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L’immigrazione
come processo
in Italia
Edgar Galiano
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Curatrice Editoriale: Elisa Scourtaniotu
foto a cura di: Alessia Leonello/GraffitiPress
Finito di stampare nel mese di Aprile 2014
Centro Stampa Filarete - Via Filarete, 121 - Roma (Italia)
Tel. 06 24401998 - email: tipografiafilarete@yahoo.it
4
5
Indice
Premessa 9
Introduzione 17
CAPITOLO I
L’immigrazione come processo in Italia
1.1. Il Sistema Italiano d’Immigrazione. 23
1.1.1.L'ipotesi sul bisogno dell’immigrazione.
1.1.2.Marco teorico e la Sperimentazione del processo migratorio.
1.1.3.Verifica del percorso. 25
1.1.4.Gestione dell’immigrazione. 26
1.2. Le cause.
1.2.1.La crescita della popolazione. 28
1.2.2.Lo sbilancio del INPS. 31
1.2.3.I costi alti della produzione e della mano di opera. 32
1.3. Le fasi
1.3.1.lo sbarco. 34
1.3.2.L'immigrazione. 36
1.3.3.Il rientro. 41
CAPITOLO II
L’utilità economica delle persone immigrate
2.1. Forza di lavoro delle persone straniere. 45
6
2.1.1. Come merce e valore di uso.
2.1.2. Il valore di scambio e la concorrenza. 47
2.1.3. Ciclo formativo e formazione. 48
2.1.4. Sfruttamento della forza lavoro immigrata e i comunitari. 50
2.2. l'imprenditoria delle persone straniere. 52
CAPITOLO III
Lo Stato e le forze politiche 57
3.1. Cornice legale 58
3.1.1. Le leggi.
3.1.2. Le sanatorie 59.
3.1.3. La repressione. 60
3.2. Politica e la demagogia elettoralistica 63
3.2.1. Fra il Virus Leghista e i nuovi italiani .
3.2.2. Razzismo e discriminazione. 65
3.3. La nuova Politica. 68
3.3.1. Partiti e movimenti meticci. 69
CAPITOLO IV
I lavoratori immigrati e il sindacalismo 73
4.1. I diritti dei lavoratori.
4.1.1. L’arrivo degli operai stranieri. 74
4.1.2. La concorrenza. 75
4.1.3. L’unità di classe. 77
7
4.2. Gli iscritti immigrati nel sindacalismo. 79
4.2.1. Il Sindacalismo confederale.
4.2.1. Il Sindacalismo di base. 80
CAPITOLO V
L’accoglienza e l’integrazione 83
5.1. L’accoglienza.
5.1.1. La Religione come ammortizzatore sociale e la chiesa
come ponte. 84
5.1.2. La Cultura come folclore. 85
5.1.3. La famiglia transnazionale. 86
5.2. L’integrazione. 88
5.2.1. La religione come elemento d’identità. 90
5.2.2. La Cultura, contaminazione e la Neo-cultura italiana. 92
5.2.3. Le famiglie meticci. 96
CAPITOLO VI
I lavoratori immigrati “anche” pensano, parlano e lottano.
6.1. La soggettività degli immigrati e
loro rivendicazioni
6.1.1. L'inizio dell'organizzazione. 105
6.1.2. Il protagonismo autonomo e quello addomesticato. 107
6.1.3. La rappresentanza e Il folclore istituzionale. 108
6.2. L’organizzazione e la lotta civile.
6.2.1. Gli obiettivi dell'organizzazione e i diritti. 109
8
6.2.2. La espansione mondiale degli operai immigrati
e loro congiunti. 113
6.2.3. Lotta e diritti transnazionali. 115
SITOGRAFIA WEB. 119
<<<<<<<<<<<<<<<<<=>>>>>>>>>>>>>>>>>>
9
Premessa alla edizione italiana.
Tutto quello che riguarda l’immigrazione e gli immigrati in
Italia è stato già visto. Anche senza voler contare
l’immigrazione interna, che pure nei secoli è stata ingente
(da quelle migliaia di veneti, marchigiani o abruzzesi che
bonificarono le paludi Pontine agli eserciti di braccianti
meridionali diventati operai delle fabbriche del nord), tra il
1870 e il 1970 gli italiani sono andati ovunque nel mondo in
cerca di lavoro e di un futuro migliore per i propri figli.
Eppure, anche se sull’emigrazione italiana si è scritto,
raccontato e detto tanto, oggi sembra quasi che l’argomento
sia nuovo. Anche se chiunque abbia fatto le scuole
elementari in Italia sa di cosa parla “Dagli Appennini alle
Ande”, se al solo nominare Marcinelle a ciascuno scappa
un brivido o se quella di “Rocco e i suoi fratelli” è una storia
in cui, ancora oggi, molti italiani del sud potrebbero avvertire
una eco di vicende di famiglia.
Purtroppo, quello dell’immigrazione oggi è un tema “caldo”,
argomento buono per i dibattiti televisivi, le tavole rotonde, i
convegni. Un tema che fa discutere e divide, che spesso
contrappone i pro e i contro come ultras di squadre diverse
finché in campo non scende l’esperto, il “cifra tuttologo” di
turno, che inizia a sciorinare dati e percentuali: quanti
immigrati arrivano ogni anno in Italia, da quanti paesi
provengono, quanto costa l’immigrazione in termini di PIL.
Cifre che - vere o false che siano a seconda del contesto più
o meno ideologico in cui vengono esposte - fanno
dimenticare quasi sempre che quello di cui si parla non sono
numeri, ma esseri umani. Esseri umani che - come gli italiani
10
un tempo - partono dai loro paesi in cerca di un lavoro e di
una vita migliore, per sé stessi e le proprie famiglie.
Il primo mito che riguarda l’immigrazione che arriva oggi in
Italia è quello dell’“esercito di affamati” che sbarcherebbe
sulle coste con i barconi: la maggioranza delle persone
immigrate in Italia negli ultimi trent’anni non è arrivata in quel
modo. Sono arrivati in aereo, con regolari voli di linea, e via
terra attraversando semplicemente le frontiere in macchina o
in pullman. Non sono arrivati sfidando il mare e la guardia
costiera soprattutto perché non ne avrebbero avuto bisogno.
Non esiste legge che impedisca di venire in Italia per turismo
e, infatti, la maggioranza degli stranieri arriva così. Solo che
allo scadere del visto turistico resta in Italia, sia che abbia
già ottenuto i documenti per farlo in modo legale, sia che
questo comporti di diventare “irregolare”. In tutti i casi, la
percentuale di chi arriva con i barconi (immagine reale ma
rara, che, ripetuta all’infinito e amplificata ad arte,
contribuisce solo a creare nell’immaginario collettivo il timore
del’“invasione straniera”) in realtà è bassissima.
Un’immagine buona solo per alimentare le politiche de
"l’Italia agli italiani", con i tutti i loro contorni di “padanie” e
fazzoletti verdi o, peggio, croci celtiche e mani tese.
La verità dei fatti è un’altra, ma va ricercata molto lontano
dalle coste di Lampedusa. Il primo passo per trovarla può
essere entrare in un negozio dell’Ikea. Prezzi bassi e vasta
scelta, ecco il segreto del successo della multinazionale
svedese più conosciuta al mondo.
Ma su cosa poggia la fortuna del “signor Ikea”? Su un’ottima
visione commerciale e su un altrettanto spiccato senso degli
affari, questo certamente, ma anche su qualcos’altro. Per
scoprire cosa basta leggere le etichette sui prodotti.
11
Bicchieri: made in Bulgaria. Scodelle: made in Russia.
Posate: made in China. Lenzuola: made in India. Cestini in
vimini: made in Sri Lanka. Il “signor Ikea” ha capito, prima di
molti altri, che la globalizzazione dei mercati poteva essere
una benedizione. Così l’ha sfruttata, de-localizzando quasi
tutte le produzioni in paesi in cui i diritti dei lavoratori non
esistono, i salari sono bassi e i sindacati non hanno voce.
Come c’entra questo con l’immigrazione in Italia? C’entra,
perché è l’esempio concreto del “paradosso Ikea”: oggi il
mercato delle merci è stato globalizzato alla perfezione
(chiaramente a seconda dei punti di vista), ma c’è ancora
una merce che non può circolare liberamente. La forza-
lavoro.
Come una qualsiasi merce, la forza-lavoro rientra in un
mercato dove ci sono compratori e venditori, e, come merce,
è soggetta ai ribassi e ai rialzi dell’offerta e della domanda.
Nell’Italia del “dopo boom economico”, gli imprenditori -
quelli grandi, con tanti lavoratori, i “signori Ikea” italiani per
intenderci - cominciano a creare le condizioni per abbassare
i costi di produzione. Uno dei primi sistemi che trovano è
appunto andare all’estero, nei paesi dove i salari sono
inferiori rispetto a quelli italiani, producendo là e continuando
a vendere qui. Ma presto questo non basta - anche perché
non tutto può essere de-localizzato - e occorre trovare altre
strade. Uno dei primi sistemi ad essere scoperto grazie al
provvidenziale suggerimento dei giuslavoristi, è stato
sicuramente il precariato. Generazioni intere di lavoratori
senza diritti, aggrappati a contratti in continua scadenza,
costretti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro pur di
sfuggire alla disoccupazione. Un’idea brillante. Ma neppure
12
questo bastava. Così gli imprenditori chiedono aiuto allo
Stato, il quale - per contribuire ad abbassare i costi - fa in
modo di richiamare in Italia un gran numero di lavoratori
stranieri. Più o meno formati o scolarizzati non importa, tanto
devono essere impiegati in lavori di basso profilo,
l’importante è che siano “irregolari”. Perché il trucco è
proprio questo: che la forza-lavoro non arrivi dalla porta, ma
dalla finestra. Cioè senza diritti, imballata e pronta per
essere sfruttata. I lavoratori devono poter essere assunti
irregolarmente, devono essere licenziabili senza creare
problemi, li si deve sempre poter ricattare. Un’altra gran
bella trovata, che oltretutto contribuisce a dissuadere anche i
precari italiani dal chiedere maggiori diritti, del tipo: “Se rifiuti
di scaricare bancali in magazzino per otto ore al giorno
chiamo due marocchini, li pago la metà, e loro mi dicono
anche grazie!”.
Gli imprenditori che importano materie prime o strumenti di
produzione dall’estero pagano i costi del trasporto, mentre
per avere manodopera straniera sottopagata in Italia non ci
sono molti oneri aggiuntivi. L’importazione di operai stranieri
è il miglior affare che un Stato può fare in tempi di crisi:
ricevere una persona già in età lavorativa senza aver speso
un euro per lui/lei. Una simpatica forma di rapina colonialista
moderna, che sottrae braccia e cervelli ai paesi d’origine,
ghettizzando i lavoratori immigrati in nicchie di lavoro non
qualificato, rifiutando di riconoscere titoli di studio esteri e
specializzazioni conseguite altrove. Ma d’altra parte la
domanda del mercato sembra attestarsi solo sulle fasce
basse: non sono richiesti ingegneri meccanici, ma turnisti
alla catena di montaggio. Non agronomi, ma raccoglitori di
13
pomodori. Eppure, così come si sottoscrivono accordi di
commercio bilaterale o trattati di libero commercio, si
dovrebbero poter firmate anche “trattati di libero lavoro”,
almeno con tutti quei paesi che - nel corso degli ultimi
cent’anni - hanno visto nell'emigrazione italiana un elemento
socialmente significativo. Ma il concetto di reciprocità
sembra non essere molto familiare ai governi.
Così arriviamo ad un mercato in cui la maggior parte degli
italiani non accetta di lavorare in un bar per 5 euro l’ora.
Lavoratori il cui tenore di vita - finora tutelato da associazioni
e sindacati - impone di rifiutare di andare a raccogliere la
frutta per 20 euro la giornata. Uomini e donne che, avendo
studiato e investito sulle proprie specializzazioni, non
accettano di prendersi cura di un anziano per 600 euro al
mese o di fare le pulizie nelle case a 8 euro l’ora. Il minimo
offerto dal mercato è diventato troppo basso. Perciò non è
affatto vero, come qualcuno vuole far credere, che gli italiani
non vogliono più fare certi lavori. Semplicemente si rifiutano
di farli per paghe così basse. Quando i lavori manuali -
magari anche umili - vengono ben retribuiti, gli italiani lottano
per accaparrarseli esattamente come gli altri: non c’è
concorso per posti da “operatore ecologico” indetto da una
municipalizzata che non veda migliaia di domande di italiani,
ben oltre l’offerta. Il falso ideologico dei lavoratori stranieri
che coprono i vuoti lasciati dagli italiani vuole solo
nascondere il problema dello sfruttamento dei lavoratori,
assopendo le coscienze e cancellando i diritti di tutti.
Chi sostiene che l’immigrazione sia un “fenomeno”, dà
un’immagine assolutamente falsata della questione.
L’immigrazione non ha nulla di occasionale. Non è un esodo
improvvisato di persone in fuga da qualcosa o qualcuno.
14
Non nasce dall’oggi al domani. L’immigrazione è, piuttosto,
la prima e più visibile conseguenza dell’attuale sistema del
lavoro globalizzato: un sistema in cui le condotte umane
vengono indirizzate esclusivamente attraverso le leve
economiche della domanda e dell’offerta di lavoro. Il porre
l’accento sull’emergenza, sugli sbarchi, sul tema
“dell’invasione straniera” (così come sulle quote, sui
permessi di soggiorno, sulla repressione), mette in ombra il
nodo centrale attorno al quale tutto ruota: il mercato ha
bisogno del lavoro immigrato, e ne ha bisogno proprio nella
sua forma attuale. Come in passato si nascondeva l’origine
del profitto - che traeva origine dal plusvalore generato degli
operai - oggi si nasconde il plusvalore che generano i
lavoratori immigrati.
L’Italia è un paese che, da molto tempo ormai, ha una
crescita demografica negativa. Questo significa che, man a
mano che la popolazione italiana ha iniziato a invecchiare,
sono rimasti dei “posti vuoti” nella società. La dinamica è più
facile da capire in un piccolo centro che non nelle grandi
città: se in un paesino muore il macellaio o il farmacista, il
giorno successivo la gente si preoccuperà di sapere chi
venderà la carne o i medicinali, perché quel “posto” è
rimasto vuoto. Nelle città l’unica cosa a cui possiamo
guardare sono i dati generali relativi alla popolazione, che,
stando alle statistiche, ogni anno diminuisce. Ma questo
oltre a “lasciare vuoti dei posti” crea anche una contrazione
del mercato. Man mano che la popolazione invecchia
diminuisce il proprio valore d’uso, nel senso che non
contribuisce più come una volta a far girare l’economia: gli
anziani non comprano (o lo fanno di rado) case, auto, vestiti,
elettrodomestici e tutto quello che la società dei consumi
15
produce incessantemente. Magari incrementano le proprie
richieste di servizi (donne delle pulizie, badanti, medici e
infermieri), ma iniziano a porsi ai margini del mercato dei
beni. Inoltre, le persone anziane non lavorano più, ma
percepiscono una pensione, diventando quindi per la
collettività una voce in passivo. Perciò, ricapitolando: la
popolazione invecchia, la natalità è negativa, gli anziani
diventano un costo che grava sulle spalle della popolazione
economicamente attiva, che - soprattutto considerando il
nostro alto tasso di disoccupazione - si assottiglia sempre di
più. Quindi? Quindi arrivano gli immigrati.
16
17
L’immigrazione in Italia come processo
Introduzione
La parola “migrazione” deriva dal latino mĭgrātĭo
(emigrazione, trasferimento, passaggio) e, in senso figurato,
del greco metafora, dalle due radici “metà”, più là, e
“phorein”, traslocare, portare, spostare più là). Quest’antica
definizione della migrazione oggi è troppo stretta, soprattutto
dopo le scoperte archeologiche sull’origine dell’uomo che
stabiliscono come le tribù dell’Homo Sapiens lasciarono la
culla afro-orientale (Etiopia) e si “spostarono” per tutta la
Terra, inaugurando una fase in cui l’umanità entrò in
possesso di tutto il pianeta e celebrò l'inizio della migrazione
come condotta normale degli esseri umani. È a questo
migrare che dobbiamo molto di quello che siamo oggi: le
ricerche ci dicono infatti che lo sviluppo del piede, del
ginocchio e del bacino nell’uomo moderno sono avvenuti
anche grazie al camminare dei nostri progenitori.
Nelle comunità primitive il processo migratorio è
generalizzato: non c’è ancora la divisione sociale del lavoro
e quindi tutti migrano, perché solo migrando potevano
coprire i loro bisogni di beni.
Quando, in epoca storica, arriva lo schiavismo, la
migrazione non è più un processo voluto: la proprietà privata
sui mezzi di produzione fa nascere lo sfruttamento degli uni
sugli altri, e l’essere umano diventa merce di scambio da cui
trarre profitto. La migrazione diventa coatta, spesso mortale:
chi perdeva una battaglia o una guerra era portato nelle
18
terre di residenza dei vincitori, strappato alla propria famiglia
e con questa quasi mai ricongiunto.
Nel feudalesimo e, più tardi, nello “schiavo-feudalesimo”
imposto dal Vecchio Continente nelle colonie africane,
asiatiche o latinoamericane, la migrazione ha le stesse
caratteristiche, tranne che gli schiavi hanno acquisito dei
diritti in relazione alla capacità di soddisfare le esigenze dei
propri “padroni”.
Nel capitalismo la forza-lavoro è una merce, e solo chi la
vende ha “la libertà di scegliere lo sfruttatore”. La migrazione
di centinaia di milioni di braccia altro non è che un mercato
mondiale di manodopera. Così come in passato si
pretendeva di nascondere l’origine del profitto - quindi il
plusvalore generato degli operai - oggi si vuole nascondere il
profitto che generano i lavoratori immigrati in ogni paese
dove arrivano. Si vuole nascondere che gli operai stranieri
sono stati portati apposta per far concorrenza agli operai
italiani e far sparire ogni traccia dei diritti lavorativi di tutti.
La presenza in un paese di milioni di persone immigrate non
può essere spiegata attraverso una sola risposta. La
maggior parte delle persone immigrate in Italia sono arrivate
in aereo e via terra, non per mare come i mass media
pretendono di far credere. I gommoni e i barconi pieni di
"affamati" sono immagini che alimentano la politica
discriminante e impauriscono chi crede nella trama della
Lega Nord: "l’Italia agli italiani" o "Padania libera". I concetti
di “nostra terra”, “nostra nazione”, “nostra Unione Europea”
appartengono esclusivamente a chi veramente è proprietario
19
di questi posti, perché i confini nascono per legalizzare la
proprietà.
"Le nostre risorse naturali", "i nostri schiavi", "i nostri operai",
"i nostri animali", "i nostri mari", e poi, subito dopo, "la nostra
cultura", "la nostra religione", "la nostra musica". Ponendosi
dentro dei confini sembra che tutto sia di tutti, naturalmente
finché qualcuno fa vedere i titoli di proprietà. I confini si
aprono e si chiudono solo quando i padroni del posto lo
vogliono. I confini delle nazioni sono parte della sicurezza e
sono impenetrabili. Il controllo per l’aria, la terra e il mare
garantisce il flusso - desiderato o no - di persone o cose:
siamo nel terzo millennio, il mercato delle merci è stato
globalizzato tanto che le cose possono passare da un
confine ad un altro. Solo una merce non può circolare
liberamente: la forza-lavoro.
I mercati internazionali funzionano attraverso trattati di libero
commercio che sembrano accordi di reciproco vantaggio. I
paesi sviluppati e industrializzati si accordano con paesi
arretrati con patti che regolano il flusso delle merci. Lo fanno
a seconda degli interessi dei grandi produttori a detrimento
di quelli di migliaia di piccoli e medi produttori dei paesi
dipendenti. I trattati che regolano il flusso della merce forza-
lavoro, quindi anche i suoi diritti, invece, ancora non sono
stabiliti fra i paesi. Il flusso delle persone si regola con
norme bilaterali di vecchia data, ma se in futuro si
firmeranno accordi saranno ugualmente sottomessi agli
interessi dei grandi capitalisti, e solo dei governi indipendenti
dal sistema coloniale attuale potrebbero costringere a
firmare trattati in vantaggio della merce forza-lavoro, magari
20
attraverso accordi che riconoscano i diritti umani e lavorativi
delle persone emigrate in queste “grandi” nazioni.
L’immigrazione è un processo generatore di grandi risorse
economiche e per questo ci sarà sempre qualcuno o tanti
pronti ad approfittare di questo massiccio movimento di
persone.
La migrazione è un tema sempre caldo. Le persone ne
parlano, gli “esperti” ne discutono nei dibattiti, alle tavole
rotonde e durante i convegni. I “cifra-tuttologi”, infine, ne
espongono diligentemente i numeri, e fra tutti sono i
peggiori: attraverso dati e cifre, questi ultimi hanno infatti la
capacità di trasformare la fame nel mondo in una semplice
statistica, facendo dimenticare quasi sempre che si parla di
esseri umani. I tanti uomini, donne e bambini che da più di
vent’anni sentiamo arrivare da lontano finiscono in poco
tempo per diventare delle unità di forza-lavoro nel sistema
produttivo di questo paese. Quindi, una volta tuffati nel
mercato del lavoro, sembra che spariscano, a conferma che
la finalità dell’immigrazione è proprio il lavoro.
Chi sostiene che l’immigrazione è un fenomeno ne dà
un’immagine assolutamente falsata. Quasi che le persone
immigrate stessero fuggendo come in un esodo o come buoi
allo sbando. Chi sostiene il concetto del “fenomeno” non
riesce a capire che chi vuole “scappare” dai paesi del “terzo
mondo” per fame, guerra o per sfuggire a catastrofi naturali,
deve avere come minimo i quattrini per pagarsi il biglietto del
viaggio. Per attraversare l'Oceano Pacifico, Atlantico o
Indiano non si può essere indigenti, occorre avere un
minimo di risorse economiche per acquistare un biglietto di
21
viaggio di qualsiasi mezzo di trasporto dall’Asia, Africa o
America Latina verso l’Europa, Stati Uniti, Canada o altri
paesi. Cioè avere da 5mila a 10mila dollari a testa per
arrivare a destinazione.
La maggior parte delle persone immigrate provengono dal
cosiddetto ceto medio dei loro paesi. Per questo fra le
persone immigrate troviamo laureati, professionisti, piccoli e
medi imprenditori, persone che hanno un gran bagaglio
culturale, quasi tutti bilingue. Queste persone escono dal
loro paese con progetti di vita, pianificati dentro le mura
familiari con la speranza di diventare il più presto possibile
possessori di un salario ricco nei paesi del “primo mondo”.
Milioni di progetti di vita non possono esseri considerati
come un fenomeno. Al contrario della visione proposta dalla
maggior parte delle ONG, l’immigrazione è una condotta
umana che può essere analizzata solo dentro un processo
di mercato mondiale di forza-lavoro, cioè dentro l’offerta e la
domanda internazionale di posti di lavoro. Una condotta
umana che, a seconda del modo di produzione in cui si
attua, stabilisce dei processi. Processi che hanno delle fasi
chiare dentro un tempo e uno spazio.
22
23
Capitolo I
L’immigrazione in Italia come processo
1.1.Il Sistema d’immigrazione in Italia.
1.1.1. L'ipotesi sul bisogno dell’immigrazione in Italia.
Il primo allarme che arriva agli Stati sulla mancanza di esseri
umani sono i dati negativi della crescita della popolazione. A
seguito di questo, come sosteniamo, comincia lo sbilancio
della previdenza sociale. Queste sono le cause che portano
gli Stati a porsi l’ipotesi di aprire l’importazione di
manodopera straniera.
Secondo l’ONU, all’Italia servirebbe far rientrare 200mila
persone ogni anno per compensare l’emergenza
demografica. L’Italia necessita di riempire i vuoti, necessità
anche dei consumatori. I dati statistici ci dicono di sì, l'Italia
ha bisogno di aprire le porte?
1.1.2. Marco teorico e la Sperimentazione del processo
migratorio
Il passo successivo all’ipotesi è la sperimentazione. Arrivati
a questo punto lo Stato aveva la necessità di sperimentare
nella pratica i risultati di un’eventuale apertura alla
manodopera straniera. La questione che si poneva era però
quali porte (o “finestre”) aprire, e in che modo. Qualche
esperienza su cui basarsi poteva venire da quei paesi in cui
questa necessità si era già manifestata prima, come la
Francia o l’Inghilterra o la Germania, ma in realtà ben poco
24
di quelle esperienze alla fine è stato usato nel nostro paese.
In questo senso, oltre ai diversi motivi di carattere politico
che certamente pesano nell'orientamento della creazione di
un “modello italiano dell’immigrazione” autonomo, si sono
aggiunte anche motivazioni che potremmo definire storico-
culturali.
I nostri vicini d’oltralpe, così come gli inglesi, fino a quel
momento, infatti, erano stati interessati principalmente
all’immigrazione proveniente dalle ex-colonie e perciò
difficilmente comparabile con quella che avremmo potuto
avere noi. In questa sede non è possibile confrontare le
scelte italiane in materia di immigrazione con quelle
realizzate da altri paesi che nel tempo sono stati interessati
dai flussi migratori, ma è comunque interessante notare
come di “modelli” ne esistano numerosi.
Stati come l’Australia, ad esempio, hanno affrontato la
questione in maniera del tutto differente: avendo l’assoluta
necessità di popolare ampie zone del proprio territorio in
breve tempo, il governo di Adelaide finanziava interamente
l’immigrazione, fornendo, a chi decideva di trasferirsi in
modo permanente, casa, lavoro e assistenza sociale,
proprio nel tentativo di incentivare in ogni modo questi
trasferimenti.
Fra i primi strumenti utilizzati in Italia per reperire
manodopera straniera, c’è stata sicuramente la Chiesa
Cattolica, una struttura estesa in tutto il mondo che ha la sua
sede principale proprio in Italia. Non è un caso, infatti, che le
prime collaboratrici domestiche vengano portate, proprio per
25
il tramite dei missionari, da Capo Verde e dalle Filippine,
entrambi paesi in cui la Chiesa ha sempre avuto un grande
peso sociale.
Per altre vie, che non fossero quelle legate ai canali
preferenziali aperti dalla Chiesa Cattolica, quindi si è cercato
di rivolgersi ai paesi più vicini. Allora dai paesi dell’est
Europa, ancora sotto l’egida dell’Unione Sovietica o sotto
regime non capitalistico, non era possibile importare forza-
lavoro, perciò, subito dopo il crollo del muro di Berlino, la
Chiesa favorì rientri dalla Polonia (anni 90), anche per
l’affinità del Papa polacco e per il sostegno dato dal Vaticano
al sindacato Solidarność di Lech Walesa.
Nonostante la maggior parte dei paesi del nord-Africa allora
fosse retto da governi poco disposti a collaborare a questo
genere di esperimenti socio-economici, faceva eccezione il
Marocco, che infatti negli anni ‘80 è stato uno dei primi paesi
di emigrazione verso l’Italia e la Tunisia, da dove vennero i
primi veri “lavoratori importati”, giunti in Italia per soddisfare
il bisogno di manodopera degli imprenditori medi e grandi
nel settore della pesca e della falegnameria.
1.1.3. Verifica del percorso e impatto sociale
La fase successiva è la verifica della fattibilità del percorso e
quello dell’impatto sociale di questa “cosa nuova” che era la
presenza permanente di persone estranee al posto, molto
lontana da quella turistica. Si doveva preparare la gente ad
avere come vicino di casa o collega di lavoro uno straniero.
26
In questa fase entrano quindi in scena i mezzi di
comunicazione, le campagne sociali, la pubblicità e l’azione
mirata di quelle che vengono chiamate “agenzie formative”
(scuola, chiesa), che concorrono a creare quello spirito di
“buonismo” e “umanitarismo” che nei primi anni
dell’immigrazione straniera in Italia ha caratterizzato il nostro
modello.
Dall’altra parte si è calcato molto l’accento sui benefici
economici connessi alla presenza dei lavoratori stranieri,
che, con i loro contributi, avrebbero pagato le pensioni dei
lavoratori italiani. In questa fase caratterizzata dalla
necessità di lavoratori immigrati (ma soprattutto dei loro
contributi all'INPS) e le conseguenze dell’impatto sociale si
hanno due regolarizzazioni, quella del 1986 (105.000 unità)
e quella del 1989 (220.000 unità). Questo periodo arriva fino
alla metà degli anni ’90, con la prima vera sperimentazione
del modello nel 1995, quando viene fatta la sanatoria
attraverso il decreto Dini.
1.1.4. Gestione dell’immigrazione
La vera natura dello Stato italiano nei confronti
dell’immigrazione emerge dalla Legge 40 del ‘98, la
cosiddetta “Turco-Napolitano”, che stabilisce, una volta per
tutte, il legame fra immigrazione e sicurezza pubblica.
Attraverso quest’impianto normativo si struttura il carattere
repressivo delle norme che regoleranno l’ingresso e la
permanenza dei lavoratori immigrati in Italia e lo stato di
27
ricatto permanente in cui gli stessi lavoratori devono essere
tenuti per favorire il mercato.
Così nascono i CPT, Centri di Permanenza Temporanea
(dopo il 2008 denominati CIE, Centri di Identificazione ed
Espulsione) dove l’accoglienza viene rinchiusa da un filo
spinato. Questa legge, promossa da un governo “amico”, ha
un solo aspetto positivo per le persone immigrate: la tessera
STP (Straniero Temporaneamente Presente), che dà il diritto
d'accedere all’assistenza sanitaria nazionale gratuita anche
per chi non è in regola.
La gestione del processo non avviene soltanto attraverso
leggi o sanatorie, ma anche con il controllo delle frontiere,
regolate come “valvole a pressione”. A questo contribuisce
l’accordo di Schengen, stabilendo la lista di paesi autorizzati
all’ingresso nella loro area. Sicuramente senza volerlo, gli
Stati della “zona Schengen” determinano così le tariffe che i
cosiddetti “coyotes”, gli scafisti e gli altri trafficanti di
persone immigrate, scelgono per l’ingresso in Italia e negli
altri Paesi della “Fortezza Europa”, piccola parte del
business della tratta di esseri umani.
I tempi del processo migratorio sono diversi in ogni paese.
Quello che è uguale dappertutto è la sequenza delle fasi, a
riprova che si tratta di un processo pilotato e non casuale. In
parallelo a tutto questo percorso si è generata anche
l’organizzazione e la lotta della manodopera straniera, che,
vivendo in uno Stato che nega i diritti, non può far altro che
cercare di riprenderseli.
28
1.2. Le cause
Le cause dell’emigrazione di milioni di persone nel mondo
ovviamente sono molte varie. Di quella generata dall’offerta
di manodopera abbiamo già parlato. Ora vogliamo vedere le
questioni interne all’Italia, per capire le cause che
generarono l’immigrazione qui, analizzando quindi la
questione ponendoci quindi l’altra parte del mercato, quello
della domanda. Di seguito identifichiamo tre cause che
potrebbero essere anche le cause di questo processo
oltreconfine, ma che comunque siamo sicuri fino prova
contraria sono le vere motivazioni per la presenza degli
estranei in Italia.
1.2.1. La decrescita della popolazione
L’Italia è un paese che dagli anni ’80 ha una crescita
demografica negativa (meno -2%), visto che il 2% è la
percentuale minima di crescita per la ricomposizione
dell’intera popolazione di un Paese. Questo significa che la
popolazione italiana ha iniziato a invecchiare e morire,
lasciando progressivamente sempre più “posti vuoti” nella
società, nel senso che, considerando che ogni individuo
nella società è produttore di reddito ma anche consumatore
di beni e servizi, alla sua morte vengono meno sia il reddito
che esso produceva sia la richiesta di beni materiali e
immateriali che erano legati a lui o lei.
29
Questo è più facile da capire in un piccolo centro che non
nelle grandi città. Se muore il macellaio o il farmacista in un
paesino il giorno successivo lo sanno tutti, e, a parte le
questioni umane che porta una mancanza, la gente si
preoccupa di sapere chi porterà la carne. La necessità di
quel servizio va coperta in modo provvisorio o
definitivamente, rientrando nella logica del sistema
produttivo capitalistico. Se la commercializzazione di carne o
di qualsiasi altro prodotto per il numero di persone che
abitano il paesino non è sufficiente per avere profitto, il
paesino rimarrà sempre di più senza prodotti man mano
chiudono tutte le attività commerciali.
In Italia in 5 anni è sparito circa il 5% della popolazione. Il
tasso di mortalità è circa l'1%. Quindi abbiamo un 5% di
persone che non ci sono più. Nelle grandi città l’unica cosa
che possiamo guardare sono i dati generali della
popolazione, che sicuramente ogni anno diminuisce.
Immaginate cosa potrebbe significare se che, su una
popolazione di 3 milioni di persone come quella di Roma,
venisse a mancare il 5% dei consumatori di alimenti, vestiti,
macchine, appartamenti. Questa realtà di per sé creerebbe
una contrazione del mercato che alla fine colpirebbe anche il
processo produttivo. Anche nelle grandi città si può vedere
la trasformazione che sta avvenendo, con i piccoli negozi
che chiudono, soppiantati dalla grande distribuzione ma
anche perché i figli dei precedenti proprietari non vogliono
continuare il lavoro dei genitori. La crescita negativa della
popolazione riguarda il fatto che cominciano a morire più
persone di quelle che nascono. In Italia, secondo stime
dell’ONU, nel 2050 la popolazione sopra i 65 anni supererà i
30
due terzi della popolazione. Questo si vede in ogni famiglia
italiana, dove ci sono 4 nonni ma al massimo ci sono solo
due nipoti.
Non è perciò colpa delle persone immigrate se nella scuola
italiana, soprattutto in certi quartieri con un’alta presenza
straniera, la percentuale di bambini e ragazzi italiani sia
diminuita tanto da diventare minoritaria. Per dirlo in altro
modo, ci troviamo davanti ad una “infertilità mentale”, che
vede l’unica soluzione per far sopravvivere la società,
nonché la nazione, nella fecondazione “in vitro” costituita
dalla chiamata dall’estero di persone: gli stessi studi e
conclusioni dell’ONU già citati consigliano di far entrare nella
società 200mila unità ogni anno.
Questa è la causa fondamentale che genera l’immigrazione
verso l’Italia, mai ammessa nei luoghi di comando o
gestione del processo come Montecitorio, il Quirinale o
Palazzo Chigi. Non è compito nostro né scopo di questo
saggio stabilire o chiarire perché nei paesi a grande sviluppo
capitalistico la popolazione diminuisca. Semplicemente
vogliamo far riflettere sul futuro dell'umanità dentro questo
sistema, e su come sia in atto una ricomposizione mondiale
dei produttori - non dei proprietari della produzione - ma di
chi veramente trasforma la materia, i lavoratori.
Ad ogni modo dobbiamo riconoscere la precisione
matematica dei gestori del processo in Italia, dove, in 23
anni, c’è stato l’ingresso di circa 4.600.000 persone
straniere, cioè 23 anni per 200mila unità ogni anno. Proprio
come consigliava l’ONU negli anni ‘80.
31
1.2.2. Lo sbilancio dell'INPS
L’Inps è l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale. Si occupa
di accantonare i contributi versati dal datore di lavoro e dal
lavoratore durante gli anni di lavoro attivo di quest’ultimo e di
restituirgli le somme versate al momento della pensione,
oltre che di indennizzare eventuali incidenti sul lavoro.
Ovviamente l’INPS deve avere un bilancio attivo fra
contributi versati e contributi erogati: tanto entra nelle casse
dell’INPS tanto l’INPS può restituire ai lavoratori sotto forma
di pensione o indennizzi.
Dal 1983 l’INPS ha iniziato a non avere la parità di bilancio.
Per risolvere il problema si è pensato di incentivare le donne
ad entrare nel mondo del lavoro, per avere nuovi contributi e
insieme risolvere anche il diminuito potere d’acquisto del
“salario unico” in famiglia. Questo ha comportato l’esigenza
di poter contare su colf e badanti per far fronte alle esigenze
delle famiglie e consentire alle donne di uscire di casa e,
nello stesso periodo, dalle regioni del Sud c’è stato il primo
grande esodo in massa di donne che trovavano lavoro al
nord come domestiche.
In questo periodo assistiamo alle prime immigrazioni di
pescatori dalla Tunisia e falegnami dal Marocco e poi donne
capoverdiane, filippine, singalesi e latino americane. La
Chiesa cattolica e la Chiesa evangelica agiscono in questo
periodo come “agenzie di collocamento” per il lavoro
domestico. Prima del 1986 non c’erano leggi in grado di
gestire l’immigrazione, ma, con la legge n. 943 (30 dicembre
1986), vengono accolte 105mila domande di regolarizzazioni
32
e dopo, con la legge Martelli (225mila domande, di cui
accolte 217.626), si equiparano i lavoratori stranieri a quelli
italiani, entrando nel conteggio dei contributi INPS e
dimostrando come i lavoratori immigrati fossero una grande
risorsa economica, in continua crescita anche oggi.
Dal ‘90 al ‘95 non vengono fatte ulteriori sanatorie e
continuano ad entrare lavoratori immigrati dal nord Africa,
dall’Europa dell’Est e dal Sud America. Nel decreto Dini con
la regolarizzazione sono state accolte 246mila domande.
Nel ’98, con la Legge Turco-Napolitano, le domande accolte
sono 215mila, portando la popolazione straniera a superare
il milione di persone. Nel 2002 la Bossi-Fini sana altre
700mila persone. Infine arrivano i decreti-flusso, che
comportano una media di 70mila unità regolarizzate fra chi
già soggiorna in Italia.
Apparentemente le regolarizzazioni attraverso le sanatorie
servono a venire incontro alle esigenze del Paese, ma in
realtà non è così. In realtà, con lo scopo di rallentare la crisi,
si preferisce mantenere un’economia sommersa e in nero:
un piccolo imprenditore, dove le leggi glielo lasciano fare, in
un periodo di profitti ridotti preferirà avere operai in nero
piuttosto che averli in regola e dover pagare loro i contributi
previdenziali. Lo sbilancio nei conti dell’INPS potrebbe
aumentare la crisi economica, quindi è importantissimo
avere “una riserva”, che, in questo caso, sono i lavoratori
immigrati non regolari. Già presenti nel territorio in numero
abbastanza consistente (quasi un milione) per “sanare” la
loro posizione rientrando nei conti dell’INPS e ricoprendo
eventuali sbilanci.
33
1.2.3. I costi alti della produzione e della manodopera
Nel periodo del boom economico i diritti dei lavoratori erano
tutelati sia dal partito comunista (che al tempo era il più forte
dell’Europa occidentale) che dai sindacati. Certamente dalla
CGIL e dai sindacati di base, ma anche da quelli che non
erano legati alla sinistra, come CISL e UIL. Il concorso di
tutte queste forze contribuiva a costituire una classe
lavoratrice forte. Ma, nel corso degli anni, i diritti dei
lavoratori vengono progressivamente smontati. Il partito
comunista perde man mano il suo peso politico e i sindacati
lo seguono da vicino. Completa la cornice la Perestrojka e la
caduta del muro di Berlino, comincia nel mondo la ripresa
ideologica, politica e sociale della borghesia internazionale.
A questo punto le tutele sindacali iniziano a venire in meno.
Il processo che determina questo declino è il neoliberismo,
che con sé porta le privatizzazioni e l’introduzione della
flessibilità lavorativa, con tutti i contratti atipici che oggi
caratterizzano il nostro mercato del lavoro. Abbassare il
costo della produzione, e quindi della manodopera è
l’intenzione permanente del capitalismo. A questo punto
s’inserisce la questione dei lavoratori immigrati. Che non
solo non è un fenomeno, ma è invece un processo
funzionale alla nuova economia.
In questa prospettiva i lavoratori immigrati sono i candidati
ideali per il nuovo mercato del lavoro, soprattutto se
mantenuti in una condizione di irregolarità. Il ruolo dei
lavoratori immigrati nel nuovo mercato è quello di essere
concorrenti a quelli italiani in tutta la catena produttiva e
34
anche in quella dei servizi. Visto che per un lavoratore
immigrato l’obbiettivo centrale è trovare un lavoro -
indipendentemente dal fatto che questo abbia o no la tutela
dei diritti - l’offerta di manodopera, così come quella di forza-
lavoro in generale, da parte dei lavoratori stranieri sarà
sempre tendente al ribasso: ribassando i prezzi cui si è
disposti a lavorare si vince la gara della concorrenza con i
lavoratori italiani ma si perde quella dei diritti.
Questo meccanismo è quello che permette alla macro
economia di abbassare i costi produttivi, innescando il
processo negativo del sovra-sfruttamento degli operai
immigrati e, conseguentemente, quello dell’abbassamento
delle tutele per tutti i lavoratori.
1.3. Le fasi
La storia dell’umanità è contraddistinta da numerosi processi
migratori. Analizzandoli rileviamo in tutti la presenza di
alcune fasi fisse: l’arrivo, il soggiorno e il rientro. Tre fasi che
generano dei cambiamenti nel paese dove il processo
avviene e hanno delle caratteristiche specifiche secondo il
momento e loro durata.
1.2.1. Lo “sbarco”
Lo sbarco delle persone immigrate - termine con cui in
questa sede non intendiamo solo quello con i barconi, ma
ogni tipo di ingresso di stranieri in una nazione per motivi
lavorativi - è l’inizio del processo migratorio in un paese. Un
processo possibile perché qualcuno ha aperto una porta, o
35
più spesso “una finestra”, per l'ingresso di gente da fuori.
Perché non è plausibile che persone provenienti da
centinaia di Stati diversi decidano insieme, un giorno, di
intraprendere un viaggio verso l’“America” in Italia. La
domanda da farsi allora è: perché viene aperta questa
porta? La risposta sta in quello che abbiamo appena
ricordato, cioè, nel bisogno degli Stati di trovare una
soluzione al disavanzo demografico (che può essere
ricomposto appunto solo “aprendo” agli stranieri), nella
necessità di risanare lo sbilancio dei sistemi previdenziali e
nella volontà di avere manodopera a basso costo.
La coincidenza è che lo sbarco arriva in contemporanea con
il “buonismo accogliente” dei paesi ricchi. Com’è successo in
Italia, dove, per giustificare la necessità che il mercato aveva
delle forze fresche portate dall’immigrazione, agli occhi
dell’opinione pubblica diverse forze sociali hanno iniziato a
parlare di “accoglienza”, “ospitalità” e “asilo”.
Questa fase, vista dal punto di vista delle persone
immigrate, è quella nella quale arrivano a cercare lavoro: la
loro condizione è di irregolarità assoluta e di assoluta
necessità di trovare lavoro superando anche la difficoltà
della lingua. È in questa fase che si determina il tipo di
lavoro per il quale è stata generata la migrazione verso il
paese: i bisogni del mercato del lavoro fanno sì che le nuove
forze vengano smistate secondo le specifiche necessità del
sistema economico. Dove ci sono delle “caselle” vuote le
caselle queste vengono riempite dai nuovi “chiamati”, perché
le catene migratorie non sono casuali, ma indirizzate
apposta.
36
Cosa sono le catene migratorie? Sono delle piramidi, il cui
vertice è composto da un individuo o da un gruppo piccolo di
individui che vengono portati in un paese per lavorare in un
settore lavorativo prestabilito. La base della piramide va
ingrandita geometricamente, e, in tempi brevi, “sbarcano”
quelli necessari. Quest’individuo o gruppo di individui
potenzialmente faranno arrivare migliaia di persone del
proprio paese, di cui la maggior parte lavorerà nello stesso
settore. Per questo motivo all’inizio del processo migratorio i
lavoratori immigrati vengono inquadrati in “tipi lavorativi”, che
poi condizionano le sorti dei connazionali che seguono. Ad
esempio: in questa fase dello sbarco, al lavoro domestico
erano destinate la comunità capoverdiana, filippina,
cingalese, e latinoamericana, oppure, al lavoro edilizio le
comunità dell’Europa dell’est, come i polacchi, gli albanesi e
i rumeni.
I cinque milioni di immigrati attualmente in Italia non
dovrebbero avere più “vertici” di quanti sono le tipologie di
lavori che oggi vengono occupate dai lavoratori stranieri. In
questa fase lo Stato è interessato a favorire l’ingresso dei
nuovi lavoratori nelle casse dell’INPS.
1.3.2. L'immigrazione
L’immigrazione propriamente detta è la fase in cui i lavoratori
immigrati acquisiscono il permesso di soggiorno, la prima
fase della regolarizzazione. Il permesso di soggiorno è la
versione italiana dei “permessi di residenza” che vengono
dati in altri paesi, ma ha una caratteristica di sicurezza
37
pubblica: invece di essere un documento di identificazione
della persona come potrebbe essere una carta di identità, è
un documento che toglie diritti, che “discrimina” nel senso
etimologico del termine, nel senso che sottolinea la
differenza fra chi è cittadino e chi è considerato solo un
“ospite” nel paese.
Perché il permesso di soggiorno è stato collegato così
strettamente alla sicurezza pubblica? Perché migliaia di
lavoratori devono essere sottomessi a controlli di polizia?
Perché oneste lavoratrici domestiche, che magari hanno da
anni la cura di bambini o anziani in una famiglia italiana,
devono essere costrette a presentarsi in un commissariato,
che istituzionalmente è il luogo in cui lo Stato esprime la sua
forza repressiva contro la delinquenza? Perché, chi
delinquente non è, deve essere filosoficamente accomunato
a chi violenta la legge? Per lo stesso motivo per cui un
onesto lavoratore, che genera ogni giorno plusvalore in
questo paese, è costretto a essere ricevuto nei
commissariati di tutta Italia da persone che ogni giorno, per
lavoro, combattono le organizzazioni criminali. E tante volte
non riescono a fare differenze fra gli uni e gli altri.
Si rivela così che l’atteggiamento dello Stato verso i
lavoratori immigrati è di un permanente ricatto che favorisce
direttamente il settore imprenditoriale e il tessuto sociale che
si serve del lavoro occasionale o permanente di queste
persone venute da fuori. Parte di questo atteggiamento è la
dotazione di leggi specifiche nei confronti dell’immigrazione.
Finora le leggi sull’immigrazione sono leggi che vanno a
gestire la manodopera straniera e a ostacolare l’acquisizione
38
di pieni diritti. Così, per acquisire il permesso di soggiorno, la
carta di soggiorno (sostituita dal “permesso di soggiorno
europeo di lungo periodo”) e la cittadinanza, i requisiti
richiesti sono stati progressivamente innalzati dal legislatore,
rendendone sempre più difficile l’ottenimento.
Il testo unico sull’immigrazione del ‘98, varato anche con i
voti dei partiti cosiddetti di sinistra, è stato usato con
estrema facilità dalle maggioranze di destra che sono
seguite per farlo diventare più discriminante. La
caratteristica di questa legge “progressista” è infatti di
essere una struttura componibile a piacere. Apportando solo
piccole variazioni, nel 2002 ha infatti dato vita alla Legge
Bossi-Fini. Una trasformazione che ha diminuito la durata
del permesso di soggiorno, riducendola a un anno per chi ha
un contratto a tempo determinato e a due per i tempi
indeterminati. A dimostrazione che, almeno fino ad oggi, le
leggi sull’immigrazione sono state bipartisan. E questo
spiega anche perché, in due anni di governo di centro-
sinistra, la Bossi-Fini non è stata toccata. Neppure il
“contratto di soggiorno” è stato modificato, pur essendo
l’elemento più critico dell’impianto di questa legge:
l’elemento che permette agli imprenditori di ricattare i
lavoratori immigrati a proprio piacimento, subordinando la
possibilità di rimanere nel paese a un contratto di lavoro,
quale che sia. Inoltre, dal 2002 la Legge Bossi-Fini cancella
il sacrosanto diritto di qualsiasi lavoratore del mondo di
riprendersi i propri contribuiti al momento di lasciare il paese
dove li ha maturati e tornare al proprio.
39
L’altro documento di residenza è invece il “permesso di
soggiorno europeo di lunga durata”, che effettivamente
permette il libero movimento degli europei e quindi non
riguarda esclusivamente gli immigrati extracomunitari, ma,
potremmo dire, è di utilità generale.
La legislazione sulla cittadinanza in Italia è fra le più
retrograde del mondo, basata sul principio dello “ius
sanguinis”: chi nasce da genitori italiani è italiano, mentre
chi nasce su territorio italiano da genitori stranieri non lo è in
automatico. Con la legge Turco-Napolitano bastavano 5 anni
per acquisire la cittadinanza mentre con la Bossi-Fini ne
servono 10, con l’obbligo di dimostrare di avere un reddito
“minimo” e conoscere la lingua italiana.
Oggi la media di ottenimento della cittadinanza da parte
degli stranieri in Italia è del 1%. Usiamo un’equazione
semplice per comprendere meglio la situazione: perché tutti
gli stranieri presenti sul territorio della Repubblica riescano a
ottenere la cittadinanza, partendo da oggi ci vorrebbero 100
anni. D’altra parte, chi è nato in Italia da genitori stranieri
non ha automaticamente la cittadinanza, se non al
compimento del diciottesimo anno d’età e senza interruzioni
di presenza.
In Europa, sempre per favorire l’imprenditoria colpita dalla
crisi economica, è stata creata una terza categoria di
lavoratori, che fra i diritti “pieni” dei lavoratori europei (italiani
nel nostro caso) e i “mezzi diritti” degli operai immigrati si
muovono in maniera libera nel mercato della forza-lavoro
europea, senza poter essere espulsi, ma anche senza
40
chiedere diritti. Questa categoria è rappresentata dai
“lavoratori comunitari”.
La maggior parte viene dalla Romania, dalla Bulgaria,
dall’Ungheria e dalla Polonia, ovvero dagli Stati dell’Est
Europa entrati più recentemente nella Comunità Europea.
Prendiamo ad esempio la comunità rumena: i lavoratori
romeni regolari sono più o meno un milione, ma stime non
ufficiali parlano di altrettanti in nero. Il tema delle condizioni
di lavoro di questa “maggioranza silenziosa” meriterebbe di
essere trattata in un libro a parte per quanto è complessa, in
ogni caso è interessante rilevare che, a fronte di
quest’immigrazione massiccia, la Romania in quest’ultimi
anni è diventata molto appetibile per le imprese straniere,
tanto che, ad esempio, si contano oltre 22mila imprese
italiane aperte su territorio romeno, che hanno creato circa
800mila posti di lavoro a basso costo, per stipendi medi di
duecento euro al mese.
Qui sosteniamo che la politica tende sempre a criminalizzare
agli occhi dell’opinione pubblica la comunità straniera
maggiormente presente sul territorio in un certo momento. È
stato così per i marocchini negli anni ‘80, per gli albanesi
negli anni ‘90, e, fino a qualche tempo fa, lo era per i romeni.
Perché? Perché se il lavoratore straniero vive in una
condizione di discriminazione sociale sarà maggiormente
disposto ad accettare contratti in nero, irregolari o comunque
sfavorevoli, sentendo di dover ringraziare per il semplice
fatto di essere stato assunto nonostante la cattiva fama - in
realtà costruita ad arte al preciso scopo di ottenere un
vantaggio economico per la classe imprenditoriale - che
pesa sulla sua comunità.
41
Così i pregiudizi diffusi per cui “i marocchini sono tutti
ladri/spacciatori/violentatori”, o “gli albanesi sfruttano la
prostituzione/commerciano armi/fanno traffico di droga” o “i
romeni stuprano le nostre donne/bevono/rapinano nelle
ville”, diventano importanti leve economiche, in grado di
offrire agli imprenditori italiani una via d’uscita facile alla
crisi. Naturalmente alle spalle dei lavoratori. Tutti questi
lavoratori “comunitari” pongono però al sistema sociale un
problema a lunga scadenza: è ipotizzabile infatti che la
maggioranza di loro rimarrà in Italia, avendo fatto una scelta
di vita definitiva. E quindi, se per ora gli studi della Banca
d’Italia ci dicono che i lavoratori immigrati pagano molte più
tasse di quanto non pesino sulle casse dello stato (dal 2008,
versano più di 7 miliardi di contributi), in un futuro dovremo
aspettarci di dover pagare loro le pensioni. Con tutte le
conseguenze economiche del caso.
1.3.3. Il rientro
L’esperienza di altre migrazioni in altre parti del mondo ci
dice che “il rientro” rimane, nell’immaginario collettivo, come
la nostalgia incancellabile, da parte di chi è partito, dei
paesaggi, degli odori, dei cibi del paese d’origine, e,
dall’altra parte, come il desiderio di chi è rimasto di
riabbracciare il parente o l’amico lontano. Nel caso dell’Italia,
paese con una lunga storia di emigrazione, la maggior parte
di quelli che sono andati via non sono tornati, soprattutto nel
caso dell’emigrazione verso gli Stati Uniti, l’Australia o
l’America Latina. Basta anche solo una circostanza, più o
meno fortuita come può essere lo sposarsi o l’avere dei figli,
o il costruirsi un tessuto di amicizie o l’aprire un’attività
42
commerciale, per far rimanere il lavoratore straniero nel
paese in cui è andato a lavorare. La questione principale
diventa a quel punto arrivare alla pensione, per potersi
garantire, dopo una vita di lavoro e sacrifici, una vecchiaia
dignitosa. In questo momento il processo migratorio in Italia
non è ancora entrato nella terza fase, perché l’età media dei
lavoratori immigrati è attorno ai cinquant’anni (nel 2010 i
pensionati stranieri erano il 2,2 %), quindi lo Stato può
ancora contare su una quindicina d’anni di “sospensione”
prima di dover affrontare il problema della pensione anche
per i lavoratori stranieri.
Qual è la via d’uscita che lo Stato presumibilmente prenderà
per evitare quest’emorragia di denaro? Dalle prime proposte
di legge sull’argomento che si sono viste finora, con ogni
probabilità lo Stato cercherà di mettere in campo delle
norme che impediscano di percepire la pensione a coloro
che non risiedano continuativamente sul territorio nazionale,
oppure a coloro che decidono per qualsiasi motivo di tornare
nei paesi d’origine, cercando comunque, con ogni
espediente legislativo possibile, di posticipare questo
momento. Un’altra via d’uscita potrebbe essere
rappresentata dagli accordi bilaterali o da progetti europei di
rientro che offrano “vantaggi” a tutte le parti contraenti,
permettendo ai lavoratori stranieri di tornare in patria,
seppure con una pensione solo parziale, al paese d’origine
di veder entrare capitali sotto forma di pensioni maturate
all’estero, e allo Stato italiano di non dover affrontare per
intero la spesa sociale rappresentata dai pensionati stranieri.
La terza via d’uscita, infine, potrebbe essere rappresentata
da una forma di espulsione “umanitaria”, ovvero da
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un’espulsione accompagnata da una sorta di indennizzo, per
salvare le apparenze ed essere appetibile per l’immigrato
che non ha più la possibilità di lavorare.
Per i lavoratori stranieri che rientrano definitivamente nel
loro paese si svela così un aspetto inatteso del processo
migratorio che comporta diversi problemi di reinserimento:
dalla partenza sono trascorsi tanti o pochi anni, ma quasi
sempre la realtà che hanno lasciato alle proprie spalle è
talmente cambiata da non essere più “la loro”. Inoltre
rientrando non si concretizza neppure il sogno che aveva
motivato il processo migratorio, ovvero quello di tornare con
un salario ricco: i “rientrati”, mandati via senza alcuna
“pensione dorata”, al proprio rientro creano tensioni sociali
impreviste, e non essendo più giovani faticano a trovare un
nuovo posto di lavoro. Con questo sistema sembra che il
sogno del capitale di avere operai “usa e getta” sia diventato
realtà: nella fase del rientro si vede, meglio che in ogni altra,
la natura del capitale verso i lavoratori immigrati, che li
sottrarre dal paese d’origine in età lavorativa e li rimanda in
dietro prima dell’età pensionabile. Un doppio guadagno che
chiude il ciclo aperto approfittando della formazione per la
quale un’altro Stato aveva speso le proprie risorse,
rapinando i miliardi che queste persone hanno generato
come contributi. Miliardi che apparterrebbero ai lavoratori e
alle lavoratrici ma che invece rimangono nelle casse degli
enti previdenziali. Un tempo gli spagnoli scambiavano
specchi per l’oro degli indios. Oggi il miraggio di ricchi salari
e pensioni sono gli specchi che spingono milioni di giovani a
lasciare il proprio paese e cercare lavoro altrove, giovani che
sono oro puro per società invecchiate e morte.
44
45
CAPITOLO II
L’utilità economica delle persone immigrate
2.1. La forza-lavoro delle persone straniere
2.1.1. Come merce e valore d’uso
La necessità di importare in Italia manodopera straniera
viene dalla crisi demografica. Il processo migratorio ha infatti
un scopo sociale: serve a “coprire i vuoti” lasciati nel saldo
demografico italiano dalla differenza fra nati e morti. Un
“import” di persone che hanno la capacità di lavorare, o, per
meglio dire, che non hanno niente altro da offrire se non il
proprio intelletto e le proprie braccia, ovvero persone in
grado di vendere propria forza-lavoro.
1.-Come una qualsiasi merce, la forza-lavoro rientra in un
mercato in cui troviamo compratori e venditori, ed è perciò
soggetta ai ribassi e ai rialzi dell’offerta e della domanda,
oltre che alle leggi che oggi paese ha sviluppato per
regolare i contratti di questa tipologia di scambio. Nell’Italia
del “dopo boom economico” gli imprenditori, quelli grandi,
quelli che avevano alle proprie dipendenze migliaia
lavoratori, cominciarono a creare le condizioni per
abbassare i costi di produzione. In tanti spostarono le
fabbriche all’estero, in paesi dove il salario era un decimo di
quello italiano, producendo là ma continuando a vendere
con il marchio “made in Italy”. Altri che non potevano
andarsene rimasero, ponendo però le basi per un sistema
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che potremmo chiamare “il paradiso del profitto”: il lavoro
precario. Per contribuire a questo abbassamento dei costi di
produzione, lo Stato permise e incentivò l’ingresso di
lavoratori stranieri: lavoratori giovani e disposti a grandi
sacrifici, che non chiedevano nulla al momento di stabilire il
contratto e che diventarono subito funzionali per ricattare,
con la loro incolpevole concorrenza sottocosto, i lavoratori
italiani.
2.- È il valore d’uso della merce (forza-lavoro) che produce
altri valori d’uso: contrattare e usare i lavoratori per produrre
altre merce è lo scopo del capitalismo. La forza-lavoro come
merce è un’esclusività di questo sistema che trasforma tutto
in merce. Il capitale ha globalizzato il mercato di esseri
umani intesi come merce, esseri umani liberi, capaci di
vendere la loro forza lavoro ovunque sia necessario. La
migrazione moderna, quindi l’immigrazione ed emigrazione
di persone, altro non è che l’import- export globale dei
lavoratori.
3.-Gli imprenditori italiani che importano materie prime o
strumenti di produzione dall’estero pagano i costi di
trasporto, mentre per avere manodopera straniera non
pagano nulla. Hanno creato un sistema che tutela molto
bene i loro interessi: in Italia la merce forza-lavoro che arriva
dall’estero si paga da sola i costi di trasporto, a differenza di
quanto accade in altri Paesi, in cui lo Stato o gli imprenditori
stessi pagano i costi di trasporto (viaggio, vitto e alloggio)
della merce in questione. In Italia è risultato subito chiaro
che l’importante era che la forza-lavoro immigrata arrivasse
non dalla porta, ma dalla “finestra”, cioè, senza diritti,
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imballata e pronta per essere sfruttata. Rientrando nel
mercato del lavoro nero non sarebbe stata soggetta ai
costosi contributi INPS, non avrebbe generato gli ancora più
costosi TFR, né pensioni, tredicesime, quattordicesime, ecc.
2.1.2. Il valore di scambio e la concorrenza
Il valore di scambio della merce forza-lavoro è il salario.
Nella prima fase dell’immigrazione (lo sbarco) il valore di
scambio di questa forza-lavoro straniera, cioè, i costi
necessari a mantenere in vita un essere umano perché
continui a lavorare, sono molto più bassi in confronto a quelli
italiani. Le persone immigrate si accontentano di alloggi più
piccoli, che costano meno e che in genere affittano
comunitariamente, condividendone perciò anche il
pagamento. Allo stesso modo, fra gli stranieri le spesa per
l’alimentazione è ridotta al minimo, così come il risparmio
per l’abbigliamento, normalmente “made in bancarella” o
addirittura usato. D’altra parte non si tratta di scelte: il
lavoratore immigrato deve far scendere i propri costi per
presentarsi nelle condizioni migliori sul mercato della
manodopera, abbassando al minimo le proprie richieste e
accettando condizioni di lavoro a volte anche pericolose,
offrendo così il massimo del profitto ai propri sfruttatori.
Questa condizione della forza-lavoro d’origine straniera crea
una concorrenza sottocosto ai lavoratori autoctoni, i quali
finiscono per vedere chi viene da fuori come un nemico,
senza rendersi conto che si tratta di un disegno preciso: i
lavoratori stranieri sono stati infatti portati apposta per far
48
scendere i salari e i costi di produzione. Di fatto, la loro
concorrenza determina la sparizione dei diritti lavorativi per
tutti.
La sopravvivenza del lavoratore e della sua famiglia è
chiusa dentro dei minimi di spesa e, in questo senso, gli
operai immigrati hanno un ulteriore vantaggio sui concorrenti
italiani: spesso le famiglie dei lavoratori stranieri vivono nei
paesi d’origine (famiglie transnazionali) e quindi non
ricadono, se non in minima parte, su questo minimo di
spesa, oppure si accontentano di vivere in modo molto
sobrio, senza i piccoli o grandi lussi che spesso invece di
concedono i concorrenti autoctoni. (Nella fase successiva
del processo migratorio i valori della merce forza-lavoro
straniera si avvicinano sempre di più ai valori di mercato
degli autoctoni, soprattutto perché non sono più “immigrati
non regolari”, quindi a uguale lavoro corrisponde uguale
stipendio).
2.1.3. Ciclo formativo e formazione
Gli Stati, capitalistici e non, garantiscono la formazione della
popolazione dalla nascita fino ad arrivare all’età lavorativa.
Per ogni studente, dalle elementari alle superiori, lo Stato
Italiano spende annualmente una media di 8.489 $ (dati del
Rapporto annuale dell’OCSE 2013). Questa cifra,
moltiplicata per 20 anni (durata media del periodo formativo
del lavoratore) farebbe 169.780 $ (130.600 €) a persona.
Contando che oggi in Italia soggiornano 3 milioni di
lavoratrici e lavoratori immigrati, il risparmio per lo Stato è
49
più o meno di 391 miliardi 800 milioni di euro. A questa cifra
astronomica andrebbe aggiunta la spessa sanitaria e tutti gli
altri servizi che consentono di ottenere un lavoratore, ma
non entreremo nei dettagli. Quello che conta è che
l’importazione di operai stranieri è il migliore affare che un
Stato può fare, in tempi di crisi e non solo: ricevere una
persona in età lavorativa senza aver speso un euro per
lei/lui è davvero un ottimo affare. Ancor di più considerando
che la maggior parte delle persone immigrate, a differenza di
quanto molti credono, sono laureate: una rapina colonialista
moderna che sottrae cervelli e forza-lavoro ai Paesi più
deboli per sostenere la crisi di quelli più ricchi.
Il rifiuto di riconoscere i titoli di studio alle persone immigrate
è parte del sistema italiano dell'immigrazione. Un sistema
che si rivela ancora una volta profondamente padronale:
quello che si vuole sono solo operai, con figli pronti a fare
anche loro solo gli operai. Una visione discriminatoria che
cambia il senso delle parole di tutti quei politici che dicono
che “l’immigrazione è una risorsa”. O magari hanno ragione
loro, perché le risorse esistono per essere sfruttate.
Il sistema italiano dell’immigrazione è discriminante anche
per chi ha ottenuto una laurea italiana ma non ha ancora la
cittadinanza: molti concorsi, bandi e posti sono infatti
subordinati all’essere cittadino italiano, per cui spesso
neppure con una laurea legalmente riconosciuta la risposta
può essere positiva.
La sottomissione dei governanti della maggior parte dei
paesi d’origine delle persone immigrate è evidente anche su
50
questo tema: la maggior parte dei governi è infatti incapace
di proporre a quello italiano accordi di riconoscimento dei
titoli di studio. Così come si firmano accordi di commercio
bilaterale o trattati di libero commercio, si dovrebbero
proporre “trattati di libero lavoro”, con clausole di
riconoscimento dei diritti pensionistici, delle qualifiche
lavorative, delle lauree, delle licenze e delle patenti, oltre
che il diritto agli aggiornamenti professionali. Non fosse altro
che per ristabilire una certa reciprocità nei confronti del
trattamento che gli altri Stati già adesso riservano ai cittadini
italiani che vivono all’estero.
2.1.4. Lo sfruttamento della forza-lavoro immigrata e la
questione dei comunitari
Prima che portassero manodopera straniera in Italia, chi
lavorava nei posti che oggi sono occupati dai lavoratori
stranieri? Chi era la domestica? Chi il bracciante? Chi
l’operaio edile? Chi l’allevatore? Chi era in fabbrica? La
risposta è ovviamente sempre una sola: i lavoratori e le
lavoratrici italiani. Ma quanto guadagnavano queste
persone? Riuscivano a sostentare le proprie famiglie?
Riuscivano a pagare l’affitto? I loro figli andavano
all'Università? Loro stavano bene, non facevano scioperi?
Chi aveva dato i diritti a queste persone? La risposta è
ancora una sola: che un tempo gli operai italiani lottavano
per non essere sfruttati, difendevano le proprie ragioni e
proteggevano i diritti acquisiti in anni di lotta e
organizzazione.
51
Queste persone però ad un certo punto sono state
ingannate. È stato detto loro che i lavoratori che arrivavano
dall’estero sarebbero stati un aiuto per pagare la loro
pensione. Quello che non gli è stato detto è invece che quelli
arrivati da fuori sarebbero concorrenti in tutte le categorie
lavorative, avrebbero fatto abbassare tutti i salari e
sarebbero stati lo strumento per azzerare i diritti. Gli operai
d’origine straniera sono infatti sfruttati per la loro condizione
di non essere italiani, di essere sotto ricatto permanente a
causa del permesso di soggiorno e della carta di soggiorno,
strumenti di diseguaglianza e discriminazione.
Così arriviamo ad un mercato nel quale i lavoratori italiani
non accettano contratti per stipendi miseri, si rifiutano di
lavorare per 5 euro l’ora perché effettivamente il loro valore
di scambio è più alto, un mercato in cui nessun italiano va a
raccogliere la frutta per 20 euro la giornata o accetta di
prendersi cura di un anziano per 8 euro l’ora o di ricevere
600 euro al mese per lavorare come domestica fissa in una
casa. E oggi il minimo è diventato troppo basso anche per
molti lavoratori e lavoratrici immigrate, soppiantati da nuovi
immigrati pronti ad accettare di meno. Non è che gli italiani
non vogliano più fare certi lavori, come qualcuno vuole farci
credere, ma solo che non vogliono lavorare per paghe da
fame. Il falso ideologico dei lavori sgraditi allontana l’analisi
vera del sovra-sfruttamento e crea l’abbandono di un minimo
di coscienza di richiesta di diritti e salari più dignitosi per
tutti.
La terza categoria di lavoratori e lavoratrici che rientra nel
mercato sono i “comunitari”. Invenzione geniale che si
52
avvicina ancor di più al sogno di tutti padroni degli operai
“usa-e-getta”. Il valore di questa manodopera è uguale a
quella straniera non comunitaria. I loro costi di
sopravvivenza (affitto, alimenti, vestiti) sono identici. Anche i
costi di mantenimento delle loro famiglie sono bassi. Ma è
sui loro diritti che si vede la differenza con i non comunitari.
Possono ad esempio muoversi liberamente nell’Unione
Europea e possono uscire e rientrare liberamente del paese
d’origine, ma questa libertà la pagano non riuscendo quasi
mai a farsi firmare un contratto in regola. Rumeni, bulgari,
polacchi e ungheresi, pensano a questa categoria di
“comunitari” come se fosse un gradino più alto rispetto al
resto degli stranieri e così si fanno fregare di più. Perdendo
lo stimolo a lottare per i diritti insieme ai loro colleghi italiani
e immigrati.
2.2. L'imprenditoria delle persone straniere
Il processo migratorio, che fin qui abbiamo detto essere
essenzialmente di manodopera, comprende anche una
parte di imprenditoria d’origine immigrata. Questa rientra
nella “libertà” che il sistema capitalistico offre
all’accumulazione di capitale, una “chance” è stata possibile
anche per chi non è italiano. La fonte originaria del capitale
degli imprenditori immigrati sarà come qualsiasi fonte
capitalista: per eredità, fortuna o col “lato oscuro della forza”,
attraverso cioè lo sfruttamento del plusvalore prodotto dai
lavoratori.
53
Ad ogni modo, nel 2012 i titolari e i soci di impresa stranieri
sono stati 419.680. Di questi, il 55,4% (ovvero 232.664)
sono stati titolari di impresa (si tratta del 6,9% del totale dei
titolari di impresa). Tra i titolari quindi, il 18,9% sono stati di
sesso femminile e il 49,6% (del totale) artigiani. Circa il 60%
era costituito da persone provenienti dal Marocco (16,4),
Romania (15,4), Cina (14,7) e Albania (10,3). Seguono
Bangladesh, Egitto, Senegal e Tunisia. Il 78,8% di titolari di
impresa operava nei settori delle costruzioni (37,2%) e del
commercio (35,0%). Importante è anche il peso del tessile e
abbigliamento (6,6%). La fonte dei dati è la CNA -
Confederazione Nazionale dell'Artigianato e della Piccola e
Media Impresa - col Centro Studi CNA.
Gli imprenditori e le imprenditrici immigrate hanno subito
tutte le sofferenze dei lavoratori immigrati, ovvero
lunghissime attese per il rinnovo del permesso di soggiorno
e molti divieti nella fase di rinnovo, far cui principalmente
l’impossibilità di muoversi liberamente all’estero. A queste
difficoltà, nel loro caso, dobbiamo quindi aggiungere la
mancanza di credito e di fiducia del mondo finanziario verso
le persone immigrate e quindi la difficoltà di ottenere prestiti
e mutui dalle banche, tanto che spesso queste persone, per
tutelare i propri, hanno sostenuto la lotta civile per i diritti dei
lavoratori immigrati, così come l’organizzazione. Però,
essendo imprenditori, alla fine molti hanno trovato facilmente
delle scorciatoie per risolvere il loro status migratorio fuori
dalla lotta. Agevolazioni inversamente proporzionali agli zeri
sul conto corrente: più grande l’imprenditore minori le
difficoltà.
54
Questa parte del mondo immigrato - al di là della ricchezza
accumulata - è ben inserita nel sistema imprenditoriale
italiano: ha imparato subito a gestire gli adempimenti fiscali,
previdenziali e lavorativi come tutti gli altri imprenditori,
spesso con il vantaggio di poter sfruttare direttamente i
propri connazionali. Non potendo sfuggire al sistema reale
del capitalismo, l’imprenditoria d’origine immigrata in Italia è
entrata spesso nell’economia sommersa, diventando l’anello
di congiunzione tra legale e illegale nei grossi affari che
riguardano i settori dove sono presenti, cioè, costruzione,
commercio, tessile e abbigliamento.
La concentrazione di capitale in mano alle persone
immigrate in Italia non è ancora molto alta, sia perché la
crescita dell’imprenditoria straniera è determinata dalla
concorrenza con quella autoctona sia a causa dell’anomala
economia italiana, chiusa in gruppi imprenditoriali e di
potere.
Concludiamo questo capitolo dicendo che una parte
importante degli imprenditori immigrati sono rientrati nella
logica del sovra sfruttamento dei lavoratori diventando
responsabili delle tante morti bianche che oggi anno si
contano nell’edilizia come delle condizioni di vita insostenibili
di moltissimi lavoratori tessili. Trasformandosi in “caporali”
nel mercato di manodopera agricola e, nei casi peggiori, in
“scafisti” e “coyotes” durante i flussi annuali o stagionali.
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57
CAPITOLO III
Lo Stato e le forze politiche
Chiamiamo “Sistema Italiano dell’Immigrazione” (SIDI) la
gestione politica generale dello Stato Italiano verso
l’immigrazione. Negli anni sono cambiati gli equilibri e le
maggioranze politiche, ma il SIDI è stato applicato in modo
indipendente rispetto agli orientamenti politici dei governi.
Questo perché il SIDI è un sistema bipartisan che è
funzionale allo scopo fondamentale di garantire che il
processo migratorio venga gestito per portare manodopera a
basso costo nel mercato del lavoro. Quindi i diversi governi
– sia di centro destra, sia di centro sinistra, sia governi
tecnici – hanno tutti dovuto fare delle leggi e delle sanatorie
per far fronte alla ricomposizione demografica necessaria a
contenere lo sbilancio dell’INPS, e anche generalizzare il
lavoro nero. Questo spiega, per esempio, come mai l’Italia
non abbia una legge sul diritto d’asilo, nonostante la
Costituzione lo preveda: perché questo consente ai governi
di avere la libertà di stipulare accordi bilaterali separati di
espulsione con ciascun Paese, ottenendo in cambio delle
contropartite.
Altra cosa bipartisan (quindi con una regia statale) è la
campagna di criminalizzazione che, periodicamente,
coinvolge la comunità straniera più presente in quel
momento in Italia. Queste campagne, che sfruttano il potere
persuasivo dei mezzi di comunicazione di massa, hanno
contribuito a formare pregiudizi difficili da sradicare. Com’è
possibile che, da un giorno all’altro, una “comunità di banditi”
58
si converta in massa, e i suoi membri diventino
improvvisamente cittadini modello, quasi immediatamente
sostituiti da altri “banditi” di un'altra comunità? Il perché di
queste campagne di criminalizzazione è semplice: se un
cittadino romeno per esempio (additato dai mezzi di
comunicazione come appartenente a una comunità
pericolosa, su dati non verificati e non confermati dalle
statistiche) si presenta a chiedere lavoro, il datore di lavoro,
se decide di assumerlo “nonostante” i pregiudizi che sono
stati ripetuti mille volte dai mezzi di comunicazione, gli sta
facendo un “favore”. E quindi lo può pagare di meno,
assumere in nero, tenerlo in condizioni di lavoro pericolose o
di sovra sfruttamento. Tanto è un “favore”. La politica
sull’immigrazione non è altro che l’espressione concentrata
del beneficio economico che si trae dallo sfruttamento.
3.1.La cornice legale
1.1.1. Le Leggi
Finora in Italia abbiamo avuto sette sanatorie: nel 1982
(circolari del Ministero del Lavoro 2 marzo e 9 settembre),
nel 1986 (legge n. 943 /86, al titolo IV, art. 16), nel 1990 (d. l.
n. 416 del 1989), nel 1995 (Decreto Dini), nel 1998, nel 2002
e nel 2009 (Sanatoria truffa).
Ogni sanatoria è arrivata più o meno in concomitanza con le
leggi sull’immigrazione varate dai governi succedutisi negli
ultimi vent’anni: la legge Foschi del 1986, la legge Martelli
del 1990, la legge n.91 sulla cittadinanza del 1992, la legge
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Mancino del 1993, la legge Turco-Napolitano del 1998, la
legge Bossi-Fini del 2002, il pacchetto-sicurezza Maroni del
2009. In parallelo, i fondi per l’integrazione sono apparsi e
scomparsi a ogni cambio di maggioranza (introdotti con la
legge Martelli, potenziati con la Turco-Napolitano, tagliati nel
2002, reintrodotti 2006, tagliati nuovamente da Tremonti nel
2008).
3.1.2. Le Sanatorie
“Sanatoria”, “condono”, “regolarizzazione”, “emersione del
lavoro nero”. Modi diversi per chiamare la stessa cosa: il
momento nel quale si fa rientrare nella “legalità” una fetta di
lavoratori non regolari perché non diventino troppi e perché
serve bilanciare i conti dell’INPS. Due motivazioni che vanno
sempre di pari passo, infatti tutte questi condoni hanno
avuto in comune due parti, il numero di sanati e il bollettino
che quantificava la multa da pagare per “emergere dal nero”,
logicamente sempre pagata dal lavoratore straniero.
I requisiti delle “sanatorie” si fanno secondo il criterio del
numero, cioè: nelle sanatorie che devono coinvolgere un
maggior numero di persone i requisiti sono più leggeri, nelle
piccole sanatorie più pesanti. L’elemento fisso in entrambi i
casi è che lo straniero può accedere alla regolarizzazione
solo con il patrocinio del datore di lavoro.
Una bella cosa davvero, che permette a chi ha sfruttato fino
a quel momento gli immigrati di avere il potere di decidere, e
quindi di ricattare, la manodopera. Pretendendo mansioni
60
più dure o prestazioni (morali o non morali) per far
“emergere del lavoro nero”.
È triste e vergognoso vedere come gli immigrati, per
accedere a queste sanatorie, cerchino disperati persone
disposte a dichiararsi datore di lavoro. Triste vederli pagare,
offrire tutto quello che hanno per avere il permesso di
soggiorno. Sempre che la pratica arrivi a buon fine, perché
se non è così si tratta di soldi buttati a mare, oltre a
diventare concreto il pericolo d'espulsione per lo straniero
che si scopra abbia dichiarato il falso, a fronte di pene
irrisorie per i finti datori di lavoro. Nel 2009 la sanatoria ha
permesso allo stato d'avere il ricavato di tutte le richieste di
“emersione del lavoro nero domestico”, denaro non
giustificato in vista che di più di cento mila pratiche non sono
arrivate a buon fine, quindi mai perde lo stato, comunque a
fatto cassa.
L’ultima modalità per regolarizzare chi non è regolare sono i
famosi “decreti flussi”. Attuati sempre con la stessa logica
del numero, in media coprono una quota di circa 70mila
all’anno ingressi. Nei fatti questi decreti sono in realtà delle
vere e proprie “sanatorie”, visto che il 99% delle domande
fanno riferimento a persone che lavorano in nero in Italia.
3.1.3. La Repressione
Ovviamente nei testi delle leggi che gestiscono
l'immigrazione ci sono punizioni e sanzioni, ma noi lasciamo
l'analisi della complessità dei decreti, delle norme e dei
pacchetti agli avvocati. Qui ci occuperemo di cose già
61
studiate con cura da tanti professionisti, che però sono
concordi circa l'inutilità e la non applicazione di queste
normative. Il nostro interesse è mostrare la contraddizione
fra quello che si fa vedere e quello che veramente esiste.
Secondo i dati ufficiali, un milione di persone straniere senza
regolare permesso di soggiorno lavorano attualmente in
Italia. Di queste la maggior parte sono entrate regolarmente.
Il 99% non delinque, ha soldi puliti per pagare le proprie
spese e magari trasferire soldi alla propria famiglia nel
paese d'origine. Ci sono poi circa 5 milioni di persone
immigrate che hanno un permesso di soggiorno in scadenza
o un permesso di soggiorno a lunga durata (CE). Fra questi
si registrano 711mila studenti (dati 2010-11) di cui 350mila
circa nati in Italia. Fra questi la percentuale di cittadini onesti
aumenta ancora: il 99.9% di loro, infatti, non delinque.
Lasciamo agli esperti di criminologia i dati di coloro che
hanno compiuto reati e per questo sono trattenuti nelle
carceri. Riportiamo solo alcune conclusioni della ricerca,
molto curata e approfondita, “La criminalità degli immigrati:
dati, interpretazioni e pregiudizi”, realizzata nel 2009 dalle
equipe del Dossier Statistico Immigrazione
Caritas/Migrantes e dell’Agenzia Redattore Sociale e
coordinata da Franco Pittau e Stefano Trasatti:
«In Italia è diffuso il senso di insicurezza. La paura della
criminalità alimenta tra gli italiani il senso di insicurezza e
impedisce loro di considerare gli immigrati una risorsa. Sul
senso di insicurezza influiscono quattro ordini di ragioni
(Rapporto Demos-Unipolis del 2008):
62
1. la perifericità sociale, tipica dei ceti più bassi;
2. il capitale sociale, che porta a essere meno paurosi
quanto più si è proficuamente inseriti in reti di relazioni
amicali;
3. l'eccessiva esposizione ai media, in particolare alla
televisione, che genera angoscia;
4. il fattore politico, che esercita un notevole influsso»
Come vediamo la terza e quarta precisazione di questa
ricerca indicano l'aumento dell'insicurezza come un fattore
legato alla responsabilità dei mezzi di comunicazione e
direttamente dei politici. Purtroppo queste ricerche non
chiariscono la coincidenza e la periodicità degli attacchi alle
diverse comunità etniche, vere e proprie campagne
diffamatorie che colpiscono le persone immigrate che sono
più presenti in un preciso momento nel nostro paese.
Logicamente queste campagne non si azzardano a
criminalizzare i cittadini filippini che impegnati nel lavoro
domestico: dopo una campagna mediatica che ripeta
all’infinito che i filippini sono violentatori, spacciatori o
sfruttatori nessuna famiglia italiana li farebbe più lavorare
dentro le mura di casa. La verità è che il potere mediatico è
diventato molto fazioso sul tema dell'immigrazione. Il
problema non è tanto “l'eccessiva esposizione ai media, in
particolare alla televisione”, come scritto nella ricerca, il
problema centrale è l'impostazione fascista di ripetere cento
volte una bugia per farla diventare verità. Lo scopo di questo
atteggiamento dei media è criminalizzare le persone
immigrate di una determinata comunità e rendere così più
semplice il sovra sfruttamento di questi lavoratori. In un certo
periodo i media italiani hanno reso i cittadini rumeni dei
63
nemici pubblici, così come tutti i musulmani nel mondo sono
stati criminalizzati dopo il crollo delle Torri Gemelle. In Italia
prima dei rumeni toccò ai cittadini marocchini e poi a quelli
albanesi. Resta il dubbio su quale comunità sarà presa di
mira nel prossimo “bombardamento” che alimenterà il falso
ideologico dell'italianità e la protezione dall'invasione dei
“barbari immigrati”.
3.2. Politica e demagogia elettorale
In Italia, negli ultimi vent’anni, la politica sull'immigrazione è
stata formulata e gestita dalle varie maggioranze e
opposizioni quasi senza differenze fra destra e sinistra. Per
scriverne noi andremo a guardare solo ai fatti. Prescindendo
dalle dichiarazioni, dai discorsi e dalla demagogia verso le
persone immigrate. Migliaia di volte chiamate,
strumentalmente, “sorelle” e “fratelli”. Nelle campagne
elettorali nazionali il tema non è mai mancato, anche se
finora l’unico interesse di tutti i partiti è stato quello di attrarre
elettori. Per proseguire, quanto più possibile, a mantenersi
ben saldi al potere.
3.2.1. Fra il virus leghista e i nuovi italiani
Essendo l'immigrazione una questione di grandi interessi
economici per la presenza di un gran numero di lavoratori
stranieri “sottomessi” e quindi sfruttabili, una parte della
politica ha sempre avuto l’interesse di mantenere e
conservare lo status quo che li vuole irregolari e
indesiderati. È principalmente per questo motivo che è stato
64
permesso che nascesse e crescesse un’ala politica
estremista xenofoba come la Lega Nord.
Non è casuale che nelle regioni con forte presenza
immigrata le elezioni si vincano parlando male dei lavoratori
immigrati. La politica della Lega Nord pretende di far credere
agli elettori che la crisi economica è una conseguenza della
presenza degli immigrati. Il falso ideologico (che se la
giustizia funzionasse dovrebbe essere penalmente
perseguito) che vuole che gli immigrati siano quelli “che
rubano il lavoro”, “usano le nostre case”, “rubano le nostre
donne”, attira il voto dell'operaio, del disoccupato, dell'uomo
o donna semplice. E, se collegato alle campagne mediatiche
che centinaia di volte ripetono “immigrato uguale
delinquente”, finisce per attirare anche altre persone.
In politica il virus leghista ha contagiato anche il centro-
sinistra, che non riesce a parlare bene dell'immigrazione per
paura di perdere voti. Persino quelli più di sinistra, addirittura
gli ex “comunisti” hanno questo virus, tenuti sotto tiro dai
partiti populisti come “amici degli immigrati”. Se oggi la Lega
Nord sparisse questo non porterebbe all’automatica
sparizione del suo virus xenofobo, ormai già trasmesso dalla
nascita al vertice burocratico del Movimento 5 Stelle e a
gruppi di vecchia data come Forza Nuova e simili.
Comunque tutta questa maniera di far politica
segregazionista comincia finalmente ad avere una forza che
la contrasta: i nuovi italiani, ovvero le persone immigrate che
acquisiscono la cittadinanza italiana. Il peso specifico di
questi nuovi elettori farà cambiare i colori di tutta la politica
65
italiana. L'altro elemento che andrà a contrapporsi a questa
politica razzista sarà la presa di coscienza degli immigrati
comunitari a livello delle elezione amministrative, quando
finalmente i partiti e i movimenti politici si ritroveranno fra il
virus leghista e i nuovi elettori d'origine immigrata.
3.2.2. Razzismo e discriminazione
Certe volte si sente dire che l'Italia è un paese razzista.
Prima di scrivere quello che pensiamo conviene leggere un
piccolo riassunto trovato in rete, tratto da: “Le leggi razziali in
Italia”, a cura di Giovanni De Laurentis e Thomas Presa:
«Il Gran Consiglio del fascismo, in seguito alla conquista
dell'impero, dichiara l'attualità urgente del problema razziale
e la necessità di una presa di coscienza razziale e di
provvedimenti per difendere la razza italiana. Il primo atto
pubblico fu "Il Manifesto della razza”, pubblicato il 14 luglio
1938, che, al punto 9, stabiliva che gli ebrei non
appartenevano alla razza italiana e dunque al popolo
italiano. Il 1° ottobre 1938 si arriva alla proibizione dei
matrimoni misti e il 15 novembre del 1938 viene emanata la
legge "per la difesa della razza nella scuola italiana", la
quale prevedeva l'espulsione dalla scuola di insegnanti e
alunni ebrei. Nella "carta della razza" si stabilisce inoltre che:
 é di razza ebraica colui che nasce da genitori
entrambi ebrei.
 é considerato di razza ebraica colui che nasce da
padre Ebreo e da madre di nazionalità straniera.
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 é considerato di razza ebraica colui che, pur
essendo nato da matrimonio misto, professa religione
ebraica.
 non é considerato di razza ebraica colui che é nato
da matrimonio misto, qualora professi altra religione
all'infuori della ebraica.
Poi si arriva all'allontanamento dalla vita attiva degli ebrei,
che vengono considerati stranieri e di nazionalità nemica.
Queste restrizioni nel lavoro, nella scuola e nella vita sociale
erano già presenti in Italia l'8 settembre 1943. In quella data
l'esercito tedesco, fino ad allora alleato dell'Italia, diventa
nemico e occupa militarmente la penisola, aiutando
Mussolini a creare nel nord Italia la Repubblica di Salò. Il 13
dicembre 1943, viene infatti emanata una legge che ordina a
tutti gli ebrei di presentarsi per essere internati nei campi di
concentramento. A causa delle leggi razziali del regime
fascista, gli ebrei residenti in Italia erano già conosciuti e
schedati. Da questo momento inizia il periodo di
deportazione e sterminio anche degli ebrei Italiani».
Questa fu l'Italia razzista. Quella che parlava della “razza
italiana” e della “razza ebrea”, di segregazione e di
espulsione verso i lager. Un’Italia che fu schiacciata dai
partigiani e ripulita dalla Costituzione del ‘48. Da allora il
popolo italiano non ha permesso ai neofascisti di arrivare a
scrivere leggi razziste. Che qualche individuo o gruppi
d'individui manifestino l'intenzione di riprendere il testimone
nazi-fascista non significa che questo paese è razzista. Certi
azioni folli non riguardano tutti gli italiani.
67
Il “Pacchetto Sicurezza” di Maroni, contenitore del reato di
clandestinità. L’aumento delle tasse per il rinnovo dei
permessi di soggiorno. Le pene per chi affitta a persone
“irregolari”. Il divieto dell’invio di denaro agli “irregolari”. Il
negare i matrimoni civili agli “irregolari”. L’aumento del
tempo legale di fermo nei CIE. L’aumento delle pene per i
delinquenti non italiani. Se si uniscono tutte queste cose alla
percentuale minima dei figli di immigrati nella scuola
pubblica stabilita dalla Circolare Gelmini, emerge
chiaramente l'intenzione di fare di questo paese
“legalmente” un paese razzista.
Fra i primi 16 paesi d'origine degli immigrati presenti in Italia
abbiamo gente di tutti e cinque i continenti, tutti i colori di
pelle conosciuti, le religioni più professate e le lingue più
parlate nel mondo. Quindi, essendo impossibile accomunare
le persone immigrate in qualsiasi altro modo, il pensiero di
Maroni potrebbe essere sintetizzato solo con: “noi italiani e
voi non italiani”. Usando la logica leghista, la maggior parte
dei “non italiani” sarebbe così soltanto una massa informe di
lavoratori, destinata a lavorare alle dipendenze degli
imprenditori italiani. Punto e basta, perché “gli italiani sono
quelli che danno lavoro”. E lo Stato deve sostenerli. Sempre
secondo questa logica, finito il lavoro questi stranieri
dovrebbero andare via.
Il “razzismo del terzo millennio”, almeno in Italia, è il sovra
sfruttamento dei lavoratori immigrati. Confondere la
discriminazione con il razzismo è non volere approfondire
l’analisi delle nuove condizioni che la globalizzazione del
mercato capitalistico nei nostri tempi crea, nascondere i
68
profitti di chi sfrutta questi operai non italiani. Il sovra
sfruttamento agli operai stranieri è il preambolo alle
condizioni di sovra sfruttamento anche per i lavoratori
autoctoni dei paesi del cosiddetto “primo mondo”.
Così come è sbagliato confondere razzismo e sovra
sfruttamento, è ugualmente sbagliato confondere il sovra
sfruttamento con la schiavitù. Non è corretto affermare che
gli operai immigrati lavorano in condizione di schiavitù
perché - come scrive Federico Engels nei “Principi del
Comunismo” - lo schiavo a suo tempo viveva condizioni che
non assomigliano affatto con quelle del lavoratore sfruttato
di oggi, né in senso negativo rispetto alla libertà personale
né in senso positivo relativamente e certe garanzie oggi
perdute. L’unica somiglianza fra il lavoratore immigrato e lo
schiavo è che entrambi non sono considerati cittadini. Quindi
la prima cosa da fare è esigere l’uguaglianza dei diritti fra
persone immigrate e italiani. Tutto il resto viene dopo.
3.3. La nuova politica
Tutta la nostra argomentazione sui diritti civili delle persone
immigrate deve essere concentrata qui, nella nuova politica.
Visto che negli altri campi - economico, sindacale, sociale,
culturale, sportivo, ecc. - gli addetti ai lavori si sono strappati
i capelli e i vestiti cercando di capire come cambiare i loro
ambiti in favore dei “poveracci” immigrati, anche molti
stranieri sono caduti nella trappola di cercare di cambiare
quello che avevano intorno. Ovviamente senza ottenere
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nulla, perché è solo quando la politica cambierà le regole
sull’immigrazione, riconoscendo i diritti umani alle persone
arrivate da fuori confine insieme con l’applicazione dei diritti
stabiliti nella Costituzione italiana, che potremmo finalmente
dire che l’Italia starà andando nella giusta direzione, che
staremo guardando al futuro.
In diversi Paesi del mondo esistono già dei dettami
costituzionali che riconoscono il “diritto a emigrare” e che
dichiarano che “nessun essere umano viene considerato
illegale per la sua condizione migratoria” (Costituzione
dell’Ecuador, nel Titolo secondo “Diritti”, Capitolo Terzo
“Diritti delle persone e gruppi d’attenzione prioritaria”,
Sezione Terza “Mobilità Umana”, articolo 40). L’Ecuador è
l’esempio di un Paese che mostra notevole coerenza
politica, comprendendo bene l’emigrazione di circa un
quarto della propria popolazione verso il “primo mondo” e
avendo circa un milione di persone immigrate dalla
Colombia, Perù, Cuba, Haiti, Bolivia e Cina. La Costituzione,
approvata il 28 settembre 2008 con referendum popolare,
tutela ugualmente emigranti e immigrati.
Secondo l’ordinamento italiano la Costituzione può essere
modificata solo attraverso maggioranza parlamentare.
Purtroppo la politica è l’espressione concentrata
dell’economia, quindi il Parlamento tenderà a ratificare lo
sfruttamento delle persone immigrate negando loro i pieni
diritti di cui dovrebbero invece godere.
3.3.1. Partiti e movimenti meticci
70
Il termino “meticcio” non è esattamente il più adatto ad
essere usato nella categoria politica, però quale altro nome
potremmo dare alle strutture, fatte da italiani, che in futuro
promuoveranno i diritti degli stranieri? I documenti che
queste strutture produrranno saranno meticci “dalla nascita”,
nel momento stesso in cui alle aspirazioni legittime delle
persone italiane, sommeranno quelle degli immigrati.
Cosa determinerà il cambiamento della politica italiana? I
voti dei “nuovi italiani”. Da circa 10 anni diventano italiani
una media di 50mila persone d’origine immigrata all’anno. È
molto probabile che, quando questi nuovi cittadini saranno
abbastanza numerosi per fare “massa critica”, i politici
italiani useranno lo stesso stile scelto da Obama per vincere
le sue elezioni, ovvero quello di avvicinare la comunità
latinoamericana - che negli Stati Uniti è la più numerosa -
per guadagnare il maggior numero possibile di voti,
promettendo demagogicamente la riforma migratoria, tanto
attesa da tutti i familiari degli “americani” di origine
immigrata.
In Italia c’è da credere che i partiti e i movimenti
diventeranno più colorati, nelle liste ci saranno sempre più
cognomi asiatici, africani, latinoamericani o dell’Europa
dell’est, e sarà la rovina di quanti oggi sono refrattari ai
cambiamenti. La politica dovrà rapportarsi alle strutture
culturali, sociali e politiche transnazionali delle comunità
immigrate che fanno attività in Italia.
71
L’altro fattore di cambiamento nella politica italiana al
momento sopito è il voto amministrativo delle comunità
provenienti dai paesi europei. Quando questi cittadini
potranno cambiare i sindaci e i consiglieri comunali saremo
a un passo dalle città cosmopolite della neocultura, cioè,
giovani e molto “colorate”. Magari il prossimo sindaco di
Roma Capitale si chiamerà Olga, Igor, Nadia, Mihai, Kadija,
Mahmud o Carlos. Magari in Italia si costruirà la moschea
più grande e bella del mondo occidentale. Magari le città
italiane si riempiranno di opere d’arte provenienti da tutti i
paesi del mondo. Magari in ogni quartiere si apriranno
scuole di lingua madre di ogni idioma che parlano le persone
immigrate. Magari si creeranno biblioteche vive, con
centinaia di racconti della letteratura cinese, araba,
spagnola, o delle lingue dell’Europa dell’est. Magari, quando
le persone immigrate, per la maggior parte lavoratori,
potranno votare alle amministrative, verranno finalmente
valutati i curriculum lavorativi dei candidati, oltre che il
linguaggio che non dovrà contenere nemmeno l’ombra della
xenofobia.
Perché il diritto di voto amministrativo per le persone
immigrate non comunitarie residenti legalmente da più
cinque anni diventi effettivo dobbiamo ancora aspettare. Per
il momento siamo seduti sulla riva del fiume e attendiamo
l’arrivo della stagione nuova che questo fattore di
cambiamento certamente porterà nella società.
72
73
CAPITOLO VI
I lavoratori immigrati e il sindacalismo
La percentuale di lavoratori nell’universo delle persone
immigrate, stando ai dati ufficiali, non è inferiore all’80%.
Quindi, chi volesse parlare di questo tema dovrebbe parlare
necessariamente di operai, colf, badanti, braccianti e di tutte
le categorie lavorative nelle quali i lavoratori immigrati sono
presenti. Le persone che provengono da altri Paesi appena
arrivate in Italia cercano al più presto possibile di trovare
lavoro, perciò sarebbe logico, oltre che auspicabile, che
fossero i sindacati a farsi carico di loro. Fino a pochi anni fa
in Italia i sindacati facevano riferimento a posizioni politiche
precise, nonostante le quali queste organizzazioni, più o
meno indistintamente, hanno lasciato gli immigrati alla loro
sorte.
4.1. I diritti dei lavoratori immigrati
La categoria dei lavoratori stranieri era coperta nel mondo
con la legislazione emanata dall’ILO (“International Labour
Organization”, ovvero “Organizzazione internazionale del
Lavoro”). Leggiamo dal sito del Centro di Documentazione
"L’Altro diritto" dell’Università di Firenze:
“Nel 1981 l’Italia ratificò, con la legge n. 158 la convenzione
ILO n. 143/1975 sulla promozione dell'uguaglianza di
opportunità e di trattamento dei lavoratori immigrati. Il 30
dicembre 1986, con la legge n. 943 ("Norme in materia di
collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari
immigrati e contro le immigrazioni clandestine"), venne
emanata la prima regolamentazione normativa dell'attività
lavorativa straniera. Vennero stabiliti alcuni principi generali
in tema di lavoro e venne istituita la Consulta per i problemi
74
dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie, che troverà
piena disciplina nell'art. 42 del T.U. 286/1998 e nell'art. 55
del D.P.R. n. 394 del 1999, recante il Regolamento di
attuazione del Testo unico”.
Nell’86 viene emanato un regolamento sull’iscrizione degli
immigrati alla previdenza sociale che fa riferimento anche al
ricongiungimento familiare e ai diritti pensionistici. I diritti dei
lavoratori immigrati, in tutti i Paesi, seguono una legge
informale della proporzione inversa rispetto al numero di
presenze, cioè: più numerosi sono gli immigrati minori
saranno i diritti di cui potranno godere, minore sarà il loro
numero maggiori saranno i diritti cui avranno accesso.
Naturalmente in questa proporzione s’inserisce anche la
lotta delle persone immigrate per acquisire la cittadinanza,
nel nostro caso italiana, perché l’uguaglianza vera non può
darsi fuori dalla cittadinanza: quando la percentuale di
persone immigrate che riesce a ottenere la cittadinanza è
bassa significa che il sistema di segregazione è riuscito a
rallentare i diritti lavorativi degli stranieri, esponendoli agli
esperimenti di “rientro” nei quali sono costretti a lasciare i
contributi maturati durante la propria attività lavorativa come
regalo a coloro i quali sfruttano questo sistema.
4.1.1. L'arrivo degli operai stranieri
Come è stato scritto negli altri capitoli, l’arrivo delle persone
straniere viene ammortizzato ideologicamente con
l’accoglienza dell’intera società: ai lavoratori viene detto che
l’arrivo degli immigrati serve a coprire le loro pensioni,
quindi, alla fine, questo “sbarco” viene accettato da tutti
come un male necessario. Chi, in questa storia, è mancato
all’appello è il sindacalismo.
75
Considerando che subito dopo il loro ingresso in Italia gli
immigrati - che certo non vengono per turismo - sono
destinati a diventare lavoratori, il silenzio dei sindacati è
stato tanto grave quanto stupido. Lasciata a sé stessa, la
presenza in crescita geometrica di tanti lavoratori senza
diritti, poteva generare l’effetto di un vero “esercito di riserva”
sul mercato del lavoro. Una riserva pronta a qualsiasi cosa,
ma soprattutto utile per minacciare l’“esercito regolare”
quando si fosse ribellato a un abbassamento delle tutele.
Poteva farlo. E l’ha fatto.
Invece di essere presenti, il sindacato e la sinistra non
hanno curato i diritti di “questi poveracci” lasciandoli nelle
fauci del mercato, il quale, subito dopo, si è mangiato anche
i diritti dei lavoratori italiani. Difficile credere adesso che il
sindacalismo, all’epoca, non capì che lo strumento per
azzerare i diritti erano i lavoratori immigrati.
4.1.2. La concorrenza
Nel Capitolo II abbiamo cercato di mostrare la concorrenza
fra i diversi tipi di lavoratori, italiani, immigrati e comunitari e
le gravi conseguenze di questa per loro stessi. Concludiamo
qui il discorso dicendo che “la gara per i posti di lavoro”
favorisce per intero gli imprenditori, perché porta a un
abbassamento degli stipendi e quindi, in generale, del valore
della manodopera: tutto Il mondo del lavoro è collegato agli
interessi dei padroni.
La concorrenza è la parte più visibile del processo
migratorio, e dà adito a stereotipi come: “gli stranieri ci
rubano il lavoro” o, in senso inverso, “gli italiani non vogliono
L'immigrazione come processo in italia
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L'immigrazione come processo in italia

  • 1. 0
  • 3. 2
  • 4. 3 Curatrice Editoriale: Elisa Scourtaniotu foto a cura di: Alessia Leonello/GraffitiPress Finito di stampare nel mese di Aprile 2014 Centro Stampa Filarete - Via Filarete, 121 - Roma (Italia) Tel. 06 24401998 - email: tipografiafilarete@yahoo.it
  • 5. 4
  • 6. 5 Indice Premessa 9 Introduzione 17 CAPITOLO I L’immigrazione come processo in Italia 1.1. Il Sistema Italiano d’Immigrazione. 23 1.1.1.L'ipotesi sul bisogno dell’immigrazione. 1.1.2.Marco teorico e la Sperimentazione del processo migratorio. 1.1.3.Verifica del percorso. 25 1.1.4.Gestione dell’immigrazione. 26 1.2. Le cause. 1.2.1.La crescita della popolazione. 28 1.2.2.Lo sbilancio del INPS. 31 1.2.3.I costi alti della produzione e della mano di opera. 32 1.3. Le fasi 1.3.1.lo sbarco. 34 1.3.2.L'immigrazione. 36 1.3.3.Il rientro. 41 CAPITOLO II L’utilità economica delle persone immigrate 2.1. Forza di lavoro delle persone straniere. 45
  • 7. 6 2.1.1. Come merce e valore di uso. 2.1.2. Il valore di scambio e la concorrenza. 47 2.1.3. Ciclo formativo e formazione. 48 2.1.4. Sfruttamento della forza lavoro immigrata e i comunitari. 50 2.2. l'imprenditoria delle persone straniere. 52 CAPITOLO III Lo Stato e le forze politiche 57 3.1. Cornice legale 58 3.1.1. Le leggi. 3.1.2. Le sanatorie 59. 3.1.3. La repressione. 60 3.2. Politica e la demagogia elettoralistica 63 3.2.1. Fra il Virus Leghista e i nuovi italiani . 3.2.2. Razzismo e discriminazione. 65 3.3. La nuova Politica. 68 3.3.1. Partiti e movimenti meticci. 69 CAPITOLO IV I lavoratori immigrati e il sindacalismo 73 4.1. I diritti dei lavoratori. 4.1.1. L’arrivo degli operai stranieri. 74 4.1.2. La concorrenza. 75 4.1.3. L’unità di classe. 77
  • 8. 7 4.2. Gli iscritti immigrati nel sindacalismo. 79 4.2.1. Il Sindacalismo confederale. 4.2.1. Il Sindacalismo di base. 80 CAPITOLO V L’accoglienza e l’integrazione 83 5.1. L’accoglienza. 5.1.1. La Religione come ammortizzatore sociale e la chiesa come ponte. 84 5.1.2. La Cultura come folclore. 85 5.1.3. La famiglia transnazionale. 86 5.2. L’integrazione. 88 5.2.1. La religione come elemento d’identità. 90 5.2.2. La Cultura, contaminazione e la Neo-cultura italiana. 92 5.2.3. Le famiglie meticci. 96 CAPITOLO VI I lavoratori immigrati “anche” pensano, parlano e lottano. 6.1. La soggettività degli immigrati e loro rivendicazioni 6.1.1. L'inizio dell'organizzazione. 105 6.1.2. Il protagonismo autonomo e quello addomesticato. 107 6.1.3. La rappresentanza e Il folclore istituzionale. 108 6.2. L’organizzazione e la lotta civile. 6.2.1. Gli obiettivi dell'organizzazione e i diritti. 109
  • 9. 8 6.2.2. La espansione mondiale degli operai immigrati e loro congiunti. 113 6.2.3. Lotta e diritti transnazionali. 115 SITOGRAFIA WEB. 119 <<<<<<<<<<<<<<<<<=>>>>>>>>>>>>>>>>>>
  • 10. 9 Premessa alla edizione italiana. Tutto quello che riguarda l’immigrazione e gli immigrati in Italia è stato già visto. Anche senza voler contare l’immigrazione interna, che pure nei secoli è stata ingente (da quelle migliaia di veneti, marchigiani o abruzzesi che bonificarono le paludi Pontine agli eserciti di braccianti meridionali diventati operai delle fabbriche del nord), tra il 1870 e il 1970 gli italiani sono andati ovunque nel mondo in cerca di lavoro e di un futuro migliore per i propri figli. Eppure, anche se sull’emigrazione italiana si è scritto, raccontato e detto tanto, oggi sembra quasi che l’argomento sia nuovo. Anche se chiunque abbia fatto le scuole elementari in Italia sa di cosa parla “Dagli Appennini alle Ande”, se al solo nominare Marcinelle a ciascuno scappa un brivido o se quella di “Rocco e i suoi fratelli” è una storia in cui, ancora oggi, molti italiani del sud potrebbero avvertire una eco di vicende di famiglia. Purtroppo, quello dell’immigrazione oggi è un tema “caldo”, argomento buono per i dibattiti televisivi, le tavole rotonde, i convegni. Un tema che fa discutere e divide, che spesso contrappone i pro e i contro come ultras di squadre diverse finché in campo non scende l’esperto, il “cifra tuttologo” di turno, che inizia a sciorinare dati e percentuali: quanti immigrati arrivano ogni anno in Italia, da quanti paesi provengono, quanto costa l’immigrazione in termini di PIL. Cifre che - vere o false che siano a seconda del contesto più o meno ideologico in cui vengono esposte - fanno dimenticare quasi sempre che quello di cui si parla non sono numeri, ma esseri umani. Esseri umani che - come gli italiani
  • 11. 10 un tempo - partono dai loro paesi in cerca di un lavoro e di una vita migliore, per sé stessi e le proprie famiglie. Il primo mito che riguarda l’immigrazione che arriva oggi in Italia è quello dell’“esercito di affamati” che sbarcherebbe sulle coste con i barconi: la maggioranza delle persone immigrate in Italia negli ultimi trent’anni non è arrivata in quel modo. Sono arrivati in aereo, con regolari voli di linea, e via terra attraversando semplicemente le frontiere in macchina o in pullman. Non sono arrivati sfidando il mare e la guardia costiera soprattutto perché non ne avrebbero avuto bisogno. Non esiste legge che impedisca di venire in Italia per turismo e, infatti, la maggioranza degli stranieri arriva così. Solo che allo scadere del visto turistico resta in Italia, sia che abbia già ottenuto i documenti per farlo in modo legale, sia che questo comporti di diventare “irregolare”. In tutti i casi, la percentuale di chi arriva con i barconi (immagine reale ma rara, che, ripetuta all’infinito e amplificata ad arte, contribuisce solo a creare nell’immaginario collettivo il timore del’“invasione straniera”) in realtà è bassissima. Un’immagine buona solo per alimentare le politiche de "l’Italia agli italiani", con i tutti i loro contorni di “padanie” e fazzoletti verdi o, peggio, croci celtiche e mani tese. La verità dei fatti è un’altra, ma va ricercata molto lontano dalle coste di Lampedusa. Il primo passo per trovarla può essere entrare in un negozio dell’Ikea. Prezzi bassi e vasta scelta, ecco il segreto del successo della multinazionale svedese più conosciuta al mondo. Ma su cosa poggia la fortuna del “signor Ikea”? Su un’ottima visione commerciale e su un altrettanto spiccato senso degli affari, questo certamente, ma anche su qualcos’altro. Per scoprire cosa basta leggere le etichette sui prodotti.
  • 12. 11 Bicchieri: made in Bulgaria. Scodelle: made in Russia. Posate: made in China. Lenzuola: made in India. Cestini in vimini: made in Sri Lanka. Il “signor Ikea” ha capito, prima di molti altri, che la globalizzazione dei mercati poteva essere una benedizione. Così l’ha sfruttata, de-localizzando quasi tutte le produzioni in paesi in cui i diritti dei lavoratori non esistono, i salari sono bassi e i sindacati non hanno voce. Come c’entra questo con l’immigrazione in Italia? C’entra, perché è l’esempio concreto del “paradosso Ikea”: oggi il mercato delle merci è stato globalizzato alla perfezione (chiaramente a seconda dei punti di vista), ma c’è ancora una merce che non può circolare liberamente. La forza- lavoro. Come una qualsiasi merce, la forza-lavoro rientra in un mercato dove ci sono compratori e venditori, e, come merce, è soggetta ai ribassi e ai rialzi dell’offerta e della domanda. Nell’Italia del “dopo boom economico”, gli imprenditori - quelli grandi, con tanti lavoratori, i “signori Ikea” italiani per intenderci - cominciano a creare le condizioni per abbassare i costi di produzione. Uno dei primi sistemi che trovano è appunto andare all’estero, nei paesi dove i salari sono inferiori rispetto a quelli italiani, producendo là e continuando a vendere qui. Ma presto questo non basta - anche perché non tutto può essere de-localizzato - e occorre trovare altre strade. Uno dei primi sistemi ad essere scoperto grazie al provvidenziale suggerimento dei giuslavoristi, è stato sicuramente il precariato. Generazioni intere di lavoratori senza diritti, aggrappati a contratti in continua scadenza, costretti ad accettare qualsiasi condizione di lavoro pur di sfuggire alla disoccupazione. Un’idea brillante. Ma neppure
  • 13. 12 questo bastava. Così gli imprenditori chiedono aiuto allo Stato, il quale - per contribuire ad abbassare i costi - fa in modo di richiamare in Italia un gran numero di lavoratori stranieri. Più o meno formati o scolarizzati non importa, tanto devono essere impiegati in lavori di basso profilo, l’importante è che siano “irregolari”. Perché il trucco è proprio questo: che la forza-lavoro non arrivi dalla porta, ma dalla finestra. Cioè senza diritti, imballata e pronta per essere sfruttata. I lavoratori devono poter essere assunti irregolarmente, devono essere licenziabili senza creare problemi, li si deve sempre poter ricattare. Un’altra gran bella trovata, che oltretutto contribuisce a dissuadere anche i precari italiani dal chiedere maggiori diritti, del tipo: “Se rifiuti di scaricare bancali in magazzino per otto ore al giorno chiamo due marocchini, li pago la metà, e loro mi dicono anche grazie!”. Gli imprenditori che importano materie prime o strumenti di produzione dall’estero pagano i costi del trasporto, mentre per avere manodopera straniera sottopagata in Italia non ci sono molti oneri aggiuntivi. L’importazione di operai stranieri è il miglior affare che un Stato può fare in tempi di crisi: ricevere una persona già in età lavorativa senza aver speso un euro per lui/lei. Una simpatica forma di rapina colonialista moderna, che sottrae braccia e cervelli ai paesi d’origine, ghettizzando i lavoratori immigrati in nicchie di lavoro non qualificato, rifiutando di riconoscere titoli di studio esteri e specializzazioni conseguite altrove. Ma d’altra parte la domanda del mercato sembra attestarsi solo sulle fasce basse: non sono richiesti ingegneri meccanici, ma turnisti alla catena di montaggio. Non agronomi, ma raccoglitori di
  • 14. 13 pomodori. Eppure, così come si sottoscrivono accordi di commercio bilaterale o trattati di libero commercio, si dovrebbero poter firmate anche “trattati di libero lavoro”, almeno con tutti quei paesi che - nel corso degli ultimi cent’anni - hanno visto nell'emigrazione italiana un elemento socialmente significativo. Ma il concetto di reciprocità sembra non essere molto familiare ai governi. Così arriviamo ad un mercato in cui la maggior parte degli italiani non accetta di lavorare in un bar per 5 euro l’ora. Lavoratori il cui tenore di vita - finora tutelato da associazioni e sindacati - impone di rifiutare di andare a raccogliere la frutta per 20 euro la giornata. Uomini e donne che, avendo studiato e investito sulle proprie specializzazioni, non accettano di prendersi cura di un anziano per 600 euro al mese o di fare le pulizie nelle case a 8 euro l’ora. Il minimo offerto dal mercato è diventato troppo basso. Perciò non è affatto vero, come qualcuno vuole far credere, che gli italiani non vogliono più fare certi lavori. Semplicemente si rifiutano di farli per paghe così basse. Quando i lavori manuali - magari anche umili - vengono ben retribuiti, gli italiani lottano per accaparrarseli esattamente come gli altri: non c’è concorso per posti da “operatore ecologico” indetto da una municipalizzata che non veda migliaia di domande di italiani, ben oltre l’offerta. Il falso ideologico dei lavoratori stranieri che coprono i vuoti lasciati dagli italiani vuole solo nascondere il problema dello sfruttamento dei lavoratori, assopendo le coscienze e cancellando i diritti di tutti. Chi sostiene che l’immigrazione sia un “fenomeno”, dà un’immagine assolutamente falsata della questione. L’immigrazione non ha nulla di occasionale. Non è un esodo improvvisato di persone in fuga da qualcosa o qualcuno.
  • 15. 14 Non nasce dall’oggi al domani. L’immigrazione è, piuttosto, la prima e più visibile conseguenza dell’attuale sistema del lavoro globalizzato: un sistema in cui le condotte umane vengono indirizzate esclusivamente attraverso le leve economiche della domanda e dell’offerta di lavoro. Il porre l’accento sull’emergenza, sugli sbarchi, sul tema “dell’invasione straniera” (così come sulle quote, sui permessi di soggiorno, sulla repressione), mette in ombra il nodo centrale attorno al quale tutto ruota: il mercato ha bisogno del lavoro immigrato, e ne ha bisogno proprio nella sua forma attuale. Come in passato si nascondeva l’origine del profitto - che traeva origine dal plusvalore generato degli operai - oggi si nasconde il plusvalore che generano i lavoratori immigrati. L’Italia è un paese che, da molto tempo ormai, ha una crescita demografica negativa. Questo significa che, man a mano che la popolazione italiana ha iniziato a invecchiare, sono rimasti dei “posti vuoti” nella società. La dinamica è più facile da capire in un piccolo centro che non nelle grandi città: se in un paesino muore il macellaio o il farmacista, il giorno successivo la gente si preoccuperà di sapere chi venderà la carne o i medicinali, perché quel “posto” è rimasto vuoto. Nelle città l’unica cosa a cui possiamo guardare sono i dati generali relativi alla popolazione, che, stando alle statistiche, ogni anno diminuisce. Ma questo oltre a “lasciare vuoti dei posti” crea anche una contrazione del mercato. Man mano che la popolazione invecchia diminuisce il proprio valore d’uso, nel senso che non contribuisce più come una volta a far girare l’economia: gli anziani non comprano (o lo fanno di rado) case, auto, vestiti, elettrodomestici e tutto quello che la società dei consumi
  • 16. 15 produce incessantemente. Magari incrementano le proprie richieste di servizi (donne delle pulizie, badanti, medici e infermieri), ma iniziano a porsi ai margini del mercato dei beni. Inoltre, le persone anziane non lavorano più, ma percepiscono una pensione, diventando quindi per la collettività una voce in passivo. Perciò, ricapitolando: la popolazione invecchia, la natalità è negativa, gli anziani diventano un costo che grava sulle spalle della popolazione economicamente attiva, che - soprattutto considerando il nostro alto tasso di disoccupazione - si assottiglia sempre di più. Quindi? Quindi arrivano gli immigrati.
  • 17. 16
  • 18. 17 L’immigrazione in Italia come processo Introduzione La parola “migrazione” deriva dal latino mĭgrātĭo (emigrazione, trasferimento, passaggio) e, in senso figurato, del greco metafora, dalle due radici “metà”, più là, e “phorein”, traslocare, portare, spostare più là). Quest’antica definizione della migrazione oggi è troppo stretta, soprattutto dopo le scoperte archeologiche sull’origine dell’uomo che stabiliscono come le tribù dell’Homo Sapiens lasciarono la culla afro-orientale (Etiopia) e si “spostarono” per tutta la Terra, inaugurando una fase in cui l’umanità entrò in possesso di tutto il pianeta e celebrò l'inizio della migrazione come condotta normale degli esseri umani. È a questo migrare che dobbiamo molto di quello che siamo oggi: le ricerche ci dicono infatti che lo sviluppo del piede, del ginocchio e del bacino nell’uomo moderno sono avvenuti anche grazie al camminare dei nostri progenitori. Nelle comunità primitive il processo migratorio è generalizzato: non c’è ancora la divisione sociale del lavoro e quindi tutti migrano, perché solo migrando potevano coprire i loro bisogni di beni. Quando, in epoca storica, arriva lo schiavismo, la migrazione non è più un processo voluto: la proprietà privata sui mezzi di produzione fa nascere lo sfruttamento degli uni sugli altri, e l’essere umano diventa merce di scambio da cui trarre profitto. La migrazione diventa coatta, spesso mortale: chi perdeva una battaglia o una guerra era portato nelle
  • 19. 18 terre di residenza dei vincitori, strappato alla propria famiglia e con questa quasi mai ricongiunto. Nel feudalesimo e, più tardi, nello “schiavo-feudalesimo” imposto dal Vecchio Continente nelle colonie africane, asiatiche o latinoamericane, la migrazione ha le stesse caratteristiche, tranne che gli schiavi hanno acquisito dei diritti in relazione alla capacità di soddisfare le esigenze dei propri “padroni”. Nel capitalismo la forza-lavoro è una merce, e solo chi la vende ha “la libertà di scegliere lo sfruttatore”. La migrazione di centinaia di milioni di braccia altro non è che un mercato mondiale di manodopera. Così come in passato si pretendeva di nascondere l’origine del profitto - quindi il plusvalore generato degli operai - oggi si vuole nascondere il profitto che generano i lavoratori immigrati in ogni paese dove arrivano. Si vuole nascondere che gli operai stranieri sono stati portati apposta per far concorrenza agli operai italiani e far sparire ogni traccia dei diritti lavorativi di tutti. La presenza in un paese di milioni di persone immigrate non può essere spiegata attraverso una sola risposta. La maggior parte delle persone immigrate in Italia sono arrivate in aereo e via terra, non per mare come i mass media pretendono di far credere. I gommoni e i barconi pieni di "affamati" sono immagini che alimentano la politica discriminante e impauriscono chi crede nella trama della Lega Nord: "l’Italia agli italiani" o "Padania libera". I concetti di “nostra terra”, “nostra nazione”, “nostra Unione Europea” appartengono esclusivamente a chi veramente è proprietario
  • 20. 19 di questi posti, perché i confini nascono per legalizzare la proprietà. "Le nostre risorse naturali", "i nostri schiavi", "i nostri operai", "i nostri animali", "i nostri mari", e poi, subito dopo, "la nostra cultura", "la nostra religione", "la nostra musica". Ponendosi dentro dei confini sembra che tutto sia di tutti, naturalmente finché qualcuno fa vedere i titoli di proprietà. I confini si aprono e si chiudono solo quando i padroni del posto lo vogliono. I confini delle nazioni sono parte della sicurezza e sono impenetrabili. Il controllo per l’aria, la terra e il mare garantisce il flusso - desiderato o no - di persone o cose: siamo nel terzo millennio, il mercato delle merci è stato globalizzato tanto che le cose possono passare da un confine ad un altro. Solo una merce non può circolare liberamente: la forza-lavoro. I mercati internazionali funzionano attraverso trattati di libero commercio che sembrano accordi di reciproco vantaggio. I paesi sviluppati e industrializzati si accordano con paesi arretrati con patti che regolano il flusso delle merci. Lo fanno a seconda degli interessi dei grandi produttori a detrimento di quelli di migliaia di piccoli e medi produttori dei paesi dipendenti. I trattati che regolano il flusso della merce forza- lavoro, quindi anche i suoi diritti, invece, ancora non sono stabiliti fra i paesi. Il flusso delle persone si regola con norme bilaterali di vecchia data, ma se in futuro si firmeranno accordi saranno ugualmente sottomessi agli interessi dei grandi capitalisti, e solo dei governi indipendenti dal sistema coloniale attuale potrebbero costringere a firmare trattati in vantaggio della merce forza-lavoro, magari
  • 21. 20 attraverso accordi che riconoscano i diritti umani e lavorativi delle persone emigrate in queste “grandi” nazioni. L’immigrazione è un processo generatore di grandi risorse economiche e per questo ci sarà sempre qualcuno o tanti pronti ad approfittare di questo massiccio movimento di persone. La migrazione è un tema sempre caldo. Le persone ne parlano, gli “esperti” ne discutono nei dibattiti, alle tavole rotonde e durante i convegni. I “cifra-tuttologi”, infine, ne espongono diligentemente i numeri, e fra tutti sono i peggiori: attraverso dati e cifre, questi ultimi hanno infatti la capacità di trasformare la fame nel mondo in una semplice statistica, facendo dimenticare quasi sempre che si parla di esseri umani. I tanti uomini, donne e bambini che da più di vent’anni sentiamo arrivare da lontano finiscono in poco tempo per diventare delle unità di forza-lavoro nel sistema produttivo di questo paese. Quindi, una volta tuffati nel mercato del lavoro, sembra che spariscano, a conferma che la finalità dell’immigrazione è proprio il lavoro. Chi sostiene che l’immigrazione è un fenomeno ne dà un’immagine assolutamente falsata. Quasi che le persone immigrate stessero fuggendo come in un esodo o come buoi allo sbando. Chi sostiene il concetto del “fenomeno” non riesce a capire che chi vuole “scappare” dai paesi del “terzo mondo” per fame, guerra o per sfuggire a catastrofi naturali, deve avere come minimo i quattrini per pagarsi il biglietto del viaggio. Per attraversare l'Oceano Pacifico, Atlantico o Indiano non si può essere indigenti, occorre avere un minimo di risorse economiche per acquistare un biglietto di
  • 22. 21 viaggio di qualsiasi mezzo di trasporto dall’Asia, Africa o America Latina verso l’Europa, Stati Uniti, Canada o altri paesi. Cioè avere da 5mila a 10mila dollari a testa per arrivare a destinazione. La maggior parte delle persone immigrate provengono dal cosiddetto ceto medio dei loro paesi. Per questo fra le persone immigrate troviamo laureati, professionisti, piccoli e medi imprenditori, persone che hanno un gran bagaglio culturale, quasi tutti bilingue. Queste persone escono dal loro paese con progetti di vita, pianificati dentro le mura familiari con la speranza di diventare il più presto possibile possessori di un salario ricco nei paesi del “primo mondo”. Milioni di progetti di vita non possono esseri considerati come un fenomeno. Al contrario della visione proposta dalla maggior parte delle ONG, l’immigrazione è una condotta umana che può essere analizzata solo dentro un processo di mercato mondiale di forza-lavoro, cioè dentro l’offerta e la domanda internazionale di posti di lavoro. Una condotta umana che, a seconda del modo di produzione in cui si attua, stabilisce dei processi. Processi che hanno delle fasi chiare dentro un tempo e uno spazio.
  • 23. 22
  • 24. 23 Capitolo I L’immigrazione in Italia come processo 1.1.Il Sistema d’immigrazione in Italia. 1.1.1. L'ipotesi sul bisogno dell’immigrazione in Italia. Il primo allarme che arriva agli Stati sulla mancanza di esseri umani sono i dati negativi della crescita della popolazione. A seguito di questo, come sosteniamo, comincia lo sbilancio della previdenza sociale. Queste sono le cause che portano gli Stati a porsi l’ipotesi di aprire l’importazione di manodopera straniera. Secondo l’ONU, all’Italia servirebbe far rientrare 200mila persone ogni anno per compensare l’emergenza demografica. L’Italia necessita di riempire i vuoti, necessità anche dei consumatori. I dati statistici ci dicono di sì, l'Italia ha bisogno di aprire le porte? 1.1.2. Marco teorico e la Sperimentazione del processo migratorio Il passo successivo all’ipotesi è la sperimentazione. Arrivati a questo punto lo Stato aveva la necessità di sperimentare nella pratica i risultati di un’eventuale apertura alla manodopera straniera. La questione che si poneva era però quali porte (o “finestre”) aprire, e in che modo. Qualche esperienza su cui basarsi poteva venire da quei paesi in cui questa necessità si era già manifestata prima, come la Francia o l’Inghilterra o la Germania, ma in realtà ben poco
  • 25. 24 di quelle esperienze alla fine è stato usato nel nostro paese. In questo senso, oltre ai diversi motivi di carattere politico che certamente pesano nell'orientamento della creazione di un “modello italiano dell’immigrazione” autonomo, si sono aggiunte anche motivazioni che potremmo definire storico- culturali. I nostri vicini d’oltralpe, così come gli inglesi, fino a quel momento, infatti, erano stati interessati principalmente all’immigrazione proveniente dalle ex-colonie e perciò difficilmente comparabile con quella che avremmo potuto avere noi. In questa sede non è possibile confrontare le scelte italiane in materia di immigrazione con quelle realizzate da altri paesi che nel tempo sono stati interessati dai flussi migratori, ma è comunque interessante notare come di “modelli” ne esistano numerosi. Stati come l’Australia, ad esempio, hanno affrontato la questione in maniera del tutto differente: avendo l’assoluta necessità di popolare ampie zone del proprio territorio in breve tempo, il governo di Adelaide finanziava interamente l’immigrazione, fornendo, a chi decideva di trasferirsi in modo permanente, casa, lavoro e assistenza sociale, proprio nel tentativo di incentivare in ogni modo questi trasferimenti. Fra i primi strumenti utilizzati in Italia per reperire manodopera straniera, c’è stata sicuramente la Chiesa Cattolica, una struttura estesa in tutto il mondo che ha la sua sede principale proprio in Italia. Non è un caso, infatti, che le prime collaboratrici domestiche vengano portate, proprio per
  • 26. 25 il tramite dei missionari, da Capo Verde e dalle Filippine, entrambi paesi in cui la Chiesa ha sempre avuto un grande peso sociale. Per altre vie, che non fossero quelle legate ai canali preferenziali aperti dalla Chiesa Cattolica, quindi si è cercato di rivolgersi ai paesi più vicini. Allora dai paesi dell’est Europa, ancora sotto l’egida dell’Unione Sovietica o sotto regime non capitalistico, non era possibile importare forza- lavoro, perciò, subito dopo il crollo del muro di Berlino, la Chiesa favorì rientri dalla Polonia (anni 90), anche per l’affinità del Papa polacco e per il sostegno dato dal Vaticano al sindacato Solidarność di Lech Walesa. Nonostante la maggior parte dei paesi del nord-Africa allora fosse retto da governi poco disposti a collaborare a questo genere di esperimenti socio-economici, faceva eccezione il Marocco, che infatti negli anni ‘80 è stato uno dei primi paesi di emigrazione verso l’Italia e la Tunisia, da dove vennero i primi veri “lavoratori importati”, giunti in Italia per soddisfare il bisogno di manodopera degli imprenditori medi e grandi nel settore della pesca e della falegnameria. 1.1.3. Verifica del percorso e impatto sociale La fase successiva è la verifica della fattibilità del percorso e quello dell’impatto sociale di questa “cosa nuova” che era la presenza permanente di persone estranee al posto, molto lontana da quella turistica. Si doveva preparare la gente ad avere come vicino di casa o collega di lavoro uno straniero.
  • 27. 26 In questa fase entrano quindi in scena i mezzi di comunicazione, le campagne sociali, la pubblicità e l’azione mirata di quelle che vengono chiamate “agenzie formative” (scuola, chiesa), che concorrono a creare quello spirito di “buonismo” e “umanitarismo” che nei primi anni dell’immigrazione straniera in Italia ha caratterizzato il nostro modello. Dall’altra parte si è calcato molto l’accento sui benefici economici connessi alla presenza dei lavoratori stranieri, che, con i loro contributi, avrebbero pagato le pensioni dei lavoratori italiani. In questa fase caratterizzata dalla necessità di lavoratori immigrati (ma soprattutto dei loro contributi all'INPS) e le conseguenze dell’impatto sociale si hanno due regolarizzazioni, quella del 1986 (105.000 unità) e quella del 1989 (220.000 unità). Questo periodo arriva fino alla metà degli anni ’90, con la prima vera sperimentazione del modello nel 1995, quando viene fatta la sanatoria attraverso il decreto Dini. 1.1.4. Gestione dell’immigrazione La vera natura dello Stato italiano nei confronti dell’immigrazione emerge dalla Legge 40 del ‘98, la cosiddetta “Turco-Napolitano”, che stabilisce, una volta per tutte, il legame fra immigrazione e sicurezza pubblica. Attraverso quest’impianto normativo si struttura il carattere repressivo delle norme che regoleranno l’ingresso e la permanenza dei lavoratori immigrati in Italia e lo stato di
  • 28. 27 ricatto permanente in cui gli stessi lavoratori devono essere tenuti per favorire il mercato. Così nascono i CPT, Centri di Permanenza Temporanea (dopo il 2008 denominati CIE, Centri di Identificazione ed Espulsione) dove l’accoglienza viene rinchiusa da un filo spinato. Questa legge, promossa da un governo “amico”, ha un solo aspetto positivo per le persone immigrate: la tessera STP (Straniero Temporaneamente Presente), che dà il diritto d'accedere all’assistenza sanitaria nazionale gratuita anche per chi non è in regola. La gestione del processo non avviene soltanto attraverso leggi o sanatorie, ma anche con il controllo delle frontiere, regolate come “valvole a pressione”. A questo contribuisce l’accordo di Schengen, stabilendo la lista di paesi autorizzati all’ingresso nella loro area. Sicuramente senza volerlo, gli Stati della “zona Schengen” determinano così le tariffe che i cosiddetti “coyotes”, gli scafisti e gli altri trafficanti di persone immigrate, scelgono per l’ingresso in Italia e negli altri Paesi della “Fortezza Europa”, piccola parte del business della tratta di esseri umani. I tempi del processo migratorio sono diversi in ogni paese. Quello che è uguale dappertutto è la sequenza delle fasi, a riprova che si tratta di un processo pilotato e non casuale. In parallelo a tutto questo percorso si è generata anche l’organizzazione e la lotta della manodopera straniera, che, vivendo in uno Stato che nega i diritti, non può far altro che cercare di riprenderseli.
  • 29. 28 1.2. Le cause Le cause dell’emigrazione di milioni di persone nel mondo ovviamente sono molte varie. Di quella generata dall’offerta di manodopera abbiamo già parlato. Ora vogliamo vedere le questioni interne all’Italia, per capire le cause che generarono l’immigrazione qui, analizzando quindi la questione ponendoci quindi l’altra parte del mercato, quello della domanda. Di seguito identifichiamo tre cause che potrebbero essere anche le cause di questo processo oltreconfine, ma che comunque siamo sicuri fino prova contraria sono le vere motivazioni per la presenza degli estranei in Italia. 1.2.1. La decrescita della popolazione L’Italia è un paese che dagli anni ’80 ha una crescita demografica negativa (meno -2%), visto che il 2% è la percentuale minima di crescita per la ricomposizione dell’intera popolazione di un Paese. Questo significa che la popolazione italiana ha iniziato a invecchiare e morire, lasciando progressivamente sempre più “posti vuoti” nella società, nel senso che, considerando che ogni individuo nella società è produttore di reddito ma anche consumatore di beni e servizi, alla sua morte vengono meno sia il reddito che esso produceva sia la richiesta di beni materiali e immateriali che erano legati a lui o lei.
  • 30. 29 Questo è più facile da capire in un piccolo centro che non nelle grandi città. Se muore il macellaio o il farmacista in un paesino il giorno successivo lo sanno tutti, e, a parte le questioni umane che porta una mancanza, la gente si preoccupa di sapere chi porterà la carne. La necessità di quel servizio va coperta in modo provvisorio o definitivamente, rientrando nella logica del sistema produttivo capitalistico. Se la commercializzazione di carne o di qualsiasi altro prodotto per il numero di persone che abitano il paesino non è sufficiente per avere profitto, il paesino rimarrà sempre di più senza prodotti man mano chiudono tutte le attività commerciali. In Italia in 5 anni è sparito circa il 5% della popolazione. Il tasso di mortalità è circa l'1%. Quindi abbiamo un 5% di persone che non ci sono più. Nelle grandi città l’unica cosa che possiamo guardare sono i dati generali della popolazione, che sicuramente ogni anno diminuisce. Immaginate cosa potrebbe significare se che, su una popolazione di 3 milioni di persone come quella di Roma, venisse a mancare il 5% dei consumatori di alimenti, vestiti, macchine, appartamenti. Questa realtà di per sé creerebbe una contrazione del mercato che alla fine colpirebbe anche il processo produttivo. Anche nelle grandi città si può vedere la trasformazione che sta avvenendo, con i piccoli negozi che chiudono, soppiantati dalla grande distribuzione ma anche perché i figli dei precedenti proprietari non vogliono continuare il lavoro dei genitori. La crescita negativa della popolazione riguarda il fatto che cominciano a morire più persone di quelle che nascono. In Italia, secondo stime dell’ONU, nel 2050 la popolazione sopra i 65 anni supererà i
  • 31. 30 due terzi della popolazione. Questo si vede in ogni famiglia italiana, dove ci sono 4 nonni ma al massimo ci sono solo due nipoti. Non è perciò colpa delle persone immigrate se nella scuola italiana, soprattutto in certi quartieri con un’alta presenza straniera, la percentuale di bambini e ragazzi italiani sia diminuita tanto da diventare minoritaria. Per dirlo in altro modo, ci troviamo davanti ad una “infertilità mentale”, che vede l’unica soluzione per far sopravvivere la società, nonché la nazione, nella fecondazione “in vitro” costituita dalla chiamata dall’estero di persone: gli stessi studi e conclusioni dell’ONU già citati consigliano di far entrare nella società 200mila unità ogni anno. Questa è la causa fondamentale che genera l’immigrazione verso l’Italia, mai ammessa nei luoghi di comando o gestione del processo come Montecitorio, il Quirinale o Palazzo Chigi. Non è compito nostro né scopo di questo saggio stabilire o chiarire perché nei paesi a grande sviluppo capitalistico la popolazione diminuisca. Semplicemente vogliamo far riflettere sul futuro dell'umanità dentro questo sistema, e su come sia in atto una ricomposizione mondiale dei produttori - non dei proprietari della produzione - ma di chi veramente trasforma la materia, i lavoratori. Ad ogni modo dobbiamo riconoscere la precisione matematica dei gestori del processo in Italia, dove, in 23 anni, c’è stato l’ingresso di circa 4.600.000 persone straniere, cioè 23 anni per 200mila unità ogni anno. Proprio come consigliava l’ONU negli anni ‘80.
  • 32. 31 1.2.2. Lo sbilancio dell'INPS L’Inps è l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale. Si occupa di accantonare i contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore durante gli anni di lavoro attivo di quest’ultimo e di restituirgli le somme versate al momento della pensione, oltre che di indennizzare eventuali incidenti sul lavoro. Ovviamente l’INPS deve avere un bilancio attivo fra contributi versati e contributi erogati: tanto entra nelle casse dell’INPS tanto l’INPS può restituire ai lavoratori sotto forma di pensione o indennizzi. Dal 1983 l’INPS ha iniziato a non avere la parità di bilancio. Per risolvere il problema si è pensato di incentivare le donne ad entrare nel mondo del lavoro, per avere nuovi contributi e insieme risolvere anche il diminuito potere d’acquisto del “salario unico” in famiglia. Questo ha comportato l’esigenza di poter contare su colf e badanti per far fronte alle esigenze delle famiglie e consentire alle donne di uscire di casa e, nello stesso periodo, dalle regioni del Sud c’è stato il primo grande esodo in massa di donne che trovavano lavoro al nord come domestiche. In questo periodo assistiamo alle prime immigrazioni di pescatori dalla Tunisia e falegnami dal Marocco e poi donne capoverdiane, filippine, singalesi e latino americane. La Chiesa cattolica e la Chiesa evangelica agiscono in questo periodo come “agenzie di collocamento” per il lavoro domestico. Prima del 1986 non c’erano leggi in grado di gestire l’immigrazione, ma, con la legge n. 943 (30 dicembre 1986), vengono accolte 105mila domande di regolarizzazioni
  • 33. 32 e dopo, con la legge Martelli (225mila domande, di cui accolte 217.626), si equiparano i lavoratori stranieri a quelli italiani, entrando nel conteggio dei contributi INPS e dimostrando come i lavoratori immigrati fossero una grande risorsa economica, in continua crescita anche oggi. Dal ‘90 al ‘95 non vengono fatte ulteriori sanatorie e continuano ad entrare lavoratori immigrati dal nord Africa, dall’Europa dell’Est e dal Sud America. Nel decreto Dini con la regolarizzazione sono state accolte 246mila domande. Nel ’98, con la Legge Turco-Napolitano, le domande accolte sono 215mila, portando la popolazione straniera a superare il milione di persone. Nel 2002 la Bossi-Fini sana altre 700mila persone. Infine arrivano i decreti-flusso, che comportano una media di 70mila unità regolarizzate fra chi già soggiorna in Italia. Apparentemente le regolarizzazioni attraverso le sanatorie servono a venire incontro alle esigenze del Paese, ma in realtà non è così. In realtà, con lo scopo di rallentare la crisi, si preferisce mantenere un’economia sommersa e in nero: un piccolo imprenditore, dove le leggi glielo lasciano fare, in un periodo di profitti ridotti preferirà avere operai in nero piuttosto che averli in regola e dover pagare loro i contributi previdenziali. Lo sbilancio nei conti dell’INPS potrebbe aumentare la crisi economica, quindi è importantissimo avere “una riserva”, che, in questo caso, sono i lavoratori immigrati non regolari. Già presenti nel territorio in numero abbastanza consistente (quasi un milione) per “sanare” la loro posizione rientrando nei conti dell’INPS e ricoprendo eventuali sbilanci.
  • 34. 33 1.2.3. I costi alti della produzione e della manodopera Nel periodo del boom economico i diritti dei lavoratori erano tutelati sia dal partito comunista (che al tempo era il più forte dell’Europa occidentale) che dai sindacati. Certamente dalla CGIL e dai sindacati di base, ma anche da quelli che non erano legati alla sinistra, come CISL e UIL. Il concorso di tutte queste forze contribuiva a costituire una classe lavoratrice forte. Ma, nel corso degli anni, i diritti dei lavoratori vengono progressivamente smontati. Il partito comunista perde man mano il suo peso politico e i sindacati lo seguono da vicino. Completa la cornice la Perestrojka e la caduta del muro di Berlino, comincia nel mondo la ripresa ideologica, politica e sociale della borghesia internazionale. A questo punto le tutele sindacali iniziano a venire in meno. Il processo che determina questo declino è il neoliberismo, che con sé porta le privatizzazioni e l’introduzione della flessibilità lavorativa, con tutti i contratti atipici che oggi caratterizzano il nostro mercato del lavoro. Abbassare il costo della produzione, e quindi della manodopera è l’intenzione permanente del capitalismo. A questo punto s’inserisce la questione dei lavoratori immigrati. Che non solo non è un fenomeno, ma è invece un processo funzionale alla nuova economia. In questa prospettiva i lavoratori immigrati sono i candidati ideali per il nuovo mercato del lavoro, soprattutto se mantenuti in una condizione di irregolarità. Il ruolo dei lavoratori immigrati nel nuovo mercato è quello di essere concorrenti a quelli italiani in tutta la catena produttiva e
  • 35. 34 anche in quella dei servizi. Visto che per un lavoratore immigrato l’obbiettivo centrale è trovare un lavoro - indipendentemente dal fatto che questo abbia o no la tutela dei diritti - l’offerta di manodopera, così come quella di forza- lavoro in generale, da parte dei lavoratori stranieri sarà sempre tendente al ribasso: ribassando i prezzi cui si è disposti a lavorare si vince la gara della concorrenza con i lavoratori italiani ma si perde quella dei diritti. Questo meccanismo è quello che permette alla macro economia di abbassare i costi produttivi, innescando il processo negativo del sovra-sfruttamento degli operai immigrati e, conseguentemente, quello dell’abbassamento delle tutele per tutti i lavoratori. 1.3. Le fasi La storia dell’umanità è contraddistinta da numerosi processi migratori. Analizzandoli rileviamo in tutti la presenza di alcune fasi fisse: l’arrivo, il soggiorno e il rientro. Tre fasi che generano dei cambiamenti nel paese dove il processo avviene e hanno delle caratteristiche specifiche secondo il momento e loro durata. 1.2.1. Lo “sbarco” Lo sbarco delle persone immigrate - termine con cui in questa sede non intendiamo solo quello con i barconi, ma ogni tipo di ingresso di stranieri in una nazione per motivi lavorativi - è l’inizio del processo migratorio in un paese. Un processo possibile perché qualcuno ha aperto una porta, o
  • 36. 35 più spesso “una finestra”, per l'ingresso di gente da fuori. Perché non è plausibile che persone provenienti da centinaia di Stati diversi decidano insieme, un giorno, di intraprendere un viaggio verso l’“America” in Italia. La domanda da farsi allora è: perché viene aperta questa porta? La risposta sta in quello che abbiamo appena ricordato, cioè, nel bisogno degli Stati di trovare una soluzione al disavanzo demografico (che può essere ricomposto appunto solo “aprendo” agli stranieri), nella necessità di risanare lo sbilancio dei sistemi previdenziali e nella volontà di avere manodopera a basso costo. La coincidenza è che lo sbarco arriva in contemporanea con il “buonismo accogliente” dei paesi ricchi. Com’è successo in Italia, dove, per giustificare la necessità che il mercato aveva delle forze fresche portate dall’immigrazione, agli occhi dell’opinione pubblica diverse forze sociali hanno iniziato a parlare di “accoglienza”, “ospitalità” e “asilo”. Questa fase, vista dal punto di vista delle persone immigrate, è quella nella quale arrivano a cercare lavoro: la loro condizione è di irregolarità assoluta e di assoluta necessità di trovare lavoro superando anche la difficoltà della lingua. È in questa fase che si determina il tipo di lavoro per il quale è stata generata la migrazione verso il paese: i bisogni del mercato del lavoro fanno sì che le nuove forze vengano smistate secondo le specifiche necessità del sistema economico. Dove ci sono delle “caselle” vuote le caselle queste vengono riempite dai nuovi “chiamati”, perché le catene migratorie non sono casuali, ma indirizzate apposta.
  • 37. 36 Cosa sono le catene migratorie? Sono delle piramidi, il cui vertice è composto da un individuo o da un gruppo piccolo di individui che vengono portati in un paese per lavorare in un settore lavorativo prestabilito. La base della piramide va ingrandita geometricamente, e, in tempi brevi, “sbarcano” quelli necessari. Quest’individuo o gruppo di individui potenzialmente faranno arrivare migliaia di persone del proprio paese, di cui la maggior parte lavorerà nello stesso settore. Per questo motivo all’inizio del processo migratorio i lavoratori immigrati vengono inquadrati in “tipi lavorativi”, che poi condizionano le sorti dei connazionali che seguono. Ad esempio: in questa fase dello sbarco, al lavoro domestico erano destinate la comunità capoverdiana, filippina, cingalese, e latinoamericana, oppure, al lavoro edilizio le comunità dell’Europa dell’est, come i polacchi, gli albanesi e i rumeni. I cinque milioni di immigrati attualmente in Italia non dovrebbero avere più “vertici” di quanti sono le tipologie di lavori che oggi vengono occupate dai lavoratori stranieri. In questa fase lo Stato è interessato a favorire l’ingresso dei nuovi lavoratori nelle casse dell’INPS. 1.3.2. L'immigrazione L’immigrazione propriamente detta è la fase in cui i lavoratori immigrati acquisiscono il permesso di soggiorno, la prima fase della regolarizzazione. Il permesso di soggiorno è la versione italiana dei “permessi di residenza” che vengono dati in altri paesi, ma ha una caratteristica di sicurezza
  • 38. 37 pubblica: invece di essere un documento di identificazione della persona come potrebbe essere una carta di identità, è un documento che toglie diritti, che “discrimina” nel senso etimologico del termine, nel senso che sottolinea la differenza fra chi è cittadino e chi è considerato solo un “ospite” nel paese. Perché il permesso di soggiorno è stato collegato così strettamente alla sicurezza pubblica? Perché migliaia di lavoratori devono essere sottomessi a controlli di polizia? Perché oneste lavoratrici domestiche, che magari hanno da anni la cura di bambini o anziani in una famiglia italiana, devono essere costrette a presentarsi in un commissariato, che istituzionalmente è il luogo in cui lo Stato esprime la sua forza repressiva contro la delinquenza? Perché, chi delinquente non è, deve essere filosoficamente accomunato a chi violenta la legge? Per lo stesso motivo per cui un onesto lavoratore, che genera ogni giorno plusvalore in questo paese, è costretto a essere ricevuto nei commissariati di tutta Italia da persone che ogni giorno, per lavoro, combattono le organizzazioni criminali. E tante volte non riescono a fare differenze fra gli uni e gli altri. Si rivela così che l’atteggiamento dello Stato verso i lavoratori immigrati è di un permanente ricatto che favorisce direttamente il settore imprenditoriale e il tessuto sociale che si serve del lavoro occasionale o permanente di queste persone venute da fuori. Parte di questo atteggiamento è la dotazione di leggi specifiche nei confronti dell’immigrazione. Finora le leggi sull’immigrazione sono leggi che vanno a gestire la manodopera straniera e a ostacolare l’acquisizione
  • 39. 38 di pieni diritti. Così, per acquisire il permesso di soggiorno, la carta di soggiorno (sostituita dal “permesso di soggiorno europeo di lungo periodo”) e la cittadinanza, i requisiti richiesti sono stati progressivamente innalzati dal legislatore, rendendone sempre più difficile l’ottenimento. Il testo unico sull’immigrazione del ‘98, varato anche con i voti dei partiti cosiddetti di sinistra, è stato usato con estrema facilità dalle maggioranze di destra che sono seguite per farlo diventare più discriminante. La caratteristica di questa legge “progressista” è infatti di essere una struttura componibile a piacere. Apportando solo piccole variazioni, nel 2002 ha infatti dato vita alla Legge Bossi-Fini. Una trasformazione che ha diminuito la durata del permesso di soggiorno, riducendola a un anno per chi ha un contratto a tempo determinato e a due per i tempi indeterminati. A dimostrazione che, almeno fino ad oggi, le leggi sull’immigrazione sono state bipartisan. E questo spiega anche perché, in due anni di governo di centro- sinistra, la Bossi-Fini non è stata toccata. Neppure il “contratto di soggiorno” è stato modificato, pur essendo l’elemento più critico dell’impianto di questa legge: l’elemento che permette agli imprenditori di ricattare i lavoratori immigrati a proprio piacimento, subordinando la possibilità di rimanere nel paese a un contratto di lavoro, quale che sia. Inoltre, dal 2002 la Legge Bossi-Fini cancella il sacrosanto diritto di qualsiasi lavoratore del mondo di riprendersi i propri contribuiti al momento di lasciare il paese dove li ha maturati e tornare al proprio.
  • 40. 39 L’altro documento di residenza è invece il “permesso di soggiorno europeo di lunga durata”, che effettivamente permette il libero movimento degli europei e quindi non riguarda esclusivamente gli immigrati extracomunitari, ma, potremmo dire, è di utilità generale. La legislazione sulla cittadinanza in Italia è fra le più retrograde del mondo, basata sul principio dello “ius sanguinis”: chi nasce da genitori italiani è italiano, mentre chi nasce su territorio italiano da genitori stranieri non lo è in automatico. Con la legge Turco-Napolitano bastavano 5 anni per acquisire la cittadinanza mentre con la Bossi-Fini ne servono 10, con l’obbligo di dimostrare di avere un reddito “minimo” e conoscere la lingua italiana. Oggi la media di ottenimento della cittadinanza da parte degli stranieri in Italia è del 1%. Usiamo un’equazione semplice per comprendere meglio la situazione: perché tutti gli stranieri presenti sul territorio della Repubblica riescano a ottenere la cittadinanza, partendo da oggi ci vorrebbero 100 anni. D’altra parte, chi è nato in Italia da genitori stranieri non ha automaticamente la cittadinanza, se non al compimento del diciottesimo anno d’età e senza interruzioni di presenza. In Europa, sempre per favorire l’imprenditoria colpita dalla crisi economica, è stata creata una terza categoria di lavoratori, che fra i diritti “pieni” dei lavoratori europei (italiani nel nostro caso) e i “mezzi diritti” degli operai immigrati si muovono in maniera libera nel mercato della forza-lavoro europea, senza poter essere espulsi, ma anche senza
  • 41. 40 chiedere diritti. Questa categoria è rappresentata dai “lavoratori comunitari”. La maggior parte viene dalla Romania, dalla Bulgaria, dall’Ungheria e dalla Polonia, ovvero dagli Stati dell’Est Europa entrati più recentemente nella Comunità Europea. Prendiamo ad esempio la comunità rumena: i lavoratori romeni regolari sono più o meno un milione, ma stime non ufficiali parlano di altrettanti in nero. Il tema delle condizioni di lavoro di questa “maggioranza silenziosa” meriterebbe di essere trattata in un libro a parte per quanto è complessa, in ogni caso è interessante rilevare che, a fronte di quest’immigrazione massiccia, la Romania in quest’ultimi anni è diventata molto appetibile per le imprese straniere, tanto che, ad esempio, si contano oltre 22mila imprese italiane aperte su territorio romeno, che hanno creato circa 800mila posti di lavoro a basso costo, per stipendi medi di duecento euro al mese. Qui sosteniamo che la politica tende sempre a criminalizzare agli occhi dell’opinione pubblica la comunità straniera maggiormente presente sul territorio in un certo momento. È stato così per i marocchini negli anni ‘80, per gli albanesi negli anni ‘90, e, fino a qualche tempo fa, lo era per i romeni. Perché? Perché se il lavoratore straniero vive in una condizione di discriminazione sociale sarà maggiormente disposto ad accettare contratti in nero, irregolari o comunque sfavorevoli, sentendo di dover ringraziare per il semplice fatto di essere stato assunto nonostante la cattiva fama - in realtà costruita ad arte al preciso scopo di ottenere un vantaggio economico per la classe imprenditoriale - che pesa sulla sua comunità.
  • 42. 41 Così i pregiudizi diffusi per cui “i marocchini sono tutti ladri/spacciatori/violentatori”, o “gli albanesi sfruttano la prostituzione/commerciano armi/fanno traffico di droga” o “i romeni stuprano le nostre donne/bevono/rapinano nelle ville”, diventano importanti leve economiche, in grado di offrire agli imprenditori italiani una via d’uscita facile alla crisi. Naturalmente alle spalle dei lavoratori. Tutti questi lavoratori “comunitari” pongono però al sistema sociale un problema a lunga scadenza: è ipotizzabile infatti che la maggioranza di loro rimarrà in Italia, avendo fatto una scelta di vita definitiva. E quindi, se per ora gli studi della Banca d’Italia ci dicono che i lavoratori immigrati pagano molte più tasse di quanto non pesino sulle casse dello stato (dal 2008, versano più di 7 miliardi di contributi), in un futuro dovremo aspettarci di dover pagare loro le pensioni. Con tutte le conseguenze economiche del caso. 1.3.3. Il rientro L’esperienza di altre migrazioni in altre parti del mondo ci dice che “il rientro” rimane, nell’immaginario collettivo, come la nostalgia incancellabile, da parte di chi è partito, dei paesaggi, degli odori, dei cibi del paese d’origine, e, dall’altra parte, come il desiderio di chi è rimasto di riabbracciare il parente o l’amico lontano. Nel caso dell’Italia, paese con una lunga storia di emigrazione, la maggior parte di quelli che sono andati via non sono tornati, soprattutto nel caso dell’emigrazione verso gli Stati Uniti, l’Australia o l’America Latina. Basta anche solo una circostanza, più o meno fortuita come può essere lo sposarsi o l’avere dei figli, o il costruirsi un tessuto di amicizie o l’aprire un’attività
  • 43. 42 commerciale, per far rimanere il lavoratore straniero nel paese in cui è andato a lavorare. La questione principale diventa a quel punto arrivare alla pensione, per potersi garantire, dopo una vita di lavoro e sacrifici, una vecchiaia dignitosa. In questo momento il processo migratorio in Italia non è ancora entrato nella terza fase, perché l’età media dei lavoratori immigrati è attorno ai cinquant’anni (nel 2010 i pensionati stranieri erano il 2,2 %), quindi lo Stato può ancora contare su una quindicina d’anni di “sospensione” prima di dover affrontare il problema della pensione anche per i lavoratori stranieri. Qual è la via d’uscita che lo Stato presumibilmente prenderà per evitare quest’emorragia di denaro? Dalle prime proposte di legge sull’argomento che si sono viste finora, con ogni probabilità lo Stato cercherà di mettere in campo delle norme che impediscano di percepire la pensione a coloro che non risiedano continuativamente sul territorio nazionale, oppure a coloro che decidono per qualsiasi motivo di tornare nei paesi d’origine, cercando comunque, con ogni espediente legislativo possibile, di posticipare questo momento. Un’altra via d’uscita potrebbe essere rappresentata dagli accordi bilaterali o da progetti europei di rientro che offrano “vantaggi” a tutte le parti contraenti, permettendo ai lavoratori stranieri di tornare in patria, seppure con una pensione solo parziale, al paese d’origine di veder entrare capitali sotto forma di pensioni maturate all’estero, e allo Stato italiano di non dover affrontare per intero la spesa sociale rappresentata dai pensionati stranieri. La terza via d’uscita, infine, potrebbe essere rappresentata da una forma di espulsione “umanitaria”, ovvero da
  • 44. 43 un’espulsione accompagnata da una sorta di indennizzo, per salvare le apparenze ed essere appetibile per l’immigrato che non ha più la possibilità di lavorare. Per i lavoratori stranieri che rientrano definitivamente nel loro paese si svela così un aspetto inatteso del processo migratorio che comporta diversi problemi di reinserimento: dalla partenza sono trascorsi tanti o pochi anni, ma quasi sempre la realtà che hanno lasciato alle proprie spalle è talmente cambiata da non essere più “la loro”. Inoltre rientrando non si concretizza neppure il sogno che aveva motivato il processo migratorio, ovvero quello di tornare con un salario ricco: i “rientrati”, mandati via senza alcuna “pensione dorata”, al proprio rientro creano tensioni sociali impreviste, e non essendo più giovani faticano a trovare un nuovo posto di lavoro. Con questo sistema sembra che il sogno del capitale di avere operai “usa e getta” sia diventato realtà: nella fase del rientro si vede, meglio che in ogni altra, la natura del capitale verso i lavoratori immigrati, che li sottrarre dal paese d’origine in età lavorativa e li rimanda in dietro prima dell’età pensionabile. Un doppio guadagno che chiude il ciclo aperto approfittando della formazione per la quale un’altro Stato aveva speso le proprie risorse, rapinando i miliardi che queste persone hanno generato come contributi. Miliardi che apparterrebbero ai lavoratori e alle lavoratrici ma che invece rimangono nelle casse degli enti previdenziali. Un tempo gli spagnoli scambiavano specchi per l’oro degli indios. Oggi il miraggio di ricchi salari e pensioni sono gli specchi che spingono milioni di giovani a lasciare il proprio paese e cercare lavoro altrove, giovani che sono oro puro per società invecchiate e morte.
  • 45. 44
  • 46. 45 CAPITOLO II L’utilità economica delle persone immigrate 2.1. La forza-lavoro delle persone straniere 2.1.1. Come merce e valore d’uso La necessità di importare in Italia manodopera straniera viene dalla crisi demografica. Il processo migratorio ha infatti un scopo sociale: serve a “coprire i vuoti” lasciati nel saldo demografico italiano dalla differenza fra nati e morti. Un “import” di persone che hanno la capacità di lavorare, o, per meglio dire, che non hanno niente altro da offrire se non il proprio intelletto e le proprie braccia, ovvero persone in grado di vendere propria forza-lavoro. 1.-Come una qualsiasi merce, la forza-lavoro rientra in un mercato in cui troviamo compratori e venditori, ed è perciò soggetta ai ribassi e ai rialzi dell’offerta e della domanda, oltre che alle leggi che oggi paese ha sviluppato per regolare i contratti di questa tipologia di scambio. Nell’Italia del “dopo boom economico” gli imprenditori, quelli grandi, quelli che avevano alle proprie dipendenze migliaia lavoratori, cominciarono a creare le condizioni per abbassare i costi di produzione. In tanti spostarono le fabbriche all’estero, in paesi dove il salario era un decimo di quello italiano, producendo là ma continuando a vendere con il marchio “made in Italy”. Altri che non potevano andarsene rimasero, ponendo però le basi per un sistema
  • 47. 46 che potremmo chiamare “il paradiso del profitto”: il lavoro precario. Per contribuire a questo abbassamento dei costi di produzione, lo Stato permise e incentivò l’ingresso di lavoratori stranieri: lavoratori giovani e disposti a grandi sacrifici, che non chiedevano nulla al momento di stabilire il contratto e che diventarono subito funzionali per ricattare, con la loro incolpevole concorrenza sottocosto, i lavoratori italiani. 2.- È il valore d’uso della merce (forza-lavoro) che produce altri valori d’uso: contrattare e usare i lavoratori per produrre altre merce è lo scopo del capitalismo. La forza-lavoro come merce è un’esclusività di questo sistema che trasforma tutto in merce. Il capitale ha globalizzato il mercato di esseri umani intesi come merce, esseri umani liberi, capaci di vendere la loro forza lavoro ovunque sia necessario. La migrazione moderna, quindi l’immigrazione ed emigrazione di persone, altro non è che l’import- export globale dei lavoratori. 3.-Gli imprenditori italiani che importano materie prime o strumenti di produzione dall’estero pagano i costi di trasporto, mentre per avere manodopera straniera non pagano nulla. Hanno creato un sistema che tutela molto bene i loro interessi: in Italia la merce forza-lavoro che arriva dall’estero si paga da sola i costi di trasporto, a differenza di quanto accade in altri Paesi, in cui lo Stato o gli imprenditori stessi pagano i costi di trasporto (viaggio, vitto e alloggio) della merce in questione. In Italia è risultato subito chiaro che l’importante era che la forza-lavoro immigrata arrivasse non dalla porta, ma dalla “finestra”, cioè, senza diritti,
  • 48. 47 imballata e pronta per essere sfruttata. Rientrando nel mercato del lavoro nero non sarebbe stata soggetta ai costosi contributi INPS, non avrebbe generato gli ancora più costosi TFR, né pensioni, tredicesime, quattordicesime, ecc. 2.1.2. Il valore di scambio e la concorrenza Il valore di scambio della merce forza-lavoro è il salario. Nella prima fase dell’immigrazione (lo sbarco) il valore di scambio di questa forza-lavoro straniera, cioè, i costi necessari a mantenere in vita un essere umano perché continui a lavorare, sono molto più bassi in confronto a quelli italiani. Le persone immigrate si accontentano di alloggi più piccoli, che costano meno e che in genere affittano comunitariamente, condividendone perciò anche il pagamento. Allo stesso modo, fra gli stranieri le spesa per l’alimentazione è ridotta al minimo, così come il risparmio per l’abbigliamento, normalmente “made in bancarella” o addirittura usato. D’altra parte non si tratta di scelte: il lavoratore immigrato deve far scendere i propri costi per presentarsi nelle condizioni migliori sul mercato della manodopera, abbassando al minimo le proprie richieste e accettando condizioni di lavoro a volte anche pericolose, offrendo così il massimo del profitto ai propri sfruttatori. Questa condizione della forza-lavoro d’origine straniera crea una concorrenza sottocosto ai lavoratori autoctoni, i quali finiscono per vedere chi viene da fuori come un nemico, senza rendersi conto che si tratta di un disegno preciso: i lavoratori stranieri sono stati infatti portati apposta per far
  • 49. 48 scendere i salari e i costi di produzione. Di fatto, la loro concorrenza determina la sparizione dei diritti lavorativi per tutti. La sopravvivenza del lavoratore e della sua famiglia è chiusa dentro dei minimi di spesa e, in questo senso, gli operai immigrati hanno un ulteriore vantaggio sui concorrenti italiani: spesso le famiglie dei lavoratori stranieri vivono nei paesi d’origine (famiglie transnazionali) e quindi non ricadono, se non in minima parte, su questo minimo di spesa, oppure si accontentano di vivere in modo molto sobrio, senza i piccoli o grandi lussi che spesso invece di concedono i concorrenti autoctoni. (Nella fase successiva del processo migratorio i valori della merce forza-lavoro straniera si avvicinano sempre di più ai valori di mercato degli autoctoni, soprattutto perché non sono più “immigrati non regolari”, quindi a uguale lavoro corrisponde uguale stipendio). 2.1.3. Ciclo formativo e formazione Gli Stati, capitalistici e non, garantiscono la formazione della popolazione dalla nascita fino ad arrivare all’età lavorativa. Per ogni studente, dalle elementari alle superiori, lo Stato Italiano spende annualmente una media di 8.489 $ (dati del Rapporto annuale dell’OCSE 2013). Questa cifra, moltiplicata per 20 anni (durata media del periodo formativo del lavoratore) farebbe 169.780 $ (130.600 €) a persona. Contando che oggi in Italia soggiornano 3 milioni di lavoratrici e lavoratori immigrati, il risparmio per lo Stato è
  • 50. 49 più o meno di 391 miliardi 800 milioni di euro. A questa cifra astronomica andrebbe aggiunta la spessa sanitaria e tutti gli altri servizi che consentono di ottenere un lavoratore, ma non entreremo nei dettagli. Quello che conta è che l’importazione di operai stranieri è il migliore affare che un Stato può fare, in tempi di crisi e non solo: ricevere una persona in età lavorativa senza aver speso un euro per lei/lui è davvero un ottimo affare. Ancor di più considerando che la maggior parte delle persone immigrate, a differenza di quanto molti credono, sono laureate: una rapina colonialista moderna che sottrae cervelli e forza-lavoro ai Paesi più deboli per sostenere la crisi di quelli più ricchi. Il rifiuto di riconoscere i titoli di studio alle persone immigrate è parte del sistema italiano dell'immigrazione. Un sistema che si rivela ancora una volta profondamente padronale: quello che si vuole sono solo operai, con figli pronti a fare anche loro solo gli operai. Una visione discriminatoria che cambia il senso delle parole di tutti quei politici che dicono che “l’immigrazione è una risorsa”. O magari hanno ragione loro, perché le risorse esistono per essere sfruttate. Il sistema italiano dell’immigrazione è discriminante anche per chi ha ottenuto una laurea italiana ma non ha ancora la cittadinanza: molti concorsi, bandi e posti sono infatti subordinati all’essere cittadino italiano, per cui spesso neppure con una laurea legalmente riconosciuta la risposta può essere positiva. La sottomissione dei governanti della maggior parte dei paesi d’origine delle persone immigrate è evidente anche su
  • 51. 50 questo tema: la maggior parte dei governi è infatti incapace di proporre a quello italiano accordi di riconoscimento dei titoli di studio. Così come si firmano accordi di commercio bilaterale o trattati di libero commercio, si dovrebbero proporre “trattati di libero lavoro”, con clausole di riconoscimento dei diritti pensionistici, delle qualifiche lavorative, delle lauree, delle licenze e delle patenti, oltre che il diritto agli aggiornamenti professionali. Non fosse altro che per ristabilire una certa reciprocità nei confronti del trattamento che gli altri Stati già adesso riservano ai cittadini italiani che vivono all’estero. 2.1.4. Lo sfruttamento della forza-lavoro immigrata e la questione dei comunitari Prima che portassero manodopera straniera in Italia, chi lavorava nei posti che oggi sono occupati dai lavoratori stranieri? Chi era la domestica? Chi il bracciante? Chi l’operaio edile? Chi l’allevatore? Chi era in fabbrica? La risposta è ovviamente sempre una sola: i lavoratori e le lavoratrici italiani. Ma quanto guadagnavano queste persone? Riuscivano a sostentare le proprie famiglie? Riuscivano a pagare l’affitto? I loro figli andavano all'Università? Loro stavano bene, non facevano scioperi? Chi aveva dato i diritti a queste persone? La risposta è ancora una sola: che un tempo gli operai italiani lottavano per non essere sfruttati, difendevano le proprie ragioni e proteggevano i diritti acquisiti in anni di lotta e organizzazione.
  • 52. 51 Queste persone però ad un certo punto sono state ingannate. È stato detto loro che i lavoratori che arrivavano dall’estero sarebbero stati un aiuto per pagare la loro pensione. Quello che non gli è stato detto è invece che quelli arrivati da fuori sarebbero concorrenti in tutte le categorie lavorative, avrebbero fatto abbassare tutti i salari e sarebbero stati lo strumento per azzerare i diritti. Gli operai d’origine straniera sono infatti sfruttati per la loro condizione di non essere italiani, di essere sotto ricatto permanente a causa del permesso di soggiorno e della carta di soggiorno, strumenti di diseguaglianza e discriminazione. Così arriviamo ad un mercato nel quale i lavoratori italiani non accettano contratti per stipendi miseri, si rifiutano di lavorare per 5 euro l’ora perché effettivamente il loro valore di scambio è più alto, un mercato in cui nessun italiano va a raccogliere la frutta per 20 euro la giornata o accetta di prendersi cura di un anziano per 8 euro l’ora o di ricevere 600 euro al mese per lavorare come domestica fissa in una casa. E oggi il minimo è diventato troppo basso anche per molti lavoratori e lavoratrici immigrate, soppiantati da nuovi immigrati pronti ad accettare di meno. Non è che gli italiani non vogliano più fare certi lavori, come qualcuno vuole farci credere, ma solo che non vogliono lavorare per paghe da fame. Il falso ideologico dei lavori sgraditi allontana l’analisi vera del sovra-sfruttamento e crea l’abbandono di un minimo di coscienza di richiesta di diritti e salari più dignitosi per tutti. La terza categoria di lavoratori e lavoratrici che rientra nel mercato sono i “comunitari”. Invenzione geniale che si
  • 53. 52 avvicina ancor di più al sogno di tutti padroni degli operai “usa-e-getta”. Il valore di questa manodopera è uguale a quella straniera non comunitaria. I loro costi di sopravvivenza (affitto, alimenti, vestiti) sono identici. Anche i costi di mantenimento delle loro famiglie sono bassi. Ma è sui loro diritti che si vede la differenza con i non comunitari. Possono ad esempio muoversi liberamente nell’Unione Europea e possono uscire e rientrare liberamente del paese d’origine, ma questa libertà la pagano non riuscendo quasi mai a farsi firmare un contratto in regola. Rumeni, bulgari, polacchi e ungheresi, pensano a questa categoria di “comunitari” come se fosse un gradino più alto rispetto al resto degli stranieri e così si fanno fregare di più. Perdendo lo stimolo a lottare per i diritti insieme ai loro colleghi italiani e immigrati. 2.2. L'imprenditoria delle persone straniere Il processo migratorio, che fin qui abbiamo detto essere essenzialmente di manodopera, comprende anche una parte di imprenditoria d’origine immigrata. Questa rientra nella “libertà” che il sistema capitalistico offre all’accumulazione di capitale, una “chance” è stata possibile anche per chi non è italiano. La fonte originaria del capitale degli imprenditori immigrati sarà come qualsiasi fonte capitalista: per eredità, fortuna o col “lato oscuro della forza”, attraverso cioè lo sfruttamento del plusvalore prodotto dai lavoratori.
  • 54. 53 Ad ogni modo, nel 2012 i titolari e i soci di impresa stranieri sono stati 419.680. Di questi, il 55,4% (ovvero 232.664) sono stati titolari di impresa (si tratta del 6,9% del totale dei titolari di impresa). Tra i titolari quindi, il 18,9% sono stati di sesso femminile e il 49,6% (del totale) artigiani. Circa il 60% era costituito da persone provenienti dal Marocco (16,4), Romania (15,4), Cina (14,7) e Albania (10,3). Seguono Bangladesh, Egitto, Senegal e Tunisia. Il 78,8% di titolari di impresa operava nei settori delle costruzioni (37,2%) e del commercio (35,0%). Importante è anche il peso del tessile e abbigliamento (6,6%). La fonte dei dati è la CNA - Confederazione Nazionale dell'Artigianato e della Piccola e Media Impresa - col Centro Studi CNA. Gli imprenditori e le imprenditrici immigrate hanno subito tutte le sofferenze dei lavoratori immigrati, ovvero lunghissime attese per il rinnovo del permesso di soggiorno e molti divieti nella fase di rinnovo, far cui principalmente l’impossibilità di muoversi liberamente all’estero. A queste difficoltà, nel loro caso, dobbiamo quindi aggiungere la mancanza di credito e di fiducia del mondo finanziario verso le persone immigrate e quindi la difficoltà di ottenere prestiti e mutui dalle banche, tanto che spesso queste persone, per tutelare i propri, hanno sostenuto la lotta civile per i diritti dei lavoratori immigrati, così come l’organizzazione. Però, essendo imprenditori, alla fine molti hanno trovato facilmente delle scorciatoie per risolvere il loro status migratorio fuori dalla lotta. Agevolazioni inversamente proporzionali agli zeri sul conto corrente: più grande l’imprenditore minori le difficoltà.
  • 55. 54 Questa parte del mondo immigrato - al di là della ricchezza accumulata - è ben inserita nel sistema imprenditoriale italiano: ha imparato subito a gestire gli adempimenti fiscali, previdenziali e lavorativi come tutti gli altri imprenditori, spesso con il vantaggio di poter sfruttare direttamente i propri connazionali. Non potendo sfuggire al sistema reale del capitalismo, l’imprenditoria d’origine immigrata in Italia è entrata spesso nell’economia sommersa, diventando l’anello di congiunzione tra legale e illegale nei grossi affari che riguardano i settori dove sono presenti, cioè, costruzione, commercio, tessile e abbigliamento. La concentrazione di capitale in mano alle persone immigrate in Italia non è ancora molto alta, sia perché la crescita dell’imprenditoria straniera è determinata dalla concorrenza con quella autoctona sia a causa dell’anomala economia italiana, chiusa in gruppi imprenditoriali e di potere. Concludiamo questo capitolo dicendo che una parte importante degli imprenditori immigrati sono rientrati nella logica del sovra sfruttamento dei lavoratori diventando responsabili delle tante morti bianche che oggi anno si contano nell’edilizia come delle condizioni di vita insostenibili di moltissimi lavoratori tessili. Trasformandosi in “caporali” nel mercato di manodopera agricola e, nei casi peggiori, in “scafisti” e “coyotes” durante i flussi annuali o stagionali.
  • 56. 55
  • 57. 56
  • 58. 57 CAPITOLO III Lo Stato e le forze politiche Chiamiamo “Sistema Italiano dell’Immigrazione” (SIDI) la gestione politica generale dello Stato Italiano verso l’immigrazione. Negli anni sono cambiati gli equilibri e le maggioranze politiche, ma il SIDI è stato applicato in modo indipendente rispetto agli orientamenti politici dei governi. Questo perché il SIDI è un sistema bipartisan che è funzionale allo scopo fondamentale di garantire che il processo migratorio venga gestito per portare manodopera a basso costo nel mercato del lavoro. Quindi i diversi governi – sia di centro destra, sia di centro sinistra, sia governi tecnici – hanno tutti dovuto fare delle leggi e delle sanatorie per far fronte alla ricomposizione demografica necessaria a contenere lo sbilancio dell’INPS, e anche generalizzare il lavoro nero. Questo spiega, per esempio, come mai l’Italia non abbia una legge sul diritto d’asilo, nonostante la Costituzione lo preveda: perché questo consente ai governi di avere la libertà di stipulare accordi bilaterali separati di espulsione con ciascun Paese, ottenendo in cambio delle contropartite. Altra cosa bipartisan (quindi con una regia statale) è la campagna di criminalizzazione che, periodicamente, coinvolge la comunità straniera più presente in quel momento in Italia. Queste campagne, che sfruttano il potere persuasivo dei mezzi di comunicazione di massa, hanno contribuito a formare pregiudizi difficili da sradicare. Com’è possibile che, da un giorno all’altro, una “comunità di banditi”
  • 59. 58 si converta in massa, e i suoi membri diventino improvvisamente cittadini modello, quasi immediatamente sostituiti da altri “banditi” di un'altra comunità? Il perché di queste campagne di criminalizzazione è semplice: se un cittadino romeno per esempio (additato dai mezzi di comunicazione come appartenente a una comunità pericolosa, su dati non verificati e non confermati dalle statistiche) si presenta a chiedere lavoro, il datore di lavoro, se decide di assumerlo “nonostante” i pregiudizi che sono stati ripetuti mille volte dai mezzi di comunicazione, gli sta facendo un “favore”. E quindi lo può pagare di meno, assumere in nero, tenerlo in condizioni di lavoro pericolose o di sovra sfruttamento. Tanto è un “favore”. La politica sull’immigrazione non è altro che l’espressione concentrata del beneficio economico che si trae dallo sfruttamento. 3.1.La cornice legale 1.1.1. Le Leggi Finora in Italia abbiamo avuto sette sanatorie: nel 1982 (circolari del Ministero del Lavoro 2 marzo e 9 settembre), nel 1986 (legge n. 943 /86, al titolo IV, art. 16), nel 1990 (d. l. n. 416 del 1989), nel 1995 (Decreto Dini), nel 1998, nel 2002 e nel 2009 (Sanatoria truffa). Ogni sanatoria è arrivata più o meno in concomitanza con le leggi sull’immigrazione varate dai governi succedutisi negli ultimi vent’anni: la legge Foschi del 1986, la legge Martelli del 1990, la legge n.91 sulla cittadinanza del 1992, la legge
  • 60. 59 Mancino del 1993, la legge Turco-Napolitano del 1998, la legge Bossi-Fini del 2002, il pacchetto-sicurezza Maroni del 2009. In parallelo, i fondi per l’integrazione sono apparsi e scomparsi a ogni cambio di maggioranza (introdotti con la legge Martelli, potenziati con la Turco-Napolitano, tagliati nel 2002, reintrodotti 2006, tagliati nuovamente da Tremonti nel 2008). 3.1.2. Le Sanatorie “Sanatoria”, “condono”, “regolarizzazione”, “emersione del lavoro nero”. Modi diversi per chiamare la stessa cosa: il momento nel quale si fa rientrare nella “legalità” una fetta di lavoratori non regolari perché non diventino troppi e perché serve bilanciare i conti dell’INPS. Due motivazioni che vanno sempre di pari passo, infatti tutte questi condoni hanno avuto in comune due parti, il numero di sanati e il bollettino che quantificava la multa da pagare per “emergere dal nero”, logicamente sempre pagata dal lavoratore straniero. I requisiti delle “sanatorie” si fanno secondo il criterio del numero, cioè: nelle sanatorie che devono coinvolgere un maggior numero di persone i requisiti sono più leggeri, nelle piccole sanatorie più pesanti. L’elemento fisso in entrambi i casi è che lo straniero può accedere alla regolarizzazione solo con il patrocinio del datore di lavoro. Una bella cosa davvero, che permette a chi ha sfruttato fino a quel momento gli immigrati di avere il potere di decidere, e quindi di ricattare, la manodopera. Pretendendo mansioni
  • 61. 60 più dure o prestazioni (morali o non morali) per far “emergere del lavoro nero”. È triste e vergognoso vedere come gli immigrati, per accedere a queste sanatorie, cerchino disperati persone disposte a dichiararsi datore di lavoro. Triste vederli pagare, offrire tutto quello che hanno per avere il permesso di soggiorno. Sempre che la pratica arrivi a buon fine, perché se non è così si tratta di soldi buttati a mare, oltre a diventare concreto il pericolo d'espulsione per lo straniero che si scopra abbia dichiarato il falso, a fronte di pene irrisorie per i finti datori di lavoro. Nel 2009 la sanatoria ha permesso allo stato d'avere il ricavato di tutte le richieste di “emersione del lavoro nero domestico”, denaro non giustificato in vista che di più di cento mila pratiche non sono arrivate a buon fine, quindi mai perde lo stato, comunque a fatto cassa. L’ultima modalità per regolarizzare chi non è regolare sono i famosi “decreti flussi”. Attuati sempre con la stessa logica del numero, in media coprono una quota di circa 70mila all’anno ingressi. Nei fatti questi decreti sono in realtà delle vere e proprie “sanatorie”, visto che il 99% delle domande fanno riferimento a persone che lavorano in nero in Italia. 3.1.3. La Repressione Ovviamente nei testi delle leggi che gestiscono l'immigrazione ci sono punizioni e sanzioni, ma noi lasciamo l'analisi della complessità dei decreti, delle norme e dei pacchetti agli avvocati. Qui ci occuperemo di cose già
  • 62. 61 studiate con cura da tanti professionisti, che però sono concordi circa l'inutilità e la non applicazione di queste normative. Il nostro interesse è mostrare la contraddizione fra quello che si fa vedere e quello che veramente esiste. Secondo i dati ufficiali, un milione di persone straniere senza regolare permesso di soggiorno lavorano attualmente in Italia. Di queste la maggior parte sono entrate regolarmente. Il 99% non delinque, ha soldi puliti per pagare le proprie spese e magari trasferire soldi alla propria famiglia nel paese d'origine. Ci sono poi circa 5 milioni di persone immigrate che hanno un permesso di soggiorno in scadenza o un permesso di soggiorno a lunga durata (CE). Fra questi si registrano 711mila studenti (dati 2010-11) di cui 350mila circa nati in Italia. Fra questi la percentuale di cittadini onesti aumenta ancora: il 99.9% di loro, infatti, non delinque. Lasciamo agli esperti di criminologia i dati di coloro che hanno compiuto reati e per questo sono trattenuti nelle carceri. Riportiamo solo alcune conclusioni della ricerca, molto curata e approfondita, “La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi”, realizzata nel 2009 dalle equipe del Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes e dell’Agenzia Redattore Sociale e coordinata da Franco Pittau e Stefano Trasatti: «In Italia è diffuso il senso di insicurezza. La paura della criminalità alimenta tra gli italiani il senso di insicurezza e impedisce loro di considerare gli immigrati una risorsa. Sul senso di insicurezza influiscono quattro ordini di ragioni (Rapporto Demos-Unipolis del 2008):
  • 63. 62 1. la perifericità sociale, tipica dei ceti più bassi; 2. il capitale sociale, che porta a essere meno paurosi quanto più si è proficuamente inseriti in reti di relazioni amicali; 3. l'eccessiva esposizione ai media, in particolare alla televisione, che genera angoscia; 4. il fattore politico, che esercita un notevole influsso» Come vediamo la terza e quarta precisazione di questa ricerca indicano l'aumento dell'insicurezza come un fattore legato alla responsabilità dei mezzi di comunicazione e direttamente dei politici. Purtroppo queste ricerche non chiariscono la coincidenza e la periodicità degli attacchi alle diverse comunità etniche, vere e proprie campagne diffamatorie che colpiscono le persone immigrate che sono più presenti in un preciso momento nel nostro paese. Logicamente queste campagne non si azzardano a criminalizzare i cittadini filippini che impegnati nel lavoro domestico: dopo una campagna mediatica che ripeta all’infinito che i filippini sono violentatori, spacciatori o sfruttatori nessuna famiglia italiana li farebbe più lavorare dentro le mura di casa. La verità è che il potere mediatico è diventato molto fazioso sul tema dell'immigrazione. Il problema non è tanto “l'eccessiva esposizione ai media, in particolare alla televisione”, come scritto nella ricerca, il problema centrale è l'impostazione fascista di ripetere cento volte una bugia per farla diventare verità. Lo scopo di questo atteggiamento dei media è criminalizzare le persone immigrate di una determinata comunità e rendere così più semplice il sovra sfruttamento di questi lavoratori. In un certo periodo i media italiani hanno reso i cittadini rumeni dei
  • 64. 63 nemici pubblici, così come tutti i musulmani nel mondo sono stati criminalizzati dopo il crollo delle Torri Gemelle. In Italia prima dei rumeni toccò ai cittadini marocchini e poi a quelli albanesi. Resta il dubbio su quale comunità sarà presa di mira nel prossimo “bombardamento” che alimenterà il falso ideologico dell'italianità e la protezione dall'invasione dei “barbari immigrati”. 3.2. Politica e demagogia elettorale In Italia, negli ultimi vent’anni, la politica sull'immigrazione è stata formulata e gestita dalle varie maggioranze e opposizioni quasi senza differenze fra destra e sinistra. Per scriverne noi andremo a guardare solo ai fatti. Prescindendo dalle dichiarazioni, dai discorsi e dalla demagogia verso le persone immigrate. Migliaia di volte chiamate, strumentalmente, “sorelle” e “fratelli”. Nelle campagne elettorali nazionali il tema non è mai mancato, anche se finora l’unico interesse di tutti i partiti è stato quello di attrarre elettori. Per proseguire, quanto più possibile, a mantenersi ben saldi al potere. 3.2.1. Fra il virus leghista e i nuovi italiani Essendo l'immigrazione una questione di grandi interessi economici per la presenza di un gran numero di lavoratori stranieri “sottomessi” e quindi sfruttabili, una parte della politica ha sempre avuto l’interesse di mantenere e conservare lo status quo che li vuole irregolari e indesiderati. È principalmente per questo motivo che è stato
  • 65. 64 permesso che nascesse e crescesse un’ala politica estremista xenofoba come la Lega Nord. Non è casuale che nelle regioni con forte presenza immigrata le elezioni si vincano parlando male dei lavoratori immigrati. La politica della Lega Nord pretende di far credere agli elettori che la crisi economica è una conseguenza della presenza degli immigrati. Il falso ideologico (che se la giustizia funzionasse dovrebbe essere penalmente perseguito) che vuole che gli immigrati siano quelli “che rubano il lavoro”, “usano le nostre case”, “rubano le nostre donne”, attira il voto dell'operaio, del disoccupato, dell'uomo o donna semplice. E, se collegato alle campagne mediatiche che centinaia di volte ripetono “immigrato uguale delinquente”, finisce per attirare anche altre persone. In politica il virus leghista ha contagiato anche il centro- sinistra, che non riesce a parlare bene dell'immigrazione per paura di perdere voti. Persino quelli più di sinistra, addirittura gli ex “comunisti” hanno questo virus, tenuti sotto tiro dai partiti populisti come “amici degli immigrati”. Se oggi la Lega Nord sparisse questo non porterebbe all’automatica sparizione del suo virus xenofobo, ormai già trasmesso dalla nascita al vertice burocratico del Movimento 5 Stelle e a gruppi di vecchia data come Forza Nuova e simili. Comunque tutta questa maniera di far politica segregazionista comincia finalmente ad avere una forza che la contrasta: i nuovi italiani, ovvero le persone immigrate che acquisiscono la cittadinanza italiana. Il peso specifico di questi nuovi elettori farà cambiare i colori di tutta la politica
  • 66. 65 italiana. L'altro elemento che andrà a contrapporsi a questa politica razzista sarà la presa di coscienza degli immigrati comunitari a livello delle elezione amministrative, quando finalmente i partiti e i movimenti politici si ritroveranno fra il virus leghista e i nuovi elettori d'origine immigrata. 3.2.2. Razzismo e discriminazione Certe volte si sente dire che l'Italia è un paese razzista. Prima di scrivere quello che pensiamo conviene leggere un piccolo riassunto trovato in rete, tratto da: “Le leggi razziali in Italia”, a cura di Giovanni De Laurentis e Thomas Presa: «Il Gran Consiglio del fascismo, in seguito alla conquista dell'impero, dichiara l'attualità urgente del problema razziale e la necessità di una presa di coscienza razziale e di provvedimenti per difendere la razza italiana. Il primo atto pubblico fu "Il Manifesto della razza”, pubblicato il 14 luglio 1938, che, al punto 9, stabiliva che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana e dunque al popolo italiano. Il 1° ottobre 1938 si arriva alla proibizione dei matrimoni misti e il 15 novembre del 1938 viene emanata la legge "per la difesa della razza nella scuola italiana", la quale prevedeva l'espulsione dalla scuola di insegnanti e alunni ebrei. Nella "carta della razza" si stabilisce inoltre che:  é di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei.  é considerato di razza ebraica colui che nasce da padre Ebreo e da madre di nazionalità straniera.
  • 67. 66  é considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da matrimonio misto, professa religione ebraica.  non é considerato di razza ebraica colui che é nato da matrimonio misto, qualora professi altra religione all'infuori della ebraica. Poi si arriva all'allontanamento dalla vita attiva degli ebrei, che vengono considerati stranieri e di nazionalità nemica. Queste restrizioni nel lavoro, nella scuola e nella vita sociale erano già presenti in Italia l'8 settembre 1943. In quella data l'esercito tedesco, fino ad allora alleato dell'Italia, diventa nemico e occupa militarmente la penisola, aiutando Mussolini a creare nel nord Italia la Repubblica di Salò. Il 13 dicembre 1943, viene infatti emanata una legge che ordina a tutti gli ebrei di presentarsi per essere internati nei campi di concentramento. A causa delle leggi razziali del regime fascista, gli ebrei residenti in Italia erano già conosciuti e schedati. Da questo momento inizia il periodo di deportazione e sterminio anche degli ebrei Italiani». Questa fu l'Italia razzista. Quella che parlava della “razza italiana” e della “razza ebrea”, di segregazione e di espulsione verso i lager. Un’Italia che fu schiacciata dai partigiani e ripulita dalla Costituzione del ‘48. Da allora il popolo italiano non ha permesso ai neofascisti di arrivare a scrivere leggi razziste. Che qualche individuo o gruppi d'individui manifestino l'intenzione di riprendere il testimone nazi-fascista non significa che questo paese è razzista. Certi azioni folli non riguardano tutti gli italiani.
  • 68. 67 Il “Pacchetto Sicurezza” di Maroni, contenitore del reato di clandestinità. L’aumento delle tasse per il rinnovo dei permessi di soggiorno. Le pene per chi affitta a persone “irregolari”. Il divieto dell’invio di denaro agli “irregolari”. Il negare i matrimoni civili agli “irregolari”. L’aumento del tempo legale di fermo nei CIE. L’aumento delle pene per i delinquenti non italiani. Se si uniscono tutte queste cose alla percentuale minima dei figli di immigrati nella scuola pubblica stabilita dalla Circolare Gelmini, emerge chiaramente l'intenzione di fare di questo paese “legalmente” un paese razzista. Fra i primi 16 paesi d'origine degli immigrati presenti in Italia abbiamo gente di tutti e cinque i continenti, tutti i colori di pelle conosciuti, le religioni più professate e le lingue più parlate nel mondo. Quindi, essendo impossibile accomunare le persone immigrate in qualsiasi altro modo, il pensiero di Maroni potrebbe essere sintetizzato solo con: “noi italiani e voi non italiani”. Usando la logica leghista, la maggior parte dei “non italiani” sarebbe così soltanto una massa informe di lavoratori, destinata a lavorare alle dipendenze degli imprenditori italiani. Punto e basta, perché “gli italiani sono quelli che danno lavoro”. E lo Stato deve sostenerli. Sempre secondo questa logica, finito il lavoro questi stranieri dovrebbero andare via. Il “razzismo del terzo millennio”, almeno in Italia, è il sovra sfruttamento dei lavoratori immigrati. Confondere la discriminazione con il razzismo è non volere approfondire l’analisi delle nuove condizioni che la globalizzazione del mercato capitalistico nei nostri tempi crea, nascondere i
  • 69. 68 profitti di chi sfrutta questi operai non italiani. Il sovra sfruttamento agli operai stranieri è il preambolo alle condizioni di sovra sfruttamento anche per i lavoratori autoctoni dei paesi del cosiddetto “primo mondo”. Così come è sbagliato confondere razzismo e sovra sfruttamento, è ugualmente sbagliato confondere il sovra sfruttamento con la schiavitù. Non è corretto affermare che gli operai immigrati lavorano in condizione di schiavitù perché - come scrive Federico Engels nei “Principi del Comunismo” - lo schiavo a suo tempo viveva condizioni che non assomigliano affatto con quelle del lavoratore sfruttato di oggi, né in senso negativo rispetto alla libertà personale né in senso positivo relativamente e certe garanzie oggi perdute. L’unica somiglianza fra il lavoratore immigrato e lo schiavo è che entrambi non sono considerati cittadini. Quindi la prima cosa da fare è esigere l’uguaglianza dei diritti fra persone immigrate e italiani. Tutto il resto viene dopo. 3.3. La nuova politica Tutta la nostra argomentazione sui diritti civili delle persone immigrate deve essere concentrata qui, nella nuova politica. Visto che negli altri campi - economico, sindacale, sociale, culturale, sportivo, ecc. - gli addetti ai lavori si sono strappati i capelli e i vestiti cercando di capire come cambiare i loro ambiti in favore dei “poveracci” immigrati, anche molti stranieri sono caduti nella trappola di cercare di cambiare quello che avevano intorno. Ovviamente senza ottenere
  • 70. 69 nulla, perché è solo quando la politica cambierà le regole sull’immigrazione, riconoscendo i diritti umani alle persone arrivate da fuori confine insieme con l’applicazione dei diritti stabiliti nella Costituzione italiana, che potremmo finalmente dire che l’Italia starà andando nella giusta direzione, che staremo guardando al futuro. In diversi Paesi del mondo esistono già dei dettami costituzionali che riconoscono il “diritto a emigrare” e che dichiarano che “nessun essere umano viene considerato illegale per la sua condizione migratoria” (Costituzione dell’Ecuador, nel Titolo secondo “Diritti”, Capitolo Terzo “Diritti delle persone e gruppi d’attenzione prioritaria”, Sezione Terza “Mobilità Umana”, articolo 40). L’Ecuador è l’esempio di un Paese che mostra notevole coerenza politica, comprendendo bene l’emigrazione di circa un quarto della propria popolazione verso il “primo mondo” e avendo circa un milione di persone immigrate dalla Colombia, Perù, Cuba, Haiti, Bolivia e Cina. La Costituzione, approvata il 28 settembre 2008 con referendum popolare, tutela ugualmente emigranti e immigrati. Secondo l’ordinamento italiano la Costituzione può essere modificata solo attraverso maggioranza parlamentare. Purtroppo la politica è l’espressione concentrata dell’economia, quindi il Parlamento tenderà a ratificare lo sfruttamento delle persone immigrate negando loro i pieni diritti di cui dovrebbero invece godere. 3.3.1. Partiti e movimenti meticci
  • 71. 70 Il termino “meticcio” non è esattamente il più adatto ad essere usato nella categoria politica, però quale altro nome potremmo dare alle strutture, fatte da italiani, che in futuro promuoveranno i diritti degli stranieri? I documenti che queste strutture produrranno saranno meticci “dalla nascita”, nel momento stesso in cui alle aspirazioni legittime delle persone italiane, sommeranno quelle degli immigrati. Cosa determinerà il cambiamento della politica italiana? I voti dei “nuovi italiani”. Da circa 10 anni diventano italiani una media di 50mila persone d’origine immigrata all’anno. È molto probabile che, quando questi nuovi cittadini saranno abbastanza numerosi per fare “massa critica”, i politici italiani useranno lo stesso stile scelto da Obama per vincere le sue elezioni, ovvero quello di avvicinare la comunità latinoamericana - che negli Stati Uniti è la più numerosa - per guadagnare il maggior numero possibile di voti, promettendo demagogicamente la riforma migratoria, tanto attesa da tutti i familiari degli “americani” di origine immigrata. In Italia c’è da credere che i partiti e i movimenti diventeranno più colorati, nelle liste ci saranno sempre più cognomi asiatici, africani, latinoamericani o dell’Europa dell’est, e sarà la rovina di quanti oggi sono refrattari ai cambiamenti. La politica dovrà rapportarsi alle strutture culturali, sociali e politiche transnazionali delle comunità immigrate che fanno attività in Italia.
  • 72. 71 L’altro fattore di cambiamento nella politica italiana al momento sopito è il voto amministrativo delle comunità provenienti dai paesi europei. Quando questi cittadini potranno cambiare i sindaci e i consiglieri comunali saremo a un passo dalle città cosmopolite della neocultura, cioè, giovani e molto “colorate”. Magari il prossimo sindaco di Roma Capitale si chiamerà Olga, Igor, Nadia, Mihai, Kadija, Mahmud o Carlos. Magari in Italia si costruirà la moschea più grande e bella del mondo occidentale. Magari le città italiane si riempiranno di opere d’arte provenienti da tutti i paesi del mondo. Magari in ogni quartiere si apriranno scuole di lingua madre di ogni idioma che parlano le persone immigrate. Magari si creeranno biblioteche vive, con centinaia di racconti della letteratura cinese, araba, spagnola, o delle lingue dell’Europa dell’est. Magari, quando le persone immigrate, per la maggior parte lavoratori, potranno votare alle amministrative, verranno finalmente valutati i curriculum lavorativi dei candidati, oltre che il linguaggio che non dovrà contenere nemmeno l’ombra della xenofobia. Perché il diritto di voto amministrativo per le persone immigrate non comunitarie residenti legalmente da più cinque anni diventi effettivo dobbiamo ancora aspettare. Per il momento siamo seduti sulla riva del fiume e attendiamo l’arrivo della stagione nuova che questo fattore di cambiamento certamente porterà nella società.
  • 73. 72
  • 74. 73 CAPITOLO VI I lavoratori immigrati e il sindacalismo La percentuale di lavoratori nell’universo delle persone immigrate, stando ai dati ufficiali, non è inferiore all’80%. Quindi, chi volesse parlare di questo tema dovrebbe parlare necessariamente di operai, colf, badanti, braccianti e di tutte le categorie lavorative nelle quali i lavoratori immigrati sono presenti. Le persone che provengono da altri Paesi appena arrivate in Italia cercano al più presto possibile di trovare lavoro, perciò sarebbe logico, oltre che auspicabile, che fossero i sindacati a farsi carico di loro. Fino a pochi anni fa in Italia i sindacati facevano riferimento a posizioni politiche precise, nonostante le quali queste organizzazioni, più o meno indistintamente, hanno lasciato gli immigrati alla loro sorte. 4.1. I diritti dei lavoratori immigrati La categoria dei lavoratori stranieri era coperta nel mondo con la legislazione emanata dall’ILO (“International Labour Organization”, ovvero “Organizzazione internazionale del Lavoro”). Leggiamo dal sito del Centro di Documentazione "L’Altro diritto" dell’Università di Firenze: “Nel 1981 l’Italia ratificò, con la legge n. 158 la convenzione ILO n. 143/1975 sulla promozione dell'uguaglianza di opportunità e di trattamento dei lavoratori immigrati. Il 30 dicembre 1986, con la legge n. 943 ("Norme in materia di collocamento e di trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e contro le immigrazioni clandestine"), venne emanata la prima regolamentazione normativa dell'attività lavorativa straniera. Vennero stabiliti alcuni principi generali in tema di lavoro e venne istituita la Consulta per i problemi
  • 75. 74 dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie, che troverà piena disciplina nell'art. 42 del T.U. 286/1998 e nell'art. 55 del D.P.R. n. 394 del 1999, recante il Regolamento di attuazione del Testo unico”. Nell’86 viene emanato un regolamento sull’iscrizione degli immigrati alla previdenza sociale che fa riferimento anche al ricongiungimento familiare e ai diritti pensionistici. I diritti dei lavoratori immigrati, in tutti i Paesi, seguono una legge informale della proporzione inversa rispetto al numero di presenze, cioè: più numerosi sono gli immigrati minori saranno i diritti di cui potranno godere, minore sarà il loro numero maggiori saranno i diritti cui avranno accesso. Naturalmente in questa proporzione s’inserisce anche la lotta delle persone immigrate per acquisire la cittadinanza, nel nostro caso italiana, perché l’uguaglianza vera non può darsi fuori dalla cittadinanza: quando la percentuale di persone immigrate che riesce a ottenere la cittadinanza è bassa significa che il sistema di segregazione è riuscito a rallentare i diritti lavorativi degli stranieri, esponendoli agli esperimenti di “rientro” nei quali sono costretti a lasciare i contributi maturati durante la propria attività lavorativa come regalo a coloro i quali sfruttano questo sistema. 4.1.1. L'arrivo degli operai stranieri Come è stato scritto negli altri capitoli, l’arrivo delle persone straniere viene ammortizzato ideologicamente con l’accoglienza dell’intera società: ai lavoratori viene detto che l’arrivo degli immigrati serve a coprire le loro pensioni, quindi, alla fine, questo “sbarco” viene accettato da tutti come un male necessario. Chi, in questa storia, è mancato all’appello è il sindacalismo.
  • 76. 75 Considerando che subito dopo il loro ingresso in Italia gli immigrati - che certo non vengono per turismo - sono destinati a diventare lavoratori, il silenzio dei sindacati è stato tanto grave quanto stupido. Lasciata a sé stessa, la presenza in crescita geometrica di tanti lavoratori senza diritti, poteva generare l’effetto di un vero “esercito di riserva” sul mercato del lavoro. Una riserva pronta a qualsiasi cosa, ma soprattutto utile per minacciare l’“esercito regolare” quando si fosse ribellato a un abbassamento delle tutele. Poteva farlo. E l’ha fatto. Invece di essere presenti, il sindacato e la sinistra non hanno curato i diritti di “questi poveracci” lasciandoli nelle fauci del mercato, il quale, subito dopo, si è mangiato anche i diritti dei lavoratori italiani. Difficile credere adesso che il sindacalismo, all’epoca, non capì che lo strumento per azzerare i diritti erano i lavoratori immigrati. 4.1.2. La concorrenza Nel Capitolo II abbiamo cercato di mostrare la concorrenza fra i diversi tipi di lavoratori, italiani, immigrati e comunitari e le gravi conseguenze di questa per loro stessi. Concludiamo qui il discorso dicendo che “la gara per i posti di lavoro” favorisce per intero gli imprenditori, perché porta a un abbassamento degli stipendi e quindi, in generale, del valore della manodopera: tutto Il mondo del lavoro è collegato agli interessi dei padroni. La concorrenza è la parte più visibile del processo migratorio, e dà adito a stereotipi come: “gli stranieri ci rubano il lavoro” o, in senso inverso, “gli italiani non vogliono