per la valutazione del danno patito
dall’acquirente diretto di un cartello ......................................... 39
9.2
Il metodo analitico..................................................................... 40
9.3
Il metodo before and after ......................................................... 43
9.4
Il metodo benchmark o yardstick .............................................. 44
Bibliografia .................................................................................................. 45
1.
2.
3.
4.

*

Ordinario di Politica Economica, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di
Milano. Relazione presentata al Workshop "Le pratiche commerciali scorrette e la tutela del
consumatore", AFGE, Milano 26 giugno 2013.
1. Principali tipologie di danno
Comportamenti illegittimi ai sensi degli articoli 81 e 82 del Trattato CE,
determinano in primo luogo un danno sociale.
Negli abusi di sfruttamento, quando alcune imprese realizzano un’intesa per
ridurre la produzione, e così innalzare i prezzi, o quando un’impresa
dominante persegue la medesima strategia, questo danno è generato dalla
riduzione di produzione necessaria ad ottenere l'incremento dei prezzi,
nonché da una distorsione più generale del funzionamento del mercato,
derivante da un aumento dei costi di transazione.
Negli abusi escludenti, quando un’impresa dominante – tenendo
comportamenti non riconducibili a quelli descritti in giurisprudenza come
competition on the merits 1 - esclude dall'accesso al mercato i suoi rivali, o
ne impedisce lo sviluppo, il benessere sociale viene ridotto perché la
collettività è privata del beneficio che i nuovi entranti potrebbero recarle,
sotto forma di maggiore concorrenza, e dunque prezzi più bassi e/o qualità
più elevata, nonché di innovazioni di prodotto o di processo.
Tuttavia, la riduzione della produzione volta a determinare un aumento dei
prezzi può essere intrapresa, oltre che da un’intesa, anche da un’impresa
dominante. Di converso, un comportamento abusivamente escludente può
essere posto in opera non solo da un’impresa dominante, ma anche da più
imprese che realizzino tra loro un’intesa a ciò finalizzata. Per questo,
tenendo conto che in questa sede ci occuperemo principalmente di
analizzare gli effetti dannosi dei comportamenti illegittimi, adotteremo la
distinzione effect-based – essenzialmente di natura economica – che
abbiamo già menzionato tra abusi di prezzo ed abusi escludenti, più che
quella – essenzialmente di natura giuridica – tra fattispecie riconducibili
all’art. 81 ed all’art. 82.
All’esistenza di un danno sociale si accompagna spesso quella di un danno
privato, anche se, come meglio vedremo, questo è frequente nelle intese, a
patto che esse siano tali da esplicare un effetto sui prezzi, ma meno
frequente negli abusi escludenti, ove non è detto che il comportamento
illegittimo configuri necessariamente un danno risarcibile in capo ad uno
specifico agente economico.

1

Termine che appare coniato nella sentenza Americana Northern Pacific Railway Co. v.
United States, 356 U.S. 1, 6 (1958), ed utilizzato dalla CGCE per la prima volta in Irish
Sugar (Causa T-228/97), Irish Sugar v. Commission, [1999] ECR II-2969, par. 111.

2
2. Restrizioni della produzione
La prima tipologia di danno antitrust deriva da comportamenti che riducono
artificiosamente la quantità prodotta, al fine di innalzare i prezzi al di sopra
del loro livello competitivo.
Questi aumenti nei prezzi possono derivare da intese restrittive tra
concorrenti (il caso più frequente), o dalla imposizione di prezzi
ingiustificatamente gravosi da parte di un’impresa in posizione dominante:
quest’ultima tipologia è relativamente rara a livello dell’Unione nel suo
complesso, ma vi è un numero non trascurabile di casi a livello nazionale 2.
Quanto diremo nel seguito, anche se ci riferiremo per semplicità al caso più
frequente – le intese – è peraltro pienamente riferibile anche agli abusi di
prezzo derivanti dai comportamenti unilaterali di un’impresa dominante.
Consideriamo il seguente caso. Le imprese A, B e C danno luogo ad
un’intesa sul mercato delle trappole per topi, e di comune accordo ne
riducono la produzione da QC (il livello produttivo in caso di concorrenza) a
QM (il livello scelto dai partecipanti all’intesa 3), in modo da innalzarne i
prezzi da PC a PM. I consumatori reagiranno a questa strategia in due modi:
alcuni di essi decideranno di acquistare le trappole al prezzo più alto, e
patiranno un danno emergente pari al prodotto tra l’overcharge (ovvero
l’incremento nel prezzo determinato dal cartello), ed il numero di trappole
acquistate: chiameremo questo danno, indicato dall’area A della Figura 1,
danno sopportato dagli acquirenti.
Altri consumatori decideranno invece di non comprare le trappole al prezzo
imposto dal cartello, ma di mitigare il danno da essi patito sostituendo alle
trappole altri prodotti (veleno per topi): questa componente del danno è
rappresentata dal triangolo B della Figura 1, che chiameremo danno
sopportato dai non-acquirenti.
Si noti come questo danno è certamente rilevante, dato che se i consumatori
erano originariamente intenzionati a comprare trappole invece che veleno,
tale scelta era evidentemente per loro ottimale. Tuttavia, esso è difficile da
quantificare con precisione, dato che per farlo dovremmo essere in grado di
misurare la disutilità patita da questi consumatori, che hanno sostituito il
prodotto utilizzato per il controllo dei roditori, opera in genere alquanto
ardua.

2

Si veda Géradin (2007).
Dato che le tre imprese si coordinano, agendo come una sola entità, questo è anche il
livello che la produzione avrebbe in caso di monopolio.

3

3
Figura 1. Danno privato e danno sociale derivante dalla cartellizzazione
Prezzo

Cartello

PM
Mercato
concorrenziale

A

B

PC

Cost i
Domanda

QM

QC

Quanti tà

Questi due tipi di danno esistono sempre, ma la loro dimensione relativa
dipende dalla elasticità della domanda rispetto al prezzo: se questa è molto
bassa (domanda rigida), chi compra le trappole per topi non è in grado di
sostituirle con il veleno, e quindi il danno privato è quasi tutto di ‘tipo A’; se
invece l’elasticità rispetto al prezzo è alta, per i consumatori sarà molto
facile sostituire trappole e veleno, e dunque il danno sarà prevalentemente di
‘tipo B’.
Nell’esempio che abbiamo fin qui sviluppato non vi sono altre voci di danno
privato rilevanti oltre a quelle discusse. Tuttavia, se il bene prodotto dal
cartello non è destinato al consumo finale, ma è un bene intermedio (ad
esempio: farina) acquistato da un’impresa che lo utilizza come input nella
produzione di un altro bene (il pane) 4, la questione è più complessa.
In primo luogo, infatti, l'impresa che è acquirente diretto del bene
cartellizzato cercherà di aumentare il prezzo del pane, così da traslare,
almeno in parte, ai propri clienti l'aumento nel proprio costo di produzione
imposto dal cartello della farina. I consumatori che acquistano pane, saranno
dunque acquirenti indiretti del cartello della farina, e subiranno quindi
anch'essi un danno: anzi più precisamente il danno emergente causato dal
cartello della farina sarà in qualche modo ripartito tra acquirenti diretti (i
panificatori) ed acquirenti indiretti (i consumatori di pane) 5. Come vedremo,
4

Ci auguriamo vivamente che non venga mai riscontrata l'esistenza di un cartello della
farina: l'esempio è infatti totalmente immaginario, ed utilizzato solo a fini espositivi.
5
Discuteremo in seguito come la porzione di danno che potrebbe essere traslata agli
acquirenti indiretti sia tanto maggiore quanto è più rigida la loro domanda.

4
questo problema, detto frequentemente passing-on, con un riferimento ai
precedenti in questo senso negli Stati Uniti, è alquanto complesso, ma
suscettibile di una soluzione ragionevole.
Nel caso dei beni intermedi, un cartello tuttavia dà luogo in generale anche
ad un lucro cessante: a meno che la domanda di pane non sia perfettamente
rigida rispetto al prezzo, se i panificatori cercano di traslare sui consumatori
una parte dell'aumento del prezzo della farina, questi ridurranno la quantità
di pane consumata, ed i panificatori patiranno un lucro cessante, pari alla
differenza tra i profitti che essi avrebbero percepito se non vi fosse stato il
cartello della farina, ed i profitti che essi conseguono in presenza del
cartello.
Più precisamente, quindi, il cartello della farina dà luogo a tre principali
tipologie di danno: un danno emergente in capo ai produttori di pane,
derivante da quella parte dell'aumento nei propri costi che essi non sono
stati in grado di traslare sui loro clienti; un danno emergente in capo ai
consumatori di pane derivante dal medesimo meccanismo; un lucro cessante
in capo ai panificatori, derivante dalla riduzione dei consumi di pane.
Infine, anche i fornitori delle imprese colluse patiranno un danno privato: la
decisione di ridurre le quantità prodotte adottata dal cartello si tradurrà
infatti per loro in una diminuzione delle vendite e del fatturato.

3. Abusi escludenti
La seconda tipologia di danno antitrust può derivare da comportamenti
illegittimamente escludenti 6 da parte di un’impresa dominante, che – invece
di ricorrere ad una competition on the merits – utilizza una varietà di
strumenti per escludere i concorrenti dal mercato, o per impedirne
l’ingresso. Secondo la Comunicazione del 2008 della Commissione
Europea, le principali fattispecie di tali condotte sono: forme di
contrattazione esclusiva, pratiche leganti, pratiche predatorie, rifiuti di
fornitura e condotte di margin squeeze. Più in dettaglio, un’impresa
dominate può cercare di escludere i propri concorrenti:
• utilizzando espliciti obblighi di contrattazione esclusiva inseriti nei
contratti con la propria clientela (anche sottoforma di clausole
inglesi 7), oppure una struttura di sconti che abbia nei fatti effetti di
fidelizzazione della clientela. Tale condotta, rendendo difficile ai
6

Come vedremo tra breve, possono infatti darsi anche comportamenti legittimamente
escludenti, e comportamenti illegittimamente escludenti dai quali però non deriva
necessariamente un danno in capo ad uno specifico concorrente.
7
Le clausole inglesi vincolano l'acquirente ad informare il fornitore qualora egli riceva
un'offerta più vantaggiosa, ed assegnano a quest’ultimo il diritto di vendere il prodotto al
prezzo offerto dal concorrente.

5
concorrenti contendere i clienti all’impresa dominante, può dunque
limitare la pressione competitiva su di essa. Gli effetti escludenti
possono essere particolarmente pronunciati se l’impresa dominante,
per le caratteristiche del suo marchio, dei suoi prodotti, o la sua
notorietà, assume il carattere di unavoidable trading partner, e
quanto più è temporalmente estesa la loro efficacia;
• attraverso tipologie di vendite abbinate in cui due o più beni (o
servizi) sono venduti congiuntamente. Queste diverse fattispecie
sono identificate con maggior precisione dalla terminologia
anglosassone, che distingue tra: (i) tying, ovvero la vendita del
prodotto B (il prodotto tied) soltanto a chi acquisti anche il prodotto
A (il prodotto tying), il quale può tuttavia essere acquistato anche
indipendentemente da B; (ii) bundling, ovvero la vendita sempre
congiunta di A e B; e (iii) mixed bundling, in cui l’acquirente può
comprare soltanto A, soltanto B, oppure sia A che B, ma in
quest’ultimo caso il prezzo di A + B è inferiore alla somma dei
prezzi dei due prodotti presi singolarmente. Il motivo fondamentale
che rende oggetto di attenzione le vendite abbinate in una
prospettiva antitrust, è che se un’impresa gode di una posizione
dominante sul mercato di B, attraverso una tale politica
commerciale essa potrebbe essere in grado di “trasferire” la propria
posizione dominante anche sul mercato del prodotto A.
• attuando comportamenti predatori, tipicamente posti in essere
attraverso una strategia in due fasi. Nella prima, l'impresa
dominante abbassa i prezzi fino a costringere i propri concorrenti a
uscire dal mercato. Nella seconda, rimasta sola, essa innalzerà i
prezzi al livello di monopolio, recuperando l’eventuale perdita
sopportata nella prima fase e godendo – da quel momento in poi –
di profitti di monopolio;
• opponendo ai concorrenti un rifiuto di contrarre non
oggettivamente giustificato, applicato ad un input che sia
oggettivamente indispensabile per concorrere efficacemente con
l'impresa dominante nel mercato a valle (ossia che sia una essential
facility) Tale rifiuto deve inoltre comportare l'eliminazione di ogni
efficace concorrenza nel mercato a valle, generando quindi con
ogni probabilità un danno ai consumatori, ad esempio perché
impedisce che vengano immessi sul mercato beni o servizi
innovativi. Il rifiuto non deve essere esplicito, ma può configurarsi
– ad esempio – anche nella richiesta di un prezzo per l'input
talmente elevato da rendere impossibile al concorrente competere,
configurando cioè un margin squeeze. Se l’impresa che controlla
l’input è anche dominante nel mercato a valle, essa può
alternativamente imporre un prezzo per il bene finale inferiore ai

6
costi che i concorrenti dovrebbero sostenere per acquisire l’input
(praticando così un price squeeze).
Nei casi di abuso escludente, il danno sociale deriva essenzialmente dal
fatto che alla collettività viene negata la possibilità di avere più concorrenza
tra fornitori, e dunque presumibilmente di godere di prezzi più bassi e/o
qualità più elevata rispetto a quanto offerto dall’impresa dominante 8.
Mentre però l’analisi economica e giuridica degli abusi di sfruttamento
lascia pochi dubbi circa le loro conseguenze assolutamente dannose sul
benessere sociale, perché essi sono ricchi di effetti negativi, non compensati
in genere da alcun miglioramento dell’efficienza, lo stesso non si può dire
per quanto riguarda i comportamenti escludenti.
Le difficoltà nell’analisi di questi comportamenti dipendono da vari aspetti:
• molti dei tipi di comportamento che vengono raggruppati sotto
l'etichetta "condotte escludenti" risultano in realtà da giochi
strategici (nel senso tecnico del termine), nei quali ogni specifica
mossa dell'impresa dominante e dei suoi concorrenti dipende da
una molteplicità di fattori empirici, che sono del tutto specifici alla
situazione in cui essa può essere adottata; in questi casi è quindi
improbabile che si riescano ad elaborare astrattamente regole che
definiscano per se quando una condotta escludente sia abusiva;
• una condotta, poi, che potrebbe essere abusiva, in realtà può non
esserlo se crea efficienze tali da compensarne l'impatto negativo sul
benessere dei consumatori. Ad esempio, sconti fidelizzanti possono
essere indispensabili per ottenere economie di scala e passarne
benefici ai consumatori, e vendite abbinate possono ridurre i costi
di produzione, distribuzione o transazione;
• da ultimo, non certo per importanza, non esiste un consenso
sufficiente, né tra gli economisti, né tra i giuristi, circa il criterio

8

In realtà – se è possibile ragionevolmente ritenere che ad un maggior grado di concorrenza
corrispondano prezzi più bassi – la relazione tra concorrenza e qualità è assai meno
univoca: un monopolista, ad esempio, tenderà ad offrire il livello di qualità il cui costo
marginale eguaglia il ricavo marginale, ovvero il prezzo che il consumatore addizionale è
disposto a pagare per quel livello di qualità. Gli effetti sul benessere del livello di qualità
dipendono però dal consumatore medio: per una discussione articolata si veda ad esempio
Spence (1975), e per una trattazione sintetica Marzi – Prosperetti – Putzu (2001).
Controversa è poi la relazione tra concorrenza ed innovazione. Il risultato classico di Arrow
(1962), secondo il quale un’impresa in concorrenza ha un incentivo maggiore ad un
monopolista ad introdurre un’innovazione di processo è criticato, in chiave schumpeteriana,
da Etro (2004). Quanto sintetizzato nel testo rappresenta però la received opinion su cui si
basano, in pratica, buona parte delle decisioni prese da autorità per la concorrenza e corti
civili in materia antitrust.

7
generale da utilizzare per decidere se un dato comportamento
unilaterale debba considerarsi o meno legittimo 9.
Queste condotte pongono poi due problemi fondamentali sotto il profilo
della causazione del danno privato.
Innanzitutto, naturalmente, non tutte le politiche commerciali aggressive
dell’impresa dominante hanno necessariamente carattere abusivo.
Le imprese investono infatti tempo e risorse notevoli cercando di escludere i
propri rivali dal mercato, riducendo i prezzi, introducendo innovazioni di
prodotto, e utilizzando molti altri strumenti aggressivi. Ciò vale anche per le
imprese dominanti, alcuni comportamenti delle quali potranno avere un
carattere abusivo, mentre altri potranno rientrare in quei “mezzi su cui si
impernia la normale concorrenza tra operatori economici” 10 , che sono
pienamente consentiti anche a tali imprese.
Naturalmente, i consumatori hanno un preciso interesse a che le imprese si
comportino in modo vigorosamente aggressivo, ed è questo il motivo
economico sostanziale, perché è necessario ritenere, come ha sancito il
Tribunale di Primo Grado nel caso Michelin II, che “l'esistenza di una
posizione dominante non priv[a] un'impresa che si trovi in questa posizione
del diritto di tutelare i propri interessi commerciali, qualora questi siano
insidiati, e la detta impresa abbia la facoltà, entro limiti ragionevoli, di
compiere gli atti che essa ritenga opportuni per la protezione di tali
interessi, non è però ammissibile un comportamento del genere che abbia lo
scopo di rafforzare la posizione dominante e di farne abuso” 11.
In molti casi, può quindi essere difficile isolare il danno ai concorrenti
generato da un comportamento legittimo dell’impresa dominante
(danneggiare il concorrente è infatti l’essenza stessa del meccanismo

9

Si veda l’interessante discussione in AMC (2007), capitolo Ic, e – per una prospettiva
europea - l’interessante contributo di Gual et al. (2005).
10
Così recita la sentenza CGCE nel caso Hoffman-La Roche “La nozione di sfruttamento
abusivo è una nozione oggettiva, che riguarda il comportamento dell’impresa in posizione
dominante atto ad influire sulla struttura di un mercato in cui, proprio per il fatto che vi
opera detta impresa, il grado di concorrenza è già sminuito e che ha come effetto di
ostacolare, ricorrendo a mezzi diversi da quelli su cui si impernia la normale concorrenza
tra prodotti o servizi, fondata sulle prestazioni degli operatori economici, la conservazione
del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo di detta concorrenza”,
Sentenza della Corte del 13 febbraio 1979, Hoffmann-La Roche et. co. AG v. Commissione,
Caso 85/76, par. 91. La sentenza cerca quindi di elaborare sulla nozione americana di
competitivo on the merits, ma con risultati non particolarmente evidenti. Per una
discussione, ed una ricostruzione della giurisprudenza, si veda la Background Note in
OECD (2005).
11
Michelin c. Commissione, sentenza del 30 settembre 2003, causa T-203/01, par. 55.

8
competitivo, com’è pacifico nell’antitrust 12 ), da quello generato da un
comportamento illegittimo sotto il profilo concorrenziale. In altre parole, la
perdita di quote di mercato patita da un concorrente dell’impresa dominante
nel periodo in cui era in essere una condotta escludente può non essere
dovuta totalmente alla condotta in parola, ma essere riferita - in tutto o in
parte - a politiche commerciali legittime dell’impresa dominante,
contemporanee all’abuso, che abbiano incontrato il favore del mercato.
In secondo luogo una condotta abusiva può recare danno ad alcuni
concorrenti, ma non ad altri.
Considerando ad esempio un price squeeze, abusivo in quanto
sufficientemente intenso da escludere un "concorrente egualmente
efficiente" dal mercato, è evidente che l'impresa dominante avrà più
concorrenti, ciascuno avente un diverso livello di efficienza: il suo
comportamento sarà quindi illecito se tale da escludere un concorrente
efficiente in misura uguale all’impresa dominante (‘concorrente egualmente
efficiente’). Tale condotta recherà quindi danno ai soli concorrenti la cui
efficienza è uguale o superiore a quella di tale ipotetico concorrente: i
concorrenti che hanno un’efficienza inferiore a questo livello potrebbero
non aver subito un danno da esclusione perché, anche in assenza di squeeze,
essi non sarebbero stati in grado di aggredire il mercato.
Considerazioni analoghe possono essere svolte per altre tipologie di abuso,
come i prezzi predatori e le clausole fidelizzanti (come ad esempio le
‘clausole inglesi’): anch’esse possono generare un danno non a tutti i
concorrenti, bensì soltanto a quelli che potevano ragionevolmente ambire
(per le caratteristiche del loro prodotto, i prezzi praticati, le risorse umane e
materiali di cui sono provvisti) ad insidiare quei clienti che l’impresa
dominante ha illegittimamente fidelizzato. La prova di un effetto dannoso
delle condotte illecite dell’impresa dominante è spesso dunque molto
complessa.

4. La prova del danno
4.1

Illecito, danno e nesso causale: aspetti generali

In questo paragrafo analizzeremo l’onere della prova a carico dell’attore di
una causa civile antitrust per danni: tale analisi sarà condotta facendo
riferimento alla distinzione tra danni determinati da abusi per sfruttamento e
danni determinati da abusi escludenti.

12

Ex multis, il Commissario Kroes ha sottolineato “I like aggressive competition –
including by dominant companies - and I don’t care if it may hurt competitors – as long as
it ultimately benefits consumers”, Kroes (2005).

9
In generale, di una causa per danni antitrust è tenuto a dimostrare – come in
qualunque altro caso di danno conseguente da violazione di responsabilità
extra contrattuale - l’esistenza:
a. del fatto illecito, ossia di una violazione della normativa sulla
concorrenza (breach);
b. di un nesso causale immediato e diretto tra tale violazione e il
danno lamentato (causation);
c. del danno patito composto, come vedremo meglio in seguito, da
danno emergente, lucro cessante, perdita di chance e danno
all’immagine (harm)
d. di un suo eventuale tentativo di limitazione degli effetti del danno
(mitigation).
Questi elementi sono di natura principalmente giuridica, ma nel danno
antitrust è in genere indispensabile che l’analisi giuridica sia supportata
dagli strumenti dell’analisi economica.

4.2

La prova del comportamento illecito

Per quanto riguarda la prova del comportamento illecito, l’azione avviata
potrà essere follow-on - qualora l’autorità antitrust abbia già emanato un
provvedimento sanzionatorio - oppure stand alone in assenza di tale
provvedimento.
Nelle azioni stand-alone, l’attore è obbligato a dimostrare l'esistenza della
condotta anticoncorrenziale. Ad esempio, un attore che lamenti un prezzo
predatorio 13 dovrà dimostrare come l’abbassamento del prezzo praticato
dall’impresa dominante possa essere ascritto unicamente ad un
comportamento abusivo e non ad altri fattori, quali, ad esempio, un eccesso
di scorte, piuttosto che normali fluttuazioni stagionali. Nelle azioni standalone per danni derivanti da intese orizzontali 14, l’attore dovrà provare in
13

Il comportamento predatorio è una strategia in due fasi. Nella prima l'impresa dominante
abbassa i prezzi fino a costringere i propri concorrenti a uscire dal mercato. Nella seconda,
rimasta sola, essa innalzerà i prezzi al livello di monopolio, recuperando l’eventuale perdita
sopportata nella prima fase e godendo – da quel momento in poi – di profitti di monopolio.
14
Nelle intese verticali, può di frequente escludersi che vi sia un danno derivante da
aumenti dei prezzi, dato che queste intese producono in generale incrementi di efficienza.
Se imprese operanti sullo stesso mercato offrono infatti prodotti tra loro sostituibili, e
possono avere un incentivo razionale a realizzare un’intesa orizzontale per limitare questa
sostituzione, un produttore e un distributore uniti da una relazione economica verticale
offrono prodotti tra loro complementari, e si danneggerebbero a vicenda se si accordassero
per aumentare il prezzo del prodotto. Per contro un’intesa verticale può avere carattere
escludente, ma a questo caso si applicano le osservazioni che seguono sugli abusi
escludenti.

10
generale l’esistenza dell’intesa, la partecipazione ad essa del convenuto,
l’esistenza dell’overcharge, e il pagamento di tale overcharge. In questo
caso, però, il convenuto potrà invocare la passing-on defense, sostenendo,
cioè, che l’acquirente diretto del prodotto non ha in realtà patito alcun
danno, poiché ha incrementato i propri listini prezzi dello stesso importo
dell’overcharge. Chiaramente, l’attore potrebbe aver incrementato solo in
parte i propri prezzi, subendo così solo parzialmente il danno da
sovrapprezzo.
In prima istanza, è dunque possibile presumere che nelle azioni follow-on
l’onere della prova sia meno gravoso che nelle azioni stand alone,
nell’ambito delle quali l’attore ha la possibilità di avvalersi di un
provvedimento amministrativo che ha accertato la condotta abusiva.
Tuttavia, normalmente, l’autorità per la concorrenza sanziona un’intesa
avente oggetto escludente, lasciando sostanzialmente aperta la possibilità
che esista un suo effetto, e dunque un danno.
In caso di abusi escludenti, poi, l’esistenza di un danno alla concorrenza
non sempre implica necessariamente che vi sia un danno ad uno specifico
concorrente.
Pertanto, non necessariamente un’azione follow-on presenta un’onere
della prova del comportamento illecito meno gravoso rispetto a quello
che può caratterizzare un’azione stand alone.

4.3

Prova del nesso causale

L’attore deve poi fornire adeguata evidenza in merito al nesso causale tra il
comportamento illecito e il danno lamentato. In altre parole, l’attore sarà
tenuto a dimostrare che la condotta illecita ha peggiorato la sua situazione,
provocando a suo carico un danno risarcibile.
In primo luogo, l’attore dovrà provare che la condotta illecita ha provocato
effettivamente il danno lamentato, dimostrando così l’esistenza di una
causalità di fatto tra azione illecita ed evento dannoso.
In secondo luogo, l’attore dovrà provare che il danno non si sarebbe
verificato in assenza della condotta illecita, dimostrando così come essa
rappresenti la condizione necessaria alla determinazione del danno.
Infine, l’attore dovrà provare che il danno costituisce conseguenza
immediata e diretta della condotta illecita, escludendo:
a. l’esistenza di eventi o comportamenti (del convenuto, di altri
soggetti, e naturalmente anche propri) che possano aver interrotto il
nesso di causalità;

11
b. l’accadimento di altri eventi che possano aver costituito una
concausa, unitamente alla condotta illecita, del danno: in questo
caso il nesso causale tra condotta e tali eventi economici negativi
rimane attivo, ma limitato solo a quella parte degli eventi stessi
specificamente causati dall’illecito 15.
Nel caso degli abusi escludenti la prova dell’esistenza di un nesso di
causalità tra condotta anticompetitiva e danno patito è particolarmente
complesso: anche qualora sia possibile dimostrare che il concorrente escluso
abbia effettivamente patito un danno, è comunque molto difficile riuscire a
dimostrare che il danno è “conseguenza immediata e diretta” della condotta
anticompetitiva. Infatti, l’obiettivo ultimo del meccanismo competitivo è
proprio quello di danneggiare il concorrente, ed è evidentemente molto
difficile riuscire a comprendere se il danno cagionato è il risultato di un
comportamento abusivo oppure dell’impiego di quei “mezzi su cui si
impernia la normale concorrenza tra operatori economici” 16, a disposizione
di tutte le imprese, comprese quelle che godono di una posizione dominante.
Per questo, sulla determinazione di un danno da comportamento escludente,
un errore assai frequente è quello di addossare all’impresa dominante la
responsabilità per qualsiasi perdita di profitti del concorrente, causata sì
dall’impresa dominante, ma non derivante dal ricorso a pratiche illecite. Ad
esempio, occorrerà quindi valutare se l’attore, essendo stato vittima
dell’illecito, non abbia poi autonomamente compiuto errori strategici o
gestionali che abbiano aggravato sensibilmente la sua situazione, così da
diventare essi stessi causa dell’uscita dal mercato. Come rileva infatti la

15

Sul punto, la Cassazione rileva che “il rigore del principio dell'equivalenza delle cause,
posto dall'articolo 40 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è
riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale,
trova il suo temperamento solo nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo
comma dell'articolo 41stesso codice, in base al quale l'evento dannoso deve essere
attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa azione
risulti tale dal rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle
normali linee di sviluppo della serie causale già in atto ( cfr. Cass. 27 Maggio 1995,
5923/95)”. La Cassazione rileva ancora che “non può sussistere nessuna responsabilità [del
danneggiante] per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che si sarebbero
verificati anche senza di essa. Di conseguenza, non può essere addebitato all'agente quel
danno che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dalla condotta, e, a maggior
ragione, quello che era preesistente. Deve essergli addebitato, invece, il maggior danno,
oppure l'aggravamento, che sia intervenuto per effetto della condotta dell'agente, che non
si sarebbero verificati senza di essa. In tal caso, però, l'agente sarà responsabile soltanto
di questo maggior danno, della differenza tra il danno che si sarebbe verificato in ogni
caso, oppure che era preesistente, e quello che invece è stato raggiunto una volta che su
quanto preesistente, o comunque estraneo alla condotta di quel soggetto [....], si sono
innestate, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, le conseguenze della
condotta”.
16
Così recita la sentenza CGCE nel caso Hoffman-La Roche, par. 91.

12
Cassazione n. 6640/98, questa interruzione del nesso di causalità può essere
anche l' “effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato”
4.4

Prova del danno

L’attore deve poi fornire prova dell’esistenza e della dimensione del danno.
Si tratta di una prova generalmente considerata complessa e difficile 17 ,
tuttavia, non è particolarmente diversa dalla prova dell’esistenza di un
danno commerciale, risultante, ad esempio, dalla mancata esecuzione di un
contratto, oppure da un qualsiasi tipo di illecito: materie rispetto alle quali le
corti civili hanno una consolidata esperienza.
Pertanto, da un lato non sembrerebbe esistere un reale motivo per
alleggerire l’onere della prova con riferimento al danno antitrust e dall’altro
– qualora si perseguisse una tale soluzione – essa dovrebbe essere utilizzata
per un’ampia tipologia di danni commerciali.
Tuttavia, negli Stati Uniti, questo alleggerimento è già avvenuto e le Corti
graduano il burden of conviction alla fattispecie dannosa ed alla
disponibilità di informazioni da parte dell’attore.
Negli Stati Uniti, infatti, l’attore affronta un onere della prova decisamente
gravoso per dimostrare l’an, ossia per provare di avere il diritto di agire per
la ripetizione del danno, ma deve poi far fronte ad obblighi molto meno
stringenti nella dimostrazione del quantum del danno subito 18. Un approccio
di questo tipo riflette peraltro anche le notevoli difficoltà che potrebbe
incontrare una giuria popolare, sempre presente negli USA in questo tipo di
procedimenti, nel valutare il danno sulla base dell’evidenza,
necessariamente complessa e di natura tecnica, che ad essa viene presentata
dalle parti. D’altro lato, l’adozione di uno standard lenient per la prova della
dimensione del danno è ben lungi dal rendere accettabili quantificazioni
basate su una mera speculazione: le corti americane hanno infatti
consistentemente richiesto all’attore di stabilire quanto meno una base
ragionevole per la quantificazione del danno proposta, e riconoscono
sempre al convenuto la possibilità di mostrare che uno o più elementi del
petitum debbano essere eliminati o ridotti, perché privi di una base adeguata,
o implausibili.
Ad esempio, nel caso Story Parchment v Paterson Parchment Paper del
1931 19, la Corte affermava esplicitamente che dovevano essere distinti “the
measure of proof necessary to establish the fact that petitioner has sustained
17

Commissione Europea (2008a), par. 2.5.
Vi sono poi molte altre differenze, che qui non discutiamo, in particolare relative alla
facilità con cui l’attore, negli USA, può costringere il convenuto ad esibire suoi documenti
interni, anche aventi carattere riservato.
19
Story Parchment Co. v. Paterson Parchment Paper Co., 282 U.S. 555, S.Ct. (1931).
18

13
some damage and the measure of proof necessary to enable the jury to fix
the amount” 20. Pur evitando di ricadere in “mere speculation or guess”, la
Corte stabiliva che è sufficiente “to show the extent of the damages as a
matter of just and reasonable inference, although the results be only
approximate” 21.
Un approccio di questo tipo non è rinvenibile né nel Regno Unito – ove le
giurie popolari nei tribunali civili non esistono – né in alcun Paese di civil
law.

4.5

Componenti del danno antitrust

Le componenti del danno antitrust che occorre provare sono in generale
quattro:
a. danno emergente,
b. lucro cessante,
c. perdita di chance e
d. danno d’immagine
ed è necessario tener presente come non siano tutte sempre presenti, e come
le loro dimensioni possano essere estremamente diverse, a seconda dei
diversi elementi che caratterizzano ciascun caso.
Nei casi di cartello o di abusi per sfruttamento, l’acquirente patirà
certamente un danno emergente, pari alla differenza tra il prezzo
effettivamente pagato e il prezzo che avrebbe invece sostenuto in assenza di
illecito concorrenziale. Nel caso in cui l’acquirente utilizzasse il prodotto
oggetto di cartello come input della propria produzione, e ciò lo avesse
obbligato ad aumentare i propri prezzi, determinando una riduzione delle
vendite, allora potrà allegare anche un lucro cessante, costituito dai flussi di
cassa che non ha potuto conseguire.
Nei casi di abusi escludenti può generalmente essere individuato un danno
emergente, consistente nella vanificazione degli investimenti specifici
effettuati, nonché un lucro cessante rappresentato dalla perdita dei profitti
che l’azienda avrebbe ragionevolmente ottenuto attraverso la propria attività.
L’illecito escludente può inoltre provocare al concorrente una perdita di
chance, nel caso in cui il comportamento dell’impresa dominante gli abbia

20

“l’onere della prova necessario a stabilire che l’attore ha subito dei danni e l’onere
della prova necessario a consentire alla giuria di quantificare il danno”.
21
“dimostrare la portata dei danni secondo una corretta e ragionevole deduzione, benché
il risultato sia solo approssimato”.

14
impedito di acquisire titoli che gli avrebbero consentito in futuro di
espandere la propria produzione, o di aggredire nuovi mercati.
Nella giurisprudenza italiana, un danno da perdita di chance si verifica ogni
qual volta si ha una definitiva perdita della possibilità, concretamente
esistente, nel patrimonio del danneggiato, di conseguire ulteriori vantaggi
economici: si tratta quindi di un danno emergente e non di un lucro
cessante 22.
Infine, l’abuso può dare luogo ad un danno di immagine, nel caso
l'esclusione dal mercato abbia influenzato negativamente la reputazione
dell'impresa.

4.6

Mitigazione del danno nell’illecito antitrust

Come si è visto, vi sono due percorsi giuridici per tenere conto del principio
di mitigazione in sede di risarcimento del danno: quello americano 23, che lo
ritiene esplicitamente un obbligo, o quello europeo che identifica una
interruzione del nesso causale necessario in assenza dello svolgimento di
quelle attività sostitutive che la situazione del danneggiato renderebbe
ragionevoli.
La prospettiva economica, come discusso, è relativamente indifferente a
quale di tali orientamenti sia corretto, essendo volta unicamente ad

22

La perdita di chance “configura un danno attuale e risarcibile (consistente non in un
lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di possibilità attuale), a condizione
che il soggetto che agisce per il risarcimento ne provi, anche secondo un calcolo di
probabilità o per presunzioni, la sussistenza.” (Cass. 21 luglio 2003, n. 11322). E’ dunque
fondamentale ricordare come una chance non sia da intendersi come una mera aspettativa,
poiché il danneggiato è tenuto a provare “pur se solo in modo presuntivo o secondo un
calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il
raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno
risarcibile dev’essere conseguenza immediata e diretta”22. Il giudice deve quindi decidere
(considerando anche il livello di probabilità) sulla concreta possibilità che aveva la chance
di tramutarsi in realtà
23
Negli Stati Uniti, la nozione che “antitrust plaintiffs have an obligation to mitigate their
damages”, è del tutto consolidata, e vige come regola per la ripartizione del danno. Nel
complesso, la giurisprudenza USA è unanime nel ritenere che un imprenditore, che patisca
un abuso escludente, non abbia diritto ad un ristoro completo del danno, a meno che non
abbia cercato – da imprenditore, appunto – di intraprendere azioni concrete per cercare di
limitarlo. L’onere di provare che l’obbligo di mitigation non è stato assolto dall’attore è
naturalmente in capo al convenuto, mentre tocca al primo dimostrare che le azioni
intraprese siano state “ragionevoli”. I costi sopportati in queste azioni devono essere posti
in capo al convenuto, e gli utili portati in deduzione del danno; gli utili ottenuti utilizzando
risorse che non siano state rese libere dal comportamento abusivo non vanno viceversa
considerati.

15
identificare quale debba essere lo specifico contenuto di una condotta di
mitigazione.
Nella fattispecie del danno antitrust, si pensi al caso di un produttore di
trappole per topi che sia stato escluso dal Veneto, in seguito alla condotta
illegittima di un’impresa dominante in quella regione, e citi quest’ultima in
giudizio per il risarcimento del danno.
Il convenuto potrebbe argomentare che il lucro perduto in Veneto non
dovrebbe essere interamente risarcito, perché l’impresa danneggiata avrebbe
potuto utilizzare le sue risorse per entrare su un mercato non interessato
dall’abuso, quale ad esempio quello del Trentino.
Dal punto di vista economico, l’eventuale ingresso sul mercato del Trentino
potrebbe rappresentare una mitigazione del danno subito con l’esclusione
dal mercato del Veneto solo qualora:
•
•

le risorse impiegabili nell’attività alternativa siano quelle che sarebbero
state utilizzate nell’attività foreclosed: in altre parole, gli input devono
essere omogenei tra le due attività; ed inoltre:
l’attività alternativa abbia un livello di rischio comparabile a quello
dell’attività che non è possibile intraprendere. In caso contrario,
l’attività alternativa non potrebbe essere considerata come un
ragionevole sostituto dell’attività non effettuata, ed anche questo
violerebbe il principio di razionalità degli agenti economici.

Tornando all’esempio da cui siamo partiti, da una prospettiva economica
sarebbe dunque naturale attendersi che l’impresa esclusa dal Veneto andasse
a vendere le sue trappole in Trentino, e pertanto che il danno fosse posto
pari al lucro cessante derivante dall’illecita esclusione dal ricco mercato del
Veneto, diminuito del profitto conseguito nel montuoso Trentino.
Non rappresenterebbero per contro ipotesi accettabili di mitigazione né
l’ingresso dell’impresa esclusa nel mercato della produzione di bevande
(che richiederebbero risorse e input diversi da quelli per le trappole per topi),
né l’ingresso dell’impresa nel mercato delle trappole per topi
dell’Afghanistan (regione che presenta profili di rischio molto diversi da
quelli del Veneto).

4.7
La logica economica
quantificazione del danno

e

la

logica

giuridica

nella

La valutazione sia del danno emergente derivante agli acquirenti diretti da
un’intesa abusiva, sia del lucro cessante patito dalla vittima di un abuso
escludente, presenta interessanti aspetti economici.

16
In questi casi, infatti, il principio giuridico della determinazione del danno
secondo una logica compensativa è attuato mediante la logica economica
dell’approccio di tipo differenziale, che calcola il danno confrontando la
situazione in cui l’attore si sarebbe trovato qualora non avesse avuto luogo
alcuna condotta illecita (scenario ipotetico o but- for scenario) con quella in
cui l’attore si è effettivamente venuto a trovare (scenario reale o actual): i
due scenari differiscono perciò solo per gli effetti derivanti dalla violazione
della normativa sulla concorrenza 24.
Per quanto riguarda la perdita patita dalla vittima di un abuso escludente,
questa è concettualmente analoga a quella subita da chi si veda sottratto
prima dell’estrazione il biglietto di una lotteria, che a fronte di un costo (del
biglietto, o degli investimenti irrecuperabili effettuati per sviluppare il
business) offre una certa probabilità di ottenere una somma di denaro (il
premio della lotteria, o il valore attuale dei flussi di profitto attesi).
Ipotizziamo dunque che all’attore sia stato sottratto un biglietto da 10 euro
di una lotteria con un unico montepremi di 20.000 euro, di cui sono stati
venduti 1.000 biglietti. In questo caso il danno potrebbe essere costituito:
a. dal prezzo del biglietto, cioè € 10, che costituisce il danno
emergente: in questo caso il danneggiato, ottiene il solo rimborso
dell’investimento;
b. dal valore atteso del biglietto, calcolabile, moltiplicando il premio
(€ 20.000) per la probabilità di vincita (una su 1000, e quindi
0,001), e dunque pari a € 20. In questo modo, il danneggiato ottiene
il rimborso del lucro cessante, sotto forma di rendimento atteso ex
ante, da sommare al rimborso dell’investimento, per un
risarcimento totale di € 30;
c. dal valore effettivo della vincita ottenuta dal biglietto dopo
l’estrazione e quindi, a seconda dei casi, posto pari a zero oppure a
€ 20.000, ovvero gli unici due valori che potrà assumere, dopo
l’estrazione, il lucro cessante. In questo caso il danneggiato ottiene
il rimborso del rendimento effettivo ex post, anche in questo caso
da sommare al rimborso dell’investimento, per un risarcimento pari
a € 10, o ad € 20.010.
In conclusione, da un punto di vista di formale costruzione dello scenario
but for, la perdita patita dalla vittima di un abuso escludente è compresa in
un intervallo che ha come valore minimo il danno emergente rappresentato
dai soli investimenti irrecuperabili vanificati, e come valore massimo tale
24

Si veda, ex multis, Cass. 15 ottobre 1999, n. 11629: “il danno risarcibile [coincide] con
la perdita e il mancato guadagno conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento,
delimitati in base al giudizio ipotetico sulla differenza tra situazione dannosa e situazione
quale sarebbe stata se il fatto dannoso non si fosse verificato”.

17
danno emergente aumentato del lucro cessante effettivamente subito a causa
dell’illecito.
Tuttavia, da un punto di vista economico, la seconda soluzione, che somma
una voce di lucro cessante ad una di danno emergente, appare l’unica
ragionevole. In questo modo, infatti, il danneggiato viene collocato
nuovamente nello stato, incerto, nel quale si trovava prima del
comportamento dannoso. Il rimborso, sia dell’investimento irrecuperabile
(danno emergente), sia del reddito atteso (lucro cessante), è dunque l’unico
criterio corretto 25.
La prima soluzione equivale invece al solo rimborso del costo affondato
(sunk cost), e sarebbe ragionevole solo nel caso in cui si potesse escludere
che il biglietto sottratto sia quello vincente.
La terza soluzione sarebbe attuabile solo nel caso in cui l’estrazione fosse
già avvenuta; ciò è possibile per il biglietto della lotteria, ma è senz’altro
impossibile per il danno da abuso escludente. In ogni caso, questa soluzione
non riporta il danneggiato nello stato di incertezza quo ante, ma in uno dei
due stati che erano teoricamente possibili (non vincere o vincere) quando
ebbe luogo l’evento dannoso.

5. Danni da abuso per sfruttamento
In questo paragrafo ci occuperemo dei danni derivanti dagli abusi per
sfruttamento, i quali, come si ricorderà, provocano in generale:
a. un danno sociale al benessere collettivo, derivante dalla mancata
soddisfazione sul mercato della domanda di quei consumatori che
avrebbero voluto comprare, pagandola un prezzo ben superiore al
costo di produzione, ma la cui domanda è invece frustrata dalla
decisione del cartello di ridurre l’offerta
b. un danno privato agli acquirenti del bene, che coincide con gli
extra-profitti che i partecipanti al cartello conseguono sulle proprie
vendite;

25

Questa seconda soluzione deve essere applicata in modo logicamente consistente, anche
quando si siano verificati, tra il momento in cui ha avuto luogo il danno e quello in cui
avviene la lite, eventi che nulla hanno a che fare con le attività del convenuto o dell’attore,
come un terremoto. Se, ad esempio, l’abuso escludente avesse impedito l’apertura di un
supermercato, determinando un lucro cessante atteso pari a 100, ma in seguito l’area fosse
stata devastata da un terremoto, che avrebbe certamente distrutto il supermercato, qualora il
danno liquidato fosse inferiore a 100 si violerebbe il principio giuridico del ristoro allo stato
quo ante, valutando il danno alla luce del rendimento che, ex post, è risultato effettivo, e
non del rendimento atteso ex ante.

18
Sotto il profilo del danno questa evidenza mette in luce come il danno
privato, provocato dal sovrapprezzo pagato, possa essere facilmente provato
in fase di giudizio: il consumatore, infatti, dovrà solo dimostrare di aver
acquistato una determinata quantità del bene sostenendo l’overcharge. Il
danno patito da coloro che non hanno acquistato il prodotto non è invece
dimostrabile in alcun modo: questi soggetti, perciò non avranno diritto ad
alcun risarcimento.
Il primo onere della prova che i consumatori che hanno sopportato il
sovrapprezzo si troveranno a dover affrontare, come già ricordato, è quello
dell’esistenza della condotta illecita. Da questo punto di vista, l’azione potrà
essere stand-alone oppure follow-on.
Come già avevamo potuto concludere, però, un’azione follow-on non
presenta un onere della prova necessariamente inferiore a quello di
un’azione stand alone. Come noto, infatti, l’art. 81 del Trattato CE stabilisce
che “Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra
imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche
concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che
abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco
della concorrenza”.
Le autorità antitrust – quanto meno in un’ottica di allocazione efficiente
delle risorse – sono dunque indotte a perseguire la modalità meno onerosa
per dimostrare l’esistenza di pratiche concordate, tendendo perciò
generalmente a sanzionare le pratiche concordate aventi un oggetto e non
necessariamente un effetto anticoncorrenziale.
Ad esempio, uno scambio di informazioni potrebbe aver avuto come oggetto
la stabilizzazione delle quote di mercato, senza aver in alcun modo
influenzato i prezzi. Oppure, ancora, anche se le informazioni scambiate
avessero riguardato proprio le strategie di pricing dei membri dell’intesa,
l’accordo potrebbe non aver avuto in realtà alcuna conseguenza, data
l’instabilità connaturata ai cartelli stessi.
In generale, quindi, se per comminare una sanzione per intesa distorsiva è
certamente sufficiente per un’autorità antitrust verificare l’esistenza di un
oggetto distorsivo, perché tanto basta per presumere l’intenzione di
distorcere il meccanismo concorrenziale, solo per questo procurando un
danno alla collettività, in sede civile è indispensabile che venga accertato
che l’intesa abbia oggettivamente esplicato un effetto distorsivo nei
confronti dell’attore, concretamente misurabile con riferimento ai prezzi ad
esso effettivamente praticati da un partecipante all’intesa: senza la prova di
un tale effetto, non c’è prova dell’esistenza di un danno privato.
Né pare peraltro ipotizzabile che questa funzione probatoria possa essere
ritenuta assolta da quelle brevi frasi, ormai di frequente presenti nei

19
Provvedimenti delle autorità nazionali e della Commissione, che si limitano
ad affermare che l’intesa ha avuto un effetto distorsivo: in assenza di analisi
dettagliate, questa è essenzialmente un’affermazione di carattere generale,
che nulla specificamente dimostra nel caso concreto, e che non si può
ritenere assolvere il necessario onere di provare il nesso causale tra
comportamento illecito e danno.
Ad eccezione dei casi nei quali un’autorità per la concorrenza abbia
concretamente accertato, in base ad un’analisi quantitativa, di cui essa dia
traccia adeguata nel provvedimento, l’esistenza di effetti distorsivi,
dobbiamo quindi concludere che – dal punto di vista pratico – non sembra vi
sia una differenza sostanziale quanto ad onere della prova in capo all’attore
tra azioni follow-on ed azioni stand-alone: in ambedue i casi, pare
inevitabile che sia l’an che il quantum del danno privato debbano essere
provati nel giudizio civile.
Dunque, un provvedimento antitrust, generalmente, non costituisce
prova sufficiente dell’esistenza di un danno in capo ad uno specifico
soggetto economico.
In sede civile, invece, è indispensabile che venga accertato che l’intesa
abbia oggettivamente esplicato un effetto distorsivo nei confronti dell’attore,
concretamente misurabile con riferimento ai prezzi ad esso effettivamente
praticati da un’impresa partecipante all’intesa: senza la prova di un tale
effetto, non sembra possa esservi danno privato.
L'esistenza di una pratica concordata quindi fornisce una condizione
necessaria, ma non una condizione sufficiente, perché si possa verificare
concretamente un aumento del prezzo sul mercato rilevante, e,
conseguentemente, un danno in capo agli acquirenti.
Tale conclusione è poi del tutto evidente anche alla luce della
giurisprudenza europea.
In Francia, nel caso Juva v. Hoffmann-La Roche, un Tribunale rifiutava il
risarcimento dei danni ad un’impresa (Juva) che acquistava alcune vitamine
da un’impresa (Hoffmann La Roche) sanzionata dalla Commissione per la
creazione di un cartello proprio su tali prodotti 26.
In primo luogo, il Tribunale evidenzia come “la decisione della
Commissione… non precisa[sse] in modo specifico, per prodotti e per anni,
le azioni illecite intraprese…, né fornisce indicazioni precise sul valore
eccessivo del prezzo di un dato prodotto in rapporto al livello che il prezzo
avrebbe dovuto assumere” 27 . La Corte sottolinea però come la
26

Decisione del 21 novembre 2001, caso n. COMP/E-1/37-512, in G.U.C.E. (2003), L6/1.
Laboratoires Juva v. Hoffman La Roche, Tribunal de Commerce de Paris, 26 gennaio
2007 n. RG 2003/04804. “La décision de la Commission… ne précise pas de manière

27

20
Commissione – rifiutando la tesi della convenuta, secondo cui gli aumenti di
prezzi erano stati determinati da cause diverse dal cartello – abbia stabilito
“d’une manière ou d’une autre” che Hoffmann La Roche si era resa
colpevole di un aumento anormale dei prezzi.
In ogni caso, però, il Tribunale conclude rifiutando le richieste dell’attore
asserendo che Juva non ha dimostrato di aver effettivamente pagato dei
prezzi maggiori per le vitamine in questione.
Pertanto, l’esistenza di una sanzione a carico del convenuto per intesa
avente oggetto restrittivo della concorrenza non fornisce – da sola –
prova sufficiente che questo abbia effettivamente alzato i prezzi nei
confronti di un particolare fornitore.
In Italia, la Cassazione si è espressa in modo ancora più chiaro nel caso
Fondiaria, in cui un assicurato per RC Auto della Fondiaria Assicurazioni
chiedeva la ripetizione del danno subito a seguito del noto cartello che
aveva coinvolto le maggiori imprese assicurative italiane 28.
La Corte afferma infatti che “il giudice potrà desumere l’esistenza del nesso
causale … anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite
di presunzioni, senza però omettere di valutare gli elementi di prova offerti
dall’assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare
l’intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a
produrre il danno, o che abbiano, comunque, concorso a produrlo.” 29 ,
aggiungendo poi che la sentenza nell’ambito dell’azione civile non può
adagiarsi “esclusivamente ed acriticamente sul mero contenuto del
provvedimento amministrativo, quasi ad avallare l'aberrante tesi che il
danno sia in re ipsa. Tesi tanto più insostenibile se si tiene conto del fatto
che il provvedimento antitrust in questione (e le pronunzie dei giudici
amministrativi che lo hanno confermato) si limita all'accertamento
dell'illiceità dello scambio di informazioni, ponendo in termini di mera
potenzialità l'alterazione del gioco concorrenziale e, dunque, l'aumento dei
prezzi praticati al consumatore finale.”.

6. Il passing-on
Il fenomeno del passing-on consiste nella traslazione allo stadio successivo
della filiera produttiva del sovrapprezzo patito: chi acquista il prodotto di un
cartello (il latte, per fare un esempio), se non ne è il consumatore finale, lo
spécifique par produits et par année les actions illicites entreprises..ne définit pas pour un
produit donné un prix de référence et ne donné par rapport à ce que prix aurait dû être”
28
Provvedimento I377 del 28 luglio 2000.
29
Cassazione, Sezione III civile, Sentenza 2 febbraio 2007, n. 2305, par. 4.1. Per una
discussione, si vedano – tra gli altri – Pardolesi (2007).

21
utilizzerà come input per la realizzazione di un altro prodotto (il burro, ad
esempio). L’acquirente diretto del cartello cercherà ragionevolmente di
traslare (pass on) almeno una parte della overcharge patita, e quindi del
danno, al consumatore di burro, che è naturalmente un acquirente indiretto
del cartello del latte.
Dal punto di vista economico, la traslazione si verifica sempre, tranne nel
caso – davvero raro - in cui i consumatori fossero pronti a cambiare
immediatamente le proprie abitudini di consumo: sostituendo il burro, ad
esempio, con la margarina. In questo caso, si parla di elasticità infinita
della domanda e i produttori di burro sarebbero pronti a sopportare
integralmente il sovrapprezzo.
Il caso opposto si verifica quando la domanda è totalmente rigida e
dunque i consumatori non sono disposti a modificare in alcun modo i propri
consumi. In altre parole, neppure a fronte di aumenti significativi del prezzo
del burro, i consumatori sarebbero disposti a sostituirlo con un altro
prodotto. In questo caso i produttori di burro non avranno alcun interesse ad
assorbire parte dell’overcharge, che dunque sarà integralmente traslata a
valle, sui consumatori.
Si tratta però di due casi estremi, che difficilmente si verificano nella realtà:
in generale, infatti, una overcharge viene ripartita tra acquirenti diretti ed
acquirenti indiretti, che potrebbero essere costituiti da una lunga catena: la
quale, nel nostro esempio, sarebbe costituita dalle aziende alimentari che
utilizzano come input il burro, da mense, alberghi e ristoranti che acquistano
i prodotti dalle aziende alimentari, e così via.
Sotto il profilo giuridico, la questione del passing on è di fondamentale
importanza per due ordini di motivi, in primo luogo per comprendere quali
siano i soggetti legittimati ad agire, e, in particolare, se tra questi sono
compresi anche gli acquirenti indiretti; in secondo luogo, per definire quale
sia il soggetto tenuto a liquidare il risarcimento, potrebbe infatti trattarsi sia
del membro del cartello sia dell’acquirente diretto.
Le soluzioni potrebbero essere diverse, ciascuna con implicazioni di diversa
natura:
a. potrebbero essere legittimati ad agire tutti gli acquirenti indiretti,
ma ciò darebbe luogo ad una vera e propria moltiplicazione del
danno (offensive passing on) 30,
b. potrebbe essere consentito al membro del cartello, invocando una
passing on defense 31, di evitare le richieste dei propri acquirenti
diretti,
30
31

In questo caso il passing-on è utilizzato come spada.
In questo caso il passing-on è utilizzato come scudo.

22
c. potrebbero essere riconosciuti come legittimati attivi i soli
acquirenti diretti, con il rischio però che gli acquirenti indiretti pur
avendo patito il danno non siano in alcun modo legittimati a
chiederne il risarcimento.
Alla luce di questa discussione, passiamo ora ad analizzare come la
questione del passing on è stata affrontata a livello giurisprudenziale.
Negli Stati Uniti, la Corte Suprema ha deciso di non consentire l’uso
difensivo né quello offensivo del passing-on. Nella sentenza Hanover
Shoe 32, del 1968, infatti, la Corte Suprema ha stabilito il principio che chi
causa un danno antitrust non può avvalersi della passing on defense, ossia
evitare di risarcire i danni provocati sostenendo che l’acquirente diretto non
è stato danneggiato poiché ha traslato il sovrapprezzo sugli acquirenti
indiretti. Nella sentenza Illinois Brick 33 (1977), la Corte ha poi negato agli
acquirenti indiretti la legittimazione ad agire.
Pertanto, a livello federale, solo l’acquirente diretto è legittimato ad agire,
anche nel caso in cui avesse traslato integralmente sui propri clienti il
sovrapprezzo. Mentre gli acquirenti indiretti del cartello, anche se avessero
in tutto o in parte subito un danno non potrebbero richiedere alcun
risarcimento.
Questa decisione, davvero piuttosto drastica, evidenzia come a livello
federale, l’obiettivo principale sia la punizione dell’impresa che ha violato
la normativa (e dunque la deterrenza) – piuttosto che il ristoro del danno. La
Corte Suprema americana ha scelto esplicitamente di privilegiare l’obiettivo
di obbligare l’infringer a pagare, rispetto a quello di far percepire
l’indennizzo a chi è stato concretamente danneggiato. D’altra parte, per una
fisiologica reazione ad una scelta normativa così drastica, l’eliminazione di
ogni tutela civilistica nei confronti degli acquirenti indiretti a livello federale
è stata temperata dall’azione di molteplici Stati dell’Unione, che hanno
approvato normative collettivamente note come “Illinois Brick repealers”,
che invece riconoscono legittimazione ad agire agli acquirenti indiretti: in
pratica, ormai, gli acquirenti diretti avviano azioni presso le corti federali, e
quelli indiretti presso le corti statali.
In Francia, due Tribunali hanno affrontato la questione del passing-on
nell’ambito di due azioni civili avviate a seguito della condanna del cartello
Vitamine.
Nel già citato caso Juva/Hoffman La Roche 34 il Tribunal de Commerce di
Parigi non ha riconosciuto alcun danno ad un acquirente diretto. Secondo il
32

Hanover Shoe, Inc v. United Shoe machinery Corp., 392 U.S. 481 (1968).
Illinois Brick Co. v. Illinois, 431 U.S. 720 (1977).
34
Laboratoires Juva v. Hoffman La Roche, Tribunal de Commerce de Paris, 26 gennaio
2007 n. RG 2003/04804. Per una sintesi, si veda Kleiman-Szekely (2007).
33

23
Tribunale, infatti, Juva non dimostrava rigorosamente l’esistenza
dell’incremento di prezzo ed inoltre riteneva che l’azienda avrebbe potuto
incrementare a propria volta i prezzi di vendita senza alcun timore. Infatti, le
vitamine utilizzate nelle sue produzioni erano in quantità molto ridotta e se
Juva avesse proporzionalmente traslato il loro incremento di prezzo nei
propri listini non avrebbe patito alcuna riduzione né dei margini né delle
quantità vendute.
La Corte notava poi un’ulteriore incongruenza: nel periodo di vigenza del
cartello, i prezzi di vendita di Juva subivano un incremento nettamente
superiore rispetto a quello registrato dal prezzo delle vitamine, senza che ciò
influisse negativamente sui volumi venduti che – al contrario – erano
cresciuti sensibilmente.
La Corte dunque non ha riconosciuto a Juva alcuna forma di risarcimento,
poiché non aveva provato la perdita di profitti che lamentava, in particolare,
non era stata in grado di provare di non aver effettivamente trasferito sui
propri clienti l’overcharge sui prezzi delle materie prime.
Nell’analogo caso Arkopharma, il Tribunal de Commerce di Nanterre 35 ha
negato a sua volta il risarcimento del danno.
Secondo la Corte, infatti, Arkopharma aveva la possibilità di trasferire
l’overcharge allo stadio successivo del mercato, aumentando a propria volta
i prezzi di vendita. Tale possibilità era garantita dall’efficienza del cartello,
che coinvolgeva i maggiori fornitori e non discriminava tra i numerosi
acquirenti diretti, i quali erano perciò liberi di modificare i propri listini
“sans craindre la concurrences puisque les conditions du marché sont
indentiques pour toutes” 36 . La Corte precisava poi che la decisione di
Arkopharma di non incrementare i propri prezzi era estranea al
comportamento di Roche e dipendeva esclusivamente da precise scelte di
politica tariffaria dell’attrice 37.
In Italia, a oggi, la questione del passing on è stata valutata in due
precedenti.
Nel primo, la Corte d’Appello di Torino ha accolto una difesa fondata su
questo principio nel caso Indaba c. Juventus FC SpA del 2000.

35

Tribunal de Commerce de Nanterre 11 maggio 2006, Arkopharma v. Roche and
Hoffmann La Roche n. RG 2004F02643. Per una sintesi si veda Debroux (2006) .
36
“senza temere la concorrenza poiché le condizioni di mercato erano le medesime per
tutti“, pag. 14.
37
“Qu’en ne l’ayant pas fait ainsi qu’elle le soutient alors qu’elle le pouvait, ses prix ayant
du reste subi une majoration dans quelques cas précis et sans relation avec les ententes
Arkopharma a librement arrêté sa politique tarifaire sans que la responsabilité des
défenderesses puisse être engagée”, pag. 15.

24
La Indaba S.r.l. - attiva nel settore del turismo e specializzata nel segmento
degli eventi sportivi - conveniva in giudizio la Juventus F.C. lamentando di
essere stata vittima di un abuso di posizione dominante, esercitato da
quest’ultima sul mercato della vendita dei biglietti per la partita di
Champions League del 28 maggio 1997 a Monaco di Baviera. Su tale
mercato, la Juventus F.C. era monopolista, poiché disponeva di tutti i
biglietti per l’incontro destinati al pubblico italiano, il suo comportamento
configurava un abuso di tale potere, poiché aveva obbligato Indaba a
partecipare ad una intesa illecita attuata “mediante l’imposizione di un
altissimo prezzo sul biglietto di ingresso allo stadio e di prestazioni
supplementari”, impedendo in questo modo “l’accesso al mercato di buona
parte dei tifosi-consumatori che non potevano permettersi il pagamento di
un costo così elevato e imponendo [loro] la conclusione di contratti
includenti prestazioni obbligatorie, il tutto attraverso il soggetto debole
costituito da [Indaba], costretto a subire una pressione monopolistica”.
Come prevedibile, l’esito della campagna di vendita dei biglietti si rivelò un
assoluto fallimento e la Indaba avanzava di conseguenza le proprie pretese
risarcitorie nei confronti della Juventus F.C.
In primo luogo, la Corte riconosceva la legittimazione ad agire per la
ripetizione del danno antitrust non solo ai terzi estranei all’intesa, ma anche
ai suoi partecipanti “in posizione economica equiordinata o subordinata”.
Ciò nonostante, la Corte escludeva che tale diritto potesse essere
riconosciuto ad Indaba, poiché aveva partecipato consapevolmente all’intesa
“nella prospettiva.. di una traslazione del danno, secondo il metodo del
passing-on”, veniva quindi sancito che “è privo di legittimazione attiva
sostanziale il soggetto che abbia concorso a traslare il danno a terzi, e così
ai consumatori finali”.
Viceversa, la Corte ribadiva che“legittimato attivo…è il soggetto che abbia
concretamente subito un danno”, ma Indaba non apparteneva neppure a tale
categoria di soggetti, poiché si trovava nella posizione di “acquirente
intermedio e.. traslatore integrale del danno, atteso che i maggiori costi
furono trasferiti sugli acquirenti finali”. La Corte sottolineava infatti che ”i
danneggiati.. [da] parte convenuta furono gli operatori economiciconsumatori, i quali dovettero subire l’imposizione di acquisto di un
prodotto non voluto o addirittura sgradito, al fine di poter ottenere il
prodotto primario desiderato” concludendo perciò che “a costoro
spetterebbe il risarcimento del danno per l’esborso non voluto”.
La corte sembra quindi assumere che vi sia stata traslazione totale
dell’overcharge, probabilmente dando per scontato che la domanda per i
biglietti di una partita della Juventus fosse perfettamente rigida rispetto al
prezzo, e negando così la legittimazione attiva all’acquirente indiretto.

25
Nel secondo caso, Unimare c. Gesar 38 , l’attore lamentava un abuso di
posizione dominante da parte di Gesar consistente nell’applicazione di
tariffe eccessivamente gravose per l’utilizzo delle strutture aeroportuali
necessarie a svolgere la propria attività di handling in favore del U.S. Naval
Support Office. La Corte d’Appello stabiliva l’insussistenza dell’abuso, in
quanto l’aumento delle tariffe era stato imposto tramite decreto del
Ministero delle Finanze, e rilevava che comunque non vi sarebbe stato
danno, in quanto “gli aumenti dei costi di gestione sono andati a gravare
unicamente sull’ente statunitense, che, come è pacifico in causa,
provvedeva al rimborso delle spese vive sopportate dalla sua
intermediatrice.” . Dunque, il vero danneggiato dai presunti prezzi eccessivi
era stato il NSO, in quanto l’aumento nelle tariffe non aveva discriminato
Unimare, e ad esso il NSO non aveva modo di sottrarsi rivolgendosi ad altro
fornitore: il danno era stato quindi traslato pienamente a valle.
Queste sentenze, francesi ed italiane, mettono in luce come, secondo le corti,
il risarcimento possa essere riconosciuto solo a quegli acquirenti diretti in
grado di dimostrare di non aver traslato a valle il sovrapprezzo pagato. In
assenza di questa prova, è possibile ipotizzare che la traslazione del prezzo
sia stata integrale: in altre parole le Corti suppongono che la domanda sia
completamente rigida.
Questa ipotesi, però, come già sottolineato, è molto rara in un contesto reale,
e le Corti avrebbero dovuto cercare di sostanziarla in modo efficace.
La Commissione in merito al passing-on propone da un lato che spetti al
convenuto – che utilizza la passing-on defense - dimostrare che i suoi clienti
hanno traslato a valle l'incremento dei prezzi patito. E dall’altro che –
quando il passing-on sia utilizzato come spada – sussista una presunzione
refutabile, in favore degli acquirenti indiretti, che la traslazione abbia
effettivamente avuto luogo, e sia stata integrale.
Se la prima indicazione sembra essere pienamente condivisibile: è giusto,
infatti, che chi invoca determinati fatti a propria difesa sia in grado di
dimostrarli adeguatamente; la seconda sembra maggiormente controversa.
Infatti, pur trattandosi di una previsione certamente utile per evitare che il
membro di un cartello non risarcisca alcun danno, essendo stato in grado di
provare che i suoi acquirenti diretti hanno passato l'aumento nei prezzi verso
valle, e se per qualche motivo vi è una bassa probabilità che gli acquirenti
indiretti lo citino in giudizio; la combinazione di questa previsione con la
prima parte della proposta può generare difficoltà notevoli: quando la
traslazione è usata sia come scudo che come spada, in assenza di regole
procedurali che assicurino che i due casi vengano riuniti, anche se si trovano
innanzi a corti aventi diversa giurisdizione (ad esempio territoriale), la
38

App. Cagliari, Unimare c. Geasar, 23 gennaio 1999.

26
probabilità di decisioni inconsistenti, a favore o in danno del convenuto, è
molto elevata.
In conclusione, sembra più ragionevole riconoscere che la traslazione possa
sempre esistere, poiché consiste nel comportamento razionale di un’impresa
che cerca in questo modo di mitigare il danno che subisce, ma l’onere della
prova della sua esistenza e della sua misura dovrebbe gravare sul soggetto
che intende avvalersene per sua difesa.

7. Danni da abusi escludenti
La seconda tipologia di danno antitrust deriva da comportamenti
illegittimamente escludenti da parte di un’impresa dominante, che – invece
di ricorrere ad una competition on the merits – utilizza strumenti per
escludere i concorrenti dal mercato, o per impedirne l’ingresso
Prima di analizzare le tipologie di danno privato che tali comportamenti
possono ingenerare, è però indispensabile sottolineare le notevoli differenze
tra la valutazione delle conseguenze dannose a livello sociale dei
comportamenti sanzionabili ai sensi dell’art. 81 e di quelli sanzionabili ai
sensi dell’art. 82.
Il secondo problema derivante dalla prova e valutazione del danno da abuso
escludente deriva dalla difficoltà di provare l’effettiva esistenza di un danno
risarcibile. Infatti, se l’illegittima esclusione di un concorrente da parte di
un’impresa dominante può generare un danno sociale, nella misura in cui
essa si traduce in una restrizione della concorrenza, non è detto che tale
pratica abusiva generi sempre e comunque anche un danno al concorrente
escluso.
7.1 Criteri incerti per il danno sociale
Il danno sociale nei casi di comportamento illegittimamente escludente
deriva dal fatto che alla collettività viene negata la possibilità di avere più
concorrenza tra fornitori, e dunque presumibilmente di godere di prezzi più
bassi e/o qualità più alta rispetto a quanto offerto dall’impresa dominante 39.
Mentre però, nelle intese, l’analisi economica e giuridica dei cartelli lascia
pochi dubbi circa le loro conseguenze assolutamente dannose sul benessere
dei consumatori, perché essi sono ricchi di effetti negativi, non compensati

39

Inoltre, la collettività non beneficerà degli investimenti che sarebbero stati realizzati dal
concorrente. Ciò si traduce però in un danno sociale solo se i nuovi investimenti del
concorrente non avrebbero semplicemente sostituito investimenti già programmati
dall’impresa dominante.

27
in genere da alcun tipo di effetti di efficienza, lo stesso non si può dire per
quanto riguarda i comportamenti unilaterali.
Le difficoltà nell’analisi di questi comportamenti dipendono da vari aspetti:
•

la nostra comprensione, dal punto di vista legale ed
economico dei molteplici tipi di comportamento che
vengono raggruppati sotto l'etichetta "condotte abusive" si
sta sviluppando solo lentamente, in quanto la maggior parte
di essi risulta da giochi strategici, (nel senso tecnico del
termine), nei quali ogni specifica mossa dell'impresa
dominante e dei suoi concorrenti dipende da una molteplicità
di fattori empirici, che sono del tutto specifici alla situazione
in cui essa può essere adottata; in questi casi è quindi
improbabile che si riescano ad elaborare astrattamente regole
per se, ed infatti quelle che erano state adottate in passato,
soprattutto gli Stati Uniti, sono state via via abbandonate;

•

i numerosi fattori empirici determinano d'altro lato anche gli
effetti di queste mosse sui concorrenti, sugli acquirenti, e
pertanto sul benessere: il medesimo comportamento può, a
seconda dei casi, generare effetti negativi, nulli, o positivi;

•

una condotta, poi, che potrebbe essere abusiva, in realtà può
non esserlo se crea efficienze tali da compensarne l'impatto
negativo sul benessere dei consumatori. Una tale difesa può
esser invocata in diversi casi, come ad esempio con
riferimento agli sconti fidelizzanti (argomentando che questi
sono indispensabili per ottenere economie di scala e
passarne benefici ai consumatori), o alle vendite abbinate
(argomentando che queste riducono i costi di produzione,
distribuzione o transazione) ed in altri casi ancora;

•

da ultimo, non certo per importanza, non esiste un consenso
sufficiente, né tra gli economisti, né tra i giuristi, circa il
criterio generale da utilizzare per decidere se un dato
comportamento unilaterale debba considerarsi o meno
legittimo 40.

La complessità di questi problemi può generare decisioni divergenti in casi
assai simili. Un esempio evidente è il diverso atteggiamento, negli Stati
Uniti e nell’Unione Europea, riguardo a riduzioni di prezzo praticate da
un’impresa dominante: dopo la decisione della Corte Suprema nel caso

40

Si veda l’interessante discussione in AMC (2007), capitolo Ic; per una discussione più
generale si veda Evans e Padilla (2004).

28
Matsushita Electric 41 , negli USA non solo i prezzi predatori sono
considerati una fattispecie poco probabile, ma più in generale le riduzioni
dei prezzi di un’impresa dominante vengono considerate prima facie come
lecite, perché "tagliare i prezzi per aumentare le vendite è l'essenza stessa
della concorrenza” 42. La percezione europea del carattere di tali strategie è
però ben diversa: ad esempio, per i prezzi predatori, non è ritenuta
necessaria neppure la prova che l’impresa che abbia abbassato i prezzi abbia
una ragionevole attesa di recuperare, almeno, i profitti cui così ha
rinunciato 43.
Senza ulteriormente approfondire questo punto, dato che il nostro interesse
prevalente in questa sede riguarda il danno privato, è sufficiente concludere
che gli effetti sul benessere dei comportamenti unilaterali sono spesso molto
difficili da valutare. Come vedremo immediatamente, è dunque ancora più
vero in questo caso il principio, riassunto dalla Cassazione nella sentenza
Fondiaria sopra richiamata, secondo il quale il danno non può mai essere
ritenuto sussistere in re ipsa.
7.2 Danno privato
Vi sono due problemi fondamentali sotto il profilo della causazione del
danno privato derivante da comportamenti unilaterali:
• un comportamento abusivamente escludente non necessariamente
esclude tutti i concorrenti dell'impresa dominante;
• in un procedimento di questo tipo non troviamo schierati contro
l’infringer dei consumatori, ma dei suoi concorrenti, che hanno
dunque un incentivo razionale ad utilizzare le normative sulla
concorrenza – secondo la felice formulazione di Baumol – to subvert
competition 44, lamentando che qualsiasi loro difficoltà discende da
un comportamento abusivo dell’impresa dominante, al fine di
ottenere qualche partita compensativa nel quadro di una transazione,
o la liquidazione di un danno mai effettivamente patito.
Vediamo questi aspetti.

41

Matsushita Electric v. Zenith Radio. 475 US 574 106 S. Ct. 1348 89 l. Ed 2d 538 26
march 2006.
42
Ibidem, par. IV B. “But cutting prices in order to increase business often is the very
essence of competition”.
43
Sentenza CGCE 14 novembre 1996, Tetra Pak International SA contro Commissione
delle Comunità Europee, par. 44. “Furthermore, it would not be appropriate, in the
circumstances of the present case, to require in addition proof that Tetra Pak had a
realistic chance of recouping its losses.”
44
Baumol (1985).

29
Le imprese investono tempo e risorse notevoli cercando di escludere i propri
rivali dal mercato, riducendo i prezzi, introducendo innovazioni di prodotto,
e utilizzando molti altri strumenti aggressivi che si configurano come
competition on the merits. Ciò vale anche per le imprese dominanti, alcuni
comportamenti delle quali potranno avere un carattere abusivo, mentre altri
potranno rientrare in quei “mezzi su cui si impernia la normale concorrenza
tra operatori economici” 45 , che sono pienamente consentiti anche a tali
imprese.
Naturalmente, i consumatori hanno un preciso interesse a che le imprese si
comportino in modo vigorosamente aggressivo, ed è questo il motivo
economico sostanziale, perché è necessario ritenere, come ha sancito il
Tribunale di Primo Grado nel caso Michelin, che “l'esistenza di una
posizione dominante non priv[a] un'impresa che si trovi in questa posizione
del diritto di tutelare i propri interessi commerciali, qualora questi siano
insidiati, e la detta impresa abbia la facoltà, entro limiti ragionevoli, di
compiere gli atti che essa ritenga opportuni per la protezione di tali
interessi, non è però ammissibile un comportamento del genere che abbia lo
scopo di rafforzare la posizione dominante e di farne abuso“ 46.
In molti casi, può quindi essere difficile isolare il danno ai concorrenti
generato da un comportamento legittimo dell’impresa dominante
(danneggiare il concorrente è infatti l’essenza stessa del meccanismo
competitivo), da quello generato da un comportamento illegittimo sotto il
profilo concorrenziale.
Da questo punto di vista, è importante sottolineare come l’individuazione di
un concreto effetto escludente non è peraltro neppure necessaria ai fini
dell’accertamento di un abuso di posizione dominante. Infatti, “Al fine di
accertare una violazione dell'art. 82 CE, è sufficiente attestare che il
comportamento abusivo dell'impresa in posizione dominante mira a
restringere a concorrenza o, in altri termini, che il comportamento è tale da
avere o può avere un simile effetto” 47 : dunque, “non è necessario
dimostrare che l'abuso di cui trattasi abbia prodotto un effetto concreto sui
mercati interessati “ 48.
In secondo luogo una condotta abusiva può recare danno ad alcuni
concorrenti, ma non ad altri.
Ad esempio, abusi come le clausole fidelizzanti possono generare un danno
soltanto in quei concorrenti che potevano ragionevolmente ambire (per le
caratteristiche del loro prodotto, i prezzi praticati, le risorse umane e
45

Così recita la sentenza CGCE nel caso Hoffman-La Roche, par. 91.
Michelin c. Commissione, sentenza del 30 settembre 2003, causa T-203/01, par. 55.
47
Ibidem, par. 239.
48
British Airways c. Commissione, sentenza del 17 dicembre 2003, causa T-219/99, par.
293-297.
46

30
materiali di cui sono provvisti) ad insidiare quei clienti che l’impresa
dominante ha illegittimamente fidelizzato: concorrenti inefficienti, o non
dotati di strutture o livelli qualitativi adeguati, non sono stati esclusi
dall’impresa dominante, perché non avrebbero potuto in ogni caso fornire
quei clienti.
I due problemi sopra discussi sono particolarmente importanti in pratica
perché è elevata la probabilità che i concorrenti dell’impresa dominante, in
seguito al sanzionamento di suoi comportamenti abusivi, avviino azioni
civili lamentando un danno, anche se non lo hanno in effetti subito, al fine
di vedersi liquidare danni mai patiti, o di ottenere concessioni di vario
genere dall’impresa dominante mediante transazioni stragiudiziali 49.
La prova di un nesso causale adeguato, nei casi di abuso escludente, non
può quindi essere in alcun modo presunta, ma deve sempre essere provata:
nella sostanza, non vi è dunque – neppure in questo caso – alcuna differenza
apprezzabile tra l’onere della prova che deve soddisfare l’attore nel caso di
un’azione follow-on e nel caso di un’azione stand alone.
L’esclusione illegittima di un concorrente dal mercato, ad opera dell'impresa
dominante, come abbiamo visto genera sempre un danno sociale, ma non
necessariamente un danno privato qualificabile come lucro cessante in capo
al concorrente, che in alcuni casi può aver perso dei flussi di profitto che
potevano ragionevolmente materializzarsi in assenza di comportamento
illegittimo, ma in altri casi potrà aver perso più semplicemente delle chance.
Rinviando al seguito la discussione dei problemi di quantificazione di tale
danno, sia che esso si configuri come lucro cessante che come perdita di
chance, si noti come l'applicazione del principio restituivo ponga in generale
problemi complessi sotto il profilo dell'onere della prova. In questi casi, il
tribunale si trova infatti davanti ad una quantificazione del danno proposta
dall'attore basata su piani di vendita o su più articolati business plans, la cui
concreta probabilità di realizzazione in assenza del comportamento abusivo
deve essere accuratamente verificata sotto il profilo tecnico-economico.

8. Danni punitivi e profitti dell’autore dell’illecito
Il risarcimento del danno antitrust, in Italia e in Europa è saldamente
radicato nella logica compensatoria che in generale governa, con contenute
eccezioni, il danno derivante da fatto illecito: il giudice, qualora ritenga
provato il danno ed il nesso causale, liquida una somma tale da ricostituire
la situazione economica del danneggiato quale essa sarebbe stata in assenza
del comportamento dannoso.
49

Si veda la discussione di McAfee e Vekkur (2004)

31
D'altro lato, due aspetti dell’esperienza americana, che vanta una evidente
primazia in materia antitrust rispetto all'Europa, pongono il problema di se,
ed in quale misura, sia ragionevole dipartirsi da una logica strettamente
risarcitoria. Infatti:
1. è a partire dal Clayton Act del 1914 che l’imposizione di danni
tripli per illeciti antitrust è obbligatoria negli USA 50;
2. il movimento law and economics, pur avendo vivacemente
contestato questa previsione, per motivi diversi giunge però ad una
raccomandazione in pratica assai simile, ovvero quella di
incrementare il danno liquidato in ragione di un damage multiplier
per tenere conto che la probabilità che l’illecito sia scoperto, ed il
suo autore condannato a rifondere il danno, sono certamente
inferiori al 100%.
Una seconda prospettiva risarcitoria che pare importante analizzare, alla
luce della fortuna in qualche modo crescente che essa trova
nell'ordinamento europeo, in particolare per quanto riguarda i danni
connessi alla proprietà intellettuale, e’ quella del risarcimento basato su una
logica di disgorgement, ovvero di restituzione51 al danneggiato dei profitti
realizzati dall'autore dell'illecito.
Nei paragrafi seguenti ci chiediamo dunque se vi siano motivazioni
sufficienti per abbandonare, nel danno antitrust, la tradizionale logica
risarcitoria.
8.1 I danni multipli
I danni multipli (categoria generale nella quale rientrano i danni, variamente
denominati come esemplari, punitivi, o extra-compensativi, che hanno la
comune caratteristica di essere superiori a quanto sarebbe necessario per
risarcire l’attore) caratterizzano da tempo i paesi di common law.
Storicamente, essi sono stati utilizzati nei casi di torts particolarmente gravi
in quanto caratterizzati da una condotta del tutto riprovevole, nonché al fine

50

Il paragrafo 4 del Clayton Act recita infatti “ … any person who shall be injured in his
business or property by reason of anything forbidden in the antitrust laws may sue
therefore in any district court of the United States …and shall recover threefold the
damages by him sustained, and the cost of suit, including a reasonable attorney's fee”:
l’impiego di shall rende obbligatoria la liquidazione di danni tripli.
51
Più precisamente, nella common law si hanno in generale gain-based remedies, che si
caratterizzano come restitution se vi è restituzione all’attore di un asset (o dei frutti di un
asset), materiale o immateriale, di cui il convenuto si è illegittimamente servito,
arricchendosi ingiustamente; si caratterizzano invece come disgorgement quando la
restituzione riguarda per intero i profitti del convenuto, sia che essi derivino dall’illecito in
danno dell’attore, sia da altre fonti.

32
di compensare l’attore per offese che non fossero indennizzabili, come
avveniva per i danni morali, inizialmente considerati come tali 52.
Quando queste ultime tipologie di danno divennero indennizzabili nella
common law, la finalità punitiva di un comportamento particolarmente
riprovevole diventò prevalente. Perché sia riconosciuto un danno punitivo,
dunque, “there must be circumstances of aggravation or outrage, such as
spite or ‘malice’, or a fraudulent or evil motive on the part of the defendant,
or such a conscious and deliberate disregard of the interest of others that
the conduct may be called wilful or wanton”53. Questa è naturalmente anche
la spiegazione della previsione di danni tripli per offese antitrust guidate da
un “intento malvagio” (evil motive), disposta dal Clayton Act nel 1914.
La ‘punizione’ – si noti - è dunque irrogata nella common law quando
l’illecito nei confronti dell’attore sia particolarmente grave e riprovevole, ed
è l’attore che percepisce come liquidazione un multiplo del danno patito.
Tuttavia, negli USA, con lo sviluppo delle class actions a partire dagli anni
settanta, nelle quali un numero limitato di attori riuscivano in misura
crescente a farsi liquidare il danno patito da una platea molto più ampia di
soggetti, i danni multipli sono stati sostanzialmente reinterpretati in senso
quasi-penale, ovvero come un modo per punire il convenuto per i danni che
il suo comportamento ha inflitto alla collettività 54 . Essi pertanto
costituirebbero un’anomalia nel diritto civile, servendo alle medesime
finalità del diritto penale, ma attraverso lo strumento di una causa per
danni 55.
La letteratura law and economics ha elaborato tale aspetto, argomentando
che la normativa antitrust deve essere interpretata come finalizzata ad
impedire i comportamenti socialmente inefficienti, e che essa debba
pertanto prevedere che l’esborso atteso da parte di chi stia valutando se
infrangerla debba essere tale da esercitare un effetto deterrente ottimale 56.
La deterrenza e’ del resto un obiettivo presente all’interno della tradizione
antitrust americana sin dalla nascita, ed è connaturato alla definizione di
delitto (felony 57 ) dei comportamenti lesivi, sia che essi consistano nella

52

Per una recente discussione, si veda Benatti (2008), cap. I. Una discussione molto ampia
del tema è in Colby (2003).
53
Prosser (1984), cap. 2.
54
Sul punto si veda la ricostruzione storica, di grande interesse, in Colby (2003) della teoria
secondo la quale i danni punitivi sarebbere un “punishment for public wrongs”.
55
E’ proprio grazie a questa reinterpretazione che la coesistenza tra sanzioni antitrust (che
in America hanno natura penale) e danno triplo civile sfugge al divieto delle double
jeopardy (ne bis in idem) che invece in Europa, come vedremo, è un problema inevitabile.
56
Per una sintesi, si veda Polinsky - Shavell (1999).
57
Nella common law, il termine felony indica un crimine grave: negli USA, le felonies sono
quei crimini per i quali la pena detentiva e’ superiore all’anno.

33
partecipazione ad intese, o in abusi di posizione dominante 58. L’impianto
penalistico di quella normativa è poi reso ancor più evidente dalla
previsione, già nello Sherman Act, di pene detentive.
Dobbiamo quindi concludere che occorra introdurre i danni punitivi nei
nostri ordinamenti?
La Commissione Europea, nei due atti di policy – Libro Verde e Libro
Bianco 59 - che ha finora dedicato alle azioni civili per illeciti concorrenziali,
non sembra nutrire dubbi: essa appare convinta che l'effetto complessivo
delle sanzioni amministrative per illeciti concorrenziali, e del conseguente
rischio di azioni civili, sia talmente basso da ridurre l'efficacia complessiva
della normativa europea a tutela della concorrenza, che non riuscirebbe a
deterrere sufficientemente gli illeciti.
Questa visione della Commissione non pare però avere basi adeguate,
perché poggia su un’evidenza empirica che non tiene conto degli effetti di
vari recenti provvedimenti che hanno innalzato le sanzioni ed introdotto un
incisivo programma di clemenza per i partecipanti ad un’intesa che
collaborino con la Commissione. Queste misure hanno tuttavia avuto un
effetto molto importante.
Il primo, come evidenzia la Figura 2, a partire dal 2005 ha innalzato di quasi
sette volte l’ammontare (totale e pro-capite) delle sanzioni inflitte dalla
Commissione.
Figura 2. Sanzioni per intese irrogate dalla Commissione Europea,
2003-2008
4,00

80

3,50

70

3,00

60

2,50

50

2,00

40

1,50

30

1,00

20

0,50

10

0,00

2003

2004

2005

2006

Totale sanzioni (mld euro)

2007

2008

Sanzione media pro-capite (mln euro)

58

Ovvero in restraints of trade, monopolization, o attempate monopolization.
Commissione Europea (2005), Commissione Europea (2008a).

59

34
In secondo luogo, i programmi di clemenza, che incentivano i membri del
cartello a ‘tradire’, rafforzati in Europa nel 2006 60, tendono ad aumentare
sensibilmente la probabilità che il cartello venga scoperto: per quanto ci
consta non sono stati condotti ancora studi empirici sugli effetti di questi
programmi, ma la Commissione ritiene certamente che essi siano stati
sensibili.
In terzo luogo, il recente Regolamento in materia di transazione nei
procedimenti relativi ai cartelli 61 dovrebbe ulteriormente aumentare le
probabilità di punizione in Europa, consentendo alla Commissione di
chiudere rapidamente i casi meno gravi, destinando le risorse così
risparmiate ad indagini riguardanti altri casi potenziali di intesa illecita.
Il quadro USA è però totalmente diverso, dato che il 95% dei casi non viene
avviato dal Department of Justice o dall’Office of Fair Trading 62, e dunque
il 95% dei convenuti non deve temere né una sanzione amministrativa, né
una sanzione penale, e dunque deve solo temere di dover provvedere al
ristoro del danno. Negli USA, quindi, in assenza di danni multipli la
deterrenza esercitata dalla normativa antitrust sarebbe stata molto limitata.
In questo quadro, danni singoli sarebbero poi inadeguati ad assicurare un
incentivo sufficiente ai molti pubblici ministeri privati (‘private attorney
general’), i quali – spinti dalla speranza di ottenere la liquidazione di un
danno molto elevato – promuovono con vigore molteplici azioni 63. In terzo
luogo, i danni multipli nell’ordinamento americano hanno l’importante
funzione di compensare, con questo strumento, danni subiti dalle vittime di
un illecito competitivo, che non trovino altrimenti ristoro.
Concludiamo quindi che la presenza di danni punitivi nell’ordinamento
americano – dove peraltro la coerenza dell’impianto sanzionatorio
complessivo in materia concorrenziale viene spesso vivacemente discussa
rispondono da un lato ad una non lineare vicenda storica, e dall’altro a
specifiche necessità poste da vari aspetti di quell’ordinamento.
Inoltre, esse riflettono l’applicazione di norme penali all’antitrust, che è
sostanzialmente estranea alla tradizione giuridica europea, nella quale è
saldo il principio che provvedimenti penali siano irrogati solo in processi

60

Commissione Europea (2006).
Commissione Europea (2008b).
62
Office of Fair Trading (2008).
63
La motivazione appare peraltro debole anche da un punto di vista americano, dato che la
grande maggioranza delle azioni civili sono di tipo follow-on, e quindi seguono l’azione dei
public attorney generals; inoltre, dei casi stand-alone, la grande maggioranza sono avviati
da concorrenti di imprese dominanti (o presunte tali), e pertanto spesso motivati da strategie
che nulla hanno a che fare con la difesa della concorrenza.
61

35
penali, nei quali le garanzie procedimentali per l’imputato sono ben
superiori a quelle previste dal processo civile.
I danni punitivi fanno comunque fatica ad affermarsi in Europa. Nonostante
il Competition Act britannico del 1998 abbia previsto la possibilità di
liquidare danni aventi carattere exemplary 64 , tale previsione non e’ stata
invocata per lungo tempo. Quando lo e’ stata, nel recente caso Devenish 65,
nel quale un’impresa che acquistava da uno dei partecipanti all’intesa
sanzionata dalla Commissione nel noto caso Vitamine 66 ne ha chiesta la
liquidazione, la High Court ha respinto questa richiesta, essenzialmente
perchè, essendo stato il comportamento già sanzionato in via
amministrativa, la liquidazione di danni punitivi sarebbe stata in contrasto
con il principio fondamentale ne bis in idem 67.
Naturalmente, nonostante una peculiare sentenza del Giudice di Pace di
Bitonto nel caso Manfredi 68, la discussione che precede è sostanzialmente
accademica, almeno per quanto riguarda il nostro paese, dato che “per
l’ordinamento italiano il risarcimento ha soltanto una funzione
ripristinatoria e non sanzionatoria, sì che il ristoro non può andare al di là
del pregiudizio subíto” 69.

8.2 I danni ed il profitto dell’autore dell’illecito
La seconda questione da discutere in tema di principi di risarcimento è se sia
opportuno utilizzare, almeno in qualche caso, i profitti dell’autore
dell’illecito come misura del danno da liquidare all’attore.

64

Ma cio’, nelle parole dell’Office of Fair Trading, non altera il carattere fondamentale
della normative, in quanto e’ pacifico che “the primary purpose of civil law on damages is
to provide for loss, and not to punish”.
65
Devenish Nutrition Ltd. v. Sanofi-Aventis SA (France) & Others, confermato in appello
[2008] EWCA Civ. 1086, [2008] UKCLR 783, disponibile sul sito www.bailii.org.
66
Decisione del 21 novembre 2001, caso n. COMP/E-1/37-512, in G.U.C.E. (2003), L6/1.
67
Il problema si pone naturalmente anche negli USA, ove esso è ‘risolto’ con un’ardita
costruzione, che vede i dani multipli irrogati per punire un illecito ai danni di una specifica
vittima, e dunque cumulabili – nonostante il principio della double jeopardy – con le
misure penali previste dalla normativa. Si veda, sul punto, Colby (2003), par III.A.
68
G.d.P. Bitonto 21.05.2007, in “Danno e responsabilità”, n. 12/2007. “Da ultimo, questo
Giudice rileva che alla parte attrice deve essere riconosciuta, a titolo di risarcimento
danni, una somma di denaro tale da aver anche l’effetto deterrente nei confronti della
parte convenuta. (…) Alla luce di tali considerazioni, il Giudicante ritiene di riconoscere
all’attore un danno nella misura del doppio, rispetto all’ammontare dei premi esatti dalla
convenuta in esecuzione dell’intesa anticoncorrenziale.” (Enfasi aggiunta).
69
Cassazione (2008), Commento al Libro Bianco della Commissione, disponibile al sito
internet:http://ec.europa.eu/comm/competition/antitrust/actionsdamages/white_paper_com
ments.html.

36
Questa domanda è interessante perché suggerita dall’applicazione di una
simile logica nel settore della proprietà intellettuale, per alcuni versi
prossimo a quello dell’antitrust.
Prima di vedere dettagliatamente questi sviluppi, e’ però, necessario
ripercorrere sinteticamente l’applicazione di questo principio negli
ordinamenti di common law, ove esso è nato ed è – peraltro
infrequentemente, come vedremo – applicato.
Se infatti è certamente vero che la nozione che occorra impedire che l’autore
di un illecito ne goda i frutti è, se non altro sotto il profilo morale, attraente,
qualora essa trovasse applicazione generalizzata i principi di liquidazione
del danno avrebbero un aspetto molto diverso dall’attuale, ed in particolare
dovremmo attenderci di vederli di frequente improntati ad una logica
restitutiva.
Come mostra Worthington (1999), in realtà nell’ordinamento inglese il
disgorgement - strettamente inteso come restituzione da parte del convenuto
di tutti i profitti da esso illecitamente conseguiti, qualunque ne sia la
provenienza - non e’ utilizzabile nella responsabilità extracontrattuale ne’
in quella contrattuale. Nei casi di unjust enrichment derivanti dall’uso di una
cosa altrui si applica invece l’istituto della restitution, che spoglia il
convenuto degli ‘user damages’, ovvero dei profitti da esso conseguiti
illecitamente da tale uso.
Il disgorgement e’ invece utilizzabile solo in una classe di procedimenti
molto ristretta, nei quali sia dimostrato che il torto del convenuto sia
particolarmente ripugnante, in quanto abbia infranto norme morali assolute
(equitable obligations of good faith and loyalty): il disgorgement è dunque
un rimedio punitivo, mentre non lo è certamente la restitution 70.
Prima di proseguire, è importante sottolineare come sia dunque la teoria
della restitution ad informare la valutazione del danno in termini di ‘prezzo
del consenso’ ormai pienamente accolta nella tutela della proprietà
intellettuale: chi lo infranga, usa di cosa (immateriale) altrui, ed uno dei
criteri possibili per la determinazione del risarcimento sono dunque i
‘benefici realizzati dall’autore della violazione’, come recita l’art. 125 c. 3
del Codice della Proprietà Intellettuale, approfondendo il solco che aveva
tracciato la Direttiva 2004/48/CE 71, in base al principio consolidato nella
common law, così da renderlo non più uno dei fattori da considerare nella
determinazione del danno, bensì un criterio sempre utilizzabile, in
alternativa (totale o parziale) a quelli tradizionali.
70

Per un’analisi in termini di giustizia correttiva si veda Weinrib (2000).
Che recita “In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili
realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o
nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”.

71

37
Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust
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Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust

  • 1. Luigi Prosperetti * Il risarcimento del danno nel sistema delle sanzioni per violazione della normativa antitrust Sommario Principali tipologie di danno ....................................................... 2 Restrizioni della produzione........................................................ 3 Abusi escludenti .......................................................................... 5 La prova del danno ...................................................................... 9 4.1 Illecito, danno e nesso causale: aspetti generali .......................... 9 4.2 La prova del comportamento illecito ........................................ 10 4.3 Prova del nesso causale ............................................................. 11 4.4 Prova del danno ......................................................................... 13 4.5 Componenti del danno antitrust ................................................ 14 4.6 Mitigazione del danno nell’illecito antitrust ............................. 15 4.7 La logica economica e la logica giuridica nella quantificazione del danno ................................................................................... 16 5. Danni da abuso per sfruttamento ............................................... 18 6. Il passing-on .............................................................................. 21 7. Danni da abusi escludenti.......................................................... 27 7.1 Criteri incerti per il danno sociale ............................................. 27 7.2 Danno privato ............................................................................ 29 8. Danni punitivi e profitti dell’autore dell’illecito ....................... 31 8.1 I danni multipli .......................................................................... 32 8.2 I danni ed il profitto dell’autore dell’illecito ............................. 36 9. La valutazione del danno antitrust ............................................ 39 9.1 Metodi e tecniche per la valutazione del danno patito dall’acquirente diretto di un cartello ......................................... 39 9.2 Il metodo analitico..................................................................... 40 9.3 Il metodo before and after ......................................................... 43 9.4 Il metodo benchmark o yardstick .............................................. 44 Bibliografia .................................................................................................. 45 1. 2. 3. 4. * Ordinario di Politica Economica, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Milano. Relazione presentata al Workshop "Le pratiche commerciali scorrette e la tutela del consumatore", AFGE, Milano 26 giugno 2013.
  • 2. 1. Principali tipologie di danno Comportamenti illegittimi ai sensi degli articoli 81 e 82 del Trattato CE, determinano in primo luogo un danno sociale. Negli abusi di sfruttamento, quando alcune imprese realizzano un’intesa per ridurre la produzione, e così innalzare i prezzi, o quando un’impresa dominante persegue la medesima strategia, questo danno è generato dalla riduzione di produzione necessaria ad ottenere l'incremento dei prezzi, nonché da una distorsione più generale del funzionamento del mercato, derivante da un aumento dei costi di transazione. Negli abusi escludenti, quando un’impresa dominante – tenendo comportamenti non riconducibili a quelli descritti in giurisprudenza come competition on the merits 1 - esclude dall'accesso al mercato i suoi rivali, o ne impedisce lo sviluppo, il benessere sociale viene ridotto perché la collettività è privata del beneficio che i nuovi entranti potrebbero recarle, sotto forma di maggiore concorrenza, e dunque prezzi più bassi e/o qualità più elevata, nonché di innovazioni di prodotto o di processo. Tuttavia, la riduzione della produzione volta a determinare un aumento dei prezzi può essere intrapresa, oltre che da un’intesa, anche da un’impresa dominante. Di converso, un comportamento abusivamente escludente può essere posto in opera non solo da un’impresa dominante, ma anche da più imprese che realizzino tra loro un’intesa a ciò finalizzata. Per questo, tenendo conto che in questa sede ci occuperemo principalmente di analizzare gli effetti dannosi dei comportamenti illegittimi, adotteremo la distinzione effect-based – essenzialmente di natura economica – che abbiamo già menzionato tra abusi di prezzo ed abusi escludenti, più che quella – essenzialmente di natura giuridica – tra fattispecie riconducibili all’art. 81 ed all’art. 82. All’esistenza di un danno sociale si accompagna spesso quella di un danno privato, anche se, come meglio vedremo, questo è frequente nelle intese, a patto che esse siano tali da esplicare un effetto sui prezzi, ma meno frequente negli abusi escludenti, ove non è detto che il comportamento illegittimo configuri necessariamente un danno risarcibile in capo ad uno specifico agente economico. 1 Termine che appare coniato nella sentenza Americana Northern Pacific Railway Co. v. United States, 356 U.S. 1, 6 (1958), ed utilizzato dalla CGCE per la prima volta in Irish Sugar (Causa T-228/97), Irish Sugar v. Commission, [1999] ECR II-2969, par. 111. 2
  • 3. 2. Restrizioni della produzione La prima tipologia di danno antitrust deriva da comportamenti che riducono artificiosamente la quantità prodotta, al fine di innalzare i prezzi al di sopra del loro livello competitivo. Questi aumenti nei prezzi possono derivare da intese restrittive tra concorrenti (il caso più frequente), o dalla imposizione di prezzi ingiustificatamente gravosi da parte di un’impresa in posizione dominante: quest’ultima tipologia è relativamente rara a livello dell’Unione nel suo complesso, ma vi è un numero non trascurabile di casi a livello nazionale 2. Quanto diremo nel seguito, anche se ci riferiremo per semplicità al caso più frequente – le intese – è peraltro pienamente riferibile anche agli abusi di prezzo derivanti dai comportamenti unilaterali di un’impresa dominante. Consideriamo il seguente caso. Le imprese A, B e C danno luogo ad un’intesa sul mercato delle trappole per topi, e di comune accordo ne riducono la produzione da QC (il livello produttivo in caso di concorrenza) a QM (il livello scelto dai partecipanti all’intesa 3), in modo da innalzarne i prezzi da PC a PM. I consumatori reagiranno a questa strategia in due modi: alcuni di essi decideranno di acquistare le trappole al prezzo più alto, e patiranno un danno emergente pari al prodotto tra l’overcharge (ovvero l’incremento nel prezzo determinato dal cartello), ed il numero di trappole acquistate: chiameremo questo danno, indicato dall’area A della Figura 1, danno sopportato dagli acquirenti. Altri consumatori decideranno invece di non comprare le trappole al prezzo imposto dal cartello, ma di mitigare il danno da essi patito sostituendo alle trappole altri prodotti (veleno per topi): questa componente del danno è rappresentata dal triangolo B della Figura 1, che chiameremo danno sopportato dai non-acquirenti. Si noti come questo danno è certamente rilevante, dato che se i consumatori erano originariamente intenzionati a comprare trappole invece che veleno, tale scelta era evidentemente per loro ottimale. Tuttavia, esso è difficile da quantificare con precisione, dato che per farlo dovremmo essere in grado di misurare la disutilità patita da questi consumatori, che hanno sostituito il prodotto utilizzato per il controllo dei roditori, opera in genere alquanto ardua. 2 Si veda Géradin (2007). Dato che le tre imprese si coordinano, agendo come una sola entità, questo è anche il livello che la produzione avrebbe in caso di monopolio. 3 3
  • 4. Figura 1. Danno privato e danno sociale derivante dalla cartellizzazione Prezzo Cartello PM Mercato concorrenziale A B PC Cost i Domanda QM QC Quanti tà Questi due tipi di danno esistono sempre, ma la loro dimensione relativa dipende dalla elasticità della domanda rispetto al prezzo: se questa è molto bassa (domanda rigida), chi compra le trappole per topi non è in grado di sostituirle con il veleno, e quindi il danno privato è quasi tutto di ‘tipo A’; se invece l’elasticità rispetto al prezzo è alta, per i consumatori sarà molto facile sostituire trappole e veleno, e dunque il danno sarà prevalentemente di ‘tipo B’. Nell’esempio che abbiamo fin qui sviluppato non vi sono altre voci di danno privato rilevanti oltre a quelle discusse. Tuttavia, se il bene prodotto dal cartello non è destinato al consumo finale, ma è un bene intermedio (ad esempio: farina) acquistato da un’impresa che lo utilizza come input nella produzione di un altro bene (il pane) 4, la questione è più complessa. In primo luogo, infatti, l'impresa che è acquirente diretto del bene cartellizzato cercherà di aumentare il prezzo del pane, così da traslare, almeno in parte, ai propri clienti l'aumento nel proprio costo di produzione imposto dal cartello della farina. I consumatori che acquistano pane, saranno dunque acquirenti indiretti del cartello della farina, e subiranno quindi anch'essi un danno: anzi più precisamente il danno emergente causato dal cartello della farina sarà in qualche modo ripartito tra acquirenti diretti (i panificatori) ed acquirenti indiretti (i consumatori di pane) 5. Come vedremo, 4 Ci auguriamo vivamente che non venga mai riscontrata l'esistenza di un cartello della farina: l'esempio è infatti totalmente immaginario, ed utilizzato solo a fini espositivi. 5 Discuteremo in seguito come la porzione di danno che potrebbe essere traslata agli acquirenti indiretti sia tanto maggiore quanto è più rigida la loro domanda. 4
  • 5. questo problema, detto frequentemente passing-on, con un riferimento ai precedenti in questo senso negli Stati Uniti, è alquanto complesso, ma suscettibile di una soluzione ragionevole. Nel caso dei beni intermedi, un cartello tuttavia dà luogo in generale anche ad un lucro cessante: a meno che la domanda di pane non sia perfettamente rigida rispetto al prezzo, se i panificatori cercano di traslare sui consumatori una parte dell'aumento del prezzo della farina, questi ridurranno la quantità di pane consumata, ed i panificatori patiranno un lucro cessante, pari alla differenza tra i profitti che essi avrebbero percepito se non vi fosse stato il cartello della farina, ed i profitti che essi conseguono in presenza del cartello. Più precisamente, quindi, il cartello della farina dà luogo a tre principali tipologie di danno: un danno emergente in capo ai produttori di pane, derivante da quella parte dell'aumento nei propri costi che essi non sono stati in grado di traslare sui loro clienti; un danno emergente in capo ai consumatori di pane derivante dal medesimo meccanismo; un lucro cessante in capo ai panificatori, derivante dalla riduzione dei consumi di pane. Infine, anche i fornitori delle imprese colluse patiranno un danno privato: la decisione di ridurre le quantità prodotte adottata dal cartello si tradurrà infatti per loro in una diminuzione delle vendite e del fatturato. 3. Abusi escludenti La seconda tipologia di danno antitrust può derivare da comportamenti illegittimamente escludenti 6 da parte di un’impresa dominante, che – invece di ricorrere ad una competition on the merits – utilizza una varietà di strumenti per escludere i concorrenti dal mercato, o per impedirne l’ingresso. Secondo la Comunicazione del 2008 della Commissione Europea, le principali fattispecie di tali condotte sono: forme di contrattazione esclusiva, pratiche leganti, pratiche predatorie, rifiuti di fornitura e condotte di margin squeeze. Più in dettaglio, un’impresa dominate può cercare di escludere i propri concorrenti: • utilizzando espliciti obblighi di contrattazione esclusiva inseriti nei contratti con la propria clientela (anche sottoforma di clausole inglesi 7), oppure una struttura di sconti che abbia nei fatti effetti di fidelizzazione della clientela. Tale condotta, rendendo difficile ai 6 Come vedremo tra breve, possono infatti darsi anche comportamenti legittimamente escludenti, e comportamenti illegittimamente escludenti dai quali però non deriva necessariamente un danno in capo ad uno specifico concorrente. 7 Le clausole inglesi vincolano l'acquirente ad informare il fornitore qualora egli riceva un'offerta più vantaggiosa, ed assegnano a quest’ultimo il diritto di vendere il prodotto al prezzo offerto dal concorrente. 5
  • 6. concorrenti contendere i clienti all’impresa dominante, può dunque limitare la pressione competitiva su di essa. Gli effetti escludenti possono essere particolarmente pronunciati se l’impresa dominante, per le caratteristiche del suo marchio, dei suoi prodotti, o la sua notorietà, assume il carattere di unavoidable trading partner, e quanto più è temporalmente estesa la loro efficacia; • attraverso tipologie di vendite abbinate in cui due o più beni (o servizi) sono venduti congiuntamente. Queste diverse fattispecie sono identificate con maggior precisione dalla terminologia anglosassone, che distingue tra: (i) tying, ovvero la vendita del prodotto B (il prodotto tied) soltanto a chi acquisti anche il prodotto A (il prodotto tying), il quale può tuttavia essere acquistato anche indipendentemente da B; (ii) bundling, ovvero la vendita sempre congiunta di A e B; e (iii) mixed bundling, in cui l’acquirente può comprare soltanto A, soltanto B, oppure sia A che B, ma in quest’ultimo caso il prezzo di A + B è inferiore alla somma dei prezzi dei due prodotti presi singolarmente. Il motivo fondamentale che rende oggetto di attenzione le vendite abbinate in una prospettiva antitrust, è che se un’impresa gode di una posizione dominante sul mercato di B, attraverso una tale politica commerciale essa potrebbe essere in grado di “trasferire” la propria posizione dominante anche sul mercato del prodotto A. • attuando comportamenti predatori, tipicamente posti in essere attraverso una strategia in due fasi. Nella prima, l'impresa dominante abbassa i prezzi fino a costringere i propri concorrenti a uscire dal mercato. Nella seconda, rimasta sola, essa innalzerà i prezzi al livello di monopolio, recuperando l’eventuale perdita sopportata nella prima fase e godendo – da quel momento in poi – di profitti di monopolio; • opponendo ai concorrenti un rifiuto di contrarre non oggettivamente giustificato, applicato ad un input che sia oggettivamente indispensabile per concorrere efficacemente con l'impresa dominante nel mercato a valle (ossia che sia una essential facility) Tale rifiuto deve inoltre comportare l'eliminazione di ogni efficace concorrenza nel mercato a valle, generando quindi con ogni probabilità un danno ai consumatori, ad esempio perché impedisce che vengano immessi sul mercato beni o servizi innovativi. Il rifiuto non deve essere esplicito, ma può configurarsi – ad esempio – anche nella richiesta di un prezzo per l'input talmente elevato da rendere impossibile al concorrente competere, configurando cioè un margin squeeze. Se l’impresa che controlla l’input è anche dominante nel mercato a valle, essa può alternativamente imporre un prezzo per il bene finale inferiore ai 6
  • 7. costi che i concorrenti dovrebbero sostenere per acquisire l’input (praticando così un price squeeze). Nei casi di abuso escludente, il danno sociale deriva essenzialmente dal fatto che alla collettività viene negata la possibilità di avere più concorrenza tra fornitori, e dunque presumibilmente di godere di prezzi più bassi e/o qualità più elevata rispetto a quanto offerto dall’impresa dominante 8. Mentre però l’analisi economica e giuridica degli abusi di sfruttamento lascia pochi dubbi circa le loro conseguenze assolutamente dannose sul benessere sociale, perché essi sono ricchi di effetti negativi, non compensati in genere da alcun miglioramento dell’efficienza, lo stesso non si può dire per quanto riguarda i comportamenti escludenti. Le difficoltà nell’analisi di questi comportamenti dipendono da vari aspetti: • molti dei tipi di comportamento che vengono raggruppati sotto l'etichetta "condotte escludenti" risultano in realtà da giochi strategici (nel senso tecnico del termine), nei quali ogni specifica mossa dell'impresa dominante e dei suoi concorrenti dipende da una molteplicità di fattori empirici, che sono del tutto specifici alla situazione in cui essa può essere adottata; in questi casi è quindi improbabile che si riescano ad elaborare astrattamente regole che definiscano per se quando una condotta escludente sia abusiva; • una condotta, poi, che potrebbe essere abusiva, in realtà può non esserlo se crea efficienze tali da compensarne l'impatto negativo sul benessere dei consumatori. Ad esempio, sconti fidelizzanti possono essere indispensabili per ottenere economie di scala e passarne benefici ai consumatori, e vendite abbinate possono ridurre i costi di produzione, distribuzione o transazione; • da ultimo, non certo per importanza, non esiste un consenso sufficiente, né tra gli economisti, né tra i giuristi, circa il criterio 8 In realtà – se è possibile ragionevolmente ritenere che ad un maggior grado di concorrenza corrispondano prezzi più bassi – la relazione tra concorrenza e qualità è assai meno univoca: un monopolista, ad esempio, tenderà ad offrire il livello di qualità il cui costo marginale eguaglia il ricavo marginale, ovvero il prezzo che il consumatore addizionale è disposto a pagare per quel livello di qualità. Gli effetti sul benessere del livello di qualità dipendono però dal consumatore medio: per una discussione articolata si veda ad esempio Spence (1975), e per una trattazione sintetica Marzi – Prosperetti – Putzu (2001). Controversa è poi la relazione tra concorrenza ed innovazione. Il risultato classico di Arrow (1962), secondo il quale un’impresa in concorrenza ha un incentivo maggiore ad un monopolista ad introdurre un’innovazione di processo è criticato, in chiave schumpeteriana, da Etro (2004). Quanto sintetizzato nel testo rappresenta però la received opinion su cui si basano, in pratica, buona parte delle decisioni prese da autorità per la concorrenza e corti civili in materia antitrust. 7
  • 8. generale da utilizzare per decidere se un dato comportamento unilaterale debba considerarsi o meno legittimo 9. Queste condotte pongono poi due problemi fondamentali sotto il profilo della causazione del danno privato. Innanzitutto, naturalmente, non tutte le politiche commerciali aggressive dell’impresa dominante hanno necessariamente carattere abusivo. Le imprese investono infatti tempo e risorse notevoli cercando di escludere i propri rivali dal mercato, riducendo i prezzi, introducendo innovazioni di prodotto, e utilizzando molti altri strumenti aggressivi. Ciò vale anche per le imprese dominanti, alcuni comportamenti delle quali potranno avere un carattere abusivo, mentre altri potranno rientrare in quei “mezzi su cui si impernia la normale concorrenza tra operatori economici” 10 , che sono pienamente consentiti anche a tali imprese. Naturalmente, i consumatori hanno un preciso interesse a che le imprese si comportino in modo vigorosamente aggressivo, ed è questo il motivo economico sostanziale, perché è necessario ritenere, come ha sancito il Tribunale di Primo Grado nel caso Michelin II, che “l'esistenza di una posizione dominante non priv[a] un'impresa che si trovi in questa posizione del diritto di tutelare i propri interessi commerciali, qualora questi siano insidiati, e la detta impresa abbia la facoltà, entro limiti ragionevoli, di compiere gli atti che essa ritenga opportuni per la protezione di tali interessi, non è però ammissibile un comportamento del genere che abbia lo scopo di rafforzare la posizione dominante e di farne abuso” 11. In molti casi, può quindi essere difficile isolare il danno ai concorrenti generato da un comportamento legittimo dell’impresa dominante (danneggiare il concorrente è infatti l’essenza stessa del meccanismo 9 Si veda l’interessante discussione in AMC (2007), capitolo Ic, e – per una prospettiva europea - l’interessante contributo di Gual et al. (2005). 10 Così recita la sentenza CGCE nel caso Hoffman-La Roche “La nozione di sfruttamento abusivo è una nozione oggettiva, che riguarda il comportamento dell’impresa in posizione dominante atto ad influire sulla struttura di un mercato in cui, proprio per il fatto che vi opera detta impresa, il grado di concorrenza è già sminuito e che ha come effetto di ostacolare, ricorrendo a mezzi diversi da quelli su cui si impernia la normale concorrenza tra prodotti o servizi, fondata sulle prestazioni degli operatori economici, la conservazione del grado di concorrenza ancora esistente sul mercato o lo sviluppo di detta concorrenza”, Sentenza della Corte del 13 febbraio 1979, Hoffmann-La Roche et. co. AG v. Commissione, Caso 85/76, par. 91. La sentenza cerca quindi di elaborare sulla nozione americana di competitivo on the merits, ma con risultati non particolarmente evidenti. Per una discussione, ed una ricostruzione della giurisprudenza, si veda la Background Note in OECD (2005). 11 Michelin c. Commissione, sentenza del 30 settembre 2003, causa T-203/01, par. 55. 8
  • 9. competitivo, com’è pacifico nell’antitrust 12 ), da quello generato da un comportamento illegittimo sotto il profilo concorrenziale. In altre parole, la perdita di quote di mercato patita da un concorrente dell’impresa dominante nel periodo in cui era in essere una condotta escludente può non essere dovuta totalmente alla condotta in parola, ma essere riferita - in tutto o in parte - a politiche commerciali legittime dell’impresa dominante, contemporanee all’abuso, che abbiano incontrato il favore del mercato. In secondo luogo una condotta abusiva può recare danno ad alcuni concorrenti, ma non ad altri. Considerando ad esempio un price squeeze, abusivo in quanto sufficientemente intenso da escludere un "concorrente egualmente efficiente" dal mercato, è evidente che l'impresa dominante avrà più concorrenti, ciascuno avente un diverso livello di efficienza: il suo comportamento sarà quindi illecito se tale da escludere un concorrente efficiente in misura uguale all’impresa dominante (‘concorrente egualmente efficiente’). Tale condotta recherà quindi danno ai soli concorrenti la cui efficienza è uguale o superiore a quella di tale ipotetico concorrente: i concorrenti che hanno un’efficienza inferiore a questo livello potrebbero non aver subito un danno da esclusione perché, anche in assenza di squeeze, essi non sarebbero stati in grado di aggredire il mercato. Considerazioni analoghe possono essere svolte per altre tipologie di abuso, come i prezzi predatori e le clausole fidelizzanti (come ad esempio le ‘clausole inglesi’): anch’esse possono generare un danno non a tutti i concorrenti, bensì soltanto a quelli che potevano ragionevolmente ambire (per le caratteristiche del loro prodotto, i prezzi praticati, le risorse umane e materiali di cui sono provvisti) ad insidiare quei clienti che l’impresa dominante ha illegittimamente fidelizzato. La prova di un effetto dannoso delle condotte illecite dell’impresa dominante è spesso dunque molto complessa. 4. La prova del danno 4.1 Illecito, danno e nesso causale: aspetti generali In questo paragrafo analizzeremo l’onere della prova a carico dell’attore di una causa civile antitrust per danni: tale analisi sarà condotta facendo riferimento alla distinzione tra danni determinati da abusi per sfruttamento e danni determinati da abusi escludenti. 12 Ex multis, il Commissario Kroes ha sottolineato “I like aggressive competition – including by dominant companies - and I don’t care if it may hurt competitors – as long as it ultimately benefits consumers”, Kroes (2005). 9
  • 10. In generale, di una causa per danni antitrust è tenuto a dimostrare – come in qualunque altro caso di danno conseguente da violazione di responsabilità extra contrattuale - l’esistenza: a. del fatto illecito, ossia di una violazione della normativa sulla concorrenza (breach); b. di un nesso causale immediato e diretto tra tale violazione e il danno lamentato (causation); c. del danno patito composto, come vedremo meglio in seguito, da danno emergente, lucro cessante, perdita di chance e danno all’immagine (harm) d. di un suo eventuale tentativo di limitazione degli effetti del danno (mitigation). Questi elementi sono di natura principalmente giuridica, ma nel danno antitrust è in genere indispensabile che l’analisi giuridica sia supportata dagli strumenti dell’analisi economica. 4.2 La prova del comportamento illecito Per quanto riguarda la prova del comportamento illecito, l’azione avviata potrà essere follow-on - qualora l’autorità antitrust abbia già emanato un provvedimento sanzionatorio - oppure stand alone in assenza di tale provvedimento. Nelle azioni stand-alone, l’attore è obbligato a dimostrare l'esistenza della condotta anticoncorrenziale. Ad esempio, un attore che lamenti un prezzo predatorio 13 dovrà dimostrare come l’abbassamento del prezzo praticato dall’impresa dominante possa essere ascritto unicamente ad un comportamento abusivo e non ad altri fattori, quali, ad esempio, un eccesso di scorte, piuttosto che normali fluttuazioni stagionali. Nelle azioni standalone per danni derivanti da intese orizzontali 14, l’attore dovrà provare in 13 Il comportamento predatorio è una strategia in due fasi. Nella prima l'impresa dominante abbassa i prezzi fino a costringere i propri concorrenti a uscire dal mercato. Nella seconda, rimasta sola, essa innalzerà i prezzi al livello di monopolio, recuperando l’eventuale perdita sopportata nella prima fase e godendo – da quel momento in poi – di profitti di monopolio. 14 Nelle intese verticali, può di frequente escludersi che vi sia un danno derivante da aumenti dei prezzi, dato che queste intese producono in generale incrementi di efficienza. Se imprese operanti sullo stesso mercato offrono infatti prodotti tra loro sostituibili, e possono avere un incentivo razionale a realizzare un’intesa orizzontale per limitare questa sostituzione, un produttore e un distributore uniti da una relazione economica verticale offrono prodotti tra loro complementari, e si danneggerebbero a vicenda se si accordassero per aumentare il prezzo del prodotto. Per contro un’intesa verticale può avere carattere escludente, ma a questo caso si applicano le osservazioni che seguono sugli abusi escludenti. 10
  • 11. generale l’esistenza dell’intesa, la partecipazione ad essa del convenuto, l’esistenza dell’overcharge, e il pagamento di tale overcharge. In questo caso, però, il convenuto potrà invocare la passing-on defense, sostenendo, cioè, che l’acquirente diretto del prodotto non ha in realtà patito alcun danno, poiché ha incrementato i propri listini prezzi dello stesso importo dell’overcharge. Chiaramente, l’attore potrebbe aver incrementato solo in parte i propri prezzi, subendo così solo parzialmente il danno da sovrapprezzo. In prima istanza, è dunque possibile presumere che nelle azioni follow-on l’onere della prova sia meno gravoso che nelle azioni stand alone, nell’ambito delle quali l’attore ha la possibilità di avvalersi di un provvedimento amministrativo che ha accertato la condotta abusiva. Tuttavia, normalmente, l’autorità per la concorrenza sanziona un’intesa avente oggetto escludente, lasciando sostanzialmente aperta la possibilità che esista un suo effetto, e dunque un danno. In caso di abusi escludenti, poi, l’esistenza di un danno alla concorrenza non sempre implica necessariamente che vi sia un danno ad uno specifico concorrente. Pertanto, non necessariamente un’azione follow-on presenta un’onere della prova del comportamento illecito meno gravoso rispetto a quello che può caratterizzare un’azione stand alone. 4.3 Prova del nesso causale L’attore deve poi fornire adeguata evidenza in merito al nesso causale tra il comportamento illecito e il danno lamentato. In altre parole, l’attore sarà tenuto a dimostrare che la condotta illecita ha peggiorato la sua situazione, provocando a suo carico un danno risarcibile. In primo luogo, l’attore dovrà provare che la condotta illecita ha provocato effettivamente il danno lamentato, dimostrando così l’esistenza di una causalità di fatto tra azione illecita ed evento dannoso. In secondo luogo, l’attore dovrà provare che il danno non si sarebbe verificato in assenza della condotta illecita, dimostrando così come essa rappresenti la condizione necessaria alla determinazione del danno. Infine, l’attore dovrà provare che il danno costituisce conseguenza immediata e diretta della condotta illecita, escludendo: a. l’esistenza di eventi o comportamenti (del convenuto, di altri soggetti, e naturalmente anche propri) che possano aver interrotto il nesso di causalità; 11
  • 12. b. l’accadimento di altri eventi che possano aver costituito una concausa, unitamente alla condotta illecita, del danno: in questo caso il nesso causale tra condotta e tali eventi economici negativi rimane attivo, ma limitato solo a quella parte degli eventi stessi specificamente causati dall’illecito 15. Nel caso degli abusi escludenti la prova dell’esistenza di un nesso di causalità tra condotta anticompetitiva e danno patito è particolarmente complesso: anche qualora sia possibile dimostrare che il concorrente escluso abbia effettivamente patito un danno, è comunque molto difficile riuscire a dimostrare che il danno è “conseguenza immediata e diretta” della condotta anticompetitiva. Infatti, l’obiettivo ultimo del meccanismo competitivo è proprio quello di danneggiare il concorrente, ed è evidentemente molto difficile riuscire a comprendere se il danno cagionato è il risultato di un comportamento abusivo oppure dell’impiego di quei “mezzi su cui si impernia la normale concorrenza tra operatori economici” 16, a disposizione di tutte le imprese, comprese quelle che godono di una posizione dominante. Per questo, sulla determinazione di un danno da comportamento escludente, un errore assai frequente è quello di addossare all’impresa dominante la responsabilità per qualsiasi perdita di profitti del concorrente, causata sì dall’impresa dominante, ma non derivante dal ricorso a pratiche illecite. Ad esempio, occorrerà quindi valutare se l’attore, essendo stato vittima dell’illecito, non abbia poi autonomamente compiuto errori strategici o gestionali che abbiano aggravato sensibilmente la sua situazione, così da diventare essi stessi causa dell’uscita dal mercato. Come rileva infatti la 15 Sul punto, la Cassazione rileva che “il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'articolo 40 c.p., in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale, trova il suo temperamento solo nel principio di causalità efficiente, desumibile dal secondo comma dell'articolo 41stesso codice, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa azione risulti tale dal rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto ( cfr. Cass. 27 Maggio 1995, 5923/95)”. La Cassazione rileva ancora che “non può sussistere nessuna responsabilità [del danneggiante] per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che si sarebbero verificati anche senza di essa. Di conseguenza, non può essere addebitato all'agente quel danno che si sarebbe comunque verificato indipendentemente dalla condotta, e, a maggior ragione, quello che era preesistente. Deve essergli addebitato, invece, il maggior danno, oppure l'aggravamento, che sia intervenuto per effetto della condotta dell'agente, che non si sarebbero verificati senza di essa. In tal caso, però, l'agente sarà responsabile soltanto di questo maggior danno, della differenza tra il danno che si sarebbe verificato in ogni caso, oppure che era preesistente, e quello che invece è stato raggiunto una volta che su quanto preesistente, o comunque estraneo alla condotta di quel soggetto [....], si sono innestate, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, le conseguenze della condotta”. 16 Così recita la sentenza CGCE nel caso Hoffman-La Roche, par. 91. 12
  • 13. Cassazione n. 6640/98, questa interruzione del nesso di causalità può essere anche l' “effetto del comportamento sopravvenuto dello stesso danneggiato” 4.4 Prova del danno L’attore deve poi fornire prova dell’esistenza e della dimensione del danno. Si tratta di una prova generalmente considerata complessa e difficile 17 , tuttavia, non è particolarmente diversa dalla prova dell’esistenza di un danno commerciale, risultante, ad esempio, dalla mancata esecuzione di un contratto, oppure da un qualsiasi tipo di illecito: materie rispetto alle quali le corti civili hanno una consolidata esperienza. Pertanto, da un lato non sembrerebbe esistere un reale motivo per alleggerire l’onere della prova con riferimento al danno antitrust e dall’altro – qualora si perseguisse una tale soluzione – essa dovrebbe essere utilizzata per un’ampia tipologia di danni commerciali. Tuttavia, negli Stati Uniti, questo alleggerimento è già avvenuto e le Corti graduano il burden of conviction alla fattispecie dannosa ed alla disponibilità di informazioni da parte dell’attore. Negli Stati Uniti, infatti, l’attore affronta un onere della prova decisamente gravoso per dimostrare l’an, ossia per provare di avere il diritto di agire per la ripetizione del danno, ma deve poi far fronte ad obblighi molto meno stringenti nella dimostrazione del quantum del danno subito 18. Un approccio di questo tipo riflette peraltro anche le notevoli difficoltà che potrebbe incontrare una giuria popolare, sempre presente negli USA in questo tipo di procedimenti, nel valutare il danno sulla base dell’evidenza, necessariamente complessa e di natura tecnica, che ad essa viene presentata dalle parti. D’altro lato, l’adozione di uno standard lenient per la prova della dimensione del danno è ben lungi dal rendere accettabili quantificazioni basate su una mera speculazione: le corti americane hanno infatti consistentemente richiesto all’attore di stabilire quanto meno una base ragionevole per la quantificazione del danno proposta, e riconoscono sempre al convenuto la possibilità di mostrare che uno o più elementi del petitum debbano essere eliminati o ridotti, perché privi di una base adeguata, o implausibili. Ad esempio, nel caso Story Parchment v Paterson Parchment Paper del 1931 19, la Corte affermava esplicitamente che dovevano essere distinti “the measure of proof necessary to establish the fact that petitioner has sustained 17 Commissione Europea (2008a), par. 2.5. Vi sono poi molte altre differenze, che qui non discutiamo, in particolare relative alla facilità con cui l’attore, negli USA, può costringere il convenuto ad esibire suoi documenti interni, anche aventi carattere riservato. 19 Story Parchment Co. v. Paterson Parchment Paper Co., 282 U.S. 555, S.Ct. (1931). 18 13
  • 14. some damage and the measure of proof necessary to enable the jury to fix the amount” 20. Pur evitando di ricadere in “mere speculation or guess”, la Corte stabiliva che è sufficiente “to show the extent of the damages as a matter of just and reasonable inference, although the results be only approximate” 21. Un approccio di questo tipo non è rinvenibile né nel Regno Unito – ove le giurie popolari nei tribunali civili non esistono – né in alcun Paese di civil law. 4.5 Componenti del danno antitrust Le componenti del danno antitrust che occorre provare sono in generale quattro: a. danno emergente, b. lucro cessante, c. perdita di chance e d. danno d’immagine ed è necessario tener presente come non siano tutte sempre presenti, e come le loro dimensioni possano essere estremamente diverse, a seconda dei diversi elementi che caratterizzano ciascun caso. Nei casi di cartello o di abusi per sfruttamento, l’acquirente patirà certamente un danno emergente, pari alla differenza tra il prezzo effettivamente pagato e il prezzo che avrebbe invece sostenuto in assenza di illecito concorrenziale. Nel caso in cui l’acquirente utilizzasse il prodotto oggetto di cartello come input della propria produzione, e ciò lo avesse obbligato ad aumentare i propri prezzi, determinando una riduzione delle vendite, allora potrà allegare anche un lucro cessante, costituito dai flussi di cassa che non ha potuto conseguire. Nei casi di abusi escludenti può generalmente essere individuato un danno emergente, consistente nella vanificazione degli investimenti specifici effettuati, nonché un lucro cessante rappresentato dalla perdita dei profitti che l’azienda avrebbe ragionevolmente ottenuto attraverso la propria attività. L’illecito escludente può inoltre provocare al concorrente una perdita di chance, nel caso in cui il comportamento dell’impresa dominante gli abbia 20 “l’onere della prova necessario a stabilire che l’attore ha subito dei danni e l’onere della prova necessario a consentire alla giuria di quantificare il danno”. 21 “dimostrare la portata dei danni secondo una corretta e ragionevole deduzione, benché il risultato sia solo approssimato”. 14
  • 15. impedito di acquisire titoli che gli avrebbero consentito in futuro di espandere la propria produzione, o di aggredire nuovi mercati. Nella giurisprudenza italiana, un danno da perdita di chance si verifica ogni qual volta si ha una definitiva perdita della possibilità, concretamente esistente, nel patrimonio del danneggiato, di conseguire ulteriori vantaggi economici: si tratta quindi di un danno emergente e non di un lucro cessante 22. Infine, l’abuso può dare luogo ad un danno di immagine, nel caso l'esclusione dal mercato abbia influenzato negativamente la reputazione dell'impresa. 4.6 Mitigazione del danno nell’illecito antitrust Come si è visto, vi sono due percorsi giuridici per tenere conto del principio di mitigazione in sede di risarcimento del danno: quello americano 23, che lo ritiene esplicitamente un obbligo, o quello europeo che identifica una interruzione del nesso causale necessario in assenza dello svolgimento di quelle attività sostitutive che la situazione del danneggiato renderebbe ragionevoli. La prospettiva economica, come discusso, è relativamente indifferente a quale di tali orientamenti sia corretto, essendo volta unicamente ad 22 La perdita di chance “configura un danno attuale e risarcibile (consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di possibilità attuale), a condizione che il soggetto che agisce per il risarcimento ne provi, anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, la sussistenza.” (Cass. 21 luglio 2003, n. 11322). E’ dunque fondamentale ricordare come una chance non sia da intendersi come una mera aspettativa, poiché il danneggiato è tenuto a provare “pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato e impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile dev’essere conseguenza immediata e diretta”22. Il giudice deve quindi decidere (considerando anche il livello di probabilità) sulla concreta possibilità che aveva la chance di tramutarsi in realtà 23 Negli Stati Uniti, la nozione che “antitrust plaintiffs have an obligation to mitigate their damages”, è del tutto consolidata, e vige come regola per la ripartizione del danno. Nel complesso, la giurisprudenza USA è unanime nel ritenere che un imprenditore, che patisca un abuso escludente, non abbia diritto ad un ristoro completo del danno, a meno che non abbia cercato – da imprenditore, appunto – di intraprendere azioni concrete per cercare di limitarlo. L’onere di provare che l’obbligo di mitigation non è stato assolto dall’attore è naturalmente in capo al convenuto, mentre tocca al primo dimostrare che le azioni intraprese siano state “ragionevoli”. I costi sopportati in queste azioni devono essere posti in capo al convenuto, e gli utili portati in deduzione del danno; gli utili ottenuti utilizzando risorse che non siano state rese libere dal comportamento abusivo non vanno viceversa considerati. 15
  • 16. identificare quale debba essere lo specifico contenuto di una condotta di mitigazione. Nella fattispecie del danno antitrust, si pensi al caso di un produttore di trappole per topi che sia stato escluso dal Veneto, in seguito alla condotta illegittima di un’impresa dominante in quella regione, e citi quest’ultima in giudizio per il risarcimento del danno. Il convenuto potrebbe argomentare che il lucro perduto in Veneto non dovrebbe essere interamente risarcito, perché l’impresa danneggiata avrebbe potuto utilizzare le sue risorse per entrare su un mercato non interessato dall’abuso, quale ad esempio quello del Trentino. Dal punto di vista economico, l’eventuale ingresso sul mercato del Trentino potrebbe rappresentare una mitigazione del danno subito con l’esclusione dal mercato del Veneto solo qualora: • • le risorse impiegabili nell’attività alternativa siano quelle che sarebbero state utilizzate nell’attività foreclosed: in altre parole, gli input devono essere omogenei tra le due attività; ed inoltre: l’attività alternativa abbia un livello di rischio comparabile a quello dell’attività che non è possibile intraprendere. In caso contrario, l’attività alternativa non potrebbe essere considerata come un ragionevole sostituto dell’attività non effettuata, ed anche questo violerebbe il principio di razionalità degli agenti economici. Tornando all’esempio da cui siamo partiti, da una prospettiva economica sarebbe dunque naturale attendersi che l’impresa esclusa dal Veneto andasse a vendere le sue trappole in Trentino, e pertanto che il danno fosse posto pari al lucro cessante derivante dall’illecita esclusione dal ricco mercato del Veneto, diminuito del profitto conseguito nel montuoso Trentino. Non rappresenterebbero per contro ipotesi accettabili di mitigazione né l’ingresso dell’impresa esclusa nel mercato della produzione di bevande (che richiederebbero risorse e input diversi da quelli per le trappole per topi), né l’ingresso dell’impresa nel mercato delle trappole per topi dell’Afghanistan (regione che presenta profili di rischio molto diversi da quelli del Veneto). 4.7 La logica economica quantificazione del danno e la logica giuridica nella La valutazione sia del danno emergente derivante agli acquirenti diretti da un’intesa abusiva, sia del lucro cessante patito dalla vittima di un abuso escludente, presenta interessanti aspetti economici. 16
  • 17. In questi casi, infatti, il principio giuridico della determinazione del danno secondo una logica compensativa è attuato mediante la logica economica dell’approccio di tipo differenziale, che calcola il danno confrontando la situazione in cui l’attore si sarebbe trovato qualora non avesse avuto luogo alcuna condotta illecita (scenario ipotetico o but- for scenario) con quella in cui l’attore si è effettivamente venuto a trovare (scenario reale o actual): i due scenari differiscono perciò solo per gli effetti derivanti dalla violazione della normativa sulla concorrenza 24. Per quanto riguarda la perdita patita dalla vittima di un abuso escludente, questa è concettualmente analoga a quella subita da chi si veda sottratto prima dell’estrazione il biglietto di una lotteria, che a fronte di un costo (del biglietto, o degli investimenti irrecuperabili effettuati per sviluppare il business) offre una certa probabilità di ottenere una somma di denaro (il premio della lotteria, o il valore attuale dei flussi di profitto attesi). Ipotizziamo dunque che all’attore sia stato sottratto un biglietto da 10 euro di una lotteria con un unico montepremi di 20.000 euro, di cui sono stati venduti 1.000 biglietti. In questo caso il danno potrebbe essere costituito: a. dal prezzo del biglietto, cioè € 10, che costituisce il danno emergente: in questo caso il danneggiato, ottiene il solo rimborso dell’investimento; b. dal valore atteso del biglietto, calcolabile, moltiplicando il premio (€ 20.000) per la probabilità di vincita (una su 1000, e quindi 0,001), e dunque pari a € 20. In questo modo, il danneggiato ottiene il rimborso del lucro cessante, sotto forma di rendimento atteso ex ante, da sommare al rimborso dell’investimento, per un risarcimento totale di € 30; c. dal valore effettivo della vincita ottenuta dal biglietto dopo l’estrazione e quindi, a seconda dei casi, posto pari a zero oppure a € 20.000, ovvero gli unici due valori che potrà assumere, dopo l’estrazione, il lucro cessante. In questo caso il danneggiato ottiene il rimborso del rendimento effettivo ex post, anche in questo caso da sommare al rimborso dell’investimento, per un risarcimento pari a € 10, o ad € 20.010. In conclusione, da un punto di vista di formale costruzione dello scenario but for, la perdita patita dalla vittima di un abuso escludente è compresa in un intervallo che ha come valore minimo il danno emergente rappresentato dai soli investimenti irrecuperabili vanificati, e come valore massimo tale 24 Si veda, ex multis, Cass. 15 ottobre 1999, n. 11629: “il danno risarcibile [coincide] con la perdita e il mancato guadagno conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, delimitati in base al giudizio ipotetico sulla differenza tra situazione dannosa e situazione quale sarebbe stata se il fatto dannoso non si fosse verificato”. 17
  • 18. danno emergente aumentato del lucro cessante effettivamente subito a causa dell’illecito. Tuttavia, da un punto di vista economico, la seconda soluzione, che somma una voce di lucro cessante ad una di danno emergente, appare l’unica ragionevole. In questo modo, infatti, il danneggiato viene collocato nuovamente nello stato, incerto, nel quale si trovava prima del comportamento dannoso. Il rimborso, sia dell’investimento irrecuperabile (danno emergente), sia del reddito atteso (lucro cessante), è dunque l’unico criterio corretto 25. La prima soluzione equivale invece al solo rimborso del costo affondato (sunk cost), e sarebbe ragionevole solo nel caso in cui si potesse escludere che il biglietto sottratto sia quello vincente. La terza soluzione sarebbe attuabile solo nel caso in cui l’estrazione fosse già avvenuta; ciò è possibile per il biglietto della lotteria, ma è senz’altro impossibile per il danno da abuso escludente. In ogni caso, questa soluzione non riporta il danneggiato nello stato di incertezza quo ante, ma in uno dei due stati che erano teoricamente possibili (non vincere o vincere) quando ebbe luogo l’evento dannoso. 5. Danni da abuso per sfruttamento In questo paragrafo ci occuperemo dei danni derivanti dagli abusi per sfruttamento, i quali, come si ricorderà, provocano in generale: a. un danno sociale al benessere collettivo, derivante dalla mancata soddisfazione sul mercato della domanda di quei consumatori che avrebbero voluto comprare, pagandola un prezzo ben superiore al costo di produzione, ma la cui domanda è invece frustrata dalla decisione del cartello di ridurre l’offerta b. un danno privato agli acquirenti del bene, che coincide con gli extra-profitti che i partecipanti al cartello conseguono sulle proprie vendite; 25 Questa seconda soluzione deve essere applicata in modo logicamente consistente, anche quando si siano verificati, tra il momento in cui ha avuto luogo il danno e quello in cui avviene la lite, eventi che nulla hanno a che fare con le attività del convenuto o dell’attore, come un terremoto. Se, ad esempio, l’abuso escludente avesse impedito l’apertura di un supermercato, determinando un lucro cessante atteso pari a 100, ma in seguito l’area fosse stata devastata da un terremoto, che avrebbe certamente distrutto il supermercato, qualora il danno liquidato fosse inferiore a 100 si violerebbe il principio giuridico del ristoro allo stato quo ante, valutando il danno alla luce del rendimento che, ex post, è risultato effettivo, e non del rendimento atteso ex ante. 18
  • 19. Sotto il profilo del danno questa evidenza mette in luce come il danno privato, provocato dal sovrapprezzo pagato, possa essere facilmente provato in fase di giudizio: il consumatore, infatti, dovrà solo dimostrare di aver acquistato una determinata quantità del bene sostenendo l’overcharge. Il danno patito da coloro che non hanno acquistato il prodotto non è invece dimostrabile in alcun modo: questi soggetti, perciò non avranno diritto ad alcun risarcimento. Il primo onere della prova che i consumatori che hanno sopportato il sovrapprezzo si troveranno a dover affrontare, come già ricordato, è quello dell’esistenza della condotta illecita. Da questo punto di vista, l’azione potrà essere stand-alone oppure follow-on. Come già avevamo potuto concludere, però, un’azione follow-on non presenta un onere della prova necessariamente inferiore a quello di un’azione stand alone. Come noto, infatti, l’art. 81 del Trattato CE stabilisce che “Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza”. Le autorità antitrust – quanto meno in un’ottica di allocazione efficiente delle risorse – sono dunque indotte a perseguire la modalità meno onerosa per dimostrare l’esistenza di pratiche concordate, tendendo perciò generalmente a sanzionare le pratiche concordate aventi un oggetto e non necessariamente un effetto anticoncorrenziale. Ad esempio, uno scambio di informazioni potrebbe aver avuto come oggetto la stabilizzazione delle quote di mercato, senza aver in alcun modo influenzato i prezzi. Oppure, ancora, anche se le informazioni scambiate avessero riguardato proprio le strategie di pricing dei membri dell’intesa, l’accordo potrebbe non aver avuto in realtà alcuna conseguenza, data l’instabilità connaturata ai cartelli stessi. In generale, quindi, se per comminare una sanzione per intesa distorsiva è certamente sufficiente per un’autorità antitrust verificare l’esistenza di un oggetto distorsivo, perché tanto basta per presumere l’intenzione di distorcere il meccanismo concorrenziale, solo per questo procurando un danno alla collettività, in sede civile è indispensabile che venga accertato che l’intesa abbia oggettivamente esplicato un effetto distorsivo nei confronti dell’attore, concretamente misurabile con riferimento ai prezzi ad esso effettivamente praticati da un partecipante all’intesa: senza la prova di un tale effetto, non c’è prova dell’esistenza di un danno privato. Né pare peraltro ipotizzabile che questa funzione probatoria possa essere ritenuta assolta da quelle brevi frasi, ormai di frequente presenti nei 19
  • 20. Provvedimenti delle autorità nazionali e della Commissione, che si limitano ad affermare che l’intesa ha avuto un effetto distorsivo: in assenza di analisi dettagliate, questa è essenzialmente un’affermazione di carattere generale, che nulla specificamente dimostra nel caso concreto, e che non si può ritenere assolvere il necessario onere di provare il nesso causale tra comportamento illecito e danno. Ad eccezione dei casi nei quali un’autorità per la concorrenza abbia concretamente accertato, in base ad un’analisi quantitativa, di cui essa dia traccia adeguata nel provvedimento, l’esistenza di effetti distorsivi, dobbiamo quindi concludere che – dal punto di vista pratico – non sembra vi sia una differenza sostanziale quanto ad onere della prova in capo all’attore tra azioni follow-on ed azioni stand-alone: in ambedue i casi, pare inevitabile che sia l’an che il quantum del danno privato debbano essere provati nel giudizio civile. Dunque, un provvedimento antitrust, generalmente, non costituisce prova sufficiente dell’esistenza di un danno in capo ad uno specifico soggetto economico. In sede civile, invece, è indispensabile che venga accertato che l’intesa abbia oggettivamente esplicato un effetto distorsivo nei confronti dell’attore, concretamente misurabile con riferimento ai prezzi ad esso effettivamente praticati da un’impresa partecipante all’intesa: senza la prova di un tale effetto, non sembra possa esservi danno privato. L'esistenza di una pratica concordata quindi fornisce una condizione necessaria, ma non una condizione sufficiente, perché si possa verificare concretamente un aumento del prezzo sul mercato rilevante, e, conseguentemente, un danno in capo agli acquirenti. Tale conclusione è poi del tutto evidente anche alla luce della giurisprudenza europea. In Francia, nel caso Juva v. Hoffmann-La Roche, un Tribunale rifiutava il risarcimento dei danni ad un’impresa (Juva) che acquistava alcune vitamine da un’impresa (Hoffmann La Roche) sanzionata dalla Commissione per la creazione di un cartello proprio su tali prodotti 26. In primo luogo, il Tribunale evidenzia come “la decisione della Commissione… non precisa[sse] in modo specifico, per prodotti e per anni, le azioni illecite intraprese…, né fornisce indicazioni precise sul valore eccessivo del prezzo di un dato prodotto in rapporto al livello che il prezzo avrebbe dovuto assumere” 27 . La Corte sottolinea però come la 26 Decisione del 21 novembre 2001, caso n. COMP/E-1/37-512, in G.U.C.E. (2003), L6/1. Laboratoires Juva v. Hoffman La Roche, Tribunal de Commerce de Paris, 26 gennaio 2007 n. RG 2003/04804. “La décision de la Commission… ne précise pas de manière 27 20
  • 21. Commissione – rifiutando la tesi della convenuta, secondo cui gli aumenti di prezzi erano stati determinati da cause diverse dal cartello – abbia stabilito “d’une manière ou d’une autre” che Hoffmann La Roche si era resa colpevole di un aumento anormale dei prezzi. In ogni caso, però, il Tribunale conclude rifiutando le richieste dell’attore asserendo che Juva non ha dimostrato di aver effettivamente pagato dei prezzi maggiori per le vitamine in questione. Pertanto, l’esistenza di una sanzione a carico del convenuto per intesa avente oggetto restrittivo della concorrenza non fornisce – da sola – prova sufficiente che questo abbia effettivamente alzato i prezzi nei confronti di un particolare fornitore. In Italia, la Cassazione si è espressa in modo ancora più chiaro nel caso Fondiaria, in cui un assicurato per RC Auto della Fondiaria Assicurazioni chiedeva la ripetizione del danno subito a seguito del noto cartello che aveva coinvolto le maggiori imprese assicurative italiane 28. La Corte afferma infatti che “il giudice potrà desumere l’esistenza del nesso causale … anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di valutare gli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare l’intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano, comunque, concorso a produrlo.” 29 , aggiungendo poi che la sentenza nell’ambito dell’azione civile non può adagiarsi “esclusivamente ed acriticamente sul mero contenuto del provvedimento amministrativo, quasi ad avallare l'aberrante tesi che il danno sia in re ipsa. Tesi tanto più insostenibile se si tiene conto del fatto che il provvedimento antitrust in questione (e le pronunzie dei giudici amministrativi che lo hanno confermato) si limita all'accertamento dell'illiceità dello scambio di informazioni, ponendo in termini di mera potenzialità l'alterazione del gioco concorrenziale e, dunque, l'aumento dei prezzi praticati al consumatore finale.”. 6. Il passing-on Il fenomeno del passing-on consiste nella traslazione allo stadio successivo della filiera produttiva del sovrapprezzo patito: chi acquista il prodotto di un cartello (il latte, per fare un esempio), se non ne è il consumatore finale, lo spécifique par produits et par année les actions illicites entreprises..ne définit pas pour un produit donné un prix de référence et ne donné par rapport à ce que prix aurait dû être” 28 Provvedimento I377 del 28 luglio 2000. 29 Cassazione, Sezione III civile, Sentenza 2 febbraio 2007, n. 2305, par. 4.1. Per una discussione, si vedano – tra gli altri – Pardolesi (2007). 21
  • 22. utilizzerà come input per la realizzazione di un altro prodotto (il burro, ad esempio). L’acquirente diretto del cartello cercherà ragionevolmente di traslare (pass on) almeno una parte della overcharge patita, e quindi del danno, al consumatore di burro, che è naturalmente un acquirente indiretto del cartello del latte. Dal punto di vista economico, la traslazione si verifica sempre, tranne nel caso – davvero raro - in cui i consumatori fossero pronti a cambiare immediatamente le proprie abitudini di consumo: sostituendo il burro, ad esempio, con la margarina. In questo caso, si parla di elasticità infinita della domanda e i produttori di burro sarebbero pronti a sopportare integralmente il sovrapprezzo. Il caso opposto si verifica quando la domanda è totalmente rigida e dunque i consumatori non sono disposti a modificare in alcun modo i propri consumi. In altre parole, neppure a fronte di aumenti significativi del prezzo del burro, i consumatori sarebbero disposti a sostituirlo con un altro prodotto. In questo caso i produttori di burro non avranno alcun interesse ad assorbire parte dell’overcharge, che dunque sarà integralmente traslata a valle, sui consumatori. Si tratta però di due casi estremi, che difficilmente si verificano nella realtà: in generale, infatti, una overcharge viene ripartita tra acquirenti diretti ed acquirenti indiretti, che potrebbero essere costituiti da una lunga catena: la quale, nel nostro esempio, sarebbe costituita dalle aziende alimentari che utilizzano come input il burro, da mense, alberghi e ristoranti che acquistano i prodotti dalle aziende alimentari, e così via. Sotto il profilo giuridico, la questione del passing on è di fondamentale importanza per due ordini di motivi, in primo luogo per comprendere quali siano i soggetti legittimati ad agire, e, in particolare, se tra questi sono compresi anche gli acquirenti indiretti; in secondo luogo, per definire quale sia il soggetto tenuto a liquidare il risarcimento, potrebbe infatti trattarsi sia del membro del cartello sia dell’acquirente diretto. Le soluzioni potrebbero essere diverse, ciascuna con implicazioni di diversa natura: a. potrebbero essere legittimati ad agire tutti gli acquirenti indiretti, ma ciò darebbe luogo ad una vera e propria moltiplicazione del danno (offensive passing on) 30, b. potrebbe essere consentito al membro del cartello, invocando una passing on defense 31, di evitare le richieste dei propri acquirenti diretti, 30 31 In questo caso il passing-on è utilizzato come spada. In questo caso il passing-on è utilizzato come scudo. 22
  • 23. c. potrebbero essere riconosciuti come legittimati attivi i soli acquirenti diretti, con il rischio però che gli acquirenti indiretti pur avendo patito il danno non siano in alcun modo legittimati a chiederne il risarcimento. Alla luce di questa discussione, passiamo ora ad analizzare come la questione del passing on è stata affrontata a livello giurisprudenziale. Negli Stati Uniti, la Corte Suprema ha deciso di non consentire l’uso difensivo né quello offensivo del passing-on. Nella sentenza Hanover Shoe 32, del 1968, infatti, la Corte Suprema ha stabilito il principio che chi causa un danno antitrust non può avvalersi della passing on defense, ossia evitare di risarcire i danni provocati sostenendo che l’acquirente diretto non è stato danneggiato poiché ha traslato il sovrapprezzo sugli acquirenti indiretti. Nella sentenza Illinois Brick 33 (1977), la Corte ha poi negato agli acquirenti indiretti la legittimazione ad agire. Pertanto, a livello federale, solo l’acquirente diretto è legittimato ad agire, anche nel caso in cui avesse traslato integralmente sui propri clienti il sovrapprezzo. Mentre gli acquirenti indiretti del cartello, anche se avessero in tutto o in parte subito un danno non potrebbero richiedere alcun risarcimento. Questa decisione, davvero piuttosto drastica, evidenzia come a livello federale, l’obiettivo principale sia la punizione dell’impresa che ha violato la normativa (e dunque la deterrenza) – piuttosto che il ristoro del danno. La Corte Suprema americana ha scelto esplicitamente di privilegiare l’obiettivo di obbligare l’infringer a pagare, rispetto a quello di far percepire l’indennizzo a chi è stato concretamente danneggiato. D’altra parte, per una fisiologica reazione ad una scelta normativa così drastica, l’eliminazione di ogni tutela civilistica nei confronti degli acquirenti indiretti a livello federale è stata temperata dall’azione di molteplici Stati dell’Unione, che hanno approvato normative collettivamente note come “Illinois Brick repealers”, che invece riconoscono legittimazione ad agire agli acquirenti indiretti: in pratica, ormai, gli acquirenti diretti avviano azioni presso le corti federali, e quelli indiretti presso le corti statali. In Francia, due Tribunali hanno affrontato la questione del passing-on nell’ambito di due azioni civili avviate a seguito della condanna del cartello Vitamine. Nel già citato caso Juva/Hoffman La Roche 34 il Tribunal de Commerce di Parigi non ha riconosciuto alcun danno ad un acquirente diretto. Secondo il 32 Hanover Shoe, Inc v. United Shoe machinery Corp., 392 U.S. 481 (1968). Illinois Brick Co. v. Illinois, 431 U.S. 720 (1977). 34 Laboratoires Juva v. Hoffman La Roche, Tribunal de Commerce de Paris, 26 gennaio 2007 n. RG 2003/04804. Per una sintesi, si veda Kleiman-Szekely (2007). 33 23
  • 24. Tribunale, infatti, Juva non dimostrava rigorosamente l’esistenza dell’incremento di prezzo ed inoltre riteneva che l’azienda avrebbe potuto incrementare a propria volta i prezzi di vendita senza alcun timore. Infatti, le vitamine utilizzate nelle sue produzioni erano in quantità molto ridotta e se Juva avesse proporzionalmente traslato il loro incremento di prezzo nei propri listini non avrebbe patito alcuna riduzione né dei margini né delle quantità vendute. La Corte notava poi un’ulteriore incongruenza: nel periodo di vigenza del cartello, i prezzi di vendita di Juva subivano un incremento nettamente superiore rispetto a quello registrato dal prezzo delle vitamine, senza che ciò influisse negativamente sui volumi venduti che – al contrario – erano cresciuti sensibilmente. La Corte dunque non ha riconosciuto a Juva alcuna forma di risarcimento, poiché non aveva provato la perdita di profitti che lamentava, in particolare, non era stata in grado di provare di non aver effettivamente trasferito sui propri clienti l’overcharge sui prezzi delle materie prime. Nell’analogo caso Arkopharma, il Tribunal de Commerce di Nanterre 35 ha negato a sua volta il risarcimento del danno. Secondo la Corte, infatti, Arkopharma aveva la possibilità di trasferire l’overcharge allo stadio successivo del mercato, aumentando a propria volta i prezzi di vendita. Tale possibilità era garantita dall’efficienza del cartello, che coinvolgeva i maggiori fornitori e non discriminava tra i numerosi acquirenti diretti, i quali erano perciò liberi di modificare i propri listini “sans craindre la concurrences puisque les conditions du marché sont indentiques pour toutes” 36 . La Corte precisava poi che la decisione di Arkopharma di non incrementare i propri prezzi era estranea al comportamento di Roche e dipendeva esclusivamente da precise scelte di politica tariffaria dell’attrice 37. In Italia, a oggi, la questione del passing on è stata valutata in due precedenti. Nel primo, la Corte d’Appello di Torino ha accolto una difesa fondata su questo principio nel caso Indaba c. Juventus FC SpA del 2000. 35 Tribunal de Commerce de Nanterre 11 maggio 2006, Arkopharma v. Roche and Hoffmann La Roche n. RG 2004F02643. Per una sintesi si veda Debroux (2006) . 36 “senza temere la concorrenza poiché le condizioni di mercato erano le medesime per tutti“, pag. 14. 37 “Qu’en ne l’ayant pas fait ainsi qu’elle le soutient alors qu’elle le pouvait, ses prix ayant du reste subi une majoration dans quelques cas précis et sans relation avec les ententes Arkopharma a librement arrêté sa politique tarifaire sans que la responsabilité des défenderesses puisse être engagée”, pag. 15. 24
  • 25. La Indaba S.r.l. - attiva nel settore del turismo e specializzata nel segmento degli eventi sportivi - conveniva in giudizio la Juventus F.C. lamentando di essere stata vittima di un abuso di posizione dominante, esercitato da quest’ultima sul mercato della vendita dei biglietti per la partita di Champions League del 28 maggio 1997 a Monaco di Baviera. Su tale mercato, la Juventus F.C. era monopolista, poiché disponeva di tutti i biglietti per l’incontro destinati al pubblico italiano, il suo comportamento configurava un abuso di tale potere, poiché aveva obbligato Indaba a partecipare ad una intesa illecita attuata “mediante l’imposizione di un altissimo prezzo sul biglietto di ingresso allo stadio e di prestazioni supplementari”, impedendo in questo modo “l’accesso al mercato di buona parte dei tifosi-consumatori che non potevano permettersi il pagamento di un costo così elevato e imponendo [loro] la conclusione di contratti includenti prestazioni obbligatorie, il tutto attraverso il soggetto debole costituito da [Indaba], costretto a subire una pressione monopolistica”. Come prevedibile, l’esito della campagna di vendita dei biglietti si rivelò un assoluto fallimento e la Indaba avanzava di conseguenza le proprie pretese risarcitorie nei confronti della Juventus F.C. In primo luogo, la Corte riconosceva la legittimazione ad agire per la ripetizione del danno antitrust non solo ai terzi estranei all’intesa, ma anche ai suoi partecipanti “in posizione economica equiordinata o subordinata”. Ciò nonostante, la Corte escludeva che tale diritto potesse essere riconosciuto ad Indaba, poiché aveva partecipato consapevolmente all’intesa “nella prospettiva.. di una traslazione del danno, secondo il metodo del passing-on”, veniva quindi sancito che “è privo di legittimazione attiva sostanziale il soggetto che abbia concorso a traslare il danno a terzi, e così ai consumatori finali”. Viceversa, la Corte ribadiva che“legittimato attivo…è il soggetto che abbia concretamente subito un danno”, ma Indaba non apparteneva neppure a tale categoria di soggetti, poiché si trovava nella posizione di “acquirente intermedio e.. traslatore integrale del danno, atteso che i maggiori costi furono trasferiti sugli acquirenti finali”. La Corte sottolineava infatti che ”i danneggiati.. [da] parte convenuta furono gli operatori economiciconsumatori, i quali dovettero subire l’imposizione di acquisto di un prodotto non voluto o addirittura sgradito, al fine di poter ottenere il prodotto primario desiderato” concludendo perciò che “a costoro spetterebbe il risarcimento del danno per l’esborso non voluto”. La corte sembra quindi assumere che vi sia stata traslazione totale dell’overcharge, probabilmente dando per scontato che la domanda per i biglietti di una partita della Juventus fosse perfettamente rigida rispetto al prezzo, e negando così la legittimazione attiva all’acquirente indiretto. 25
  • 26. Nel secondo caso, Unimare c. Gesar 38 , l’attore lamentava un abuso di posizione dominante da parte di Gesar consistente nell’applicazione di tariffe eccessivamente gravose per l’utilizzo delle strutture aeroportuali necessarie a svolgere la propria attività di handling in favore del U.S. Naval Support Office. La Corte d’Appello stabiliva l’insussistenza dell’abuso, in quanto l’aumento delle tariffe era stato imposto tramite decreto del Ministero delle Finanze, e rilevava che comunque non vi sarebbe stato danno, in quanto “gli aumenti dei costi di gestione sono andati a gravare unicamente sull’ente statunitense, che, come è pacifico in causa, provvedeva al rimborso delle spese vive sopportate dalla sua intermediatrice.” . Dunque, il vero danneggiato dai presunti prezzi eccessivi era stato il NSO, in quanto l’aumento nelle tariffe non aveva discriminato Unimare, e ad esso il NSO non aveva modo di sottrarsi rivolgendosi ad altro fornitore: il danno era stato quindi traslato pienamente a valle. Queste sentenze, francesi ed italiane, mettono in luce come, secondo le corti, il risarcimento possa essere riconosciuto solo a quegli acquirenti diretti in grado di dimostrare di non aver traslato a valle il sovrapprezzo pagato. In assenza di questa prova, è possibile ipotizzare che la traslazione del prezzo sia stata integrale: in altre parole le Corti suppongono che la domanda sia completamente rigida. Questa ipotesi, però, come già sottolineato, è molto rara in un contesto reale, e le Corti avrebbero dovuto cercare di sostanziarla in modo efficace. La Commissione in merito al passing-on propone da un lato che spetti al convenuto – che utilizza la passing-on defense - dimostrare che i suoi clienti hanno traslato a valle l'incremento dei prezzi patito. E dall’altro che – quando il passing-on sia utilizzato come spada – sussista una presunzione refutabile, in favore degli acquirenti indiretti, che la traslazione abbia effettivamente avuto luogo, e sia stata integrale. Se la prima indicazione sembra essere pienamente condivisibile: è giusto, infatti, che chi invoca determinati fatti a propria difesa sia in grado di dimostrarli adeguatamente; la seconda sembra maggiormente controversa. Infatti, pur trattandosi di una previsione certamente utile per evitare che il membro di un cartello non risarcisca alcun danno, essendo stato in grado di provare che i suoi acquirenti diretti hanno passato l'aumento nei prezzi verso valle, e se per qualche motivo vi è una bassa probabilità che gli acquirenti indiretti lo citino in giudizio; la combinazione di questa previsione con la prima parte della proposta può generare difficoltà notevoli: quando la traslazione è usata sia come scudo che come spada, in assenza di regole procedurali che assicurino che i due casi vengano riuniti, anche se si trovano innanzi a corti aventi diversa giurisdizione (ad esempio territoriale), la 38 App. Cagliari, Unimare c. Geasar, 23 gennaio 1999. 26
  • 27. probabilità di decisioni inconsistenti, a favore o in danno del convenuto, è molto elevata. In conclusione, sembra più ragionevole riconoscere che la traslazione possa sempre esistere, poiché consiste nel comportamento razionale di un’impresa che cerca in questo modo di mitigare il danno che subisce, ma l’onere della prova della sua esistenza e della sua misura dovrebbe gravare sul soggetto che intende avvalersene per sua difesa. 7. Danni da abusi escludenti La seconda tipologia di danno antitrust deriva da comportamenti illegittimamente escludenti da parte di un’impresa dominante, che – invece di ricorrere ad una competition on the merits – utilizza strumenti per escludere i concorrenti dal mercato, o per impedirne l’ingresso Prima di analizzare le tipologie di danno privato che tali comportamenti possono ingenerare, è però indispensabile sottolineare le notevoli differenze tra la valutazione delle conseguenze dannose a livello sociale dei comportamenti sanzionabili ai sensi dell’art. 81 e di quelli sanzionabili ai sensi dell’art. 82. Il secondo problema derivante dalla prova e valutazione del danno da abuso escludente deriva dalla difficoltà di provare l’effettiva esistenza di un danno risarcibile. Infatti, se l’illegittima esclusione di un concorrente da parte di un’impresa dominante può generare un danno sociale, nella misura in cui essa si traduce in una restrizione della concorrenza, non è detto che tale pratica abusiva generi sempre e comunque anche un danno al concorrente escluso. 7.1 Criteri incerti per il danno sociale Il danno sociale nei casi di comportamento illegittimamente escludente deriva dal fatto che alla collettività viene negata la possibilità di avere più concorrenza tra fornitori, e dunque presumibilmente di godere di prezzi più bassi e/o qualità più alta rispetto a quanto offerto dall’impresa dominante 39. Mentre però, nelle intese, l’analisi economica e giuridica dei cartelli lascia pochi dubbi circa le loro conseguenze assolutamente dannose sul benessere dei consumatori, perché essi sono ricchi di effetti negativi, non compensati 39 Inoltre, la collettività non beneficerà degli investimenti che sarebbero stati realizzati dal concorrente. Ciò si traduce però in un danno sociale solo se i nuovi investimenti del concorrente non avrebbero semplicemente sostituito investimenti già programmati dall’impresa dominante. 27
  • 28. in genere da alcun tipo di effetti di efficienza, lo stesso non si può dire per quanto riguarda i comportamenti unilaterali. Le difficoltà nell’analisi di questi comportamenti dipendono da vari aspetti: • la nostra comprensione, dal punto di vista legale ed economico dei molteplici tipi di comportamento che vengono raggruppati sotto l'etichetta "condotte abusive" si sta sviluppando solo lentamente, in quanto la maggior parte di essi risulta da giochi strategici, (nel senso tecnico del termine), nei quali ogni specifica mossa dell'impresa dominante e dei suoi concorrenti dipende da una molteplicità di fattori empirici, che sono del tutto specifici alla situazione in cui essa può essere adottata; in questi casi è quindi improbabile che si riescano ad elaborare astrattamente regole per se, ed infatti quelle che erano state adottate in passato, soprattutto gli Stati Uniti, sono state via via abbandonate; • i numerosi fattori empirici determinano d'altro lato anche gli effetti di queste mosse sui concorrenti, sugli acquirenti, e pertanto sul benessere: il medesimo comportamento può, a seconda dei casi, generare effetti negativi, nulli, o positivi; • una condotta, poi, che potrebbe essere abusiva, in realtà può non esserlo se crea efficienze tali da compensarne l'impatto negativo sul benessere dei consumatori. Una tale difesa può esser invocata in diversi casi, come ad esempio con riferimento agli sconti fidelizzanti (argomentando che questi sono indispensabili per ottenere economie di scala e passarne benefici ai consumatori), o alle vendite abbinate (argomentando che queste riducono i costi di produzione, distribuzione o transazione) ed in altri casi ancora; • da ultimo, non certo per importanza, non esiste un consenso sufficiente, né tra gli economisti, né tra i giuristi, circa il criterio generale da utilizzare per decidere se un dato comportamento unilaterale debba considerarsi o meno legittimo 40. La complessità di questi problemi può generare decisioni divergenti in casi assai simili. Un esempio evidente è il diverso atteggiamento, negli Stati Uniti e nell’Unione Europea, riguardo a riduzioni di prezzo praticate da un’impresa dominante: dopo la decisione della Corte Suprema nel caso 40 Si veda l’interessante discussione in AMC (2007), capitolo Ic; per una discussione più generale si veda Evans e Padilla (2004). 28
  • 29. Matsushita Electric 41 , negli USA non solo i prezzi predatori sono considerati una fattispecie poco probabile, ma più in generale le riduzioni dei prezzi di un’impresa dominante vengono considerate prima facie come lecite, perché "tagliare i prezzi per aumentare le vendite è l'essenza stessa della concorrenza” 42. La percezione europea del carattere di tali strategie è però ben diversa: ad esempio, per i prezzi predatori, non è ritenuta necessaria neppure la prova che l’impresa che abbia abbassato i prezzi abbia una ragionevole attesa di recuperare, almeno, i profitti cui così ha rinunciato 43. Senza ulteriormente approfondire questo punto, dato che il nostro interesse prevalente in questa sede riguarda il danno privato, è sufficiente concludere che gli effetti sul benessere dei comportamenti unilaterali sono spesso molto difficili da valutare. Come vedremo immediatamente, è dunque ancora più vero in questo caso il principio, riassunto dalla Cassazione nella sentenza Fondiaria sopra richiamata, secondo il quale il danno non può mai essere ritenuto sussistere in re ipsa. 7.2 Danno privato Vi sono due problemi fondamentali sotto il profilo della causazione del danno privato derivante da comportamenti unilaterali: • un comportamento abusivamente escludente non necessariamente esclude tutti i concorrenti dell'impresa dominante; • in un procedimento di questo tipo non troviamo schierati contro l’infringer dei consumatori, ma dei suoi concorrenti, che hanno dunque un incentivo razionale ad utilizzare le normative sulla concorrenza – secondo la felice formulazione di Baumol – to subvert competition 44, lamentando che qualsiasi loro difficoltà discende da un comportamento abusivo dell’impresa dominante, al fine di ottenere qualche partita compensativa nel quadro di una transazione, o la liquidazione di un danno mai effettivamente patito. Vediamo questi aspetti. 41 Matsushita Electric v. Zenith Radio. 475 US 574 106 S. Ct. 1348 89 l. Ed 2d 538 26 march 2006. 42 Ibidem, par. IV B. “But cutting prices in order to increase business often is the very essence of competition”. 43 Sentenza CGCE 14 novembre 1996, Tetra Pak International SA contro Commissione delle Comunità Europee, par. 44. “Furthermore, it would not be appropriate, in the circumstances of the present case, to require in addition proof that Tetra Pak had a realistic chance of recouping its losses.” 44 Baumol (1985). 29
  • 30. Le imprese investono tempo e risorse notevoli cercando di escludere i propri rivali dal mercato, riducendo i prezzi, introducendo innovazioni di prodotto, e utilizzando molti altri strumenti aggressivi che si configurano come competition on the merits. Ciò vale anche per le imprese dominanti, alcuni comportamenti delle quali potranno avere un carattere abusivo, mentre altri potranno rientrare in quei “mezzi su cui si impernia la normale concorrenza tra operatori economici” 45 , che sono pienamente consentiti anche a tali imprese. Naturalmente, i consumatori hanno un preciso interesse a che le imprese si comportino in modo vigorosamente aggressivo, ed è questo il motivo economico sostanziale, perché è necessario ritenere, come ha sancito il Tribunale di Primo Grado nel caso Michelin, che “l'esistenza di una posizione dominante non priv[a] un'impresa che si trovi in questa posizione del diritto di tutelare i propri interessi commerciali, qualora questi siano insidiati, e la detta impresa abbia la facoltà, entro limiti ragionevoli, di compiere gli atti che essa ritenga opportuni per la protezione di tali interessi, non è però ammissibile un comportamento del genere che abbia lo scopo di rafforzare la posizione dominante e di farne abuso“ 46. In molti casi, può quindi essere difficile isolare il danno ai concorrenti generato da un comportamento legittimo dell’impresa dominante (danneggiare il concorrente è infatti l’essenza stessa del meccanismo competitivo), da quello generato da un comportamento illegittimo sotto il profilo concorrenziale. Da questo punto di vista, è importante sottolineare come l’individuazione di un concreto effetto escludente non è peraltro neppure necessaria ai fini dell’accertamento di un abuso di posizione dominante. Infatti, “Al fine di accertare una violazione dell'art. 82 CE, è sufficiente attestare che il comportamento abusivo dell'impresa in posizione dominante mira a restringere a concorrenza o, in altri termini, che il comportamento è tale da avere o può avere un simile effetto” 47 : dunque, “non è necessario dimostrare che l'abuso di cui trattasi abbia prodotto un effetto concreto sui mercati interessati “ 48. In secondo luogo una condotta abusiva può recare danno ad alcuni concorrenti, ma non ad altri. Ad esempio, abusi come le clausole fidelizzanti possono generare un danno soltanto in quei concorrenti che potevano ragionevolmente ambire (per le caratteristiche del loro prodotto, i prezzi praticati, le risorse umane e 45 Così recita la sentenza CGCE nel caso Hoffman-La Roche, par. 91. Michelin c. Commissione, sentenza del 30 settembre 2003, causa T-203/01, par. 55. 47 Ibidem, par. 239. 48 British Airways c. Commissione, sentenza del 17 dicembre 2003, causa T-219/99, par. 293-297. 46 30
  • 31. materiali di cui sono provvisti) ad insidiare quei clienti che l’impresa dominante ha illegittimamente fidelizzato: concorrenti inefficienti, o non dotati di strutture o livelli qualitativi adeguati, non sono stati esclusi dall’impresa dominante, perché non avrebbero potuto in ogni caso fornire quei clienti. I due problemi sopra discussi sono particolarmente importanti in pratica perché è elevata la probabilità che i concorrenti dell’impresa dominante, in seguito al sanzionamento di suoi comportamenti abusivi, avviino azioni civili lamentando un danno, anche se non lo hanno in effetti subito, al fine di vedersi liquidare danni mai patiti, o di ottenere concessioni di vario genere dall’impresa dominante mediante transazioni stragiudiziali 49. La prova di un nesso causale adeguato, nei casi di abuso escludente, non può quindi essere in alcun modo presunta, ma deve sempre essere provata: nella sostanza, non vi è dunque – neppure in questo caso – alcuna differenza apprezzabile tra l’onere della prova che deve soddisfare l’attore nel caso di un’azione follow-on e nel caso di un’azione stand alone. L’esclusione illegittima di un concorrente dal mercato, ad opera dell'impresa dominante, come abbiamo visto genera sempre un danno sociale, ma non necessariamente un danno privato qualificabile come lucro cessante in capo al concorrente, che in alcuni casi può aver perso dei flussi di profitto che potevano ragionevolmente materializzarsi in assenza di comportamento illegittimo, ma in altri casi potrà aver perso più semplicemente delle chance. Rinviando al seguito la discussione dei problemi di quantificazione di tale danno, sia che esso si configuri come lucro cessante che come perdita di chance, si noti come l'applicazione del principio restituivo ponga in generale problemi complessi sotto il profilo dell'onere della prova. In questi casi, il tribunale si trova infatti davanti ad una quantificazione del danno proposta dall'attore basata su piani di vendita o su più articolati business plans, la cui concreta probabilità di realizzazione in assenza del comportamento abusivo deve essere accuratamente verificata sotto il profilo tecnico-economico. 8. Danni punitivi e profitti dell’autore dell’illecito Il risarcimento del danno antitrust, in Italia e in Europa è saldamente radicato nella logica compensatoria che in generale governa, con contenute eccezioni, il danno derivante da fatto illecito: il giudice, qualora ritenga provato il danno ed il nesso causale, liquida una somma tale da ricostituire la situazione economica del danneggiato quale essa sarebbe stata in assenza del comportamento dannoso. 49 Si veda la discussione di McAfee e Vekkur (2004) 31
  • 32. D'altro lato, due aspetti dell’esperienza americana, che vanta una evidente primazia in materia antitrust rispetto all'Europa, pongono il problema di se, ed in quale misura, sia ragionevole dipartirsi da una logica strettamente risarcitoria. Infatti: 1. è a partire dal Clayton Act del 1914 che l’imposizione di danni tripli per illeciti antitrust è obbligatoria negli USA 50; 2. il movimento law and economics, pur avendo vivacemente contestato questa previsione, per motivi diversi giunge però ad una raccomandazione in pratica assai simile, ovvero quella di incrementare il danno liquidato in ragione di un damage multiplier per tenere conto che la probabilità che l’illecito sia scoperto, ed il suo autore condannato a rifondere il danno, sono certamente inferiori al 100%. Una seconda prospettiva risarcitoria che pare importante analizzare, alla luce della fortuna in qualche modo crescente che essa trova nell'ordinamento europeo, in particolare per quanto riguarda i danni connessi alla proprietà intellettuale, e’ quella del risarcimento basato su una logica di disgorgement, ovvero di restituzione51 al danneggiato dei profitti realizzati dall'autore dell'illecito. Nei paragrafi seguenti ci chiediamo dunque se vi siano motivazioni sufficienti per abbandonare, nel danno antitrust, la tradizionale logica risarcitoria. 8.1 I danni multipli I danni multipli (categoria generale nella quale rientrano i danni, variamente denominati come esemplari, punitivi, o extra-compensativi, che hanno la comune caratteristica di essere superiori a quanto sarebbe necessario per risarcire l’attore) caratterizzano da tempo i paesi di common law. Storicamente, essi sono stati utilizzati nei casi di torts particolarmente gravi in quanto caratterizzati da una condotta del tutto riprovevole, nonché al fine 50 Il paragrafo 4 del Clayton Act recita infatti “ … any person who shall be injured in his business or property by reason of anything forbidden in the antitrust laws may sue therefore in any district court of the United States …and shall recover threefold the damages by him sustained, and the cost of suit, including a reasonable attorney's fee”: l’impiego di shall rende obbligatoria la liquidazione di danni tripli. 51 Più precisamente, nella common law si hanno in generale gain-based remedies, che si caratterizzano come restitution se vi è restituzione all’attore di un asset (o dei frutti di un asset), materiale o immateriale, di cui il convenuto si è illegittimamente servito, arricchendosi ingiustamente; si caratterizzano invece come disgorgement quando la restituzione riguarda per intero i profitti del convenuto, sia che essi derivino dall’illecito in danno dell’attore, sia da altre fonti. 32
  • 33. di compensare l’attore per offese che non fossero indennizzabili, come avveniva per i danni morali, inizialmente considerati come tali 52. Quando queste ultime tipologie di danno divennero indennizzabili nella common law, la finalità punitiva di un comportamento particolarmente riprovevole diventò prevalente. Perché sia riconosciuto un danno punitivo, dunque, “there must be circumstances of aggravation or outrage, such as spite or ‘malice’, or a fraudulent or evil motive on the part of the defendant, or such a conscious and deliberate disregard of the interest of others that the conduct may be called wilful or wanton”53. Questa è naturalmente anche la spiegazione della previsione di danni tripli per offese antitrust guidate da un “intento malvagio” (evil motive), disposta dal Clayton Act nel 1914. La ‘punizione’ – si noti - è dunque irrogata nella common law quando l’illecito nei confronti dell’attore sia particolarmente grave e riprovevole, ed è l’attore che percepisce come liquidazione un multiplo del danno patito. Tuttavia, negli USA, con lo sviluppo delle class actions a partire dagli anni settanta, nelle quali un numero limitato di attori riuscivano in misura crescente a farsi liquidare il danno patito da una platea molto più ampia di soggetti, i danni multipli sono stati sostanzialmente reinterpretati in senso quasi-penale, ovvero come un modo per punire il convenuto per i danni che il suo comportamento ha inflitto alla collettività 54 . Essi pertanto costituirebbero un’anomalia nel diritto civile, servendo alle medesime finalità del diritto penale, ma attraverso lo strumento di una causa per danni 55. La letteratura law and economics ha elaborato tale aspetto, argomentando che la normativa antitrust deve essere interpretata come finalizzata ad impedire i comportamenti socialmente inefficienti, e che essa debba pertanto prevedere che l’esborso atteso da parte di chi stia valutando se infrangerla debba essere tale da esercitare un effetto deterrente ottimale 56. La deterrenza e’ del resto un obiettivo presente all’interno della tradizione antitrust americana sin dalla nascita, ed è connaturato alla definizione di delitto (felony 57 ) dei comportamenti lesivi, sia che essi consistano nella 52 Per una recente discussione, si veda Benatti (2008), cap. I. Una discussione molto ampia del tema è in Colby (2003). 53 Prosser (1984), cap. 2. 54 Sul punto si veda la ricostruzione storica, di grande interesse, in Colby (2003) della teoria secondo la quale i danni punitivi sarebbere un “punishment for public wrongs”. 55 E’ proprio grazie a questa reinterpretazione che la coesistenza tra sanzioni antitrust (che in America hanno natura penale) e danno triplo civile sfugge al divieto delle double jeopardy (ne bis in idem) che invece in Europa, come vedremo, è un problema inevitabile. 56 Per una sintesi, si veda Polinsky - Shavell (1999). 57 Nella common law, il termine felony indica un crimine grave: negli USA, le felonies sono quei crimini per i quali la pena detentiva e’ superiore all’anno. 33
  • 34. partecipazione ad intese, o in abusi di posizione dominante 58. L’impianto penalistico di quella normativa è poi reso ancor più evidente dalla previsione, già nello Sherman Act, di pene detentive. Dobbiamo quindi concludere che occorra introdurre i danni punitivi nei nostri ordinamenti? La Commissione Europea, nei due atti di policy – Libro Verde e Libro Bianco 59 - che ha finora dedicato alle azioni civili per illeciti concorrenziali, non sembra nutrire dubbi: essa appare convinta che l'effetto complessivo delle sanzioni amministrative per illeciti concorrenziali, e del conseguente rischio di azioni civili, sia talmente basso da ridurre l'efficacia complessiva della normativa europea a tutela della concorrenza, che non riuscirebbe a deterrere sufficientemente gli illeciti. Questa visione della Commissione non pare però avere basi adeguate, perché poggia su un’evidenza empirica che non tiene conto degli effetti di vari recenti provvedimenti che hanno innalzato le sanzioni ed introdotto un incisivo programma di clemenza per i partecipanti ad un’intesa che collaborino con la Commissione. Queste misure hanno tuttavia avuto un effetto molto importante. Il primo, come evidenzia la Figura 2, a partire dal 2005 ha innalzato di quasi sette volte l’ammontare (totale e pro-capite) delle sanzioni inflitte dalla Commissione. Figura 2. Sanzioni per intese irrogate dalla Commissione Europea, 2003-2008 4,00 80 3,50 70 3,00 60 2,50 50 2,00 40 1,50 30 1,00 20 0,50 10 0,00 2003 2004 2005 2006 Totale sanzioni (mld euro) 2007 2008 Sanzione media pro-capite (mln euro) 58 Ovvero in restraints of trade, monopolization, o attempate monopolization. Commissione Europea (2005), Commissione Europea (2008a). 59 34
  • 35. In secondo luogo, i programmi di clemenza, che incentivano i membri del cartello a ‘tradire’, rafforzati in Europa nel 2006 60, tendono ad aumentare sensibilmente la probabilità che il cartello venga scoperto: per quanto ci consta non sono stati condotti ancora studi empirici sugli effetti di questi programmi, ma la Commissione ritiene certamente che essi siano stati sensibili. In terzo luogo, il recente Regolamento in materia di transazione nei procedimenti relativi ai cartelli 61 dovrebbe ulteriormente aumentare le probabilità di punizione in Europa, consentendo alla Commissione di chiudere rapidamente i casi meno gravi, destinando le risorse così risparmiate ad indagini riguardanti altri casi potenziali di intesa illecita. Il quadro USA è però totalmente diverso, dato che il 95% dei casi non viene avviato dal Department of Justice o dall’Office of Fair Trading 62, e dunque il 95% dei convenuti non deve temere né una sanzione amministrativa, né una sanzione penale, e dunque deve solo temere di dover provvedere al ristoro del danno. Negli USA, quindi, in assenza di danni multipli la deterrenza esercitata dalla normativa antitrust sarebbe stata molto limitata. In questo quadro, danni singoli sarebbero poi inadeguati ad assicurare un incentivo sufficiente ai molti pubblici ministeri privati (‘private attorney general’), i quali – spinti dalla speranza di ottenere la liquidazione di un danno molto elevato – promuovono con vigore molteplici azioni 63. In terzo luogo, i danni multipli nell’ordinamento americano hanno l’importante funzione di compensare, con questo strumento, danni subiti dalle vittime di un illecito competitivo, che non trovino altrimenti ristoro. Concludiamo quindi che la presenza di danni punitivi nell’ordinamento americano – dove peraltro la coerenza dell’impianto sanzionatorio complessivo in materia concorrenziale viene spesso vivacemente discussa rispondono da un lato ad una non lineare vicenda storica, e dall’altro a specifiche necessità poste da vari aspetti di quell’ordinamento. Inoltre, esse riflettono l’applicazione di norme penali all’antitrust, che è sostanzialmente estranea alla tradizione giuridica europea, nella quale è saldo il principio che provvedimenti penali siano irrogati solo in processi 60 Commissione Europea (2006). Commissione Europea (2008b). 62 Office of Fair Trading (2008). 63 La motivazione appare peraltro debole anche da un punto di vista americano, dato che la grande maggioranza delle azioni civili sono di tipo follow-on, e quindi seguono l’azione dei public attorney generals; inoltre, dei casi stand-alone, la grande maggioranza sono avviati da concorrenti di imprese dominanti (o presunte tali), e pertanto spesso motivati da strategie che nulla hanno a che fare con la difesa della concorrenza. 61 35
  • 36. penali, nei quali le garanzie procedimentali per l’imputato sono ben superiori a quelle previste dal processo civile. I danni punitivi fanno comunque fatica ad affermarsi in Europa. Nonostante il Competition Act britannico del 1998 abbia previsto la possibilità di liquidare danni aventi carattere exemplary 64 , tale previsione non e’ stata invocata per lungo tempo. Quando lo e’ stata, nel recente caso Devenish 65, nel quale un’impresa che acquistava da uno dei partecipanti all’intesa sanzionata dalla Commissione nel noto caso Vitamine 66 ne ha chiesta la liquidazione, la High Court ha respinto questa richiesta, essenzialmente perchè, essendo stato il comportamento già sanzionato in via amministrativa, la liquidazione di danni punitivi sarebbe stata in contrasto con il principio fondamentale ne bis in idem 67. Naturalmente, nonostante una peculiare sentenza del Giudice di Pace di Bitonto nel caso Manfredi 68, la discussione che precede è sostanzialmente accademica, almeno per quanto riguarda il nostro paese, dato che “per l’ordinamento italiano il risarcimento ha soltanto una funzione ripristinatoria e non sanzionatoria, sì che il ristoro non può andare al di là del pregiudizio subíto” 69. 8.2 I danni ed il profitto dell’autore dell’illecito La seconda questione da discutere in tema di principi di risarcimento è se sia opportuno utilizzare, almeno in qualche caso, i profitti dell’autore dell’illecito come misura del danno da liquidare all’attore. 64 Ma cio’, nelle parole dell’Office of Fair Trading, non altera il carattere fondamentale della normative, in quanto e’ pacifico che “the primary purpose of civil law on damages is to provide for loss, and not to punish”. 65 Devenish Nutrition Ltd. v. Sanofi-Aventis SA (France) & Others, confermato in appello [2008] EWCA Civ. 1086, [2008] UKCLR 783, disponibile sul sito www.bailii.org. 66 Decisione del 21 novembre 2001, caso n. COMP/E-1/37-512, in G.U.C.E. (2003), L6/1. 67 Il problema si pone naturalmente anche negli USA, ove esso è ‘risolto’ con un’ardita costruzione, che vede i dani multipli irrogati per punire un illecito ai danni di una specifica vittima, e dunque cumulabili – nonostante il principio della double jeopardy – con le misure penali previste dalla normativa. Si veda, sul punto, Colby (2003), par III.A. 68 G.d.P. Bitonto 21.05.2007, in “Danno e responsabilità”, n. 12/2007. “Da ultimo, questo Giudice rileva che alla parte attrice deve essere riconosciuta, a titolo di risarcimento danni, una somma di denaro tale da aver anche l’effetto deterrente nei confronti della parte convenuta. (…) Alla luce di tali considerazioni, il Giudicante ritiene di riconoscere all’attore un danno nella misura del doppio, rispetto all’ammontare dei premi esatti dalla convenuta in esecuzione dell’intesa anticoncorrenziale.” (Enfasi aggiunta). 69 Cassazione (2008), Commento al Libro Bianco della Commissione, disponibile al sito internet:http://ec.europa.eu/comm/competition/antitrust/actionsdamages/white_paper_com ments.html. 36
  • 37. Questa domanda è interessante perché suggerita dall’applicazione di una simile logica nel settore della proprietà intellettuale, per alcuni versi prossimo a quello dell’antitrust. Prima di vedere dettagliatamente questi sviluppi, e’ però, necessario ripercorrere sinteticamente l’applicazione di questo principio negli ordinamenti di common law, ove esso è nato ed è – peraltro infrequentemente, come vedremo – applicato. Se infatti è certamente vero che la nozione che occorra impedire che l’autore di un illecito ne goda i frutti è, se non altro sotto il profilo morale, attraente, qualora essa trovasse applicazione generalizzata i principi di liquidazione del danno avrebbero un aspetto molto diverso dall’attuale, ed in particolare dovremmo attenderci di vederli di frequente improntati ad una logica restitutiva. Come mostra Worthington (1999), in realtà nell’ordinamento inglese il disgorgement - strettamente inteso come restituzione da parte del convenuto di tutti i profitti da esso illecitamente conseguiti, qualunque ne sia la provenienza - non e’ utilizzabile nella responsabilità extracontrattuale ne’ in quella contrattuale. Nei casi di unjust enrichment derivanti dall’uso di una cosa altrui si applica invece l’istituto della restitution, che spoglia il convenuto degli ‘user damages’, ovvero dei profitti da esso conseguiti illecitamente da tale uso. Il disgorgement e’ invece utilizzabile solo in una classe di procedimenti molto ristretta, nei quali sia dimostrato che il torto del convenuto sia particolarmente ripugnante, in quanto abbia infranto norme morali assolute (equitable obligations of good faith and loyalty): il disgorgement è dunque un rimedio punitivo, mentre non lo è certamente la restitution 70. Prima di proseguire, è importante sottolineare come sia dunque la teoria della restitution ad informare la valutazione del danno in termini di ‘prezzo del consenso’ ormai pienamente accolta nella tutela della proprietà intellettuale: chi lo infranga, usa di cosa (immateriale) altrui, ed uno dei criteri possibili per la determinazione del risarcimento sono dunque i ‘benefici realizzati dall’autore della violazione’, come recita l’art. 125 c. 3 del Codice della Proprietà Intellettuale, approfondendo il solco che aveva tracciato la Direttiva 2004/48/CE 71, in base al principio consolidato nella common law, così da renderlo non più uno dei fattori da considerare nella determinazione del danno, bensì un criterio sempre utilizzabile, in alternativa (totale o parziale) a quelli tradizionali. 70 Per un’analisi in termini di giustizia correttiva si veda Weinrib (2000). Che recita “In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento”. 71 37