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TESINA DI STORIA MODERNA – LM
La	cittadinanza	
come	appartenenza
Docente: Bellabarba Marco
Studente: Aluigi Matteo
Anno accademico 2011/2012
1
Sommario
Introduzione ...................................................... 2
(1) Cittadinanza come appartenenza ................ 2
(2) Appartenenza: elementi ............................... 4
(2.1) La dimensione dell’appartenenza ........... 5
(2.2) La logica del “noi – non-noi” ................... 7
(2.3) L’indispensabilità dello straniero .......... 10
Conclusione ..................................................... 12
Bibliografia ...................................................... 13
2
Introduzione
Il presente elaborato scritto è un azzardo. S’azzarda a sostenere l’idea che la cittadinanza si fondi sulla
non-cittadinanza (o meglio che la non-cittadinanza giochi un ruolo fondamentale per la definizione di
cittadinanza). Ponendo l’enfasi su una particolare nozione di appartenenza, insita nel concetto di
cittadinanza secondo il modello repubblicano, si porta l’attenzione sulla logica del “noi – non-noi”, sul
meccanismo inclusivo ed allo stesso tempo esclusivo sotteso all’appartenenza. Di qui, seguendo il valore
esclusivo della cittadinanza, si sviluppa una riflessione sul tema dello straniero, prendendo le mosse a
partire dalle analisi sociologiche di Georg Simmel. Quindi, ci si sofferma sulla centralità di questa figura,
contrapposta a quella del cittadino; se quest’ultimo acquisisce la propria identità in maniera contrastiva,
allora lo straniero, il non-cittadino, diventa sostanziale per la sua stessa costituzione. Seguendo questa
chiave di lettura del concetto di cittadinanza, in ultima istanza se ne ricava che l’esistenza del cittadino
dipende strettamente da quella dello straniero, perlomeno in un contesto storico come quello
caratterizzato dalla formazione dello Stato-nazione, entro il quale il cittadino matura un forte senso di
appartenenza.
(1)	Cittadinanza	come	appartenenza
Il concetto di cittadinanza è ampio ed articolato. Onde evitare ambiguità di sorta, è allora opportuno
precisare sin dall’inizio in quale senso, all’interno di questo lavoro, ci si riferisce ad esso. Stando alla
definizione dell’International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences:
«cittadinanza significa appartenenza a una comunità politica. In quanto appartenenza, la cittadinanza
conferisce lo status di uguaglianza tra tutti i cittadini per quanto riguarda i diritti e doveri che tale status
comporta. […] Quest[o] significat[o] fondamental[e] della cittadinanza si applica a tutte le fasi storiche
che la formazione della cittadinanza come oggetto e concetto ha attraversato».1
In maniera del tutto similare, in Cittadinanza e classe sociale – opera che ha «valore paradigmatico per
comprendere gli sviluppi del pensiero politico europeo occidentale» –2
, il sociologo inglese Thomas
Humphrey Marshall scrive:
«la cittadinanza è uno status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una
comunità. Tutti quelli che posseggono questo status sono uguali rispetto ai diritti e ai doveri conferiti da
tale status».3
L’idea che il concetto di “appartenenza” (membership) sia centrale, per quanto riguarda il discorso sulla
cittadinanza, è quindi assodata. D’altronde, si tratta di una posizione già ampiamente condivisa dal “filone
comunitario”, una delle prospettive teoriche più pregnanti per lo studio del concetto in questione.4
«La cittadinanza è sorretta da due cardini fondamentali, quello relativo all’assetto dei diritti del cittadino
(ma anche dei suoi doveri) e quello relativo all’appartenenza del cittadino ad una comunità. A questo
proposito, a seconda che si privilegi l’uno o l’altro dei caratteri definitori, si danno convenzionalmente
due distinte interpretazioni idealtipiche del concetto. Quella riconducibile al filone liberale o
fondazionista pone l’accento sulla tematica dei diritti, che in quanto attributi intrinseci dell’individuo
1
D. GOSEWINKEL, Citizenship, Historical Development of, in N. J. SMELSER – P. B. BALTES, International Encyclopedia
of the Social and Behavioral Sciences, Elsevier, Oxford 2001, pp. 1852-3.
2
S. MEZZADRA, Introduzione, in T. H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma-Bari 2002, p. V.
3
L. G. BAGLIONI, Capire le disuguaglianze attraverso la cittadinanza (dispense per studenti), Firenze 2008, p. 9.
4
«La tesi principale che le teorie comunitarie della cittadinanza cercano di dimostrare è che i diritti di
cittadinanza si fondano sull’appartenenza a una determinata società, e che fra di essi sono compresi anche i
diritti sociali, allo stesso titolo di quelli civili e politici» (F. P. VERTOVA, Cittadinanza liberale, identità collettive,
diritti sociali, in D. ZOLO, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 186).
3
godono di una superiorità logica e morale rispetto ad ogni tipo di appartenenza, fondando la base della
cittadinanza sulla democraticità e sulla supposta auto-evidenza del carattere tendenzialmente universale
dei diritti, prescindendo però da qualsiasi altro riferimento di tipo culturale. L’interpretazione relativa al
filone comunitario collega i diritti ad un particolare tipo di società, facendo prevalere le caratteristiche
culturali della specifica appartenenza sociale dell’individuo su ogni altra considerazione di tipo
giusnaturalistico».5
A ben vedere, allora, il concetto di “appartenenza” caratterizza tanto la prospettiva teorica “liberale”
quanto quella “comunitaria” (nonostante qui sia fatto “prevalere”). Tuttavia la grande differenza tra i due
consiste nel far riferimento a due nozioni differenti di “appartenenza”. Se il “filone liberale” abbraccia «una
nozione “formale” [di appartenenza], coincidente con i criteri giuridici attraverso cui gli appartenenti sono
distinti dai non appartenenti», il “filone comunitario” preferisce una «nozione “sostanziale” [di
appartenenza], coincidente con i criteri pre-giuridici (emotivi, antropologici, psicologici) che identificano gli
appartenenti e che possono poi legittimare, sul piano etico-politico, l’adozione di determinati criteri
giuridici».6
Ora, da un canto, è vero che «il nesso tra diritti di cittadinanza e appartenenza sussiste pienamente [solo]
se intendiamo […] l’appartenenza come un riconoscimento giuridico, [secondo il “filone liberale”
dunque]».7
Infatti, «se intendiamo l’appartenenza [secondo “criteri pre-giuridici”, secondo il “filone
comunitario”], rischiamo di non parlare effettivamente dei cittadini: «un forte sentimento di fedeltà nei
confronti della propria comunità, oppure […] un coinvolgimento attivo nella vita pubblica, [denotano una]
forma di appartenenza [che] non è una condizione necessaria perché un cittadino sia titolare dei diritti di
cittadinanza, [poiché] egli ne è comunque titolare, a prescindere dalla natura del suo comportamento
pubblico. Allo stesso tempo, l’appartenenza intesa in questo senso non è nemmeno una condizione
sufficiente: uno straniero – ad esempio il figlio, nato in Italia, di una coppia di immigrati – può nutrire un
forte senso di attaccamento e di lealtà verso la comunità nazionale in cui vive; tuttavia egli rimane escluso
dai diritti di cittadinanza».8
Eppure, dall’altro lato, è altrettanto vero che «la cittadinanza […] non è
semplicemente una formula legale [definibile “formalmente” secondo i “criteri pre-giuridici”, sui quali
insiste il “filone liberale”]; è anche un fatto di crescente rilevanza sociale e culturale».9
Si pensi, per
esempio al fatto che, in età moderna, centrale per la definizione di cittadinanza è il concetto di stato e «lo
stato pretende di essere lo stato di, e per, una comunità di cittadini particolare e delimitata. [E] questa
comunità delimitata di cittadini è concepita solitamente come una nazione – qualcosa di più coesivo di un
mero aggregato di persone cui accade giuridicamente di appartenere allo stato».10
Scrive Brubaker che:
«lo stato moderno non è semplicemente un’organizzazione territoriale ma è una organizzazione di
appartenenza. [Da un canto], che ci si focalizzi sulla territorialità è comprensibile. La sociologia dello
stato si è sviluppata analizzando la transizione dall’ordinamento politico medievale, che consisteva
essenzialmente in una rete di persone, allo stato moderno, [entro il quale] un aspetto cruciale […] è […]
la territorializzazione del governo. Ma la focalizzazione storica su tale transizione e l’enfasi concettuale
sulla territorialità hanno oscurato un altro aspetto dello sviluppo dello stato moderno […]: la divisione
della popolazione mondiale in un insieme di comunità di cittadini circoscritte e reciprocamente
esclusive. […] Territorio e appartenenza sono strettamente collegati. Anzi il territorio politico, […] un
territorio delimitato il cui accesso è controllato dallo Stato, presuppone l’appartenenza».11
Pertanto il richiamo ad una nozione “sostanziale” di appartenenza secondo il filone comunitario non è
fuori luogo per quanto riguarda il discorso sulla cittadinanza. Lo stesso Marshall ribadisce che quest’ultima
5
Ibid., p. 14.
6
E. GARGIULO, Leggere la modernità e le sue tensioni: la cittadinanza come chiave di lettura simmeliana, in
Simmel e la cultura moderna. Interpretare i fenomeni sociali, 2 voll., a cura di C. Corradi, D. Pucelli, A.
Santambrogio, Morlacchi, Perugia 2010, vol. I, p. 59.
7
Ibid., p. 60.
8
Ibidem.
9
R. BRUBAKER, Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 48.
10
Ibid., p. 46.
11
Ibid., pp. 45-8.
4
«richiede un legame di genere differente, una percezione diretta dell’appartenenza alla comunità,
appartenenza fondata sulla fedeltà a una civiltà che è possesso comune».12
A questo punto, seguendo il filone comunitario, è possibile addentrarsi in un’analisi “esistenzialmente
significativa” del concetto di “appartenenza”,13
trattando il quale si vuole parlare dei meccanismi sottesi
alla nozione di cittadinanza.
(2)	Appartenenza:	elementi	
Per studiare la cittadinanza come “appartenenza sostanziale”, la si potrebbe scomporre in più elementi.
Così, in primo luogo, «il tratto che più precocemente emerge è la dimensione dell’appartenenza, la
convinzione dell’impossibilità di separare il soggetto (cittadino) da una totalità sociale che lo accoglie, lo
disciplina, lo protegge, lo realizza. [Ed] il nesso forte che la cultura medievale e post-medievale instaura fra
il soggetto e il ‘corpo’ politico, fra l’individuo e la città non è destinato ad esaurirsi con il venir meno delle
condizioni storiche che lo hanno generato: è un tema di fondo del discorso della cittadinanza […],
un’ininterrotta mitopoiesi che prima assume come proprio referente la città e poi trasferisce e trasforma
l’antico gioco nella nuova cornice dello Stato-nazione».14
Il primo elemento da tenere in considerazione è
quindi lo spazio comune, la comunità (sia essa la città o lo Stato-nazione), quale dimensione al di fuori della
quale non si dà una definizione di cittadinanza. Secondo i teorici del filone comunitario:
«è l’appartenenza a una comunità a definire, almeno in parte, ciò che gli individui sono. Una concezione
‘costitutiva’ di comunità è dunque indispensabile [persino] per una nozione autentica di soggettività».15
Detto questo, in secondo luogo, «fra i molti vincoli che […] il discorso della cittadinanza tende per lo più a
rispettare, una regola appare difficilmente aggirabile: la regola che associa alla rappresentazione dei
soggetti e dei loro diritti la determinazione di un ‘dentro’ e di un ‘fuori’, […] di un ‘noi’ e un ‘loro’, di un
sistema di differenze che, sempre nuovo e quasi irriconoscibile, tende tuttavia a riproporsi ostinatamente
nei più diversi contesti».16
In altri termini, il secondo elemento di grande rilievo è la logica sottesa al
concetto di “appartenenza”, la logica problematica (poiché tanto inclusiva quanto esclusiva) del “noi – non-
noi”:
«il dibattito attuale è […] contraddistinto […] da una consapevolezza della problematicità
dell’appartenenza politica, comunque definita. [Tale consapevolezza invece] non poteva che essere del
tutto estranea a Marshall. [Infatti] l’immagine della cittadinanza da lui proposta nelle lezioni del ’49 era
fortemente inclusiva e progressiva, e proprio in questo consiste una parte significativa del suo valore di
documento storico; ma per la stessa ragione non si troveranno nel testo considerazioni su quella
determinazione esclusiva della cittadinanza – sui suoi confini – che è oggi in particolare al centro della
discussione, [quale quella] assai vivace su cittadinanza e immigrazione».17
12
T. H. MARSHALL, Cittadinanza e classe cit., p. 43.
13
D’altronde una critica caustica ad una considerazione eccessivamente “formale” e giuridica del concetto di
cittadinanza era già stata mossa da Marx in Sulla questione ebraica. Qui, analizzando i «diritti dell’uomo e del
cittadino menzionati nella “costituzione più radicale, la Costituzione del 1793”», il filosofo renano nota che «la
cittadinanza, la comunità politica viene abbassata [persino] dagli emancipatori politici [rivoluzionari] a mero
mezzo per la conservazione [dei] cosiddetti diritti dell’uomo» (cfr. P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza in
Europa, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1999, vol. II – L’età delle rivoluzioni, pp. 571-609). «L’alienazione di
un’esistenza divisa fra l’egoismo terreno della società civile e l’immaginaria appartenenza alla comunità
politica» così non viene meno; l’emancipazione reale, secondo Marx, non si può realizzare se si continuano a
tenere in piedi “sciocchezze sui trampoli”, nozioni eccessivamente astratte e “formali” (come quella di
cittadinanza in seno alla Costituzione del 1793) e non concrete e “sostanziali”, ossia “esistenzialmente
significative” (Ibid., p. 584).
14
P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento, pp. XIX-XX.
15
L. BACCELLI, Cittadinanza e appartenenza, in D. ZOLO, La cittadinanza cit., p. 135.
16
P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento, p. XXI.
17
S. MEZZADRA, Introduzione, in T. H. MARSHALL, Cittadinanza cit., pp. XXVIII-XXIX.
5
In terzo luogo, segue a mo’ di corollario del secondo elemento il fatto che il “loro”, il “non-noi” – che
viene a crearsi in contrapposizione agli appartenenti ad una comunità (ad una città, ad uno Stato-nazione) –
non è semplicemente conseguenza, effetto della creazione di un “noi”. Infatti è interessante notare che
molti autori ribadiscono il ruolo causale, costitutivo del “non-noi” ai fini della creazione di un “noi”,
sottolineando che «una comunità culturale […] richiede, per realizzarsi, [e, quindi, si realizza tramite]
l’identificazione di un estraneo culturale e la sua emarginazione».18
«Lo straniero/nemico può esserci
indispensabile: [solo] contrapponendoci a lui, abbiamo coscienza di noi».19
In sintesi, il terzo elemento è
l’indispensabilità dello straniero per la creazione del cittadino.
(2.1)	La	dimensione	dell’appartenenza
Per analizzare il primo elemento, ossia la dimensione dell’appartenenza, ripercorriamo alcune delle tappe
storiche fondamentali dell’evoluzione del concetto di cittadinanza.
Risalendo al Medioevo, si può notare molto chiaramente come, senza una dimensione dell’appartenenza,
non solo non si può parlare di cittadinanza e cittadino ma neppure di uomo. «Il cittadino medievale [infatti]
era raffigurabile mediante una metafora corporatista: egli era parte di un “corpo”, costituiva l’articolazione
di un tutto differenziato nelle sue parti».20
A titolo emblematico, per esempio, nel breve Trattato di
Remigio de’ Girolami, scritto nei primi del Trecento, balza con evidenza l’importanza della cittadinanza per
l’individuo, «che non è pensabile al di fuori della relazione costitutiva con la città: “si non est civis non est
homo”».21
È «la città [come la città italiana, in tutto l’arco della sua vicenda istituzionale, dal comune alla
signoria] dunque, in quanto ordine e corpo, [che] fonda e rende possibile l’azione dei suoi membri e questa
a sua volta trova nell’ordine la propria regola e la propria finalità».22
Così ci si può spingere sino a sostenere
che «la cittadinanza come appartenenza e inclusione trova espressione in un termine che il mondo antico e
Agostino trasmettono al discorso politico medievale: il termine ‘patria’».23
E quando si parla di ‘patria’,
«non si tratta […] di un’espressione meramente esornativa»: per autori quali lo stesso Remigio, «il rapporto
del cittadino con la città è un [vero e proprio] rapporto d’amore», è amor patriae.24
Pertanto la ‘patria’
costituisce più propriamente la dimensione dell’appartenenza, già per il cittadino medievale; e quest’ultimo
non può che porsi in “un rapporto d’amore” con tale dimensione, poiché è qui che hanno origine quel
“corpo” e quell’“ordinata appartenenza” al di fuori dei quali egli stesso non è pensabile.
Entrando in epoca moderna, ne Les six livres de la république, pubblicato nel 1576 e contenitore di una
teoria della «cittadinanza come relazione diretta con il sovrano», le riflessioni di Bodin potrebbero far
pensare ad un’eliminazione dello «schema della cittadinanza corporatista»,25
ad un venire meno della
centralità della dimensione dell’appartenenza a favore della dimensione dell’obbedienza. Infatti:
«vengono […] a profilarsi due schemi di cittadinanza concettualmente distinti: se nell’appartenenza alla
città prevale una dimensione corporatista che esalta l’inclusione del soggetto nella comunità e da questa
fa discendere gli oneri e i privilegi dei singoli membri, nella relazione di sudditanza-cittadinanza è
preminente il regime degli obblighi reciproci (obbedienza e fedeltà contro protezione e giustizia), mentre
la partecipazione appare problematica e l’inclusione, per così dire, si ‘territorializza’, si confonde con il
radicamento del soggetto nella zona d’influenza del sovrano».26
18
S. TABBONI, Vicinanza e lontananza: modelli e figure dello straniero come categoria sociologica. Elias,
Merton, Park, Schutz, Simmel, Sombart, Angeli, Milano 1993, p. 20.
19
R. ESCOBAR, Paura e libertà, Morlacchi, Perugia 2009, p. 62.
20
E. GARGIULO, Leggere la modernità cit., p. 51.
21
P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento, p. 22.
22
Ibid., p. 20.
23
Ibidem.
24
Ibid., p. 22.
25
Ibid., p. 79.
26
Ibid., p. 80.
6
Ma, in realtà, «i profili non sono così netti perché le ‘due cittadinanze’ non si elidono ma si integrano: per
cui l’individuo passa attraverso il filtro dei corpi, delle comunità, dell’inclusione ed il suo rapporto con il
sovrano presuppone comunque la disposizione ordinata, gerarchica, della società. […] La sudditanza-
cittadinanza e la cittadinanza-inclusione […] continuano variamente ad intrecciarsi nella cultura e nella
società di antico regime».27
La dimensione dell’appartenenza è ancora fondamentale: «il principio
corporatista, che [ad esempio] permette la legittimazione della resistenza e la contestazione della nuova e
minacciosa sovranità, è lo stesso principio che fa ancora dell’appartenenza e dell’inclusione la condizione
costitutiva del soggetto».28
Nella Francia sei-settecentesca, invece, inizierà a circolare «un’espressione, ‘nazione’, che possiede […]
una sicura valenza politica, designando in generale il legame che intercorre tra una collettività e una
qualche forma di sovranità [ma, soprattutto,] il momento politicamente unitario di un insieme di
soggetti».29
E, quando Sieyès pubblica il Saggio sui privilegi e lo scritto Che cos’è il Terzo Stato agli albori
della rivoluzione francese tra il 1788 ed il 1789, egli «distilla nella sua idea di nazione la linfa vitale del
corporatismo cittadino»:30
«[…] è in rapporto alla nazione e alle condizioni che definiscono l’appartenenza ad essa che i soggetti si
determinano […]. È in rapporto alla nazione […] che si gioca il rapporto di cittadinanza: l’appartenenza
dei singolo soggetti alla nazione, […] eredita la capacità inclusiva e la dimensione politica della città [e, ad
un tempo,] proietta l’unità corporatista del ‘piccolo Stato’ sull’orizzonte, di gran lunga più ampio e
complesso, di un ‘grande Stato’ dell’Europa di fine Settecento».31
Con la rivoluzione francese e a partire da essa, allora, si rinvigorisce ulteriormente la dimensione
dell’appartenenza, insistendo sulla centralità dell’idea di nazione. In tale contesto:
«il momento ‘corporatista’, collettivo, inclusivo, della nazione viene a giocare un ruolo tanto
fondamentale quanto quello dei diritti, della proprietà, della libertà. [E, nonostante] diritti, sovranità e
appartenenza si sono continuamente e variamente intrecciati nel discorso della cittadinanza, [qui siamo]
di fronte ad un’innovazione significativa: […] nel discorso rivoluzionario della cittadinanza l’ordine dei
diritti è un momento irrinunciabile dell’ordine complessivo, è la sua destinazione di senso, ma nello
stesso tempo esso è annunciato, ‘dichiarato’ entro un processo che trova nella forza inclusiva e
nell’energia costituente della nazione l’indispensabile elemento propulsivo».32
A dispetto della centralità dell’aspetto giuridico, nel discorso della cittadinanza, l’“indispensabile
elemento propulsivo” ancora in piena età moderna sembra essere la dimensione dell’appartenenza. E
l’appartenenza ad una nazione nel Settecento ed Ottocento appare legata alla sudditanza-cittadinanza
27
Ibidem.
28
Ibid., p. 87. In maniera paradigmatica: «la sudditanza-cittadinanza è insomma un legame pur sempre filtrato
dalle differenze e appartenenze: l’individuo [che, pian piano, emerge in quanto tale in epoca moderna] quindi
non è, in ogni aspetto della sua esistenza pubblica, cittadino in quanto suddito, ma lo è soltanto per un
aspetto (più o meno) rilevante della sua dimensione socio-politica» (ibid., p. 95). Tuttavia si potrebbe
obiettare che, almeno in Hobbes, «il cittadino sia [davvero] il suddito», poiché la condizione ‘civile’
(l’esistenza del cittadino) dipende strettamente dall’uscita dalla condizione ‘umana’ (l’esistenza dell’uomo,
che è homini lupus) mediante il pactum subiectionis. Ma si tratterebbe di un’obiezione debole poiché «il
sovrano non è il vertice di un ordine già dato, [bensì] la testa di un corpo sociale [che gli preesiste e lo
inventa]: il carattere inclusivo della cittadinanza, che come espressione dell’antica logica corporatista
sembrava destinato a scomparire, sostituito dalla logica potestativa della sovranità ‘assoluta’, torna a farsi
sentire nel meccanismo di incorporazione innescato dalla persona rappresentativa del sovrano. […] La
sovranità inventata, la persona artificiale, ricomprende in sé e rinnova a suo modo il principio
dell’appartenenza e dell’inclusione» (ibid., pp. 174-5 e 183, corsivo nostro).
29
P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. II – L’età delle rivoluzioni, p. 10.
30
Ibid., p. 19.
31
Ibid., pp. 18-9.
32
Ibid., p. 27.
7
(l’appartenenza ad uno Stato-nazione, appunto) ma, indubbiamente, anche, e soprattutto, alla
cittadinanza-inclusione (l’appartenenza ad un ‘noi’ che è il popolo):33
«In questo scenario […] il momento dell’appartenenza continua ad avere il massimo rilievo, ma la
comunità politica alla quale il cittadino appartiene è un popolo che non tanto si realizza nei suoi
rappresentanti, nel governo, nelle istituzioni quanto si contrappone ad essi. […] Cittadino è colui che,
indipendente dal governo, privo di qualsiasi investitura istituzionale, esercita la virtù civica […]. La
cittadinanza è un’appartenenza che evoca il popolo come soggetto collettivo e ha come contenuto la
virtù. È la virtù che diviene una delle più forti legittimazioni del governo rivoluzionario e la pietra di
paragone della cittadinanza. [E] la virtù è […] comprensione dell’interesse generale, azione orientata al
bene comune; la virtù è, come voleva Montesquieu, il principio portante della repubblica. È amore per
l’eguaglianza, è amor di patria: virtù, patria, democrazia si implicano a vicenda, dal momento che
“soltanto in un regime democratico lo Stato è veramente la patria di tutti gli individui che lo
compongono”».34
Città comunale del Basso Medioevo come ‘patria’ per la comunità dei cittadini, Stato sovrano agli albori
della modernità come luogo d’incorporazione dei sudditi-cittadini, Stato-nazione in piena epoca moderna
nuovamente come ‘patria’ per il popolo – è evidente che la dimensione dell’appartenenza, di
un’appartenenza di natura “sostanziale”, tende a configurarsi come costitutiva del concetto di cittadinanza.
A questo punto è necessario compiere un passo ulteriore e chiedersi come sia possibile che si crei questa
dimensione dell’appartenenza; chiedersi, in generale, quali siano i meccanismi che stanno alla base della
nascita della cittadinanza come appartenenza.
(2.2)	La	logica	del	“noi	–	non-noi”
Come si è potuto constatare, il discorso sulla cittadinanza, seppure declinato nel suo significato
particolare di “appartenenza”, si vincola a numerosi elementi. Solo per riepilogarne alcuni: corpo, ordine,
città, individuo, sovrano, stato, popolo, patria, nazione. Mentre tutti questi sono ‘ingredienti’, ciascuno dei
quali contribuisce ad apportare il proprio ‘tocco’, convergendo con gli altri, nel discorso sulla cittadinanza,
quest’ultimo non può prescindere dalle regole procedurali della ‘ricetta’. E tra queste regole, che sembrano
imprescindibili per concepire la cittadinanza come “appartenenza”, ve n’è una in particolare che è in grado
di far luce sul come possa emergere una dimensione dell’appartenenza:
33
Generalizzando, l’appartenenza come sudditanza-cittadinanza e l’appartenenza come cittadinanza-
inclusione denotano due sensi di appartenenza (e, quindi, due modi di percepire l’“identità” nazionale) ben
distinti. Nel primo caso, dove l’accento cade sullo Stato-nazione (come in Francia), il senso di appartenenza è
prevalentemente politico-culturale mentre nel secondo caso, dove l’accento cade sul popolo-nazione (come in
Germania), è soprattutto etno-culturale. Il presente elaborato scritto fa maggior riferimento a quest’ultimo,
anche se trattando la cittadinanza come appartenenza in generale, non è escluso che le argomentazioni qui
riportate non abbiano alcun valore relativamente al primo senso di appartenenza. A sostegno di
quest’affermazione, si tenga presente che la differenza tra questi due sensi di appartenenza emerge solo
molto lentamente, in un momento molto tardo dell’epoca moderna: «nella misura in cui la discussione
anacronistica dell’“identità” [nazionale] ha un senso, l’“identità” soggettiva della grande maggioranza della
popolazione in tutta l’Europa aveva senza dubbio un carattere essenzialmente locale da un lato e religioso
dall’altro, almeno fino alla fine del Settecento. Per gran parte degli abitanti del continente, fino alla fine
dell’Ottocento le identità locali e regionali continuarono ad essere più importanti dell’identità nazionale.
[Quindi solo alla fine del XIX secolo, ad esempio,] la geografia politica e culturale dell’Europa centrale ha reso
possibile che si concepisse una Germania etnoculturale [mentre] in Francia, [dove] era molto difficile
distinguere la nazione dallo stato, [si fece fatica ad] immaginare una nazione specificamente etnoculturale»
(R. BRUBAKER, Cittadinanza e nazionalità cit., p. 19).
34
Ibid., pp. 47-8, corsivo nostro.
8
«c’è coscienza di appartenere insieme solo nella misura in cui vi è un’avversione simile o un interesse
pratico analogo nei confronti di un terzo, nonostante questo non porti necessariamente ad una lotta
concordata».35
In altri termini, alla base della cittadinanza, c’è una “coscienza di appartenere insieme” (un “noi”) che può
essere tale solo perché ci si pone in contrasto insieme – solo perché c’è un’“avversione” o un “interesse
pratico analogo” – “nei confronti di un terzo” (un “non-noi”). Una dimensione dell’appartenenza – un “noi”
– si dà solo a partire da una chiusura verso l’esterno – un “non-noi” –: «sebbene inclusiva internamente, la
cittadinanza è esclusiva verso l’esterno; […] è così allo stesso tempo sia uno strumento che un oggetto di
chiusura».36
La logica del “noi – non-noi” sottesa al discorso sulla cittadinanza non è un fatto banale. Molti
autori sottolineano che «l’ammissione [in un “noi”] e l’esclusione [di un “non-noi”] costituiscono il nucleo
dell’indipendenza di una comunità, [fosse anche una comunità di cittadini], e indicano il significato più
profondo dell’autodeterminazione. Senza di esse, [infatti], non potrebbero esserci comunità con un
carattere proprio, associazioni continuative e storicamente stabili, di uomini e donne con un certo impegno
particolare gli uni verso gli altri e con un senso particolare della loro vita collettiva».37
Pertanto è opportuno rivolgere l’attenzione a tale logica. Seguendo le riflessioni sociologiche di Georg
Simmel:
«un gruppo del tutto centripeto ed armonico – cioè, mera “unificazione” – non solo è empiricamente
impossibile, ma non darebbe luogo a nessun processo vitale e a nessuna struttura stabile. Così come
l’universo ha bisogno di “Amore ed Odio”, attrazione e repulsione, allo scopo d’avere una forma, allo
stesso modo la società richiede una relazione quantitativa tra armonia e disarmonia, associazione e
dissociazione, piacere e dispiacere, al fine di acquisire una formazione ben definita».38
Quindi, in prima istanza, «non si dà associazione, [comunità di cittadini, unità di appartenenza], che non
nasca dall’incontro fra cosiddetti impulsi di collaborazione e cosiddetti impulsi di opposizione o lotta [e,
d’altro canto], non c’è di solito possibilità di lotta, se non sulla base di una forma d’unità».39
Ne deriva che il
contrasto (che, nella sociologia di Simmel, è der Streit) non solo è necessario ma costitutivo dell’“unità” (di
una “formazione ben definita”, di un “noi”):40
«l’opposizione non è meramente un mezzo per conservare la relazione nella sua totalità [il “noi”], ma è
una delle funzioni concrete nelle quali consiste realmente la relazione stessa. […] L’impulso all’ostilità,
[all’opposizione], si manifesta anche in forme piuttosto peculiari, per così dire, l’impulso ad agire in
relazione con altri».41
35
«There is consciousness of belonging together only in so far as there is a similar aversion or a similar
practical interest against a third, but his need not lead to a concerted struggle» (G. SIMMEL, The Sociology of
Conflict – II –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 5 (Mar., 1904)», p. 685, traduzione nostra).
36
R. BRUBAKER, Cittadinanza e nazionalità cit., pp. 45 e 49.
37
M. WALZER, Sfere di giustizia, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 70.
38
«A group which was entirely centripetal and harmonious – that is, “unification” merely – is not only
impossible empirically, but it would also display no essential life-process and no stable structure. As the
cosmos requires “Liebe und Hass”, attraction and repulsion, in order to have a form, society likewise requires
some quantitative relation of harmony and disharmony, association and dissociation, liking and disliking, in
order to attain to a definite formation» (G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – I –, in «American Journal of
Sociology», Vol. 9, No. 4 (Jan., 1904), p. 491, traduzione nostra).
39
R. ESCOBAR, Paura e libertà cit., pp. 65-6.
40
Nonostante le riflessioni di Simmel si riferiscano ad un gruppo, all’associazione o più genericamente alla
società, in questo elaborato scritto si considerano tali referenti quali sinonimi per una “comunità di cittadini”,
per un “noi” che può leggersi come l’insieme dei cittadini. Ciò è possibile solo e solamente sfruttando la
nozione di cittadinanza come “appartenenza” e constatando che gruppo, associazione, società fanno capo al
concetto di «comunanza – l’unità sulla cui base l’opposizione si esaspera – [che] è l’appartenenza, o
l’“inclusione in una medesima connessione sociale”» (ibid., p. 71 e cfr. G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – I –
cit., p. 514).
41
«Opposition is not merely a means of conserving the total relationship, but it is one of the concrete
functions in which the relationship in reality consists. […] The impulse of hostility […] also occurs in quite
9
A questo punto, però, al fine di dare completezza a tale intuizione, è legittimo chiedersi perché il “noi”
acquisisca una propria identità (una propria “unità”) in maniera contrastiva, opponendosi ad un “non-noi”.
A questo scopo, può essere utile soffermarsi sull’analisi della vita nelle metropoli che compie il sociologo
berlinese:
«senza […] avversione, la vita in una metropoli, che quotidianamente mette a contatto ciascuno con
innumerevoli altri, non avrebbe alcuna forma concepibile. L’intera organizzazione interna a questo
commercio si basa su una gradazione estremamente complicata di simpatie, indifferenze e avversioni.
[…] A quasi tutte le impressioni ricevute da altre persone, l’attività della nostra mente risponde con una
qualche forma di sentimento preciso la cui inconsapevolezza, transitorietà e variabilità sembra
rimangano solo sotto forma di una certa indifferenza. In effetti, […] sarebbe intollerabile essere
sommersi da una moltitudine di suggestioni rispetto alle quali non abbiamo scelta. L’antipatia ci
protegge da questi […] pericoli tipici della metropoli. […] Produce le distanze e i tamponi senza i quali
questo modo di vivere non potrebbe essere condotto affatto».42
Senza il “non-noi”, il “noi” sarebbe esposto a “pericoli”, quali la “moltitudine di suggestioni” che
impediscono al “noi” di avere un’identità stabile, una forma definita, una sua “struttura”: è «il conflitto
[che] dà all’intero complesso delle personalità, [al “noi”], una struttura peculiare».43
Il “noi” è una struttura
ordinata che si percepisce e si costituisce come tale ponendosi in antitesi al “non-noi” che è “moltitudine”
caotica ed instabile, inconoscibile e inquietante perché a noi straniero, come tende a sottolineare la stessa
sociologia contemporanea. Per esempio, riferendosi alla modernità come fosse «a particular state of mind
[…], the time when one becomes conscious of being conscious of the need for order for the world, for
oneself and for society», Bauman sostiene che:
«la modernità ha a che fare con la produzione di ordine e questa ricerca di ordine è associata alla
soppressione e all’esclusione degli stranieri. L’Altro o lo straniero, dalla prospettiva della volontà-di-
ordine, incarna il caos e, di conseguenza, è una minaccia potenziale per i confini stabili e fissi che la
modernità ha stabilito».44
peculiar forms, namely, the impulse to act in relationships with others» (G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – I
– cit., pp. 493 e 505-6, traduzione nostra).
42
«Without […] aversion life in a great city, which daily brings each into contact with countless others, would
have no thinkable form. The whole internal organization of this commerce rests on an extremely complicated
gradation of sympathies, indifferences, and aversions. […] The activity of our minds responds to almost every
impression received from other people in some sort of a definite feeling, all the unconsciousness, transience,
and variability of which seems to remain only in the form of a certain indifference. In fact, […] it would be
intolerable to be swamped under a multitude of suggestions among which we have no choice. Antipathy
protects us against these […] typical dangers of the great city. […] It produces the distances and the buffers
without which this kind of life could not be led at all» (G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – I – cit., p. 494,
traduzione nostra).
43
«[…] conflict […] gives to the whole complex of personalities […] a peculiar structure» (G. SIMMEL, The
Sociology of Conflict – III –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 6 (May, 1904), p. 801, traduzione
nostra).
44
«Modernity is about the production of order and this search for order is associated with the suppression and
exclusion of strangers. The Other or the stranger, from the perspective of the will-to-order, epitomizes chaos
and thus is a potential threat to the stable and fixed boundaries modernity has established. […] At the very
heart of the modern project is a paradox. Modernity seeks to eliminate chaos and ambivalence, but
reproduces them» (V. MAROTTA, Zygmunt Bauman: Order, Strangerhood and Freedom, in «Thesis Eleven», Vol.
70, No. 1 (August 2002), p. 39, corsivo e traduzione nostri). In quest’articolo, l’autore si sofferma sul fatto che
«order and ambivalence are important themes in Bauman’s assessment and interpretation of modernity and
postmodernity. This concern with order and ambivalence has led Bauman to explore how the stranger comes
to symbolize the very ambivalence that the ordering impulse is attempting to destroy. Strangers threaten the
boundaries that the ordering process requires in order to impose stability and predictability on the social
world. In Bauman’s words, strangers “befog and eclipse the boundary lines which ought to be clearly seen”»
(ibid., p. 42, corsivo nostro) Moreover, «in Culture as Praxis Bauman […] illustrate[s] how rules of exclusion
provide not only the necessary ground to establish and reinforce cultural order, but also group cohesion»
(ibid., p. 44, corsivo nostro).
10
In sintesi ed in definitiva, dunque:
«la comunità [il “noi”] è un luogo ‘caldo’, un luogo accogliente e confortevole […]. Nella comunità ci si
può rilassare – siamo al sicuro, non ci sono pericoli che si profilano in angoli bui […]. In una comunità,
tutti noi ci comprendiamo bene l’un l’altro […]. Non siamo mai stranieri gli uni agli altri. [D’altra parte],
gli stranieri sono l’incarnazione dell’insicurezza (unsafety) e, quindi, rappresentano per traslazione
quell’insicurezza (insecurity) che tormenta la propria vita. [Ma], in un modo bizzarro nonché perverso, la
loro presenza è confortevole, persino rassicurante: le paure diffuse e sparse, difficili da individuare e da
indicare con un nome, ora hanno un bersaglio tangibile sul quale ci si può focalizzare, [perché] si sa dove
risiedono i pericoli […]. Finalmente, c’è qualcosa che si può fare».45
A questo punto, messi in risalto il come avvenga la creazione del “noi” (di una dimensione
dell’appartenenza) mediante la logica del “noi – non-noi” ed il perché sia necessaria una contrapposizione a
un “non-noi”, sarà opportuno soffermarsi su quest’ultimo aspetto, ultimo ‘ingrediente’ indispensabile per
la realizzazione della cittadinanza come “appartenenza”.
(2.3)	L’indispensabilità	dello	straniero
L’identità del cittadino della città comunale nel Basso Medioevo, del suddito-cittadino di uno Stato
sovrano agli albori della modernità come luogo d’incorporazione dei sudditi-cittadini e del cittadino come
parte integrante del popolo entro uno Stato-nazione in piena epoca moderna è strettamente connessa con
la figura di quello che di volta in volta può essere considerato straniero. La figura dello straniero evidenzia
efficacemente «la contemporaneità di inclusione ed esclusione nell’ambito d’azione della cittadinanza»,46
eppure va messo subito in chiaro in che senso lo si intende ai fini di questo discorso.
A partire dalle riflessioni di Simmel, lo straniero non va inteso «come il viandante che oggi viene e domani
va, bensì come colui che oggi viene e domani rimane – per così dire il viandante potenziale che, pur non
avendo continuato a spostarsi, non ha superato del tutto l’assenza di legami dell’andare e del venire».47
“Andare e venire” – la dimensione entro la quale egli si pone è sempre un doppio, sempre ambigua o,
quantomeno, sempre ambigua dalla prospettiva del “noi” che così la classifica e così la rifugge, pur traendo
notevoli vantaggi dal confronto con questa:
«la sua doppia posizione comunica incertezza,48
costringendo la società ospitante a ridefinire i propri
confini cognitivi. Data questa incertezza, all’interno di una data società i criteri che determinano
l’appartenenza vengono costantemente discussi e ricontestualizzati».49
È basandosi su tale ‘definizione’ di straniero che è possibile notare come egli si contraddistingua per
compendiare in sé «due opposte polarità: dal punto di vista spaziale, la mobilità e la stabilità; dal punto di
vista dei rapporti umani, dei sentimenti che sorreggono l’interazione, la distanza e la prossimità. [È così che
si può notare, inoltre, che] lo straniero non è […] semplicemente qualcuno che sta fuori del gruppo: egli
appartiene al gruppo in base a uno statuto che in gran parte lo esclude. I modi della sua esclusione
definiscono i modi della sua inclusione»,50
un’inclusione del tutto particolare, sì, ma sostantiva per
l’esistenza stessa della sua controparte – la figura del cittadino. Lo straniero è incluso perché escluso,
membro del “noi” in quanto membro del “non-noi”, lontano perché porta vicino al “noi” un elemento di
estraneità:
45
Cfr. Z. BAUMAN, Community: seeking safety in an insecure world, Polity, Cambridge 2001, pp. 145-6,
traduzione nostra.
46
E. GARGIULO, Leggere la modernità cit., p. 62.
47
G. SIMMEL, Sociologia, Edizioni di comunità, Torino 1998, Excursus sullo straniero, p. 580.
48
Si pensi ancora una volta a quanto veniva sostenuto nel paragrafo precedente, la logica del “noi – non-noi”:
la sicurezza e l’ordine contraddistinguono il “noi” nella misura in cui l’insicurezza ed il caos sono considerati
caratteristiche intrinseche al “non-noi”.
49
E. GARGIULO, Leggere la modernità cit., p. 66.
50
S. TABBONI, Vicinanza e lontananza cit., p. 37.
11
«[…] l’essere straniero è naturalmente una relazione del tutto positiva, una particolare forma di azione
reciproca […]. Lo straniero è un elemento del gruppo stesso, non diversamente dai poveri e dai
molteplici “nemici interni” – un elemento la cui posizione immanente e di membro implica
contemporaneamente un di fuori e un di fronte».51
Quindi, lo straniero è un prodotto inestinguibile della “logica dell’appartenenza”; è difficile «pensare
l’appartenenza di qualcuno a qualcosa (a una comunità, a un’organizzazione politica) senza immaginare
contestualmente un criterio di separazione, di precisazione di confini, di costruzione di un ‘dentro’ e di un
‘fuori’: la logica dell’appartenenza, la logica di […] un ‘gruppo-noi’, implica l’esistenza di “un’unità di azione
politica o sociale” che si costituisce “solo grazie a concetti che le permettano di circoscriversi e quindi di
escluderne altre, ossia di determinare e definire sé stessa».52
In questo senso, lo straniero, «figura di
estraneità nei riguardi di un gruppo socio-politico qualsivoglia, […] sembra mantenere la medesima
fisionomia di fronte al clan tribale, alla polis greca, alla città medievale, allo Stato moderno».53
Cercando di delineare molto sommariamente tale “fisionomia” dello straniero con alcuni cenni storici, si
può notare che, già per quanto riguarda il discorso della cittadinanza medievale, è molto forte la tendenza a
plasmare un “noi” – un ‘dentro’ sicuro e stabile – in contrapposizione ad un “non-noi” – un ‘fuori’ insicuro e
caotico –. Nel Medioevo infatti:
«il legame con la terra, con la città, con il signore è strettissimo: la condizione dello straniero è per lungo
tempo penalizzata – si pensi al famigerato droit d’aubaine –54
e altrettanto forte è la tendenza della città
a chiudere entro la cerchia della sua iurisdictio il regime delle appartenenze e dei privilegi, salvo
concedersi oculate eccezioni […]. Quanto più il momento dell’autonomia [della singola parte, della città,
del feudo, del regno] è forte, quanto più domina la logica del corpo e dell’appartenenza inclusiva, come
nella città, tanto più la figura dello straniero si staglia nettamente contrapposta a quella del cittadino».55
Anche agli albori della modernità, quando «la solidarietà corporatista, l’intreccio di legami che
cementano l’ordine, che sono l’ordine, è […] rafforzata in modo decisivo dalla convergenza di tutti sul
sovrano»,56
«viene confermato l’antico gioco, che tanto più drammatizza l’estraneità quanto più esalta
l’appartenenza».57
Per esempio, in un mondo dove la cittadinanza si “territorializza” e si lega, con
riferimenti ad Hobbes per esempio, all’incorporazione dei cittadini entro il “corpo” del sovrano (il quale,
non casualmente, è garante dell’ordine, della sicurezza individuale e collettiva di un ‘dentro’):
«mutano le caratteristiche strutturali del fenomeno pauperistico che, soprattutto a partire dal XVI
secolo, si intreccia con rilevanti fenomeni ‘migratori’ (dalla campagna alla città, da una città ad un’altra
città): i ‘poveri’ formano spesso gruppi di ‘vagabondi’ e ‘mendicanti’ che le città non intendono più
soltanto assistere caritatevolmente ma, [in quanto stranieri], vogliono controllare e neutralizzare.
[Inoltre, parallelamente], una sfida [ancora] più consistente alla tradizionale concezione dell’ordine
potrebbe provenire semmai, agli inizi del Cinquecento, dalla percezione di un’alterità più radicale,
dall’introduzione di una nuova, inedita figura di estraneità, [anche se questa supera la categoria dello
straniero presa in considerazione in questo lavoro]: il ‘selvaggio’ delle nuove terre scoperte e
conquistate, un ‘altro’ non contiguo ma remoto, un altro tanto estraneo da renderci difficile il
riconoscere, “al limite, […] la nostra comune appartenenza ad una medesima specie”».58
Cittadini di una ‘patria’ da un lato, di contro a ‘vagabondi’ e ‘selvaggi’ senza ‘patria’ dall’altro. ‘Vagabondi’
e ‘selvaggi’ senza ‘patria’ indispensabili per la costituzione stessa dei cittadini di una ‘patria’. Ciò emerge
chiaramente in piena età moderna, quando, «nel rapporto di appartenenza dell’individuo alla nazione,
51
G. SIMMEL, Sociologia cit., p. 580, corsivo nostro.
52
P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento, p. 43.
53
Ibid., p. 44.
54
«Aubain è colui che non ha allégeance personale con il signore della terra: da qui il diritto ereditario del
signore feudale e poi del re» (P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al
Settecento, nota 148, p. 598).
55
Ibid., p. 45.
56
Ibid., p. 78.
57
Ibid., p. 119.
58
Ibid., pp. 120-1.
12
l’opposizione cittadino/straniero continua ad esprimere tutta la sua forza».59
Così in maniera emblematica,
negli anni della rivoluzione francese, quando si pongono le fondamenta per la nascita dello Stato-nazione
(ove «il rapporto dei soggetti con la civitas è […] tanto forte quanto diretto, [ove] ciascuno interagisce con
gli altri e tutti insieme costituiscono il corpo che li include, li protegge, li realizza»),60
si argomentano i criteri
dell’esclusione:
«dandola per ovvia nel caso dei minori, ritenendo un “pregiudizio estremamente radicato” e per il
momento immodificabile l’impossibilità di attribuire diritti politici alle donne e infine ribadendo la
necessità di escludere dalla cittadinanza attiva alcune classi di soggetti in ragione della loro posizione
nella società, o perché sradicati e marginali (i mendicanti, i vagabondi [ma anche gli ebrei, ad esempio])
o perché dipendenti “dall’arbitrio di un padrone” (come i domestici). [Infatti] l’elemento primario e
fondante è la nazione come insieme di ‘tutti’ i soggetti eguali (che però prevede almeno due criteri di
esclusione, lo straniero, per un verso, il ‘privilegiato’, per un altro verso) [in quanto condividono una
stessa posizione verso la ‘patria’ comune: esercitano] un impegno politicamente ‘costruttivo’ che vuole i
soggetti non solo liberi, ma anche inclusi, liberi perché inclusi in [un] ordine che coincide con il loro
appartenere ad esso e riconoscersi in esso».61
Appartenere ad una nazione per essere cittadino non comporta la creazione dello straniero come sua
logica conseguenza; piuttosto, giunti a questo punto, si è tentati di ritenere che sono l’esistenza stessa e la
necessità di distinguersi dallo straniero che comportano la creazione del sentimento e della volontà di
appartenere (attivamente) ad una nazione dalla quale egli, in quanto elemento perturbante, sia escluso.
Conclusione
«[…] sin dagli inizi della storia, tanto nelle piccole che nelle grandi cose, sono le influenze esterne che
determinano lo sviluppo caratteristico dei singoli popoli. […] Molto spesso vediamo che lo stimolo
proviene dagli “stranieri”».62
A partire da questa constatazione, l’autore di queste righe accennava poi a quanto potesse essere
interessante ed estremamente utile riscrivere l’intera storia a partire dalla prospettiva dello straniero.
Indubbiamente, si tratta di una pista di ricerca storiografica che potrebbe essere fondamentale anche per il
discorso sulla cittadinanza qui preso in esame. Se infatti il concetto di cittadinanza è ancora oggi
strettamente connesso alla dimensione dell’appartenenza, dimensione che non può che emergere
sfruttando la logica del “noi – non-noi”, allora soffermarsi ulteriormente sul tema dello straniero è
fondamentale. Senza lo straniero, non c’è il cittadino; senza la non-cittadinanza, non c’è cittadinanza. Ciò
vale, ovviamente, se s’intende la cittadinanza come appartenenza, in senso etno-culturale o socio-politico,
mentre diventa un discorso infondato se si prende in esame una nozione formale di cittadinanza, incentrata
sui diritti e doveri del cittadino. Eppure, a dispetto di quest’ultima, la prospettiva della cittadinanza come
appartenenza in una certa misura rimane valida, se è vero che il discorso della cittadinanza ancora oggi
risente l’influsso del concetto di Stato-nazione,63
se ancora oggi si vuole riflettere sul fatto che essere
cittadino italiano non significa essere un italiano, se ancora oggi dire cittadino francese piuttosto che
cittadino tedesco ha un senso – sia pure un senso che si ricava in maniera contrastiva attraverso la figura
dello straniero per il francese e dello straniero per il tedesco.
59
P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. II – L’età delle rivoluzioni, p. 94.
60
Ibid., p. 389.
61
Ibid., pp. 29 e 91.
62
Cfr. W. SOMBART, Il capitalismo moderno, Utet, Torino 1978, Gli stranieri, p. 279.
63
Cfr. R. BRUBAKER, Cittadinanza e nazionalità cit., p. 57.
13
Bibliografia
MONOGRAFIE
 BAUMAN, Z., Community: seeking safety in an insecure world, Polity, Cambridge 2001.
 BRUBACKER, R., Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, Il Mulino, Bologna, 1997.
 COSTA, P., Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1999.
 ESCOBAR, R., Paura e libertà, Morlacchi, Perugia 2009.
 MARSHALL, T. H., Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma-Bari 2002.
 SIMMEL, G., Sociologia, Edizioni di comunità, Torino 1998.
 TABBONI, S. Vicinanza e lontananza: modelli e figure dello straniero come categoria sociologica.
Elias, Merton, Park, Schutz, Simmel, Sombart, Angeli, Milano 1993.
 WALZER, W., Sfere di giustizia, Laterza, Roma-Bari, 2008.
ARTICOLI
 BACCELLI, L., Cittadinanza e appartenenza, in D. ZOLO, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti,
Laterza, Roma-Bari 1994.
 GARGIULO, E., Leggere la modernità e le sue tensioni: la cittadinanza come chiave di lettura
simmeliana, in Simmel e la cultura moderna. Interpretare i fenomeni sociali, 2 voll., a cura di C.
Corradi, D. Pucelli, A. Santambrogio, Morlacchi, Perugia 2010.
 GOSEWINKEL, D., Citizenship, Historical Development of, in N. J. SMELSER – P. B. BALTES, International
Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences, Elsevier, Oxford 2001.
 MAROTTA, V., Zygmunt Bauman: Order, Strangerhood and Freedom, in «Thesis Eleven», Vol. 70, No.
1 (August 2002).
 SOMBART, W., Gli stranieri, in Il capitalismo moderno, Utet, Torino 1978.
 VERTOVA, F. P., Cittadinanza liberale, identità collettive, diritti sociali, in D. ZOLO, La cittadinanza.
Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994.
SITOGRAFIA
 L. G. BAGLIONI, Capire le disuguaglianze attraverso la cittadinanza (dispense per studenti), Firenze
2008,[https://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:IobnscgJTMwJ:keynesiano.files.wordpress.co
m/2009/12/capiredisuguaglianze.pdf+&hl=it&gl=it&pid=bl&srcid=ADGEESjsZvtvnbKh68LuA0qqwB2
XRspjybBpMzT8si01ANwZ8eUhT20QxyQ6hvERuWJ100VBUd0Y7YiW8c2PLhkFqno98Kl9blNK4bgZf2L
1GNYRCJR6L-qy2jXVMCwV693EA7nvB9C7&sig=AHIEtbTWRM8vcwlcwFipdwBV4xmu55sJkQ].
 SIMMEL, G., The Sociology of Conflict – I –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 4 (Jan.,
1904), [http://www.jstor.org/stable/2762175].
 SIMMEL, G., The Sociology of Conflict – II –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 5 (Mar.,
1904), [http://www.jstor.org/stable/2762103].
 SIMMEL, G., The Sociology of Conflict – III –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 6 (May,
1904), [http://www.jstor.org/stable/2762092].

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La cittadinanza come appartenenza

  • 1. TESINA DI STORIA MODERNA – LM La cittadinanza come appartenenza Docente: Bellabarba Marco Studente: Aluigi Matteo Anno accademico 2011/2012
  • 2. 1 Sommario Introduzione ...................................................... 2 (1) Cittadinanza come appartenenza ................ 2 (2) Appartenenza: elementi ............................... 4 (2.1) La dimensione dell’appartenenza ........... 5 (2.2) La logica del “noi – non-noi” ................... 7 (2.3) L’indispensabilità dello straniero .......... 10 Conclusione ..................................................... 12 Bibliografia ...................................................... 13
  • 3. 2 Introduzione Il presente elaborato scritto è un azzardo. S’azzarda a sostenere l’idea che la cittadinanza si fondi sulla non-cittadinanza (o meglio che la non-cittadinanza giochi un ruolo fondamentale per la definizione di cittadinanza). Ponendo l’enfasi su una particolare nozione di appartenenza, insita nel concetto di cittadinanza secondo il modello repubblicano, si porta l’attenzione sulla logica del “noi – non-noi”, sul meccanismo inclusivo ed allo stesso tempo esclusivo sotteso all’appartenenza. Di qui, seguendo il valore esclusivo della cittadinanza, si sviluppa una riflessione sul tema dello straniero, prendendo le mosse a partire dalle analisi sociologiche di Georg Simmel. Quindi, ci si sofferma sulla centralità di questa figura, contrapposta a quella del cittadino; se quest’ultimo acquisisce la propria identità in maniera contrastiva, allora lo straniero, il non-cittadino, diventa sostanziale per la sua stessa costituzione. Seguendo questa chiave di lettura del concetto di cittadinanza, in ultima istanza se ne ricava che l’esistenza del cittadino dipende strettamente da quella dello straniero, perlomeno in un contesto storico come quello caratterizzato dalla formazione dello Stato-nazione, entro il quale il cittadino matura un forte senso di appartenenza. (1) Cittadinanza come appartenenza Il concetto di cittadinanza è ampio ed articolato. Onde evitare ambiguità di sorta, è allora opportuno precisare sin dall’inizio in quale senso, all’interno di questo lavoro, ci si riferisce ad esso. Stando alla definizione dell’International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences: «cittadinanza significa appartenenza a una comunità politica. In quanto appartenenza, la cittadinanza conferisce lo status di uguaglianza tra tutti i cittadini per quanto riguarda i diritti e doveri che tale status comporta. […] Quest[o] significat[o] fondamental[e] della cittadinanza si applica a tutte le fasi storiche che la formazione della cittadinanza come oggetto e concetto ha attraversato».1 In maniera del tutto similare, in Cittadinanza e classe sociale – opera che ha «valore paradigmatico per comprendere gli sviluppi del pensiero politico europeo occidentale» –2 , il sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall scrive: «la cittadinanza è uno status che viene conferito a coloro che sono membri a pieno diritto di una comunità. Tutti quelli che posseggono questo status sono uguali rispetto ai diritti e ai doveri conferiti da tale status».3 L’idea che il concetto di “appartenenza” (membership) sia centrale, per quanto riguarda il discorso sulla cittadinanza, è quindi assodata. D’altronde, si tratta di una posizione già ampiamente condivisa dal “filone comunitario”, una delle prospettive teoriche più pregnanti per lo studio del concetto in questione.4 «La cittadinanza è sorretta da due cardini fondamentali, quello relativo all’assetto dei diritti del cittadino (ma anche dei suoi doveri) e quello relativo all’appartenenza del cittadino ad una comunità. A questo proposito, a seconda che si privilegi l’uno o l’altro dei caratteri definitori, si danno convenzionalmente due distinte interpretazioni idealtipiche del concetto. Quella riconducibile al filone liberale o fondazionista pone l’accento sulla tematica dei diritti, che in quanto attributi intrinseci dell’individuo 1 D. GOSEWINKEL, Citizenship, Historical Development of, in N. J. SMELSER – P. B. BALTES, International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences, Elsevier, Oxford 2001, pp. 1852-3. 2 S. MEZZADRA, Introduzione, in T. H. MARSHALL, Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma-Bari 2002, p. V. 3 L. G. BAGLIONI, Capire le disuguaglianze attraverso la cittadinanza (dispense per studenti), Firenze 2008, p. 9. 4 «La tesi principale che le teorie comunitarie della cittadinanza cercano di dimostrare è che i diritti di cittadinanza si fondano sull’appartenenza a una determinata società, e che fra di essi sono compresi anche i diritti sociali, allo stesso titolo di quelli civili e politici» (F. P. VERTOVA, Cittadinanza liberale, identità collettive, diritti sociali, in D. ZOLO, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 186).
  • 4. 3 godono di una superiorità logica e morale rispetto ad ogni tipo di appartenenza, fondando la base della cittadinanza sulla democraticità e sulla supposta auto-evidenza del carattere tendenzialmente universale dei diritti, prescindendo però da qualsiasi altro riferimento di tipo culturale. L’interpretazione relativa al filone comunitario collega i diritti ad un particolare tipo di società, facendo prevalere le caratteristiche culturali della specifica appartenenza sociale dell’individuo su ogni altra considerazione di tipo giusnaturalistico».5 A ben vedere, allora, il concetto di “appartenenza” caratterizza tanto la prospettiva teorica “liberale” quanto quella “comunitaria” (nonostante qui sia fatto “prevalere”). Tuttavia la grande differenza tra i due consiste nel far riferimento a due nozioni differenti di “appartenenza”. Se il “filone liberale” abbraccia «una nozione “formale” [di appartenenza], coincidente con i criteri giuridici attraverso cui gli appartenenti sono distinti dai non appartenenti», il “filone comunitario” preferisce una «nozione “sostanziale” [di appartenenza], coincidente con i criteri pre-giuridici (emotivi, antropologici, psicologici) che identificano gli appartenenti e che possono poi legittimare, sul piano etico-politico, l’adozione di determinati criteri giuridici».6 Ora, da un canto, è vero che «il nesso tra diritti di cittadinanza e appartenenza sussiste pienamente [solo] se intendiamo […] l’appartenenza come un riconoscimento giuridico, [secondo il “filone liberale” dunque]».7 Infatti, «se intendiamo l’appartenenza [secondo “criteri pre-giuridici”, secondo il “filone comunitario”], rischiamo di non parlare effettivamente dei cittadini: «un forte sentimento di fedeltà nei confronti della propria comunità, oppure […] un coinvolgimento attivo nella vita pubblica, [denotano una] forma di appartenenza [che] non è una condizione necessaria perché un cittadino sia titolare dei diritti di cittadinanza, [poiché] egli ne è comunque titolare, a prescindere dalla natura del suo comportamento pubblico. Allo stesso tempo, l’appartenenza intesa in questo senso non è nemmeno una condizione sufficiente: uno straniero – ad esempio il figlio, nato in Italia, di una coppia di immigrati – può nutrire un forte senso di attaccamento e di lealtà verso la comunità nazionale in cui vive; tuttavia egli rimane escluso dai diritti di cittadinanza».8 Eppure, dall’altro lato, è altrettanto vero che «la cittadinanza […] non è semplicemente una formula legale [definibile “formalmente” secondo i “criteri pre-giuridici”, sui quali insiste il “filone liberale”]; è anche un fatto di crescente rilevanza sociale e culturale».9 Si pensi, per esempio al fatto che, in età moderna, centrale per la definizione di cittadinanza è il concetto di stato e «lo stato pretende di essere lo stato di, e per, una comunità di cittadini particolare e delimitata. [E] questa comunità delimitata di cittadini è concepita solitamente come una nazione – qualcosa di più coesivo di un mero aggregato di persone cui accade giuridicamente di appartenere allo stato».10 Scrive Brubaker che: «lo stato moderno non è semplicemente un’organizzazione territoriale ma è una organizzazione di appartenenza. [Da un canto], che ci si focalizzi sulla territorialità è comprensibile. La sociologia dello stato si è sviluppata analizzando la transizione dall’ordinamento politico medievale, che consisteva essenzialmente in una rete di persone, allo stato moderno, [entro il quale] un aspetto cruciale […] è […] la territorializzazione del governo. Ma la focalizzazione storica su tale transizione e l’enfasi concettuale sulla territorialità hanno oscurato un altro aspetto dello sviluppo dello stato moderno […]: la divisione della popolazione mondiale in un insieme di comunità di cittadini circoscritte e reciprocamente esclusive. […] Territorio e appartenenza sono strettamente collegati. Anzi il territorio politico, […] un territorio delimitato il cui accesso è controllato dallo Stato, presuppone l’appartenenza».11 Pertanto il richiamo ad una nozione “sostanziale” di appartenenza secondo il filone comunitario non è fuori luogo per quanto riguarda il discorso sulla cittadinanza. Lo stesso Marshall ribadisce che quest’ultima 5 Ibid., p. 14. 6 E. GARGIULO, Leggere la modernità e le sue tensioni: la cittadinanza come chiave di lettura simmeliana, in Simmel e la cultura moderna. Interpretare i fenomeni sociali, 2 voll., a cura di C. Corradi, D. Pucelli, A. Santambrogio, Morlacchi, Perugia 2010, vol. I, p. 59. 7 Ibid., p. 60. 8 Ibidem. 9 R. BRUBAKER, Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, Il Mulino, Bologna, 1997, p. 48. 10 Ibid., p. 46. 11 Ibid., pp. 45-8.
  • 5. 4 «richiede un legame di genere differente, una percezione diretta dell’appartenenza alla comunità, appartenenza fondata sulla fedeltà a una civiltà che è possesso comune».12 A questo punto, seguendo il filone comunitario, è possibile addentrarsi in un’analisi “esistenzialmente significativa” del concetto di “appartenenza”,13 trattando il quale si vuole parlare dei meccanismi sottesi alla nozione di cittadinanza. (2) Appartenenza: elementi Per studiare la cittadinanza come “appartenenza sostanziale”, la si potrebbe scomporre in più elementi. Così, in primo luogo, «il tratto che più precocemente emerge è la dimensione dell’appartenenza, la convinzione dell’impossibilità di separare il soggetto (cittadino) da una totalità sociale che lo accoglie, lo disciplina, lo protegge, lo realizza. [Ed] il nesso forte che la cultura medievale e post-medievale instaura fra il soggetto e il ‘corpo’ politico, fra l’individuo e la città non è destinato ad esaurirsi con il venir meno delle condizioni storiche che lo hanno generato: è un tema di fondo del discorso della cittadinanza […], un’ininterrotta mitopoiesi che prima assume come proprio referente la città e poi trasferisce e trasforma l’antico gioco nella nuova cornice dello Stato-nazione».14 Il primo elemento da tenere in considerazione è quindi lo spazio comune, la comunità (sia essa la città o lo Stato-nazione), quale dimensione al di fuori della quale non si dà una definizione di cittadinanza. Secondo i teorici del filone comunitario: «è l’appartenenza a una comunità a definire, almeno in parte, ciò che gli individui sono. Una concezione ‘costitutiva’ di comunità è dunque indispensabile [persino] per una nozione autentica di soggettività».15 Detto questo, in secondo luogo, «fra i molti vincoli che […] il discorso della cittadinanza tende per lo più a rispettare, una regola appare difficilmente aggirabile: la regola che associa alla rappresentazione dei soggetti e dei loro diritti la determinazione di un ‘dentro’ e di un ‘fuori’, […] di un ‘noi’ e un ‘loro’, di un sistema di differenze che, sempre nuovo e quasi irriconoscibile, tende tuttavia a riproporsi ostinatamente nei più diversi contesti».16 In altri termini, il secondo elemento di grande rilievo è la logica sottesa al concetto di “appartenenza”, la logica problematica (poiché tanto inclusiva quanto esclusiva) del “noi – non- noi”: «il dibattito attuale è […] contraddistinto […] da una consapevolezza della problematicità dell’appartenenza politica, comunque definita. [Tale consapevolezza invece] non poteva che essere del tutto estranea a Marshall. [Infatti] l’immagine della cittadinanza da lui proposta nelle lezioni del ’49 era fortemente inclusiva e progressiva, e proprio in questo consiste una parte significativa del suo valore di documento storico; ma per la stessa ragione non si troveranno nel testo considerazioni su quella determinazione esclusiva della cittadinanza – sui suoi confini – che è oggi in particolare al centro della discussione, [quale quella] assai vivace su cittadinanza e immigrazione».17 12 T. H. MARSHALL, Cittadinanza e classe cit., p. 43. 13 D’altronde una critica caustica ad una considerazione eccessivamente “formale” e giuridica del concetto di cittadinanza era già stata mossa da Marx in Sulla questione ebraica. Qui, analizzando i «diritti dell’uomo e del cittadino menzionati nella “costituzione più radicale, la Costituzione del 1793”», il filosofo renano nota che «la cittadinanza, la comunità politica viene abbassata [persino] dagli emancipatori politici [rivoluzionari] a mero mezzo per la conservazione [dei] cosiddetti diritti dell’uomo» (cfr. P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1999, vol. II – L’età delle rivoluzioni, pp. 571-609). «L’alienazione di un’esistenza divisa fra l’egoismo terreno della società civile e l’immaginaria appartenenza alla comunità politica» così non viene meno; l’emancipazione reale, secondo Marx, non si può realizzare se si continuano a tenere in piedi “sciocchezze sui trampoli”, nozioni eccessivamente astratte e “formali” (come quella di cittadinanza in seno alla Costituzione del 1793) e non concrete e “sostanziali”, ossia “esistenzialmente significative” (Ibid., p. 584). 14 P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento, pp. XIX-XX. 15 L. BACCELLI, Cittadinanza e appartenenza, in D. ZOLO, La cittadinanza cit., p. 135. 16 P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento, p. XXI. 17 S. MEZZADRA, Introduzione, in T. H. MARSHALL, Cittadinanza cit., pp. XXVIII-XXIX.
  • 6. 5 In terzo luogo, segue a mo’ di corollario del secondo elemento il fatto che il “loro”, il “non-noi” – che viene a crearsi in contrapposizione agli appartenenti ad una comunità (ad una città, ad uno Stato-nazione) – non è semplicemente conseguenza, effetto della creazione di un “noi”. Infatti è interessante notare che molti autori ribadiscono il ruolo causale, costitutivo del “non-noi” ai fini della creazione di un “noi”, sottolineando che «una comunità culturale […] richiede, per realizzarsi, [e, quindi, si realizza tramite] l’identificazione di un estraneo culturale e la sua emarginazione».18 «Lo straniero/nemico può esserci indispensabile: [solo] contrapponendoci a lui, abbiamo coscienza di noi».19 In sintesi, il terzo elemento è l’indispensabilità dello straniero per la creazione del cittadino. (2.1) La dimensione dell’appartenenza Per analizzare il primo elemento, ossia la dimensione dell’appartenenza, ripercorriamo alcune delle tappe storiche fondamentali dell’evoluzione del concetto di cittadinanza. Risalendo al Medioevo, si può notare molto chiaramente come, senza una dimensione dell’appartenenza, non solo non si può parlare di cittadinanza e cittadino ma neppure di uomo. «Il cittadino medievale [infatti] era raffigurabile mediante una metafora corporatista: egli era parte di un “corpo”, costituiva l’articolazione di un tutto differenziato nelle sue parti».20 A titolo emblematico, per esempio, nel breve Trattato di Remigio de’ Girolami, scritto nei primi del Trecento, balza con evidenza l’importanza della cittadinanza per l’individuo, «che non è pensabile al di fuori della relazione costitutiva con la città: “si non est civis non est homo”».21 È «la città [come la città italiana, in tutto l’arco della sua vicenda istituzionale, dal comune alla signoria] dunque, in quanto ordine e corpo, [che] fonda e rende possibile l’azione dei suoi membri e questa a sua volta trova nell’ordine la propria regola e la propria finalità».22 Così ci si può spingere sino a sostenere che «la cittadinanza come appartenenza e inclusione trova espressione in un termine che il mondo antico e Agostino trasmettono al discorso politico medievale: il termine ‘patria’».23 E quando si parla di ‘patria’, «non si tratta […] di un’espressione meramente esornativa»: per autori quali lo stesso Remigio, «il rapporto del cittadino con la città è un [vero e proprio] rapporto d’amore», è amor patriae.24 Pertanto la ‘patria’ costituisce più propriamente la dimensione dell’appartenenza, già per il cittadino medievale; e quest’ultimo non può che porsi in “un rapporto d’amore” con tale dimensione, poiché è qui che hanno origine quel “corpo” e quell’“ordinata appartenenza” al di fuori dei quali egli stesso non è pensabile. Entrando in epoca moderna, ne Les six livres de la république, pubblicato nel 1576 e contenitore di una teoria della «cittadinanza come relazione diretta con il sovrano», le riflessioni di Bodin potrebbero far pensare ad un’eliminazione dello «schema della cittadinanza corporatista»,25 ad un venire meno della centralità della dimensione dell’appartenenza a favore della dimensione dell’obbedienza. Infatti: «vengono […] a profilarsi due schemi di cittadinanza concettualmente distinti: se nell’appartenenza alla città prevale una dimensione corporatista che esalta l’inclusione del soggetto nella comunità e da questa fa discendere gli oneri e i privilegi dei singoli membri, nella relazione di sudditanza-cittadinanza è preminente il regime degli obblighi reciproci (obbedienza e fedeltà contro protezione e giustizia), mentre la partecipazione appare problematica e l’inclusione, per così dire, si ‘territorializza’, si confonde con il radicamento del soggetto nella zona d’influenza del sovrano».26 18 S. TABBONI, Vicinanza e lontananza: modelli e figure dello straniero come categoria sociologica. Elias, Merton, Park, Schutz, Simmel, Sombart, Angeli, Milano 1993, p. 20. 19 R. ESCOBAR, Paura e libertà, Morlacchi, Perugia 2009, p. 62. 20 E. GARGIULO, Leggere la modernità cit., p. 51. 21 P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento, p. 22. 22 Ibid., p. 20. 23 Ibidem. 24 Ibid., p. 22. 25 Ibid., p. 79. 26 Ibid., p. 80.
  • 7. 6 Ma, in realtà, «i profili non sono così netti perché le ‘due cittadinanze’ non si elidono ma si integrano: per cui l’individuo passa attraverso il filtro dei corpi, delle comunità, dell’inclusione ed il suo rapporto con il sovrano presuppone comunque la disposizione ordinata, gerarchica, della società. […] La sudditanza- cittadinanza e la cittadinanza-inclusione […] continuano variamente ad intrecciarsi nella cultura e nella società di antico regime».27 La dimensione dell’appartenenza è ancora fondamentale: «il principio corporatista, che [ad esempio] permette la legittimazione della resistenza e la contestazione della nuova e minacciosa sovranità, è lo stesso principio che fa ancora dell’appartenenza e dell’inclusione la condizione costitutiva del soggetto».28 Nella Francia sei-settecentesca, invece, inizierà a circolare «un’espressione, ‘nazione’, che possiede […] una sicura valenza politica, designando in generale il legame che intercorre tra una collettività e una qualche forma di sovranità [ma, soprattutto,] il momento politicamente unitario di un insieme di soggetti».29 E, quando Sieyès pubblica il Saggio sui privilegi e lo scritto Che cos’è il Terzo Stato agli albori della rivoluzione francese tra il 1788 ed il 1789, egli «distilla nella sua idea di nazione la linfa vitale del corporatismo cittadino»:30 «[…] è in rapporto alla nazione e alle condizioni che definiscono l’appartenenza ad essa che i soggetti si determinano […]. È in rapporto alla nazione […] che si gioca il rapporto di cittadinanza: l’appartenenza dei singolo soggetti alla nazione, […] eredita la capacità inclusiva e la dimensione politica della città [e, ad un tempo,] proietta l’unità corporatista del ‘piccolo Stato’ sull’orizzonte, di gran lunga più ampio e complesso, di un ‘grande Stato’ dell’Europa di fine Settecento».31 Con la rivoluzione francese e a partire da essa, allora, si rinvigorisce ulteriormente la dimensione dell’appartenenza, insistendo sulla centralità dell’idea di nazione. In tale contesto: «il momento ‘corporatista’, collettivo, inclusivo, della nazione viene a giocare un ruolo tanto fondamentale quanto quello dei diritti, della proprietà, della libertà. [E, nonostante] diritti, sovranità e appartenenza si sono continuamente e variamente intrecciati nel discorso della cittadinanza, [qui siamo] di fronte ad un’innovazione significativa: […] nel discorso rivoluzionario della cittadinanza l’ordine dei diritti è un momento irrinunciabile dell’ordine complessivo, è la sua destinazione di senso, ma nello stesso tempo esso è annunciato, ‘dichiarato’ entro un processo che trova nella forza inclusiva e nell’energia costituente della nazione l’indispensabile elemento propulsivo».32 A dispetto della centralità dell’aspetto giuridico, nel discorso della cittadinanza, l’“indispensabile elemento propulsivo” ancora in piena età moderna sembra essere la dimensione dell’appartenenza. E l’appartenenza ad una nazione nel Settecento ed Ottocento appare legata alla sudditanza-cittadinanza 27 Ibidem. 28 Ibid., p. 87. In maniera paradigmatica: «la sudditanza-cittadinanza è insomma un legame pur sempre filtrato dalle differenze e appartenenze: l’individuo [che, pian piano, emerge in quanto tale in epoca moderna] quindi non è, in ogni aspetto della sua esistenza pubblica, cittadino in quanto suddito, ma lo è soltanto per un aspetto (più o meno) rilevante della sua dimensione socio-politica» (ibid., p. 95). Tuttavia si potrebbe obiettare che, almeno in Hobbes, «il cittadino sia [davvero] il suddito», poiché la condizione ‘civile’ (l’esistenza del cittadino) dipende strettamente dall’uscita dalla condizione ‘umana’ (l’esistenza dell’uomo, che è homini lupus) mediante il pactum subiectionis. Ma si tratterebbe di un’obiezione debole poiché «il sovrano non è il vertice di un ordine già dato, [bensì] la testa di un corpo sociale [che gli preesiste e lo inventa]: il carattere inclusivo della cittadinanza, che come espressione dell’antica logica corporatista sembrava destinato a scomparire, sostituito dalla logica potestativa della sovranità ‘assoluta’, torna a farsi sentire nel meccanismo di incorporazione innescato dalla persona rappresentativa del sovrano. […] La sovranità inventata, la persona artificiale, ricomprende in sé e rinnova a suo modo il principio dell’appartenenza e dell’inclusione» (ibid., pp. 174-5 e 183, corsivo nostro). 29 P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. II – L’età delle rivoluzioni, p. 10. 30 Ibid., p. 19. 31 Ibid., pp. 18-9. 32 Ibid., p. 27.
  • 8. 7 (l’appartenenza ad uno Stato-nazione, appunto) ma, indubbiamente, anche, e soprattutto, alla cittadinanza-inclusione (l’appartenenza ad un ‘noi’ che è il popolo):33 «In questo scenario […] il momento dell’appartenenza continua ad avere il massimo rilievo, ma la comunità politica alla quale il cittadino appartiene è un popolo che non tanto si realizza nei suoi rappresentanti, nel governo, nelle istituzioni quanto si contrappone ad essi. […] Cittadino è colui che, indipendente dal governo, privo di qualsiasi investitura istituzionale, esercita la virtù civica […]. La cittadinanza è un’appartenenza che evoca il popolo come soggetto collettivo e ha come contenuto la virtù. È la virtù che diviene una delle più forti legittimazioni del governo rivoluzionario e la pietra di paragone della cittadinanza. [E] la virtù è […] comprensione dell’interesse generale, azione orientata al bene comune; la virtù è, come voleva Montesquieu, il principio portante della repubblica. È amore per l’eguaglianza, è amor di patria: virtù, patria, democrazia si implicano a vicenda, dal momento che “soltanto in un regime democratico lo Stato è veramente la patria di tutti gli individui che lo compongono”».34 Città comunale del Basso Medioevo come ‘patria’ per la comunità dei cittadini, Stato sovrano agli albori della modernità come luogo d’incorporazione dei sudditi-cittadini, Stato-nazione in piena epoca moderna nuovamente come ‘patria’ per il popolo – è evidente che la dimensione dell’appartenenza, di un’appartenenza di natura “sostanziale”, tende a configurarsi come costitutiva del concetto di cittadinanza. A questo punto è necessario compiere un passo ulteriore e chiedersi come sia possibile che si crei questa dimensione dell’appartenenza; chiedersi, in generale, quali siano i meccanismi che stanno alla base della nascita della cittadinanza come appartenenza. (2.2) La logica del “noi – non-noi” Come si è potuto constatare, il discorso sulla cittadinanza, seppure declinato nel suo significato particolare di “appartenenza”, si vincola a numerosi elementi. Solo per riepilogarne alcuni: corpo, ordine, città, individuo, sovrano, stato, popolo, patria, nazione. Mentre tutti questi sono ‘ingredienti’, ciascuno dei quali contribuisce ad apportare il proprio ‘tocco’, convergendo con gli altri, nel discorso sulla cittadinanza, quest’ultimo non può prescindere dalle regole procedurali della ‘ricetta’. E tra queste regole, che sembrano imprescindibili per concepire la cittadinanza come “appartenenza”, ve n’è una in particolare che è in grado di far luce sul come possa emergere una dimensione dell’appartenenza: 33 Generalizzando, l’appartenenza come sudditanza-cittadinanza e l’appartenenza come cittadinanza- inclusione denotano due sensi di appartenenza (e, quindi, due modi di percepire l’“identità” nazionale) ben distinti. Nel primo caso, dove l’accento cade sullo Stato-nazione (come in Francia), il senso di appartenenza è prevalentemente politico-culturale mentre nel secondo caso, dove l’accento cade sul popolo-nazione (come in Germania), è soprattutto etno-culturale. Il presente elaborato scritto fa maggior riferimento a quest’ultimo, anche se trattando la cittadinanza come appartenenza in generale, non è escluso che le argomentazioni qui riportate non abbiano alcun valore relativamente al primo senso di appartenenza. A sostegno di quest’affermazione, si tenga presente che la differenza tra questi due sensi di appartenenza emerge solo molto lentamente, in un momento molto tardo dell’epoca moderna: «nella misura in cui la discussione anacronistica dell’“identità” [nazionale] ha un senso, l’“identità” soggettiva della grande maggioranza della popolazione in tutta l’Europa aveva senza dubbio un carattere essenzialmente locale da un lato e religioso dall’altro, almeno fino alla fine del Settecento. Per gran parte degli abitanti del continente, fino alla fine dell’Ottocento le identità locali e regionali continuarono ad essere più importanti dell’identità nazionale. [Quindi solo alla fine del XIX secolo, ad esempio,] la geografia politica e culturale dell’Europa centrale ha reso possibile che si concepisse una Germania etnoculturale [mentre] in Francia, [dove] era molto difficile distinguere la nazione dallo stato, [si fece fatica ad] immaginare una nazione specificamente etnoculturale» (R. BRUBAKER, Cittadinanza e nazionalità cit., p. 19). 34 Ibid., pp. 47-8, corsivo nostro.
  • 9. 8 «c’è coscienza di appartenere insieme solo nella misura in cui vi è un’avversione simile o un interesse pratico analogo nei confronti di un terzo, nonostante questo non porti necessariamente ad una lotta concordata».35 In altri termini, alla base della cittadinanza, c’è una “coscienza di appartenere insieme” (un “noi”) che può essere tale solo perché ci si pone in contrasto insieme – solo perché c’è un’“avversione” o un “interesse pratico analogo” – “nei confronti di un terzo” (un “non-noi”). Una dimensione dell’appartenenza – un “noi” – si dà solo a partire da una chiusura verso l’esterno – un “non-noi” –: «sebbene inclusiva internamente, la cittadinanza è esclusiva verso l’esterno; […] è così allo stesso tempo sia uno strumento che un oggetto di chiusura».36 La logica del “noi – non-noi” sottesa al discorso sulla cittadinanza non è un fatto banale. Molti autori sottolineano che «l’ammissione [in un “noi”] e l’esclusione [di un “non-noi”] costituiscono il nucleo dell’indipendenza di una comunità, [fosse anche una comunità di cittadini], e indicano il significato più profondo dell’autodeterminazione. Senza di esse, [infatti], non potrebbero esserci comunità con un carattere proprio, associazioni continuative e storicamente stabili, di uomini e donne con un certo impegno particolare gli uni verso gli altri e con un senso particolare della loro vita collettiva».37 Pertanto è opportuno rivolgere l’attenzione a tale logica. Seguendo le riflessioni sociologiche di Georg Simmel: «un gruppo del tutto centripeto ed armonico – cioè, mera “unificazione” – non solo è empiricamente impossibile, ma non darebbe luogo a nessun processo vitale e a nessuna struttura stabile. Così come l’universo ha bisogno di “Amore ed Odio”, attrazione e repulsione, allo scopo d’avere una forma, allo stesso modo la società richiede una relazione quantitativa tra armonia e disarmonia, associazione e dissociazione, piacere e dispiacere, al fine di acquisire una formazione ben definita».38 Quindi, in prima istanza, «non si dà associazione, [comunità di cittadini, unità di appartenenza], che non nasca dall’incontro fra cosiddetti impulsi di collaborazione e cosiddetti impulsi di opposizione o lotta [e, d’altro canto], non c’è di solito possibilità di lotta, se non sulla base di una forma d’unità».39 Ne deriva che il contrasto (che, nella sociologia di Simmel, è der Streit) non solo è necessario ma costitutivo dell’“unità” (di una “formazione ben definita”, di un “noi”):40 «l’opposizione non è meramente un mezzo per conservare la relazione nella sua totalità [il “noi”], ma è una delle funzioni concrete nelle quali consiste realmente la relazione stessa. […] L’impulso all’ostilità, [all’opposizione], si manifesta anche in forme piuttosto peculiari, per così dire, l’impulso ad agire in relazione con altri».41 35 «There is consciousness of belonging together only in so far as there is a similar aversion or a similar practical interest against a third, but his need not lead to a concerted struggle» (G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – II –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 5 (Mar., 1904)», p. 685, traduzione nostra). 36 R. BRUBAKER, Cittadinanza e nazionalità cit., pp. 45 e 49. 37 M. WALZER, Sfere di giustizia, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 70. 38 «A group which was entirely centripetal and harmonious – that is, “unification” merely – is not only impossible empirically, but it would also display no essential life-process and no stable structure. As the cosmos requires “Liebe und Hass”, attraction and repulsion, in order to have a form, society likewise requires some quantitative relation of harmony and disharmony, association and dissociation, liking and disliking, in order to attain to a definite formation» (G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – I –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 4 (Jan., 1904), p. 491, traduzione nostra). 39 R. ESCOBAR, Paura e libertà cit., pp. 65-6. 40 Nonostante le riflessioni di Simmel si riferiscano ad un gruppo, all’associazione o più genericamente alla società, in questo elaborato scritto si considerano tali referenti quali sinonimi per una “comunità di cittadini”, per un “noi” che può leggersi come l’insieme dei cittadini. Ciò è possibile solo e solamente sfruttando la nozione di cittadinanza come “appartenenza” e constatando che gruppo, associazione, società fanno capo al concetto di «comunanza – l’unità sulla cui base l’opposizione si esaspera – [che] è l’appartenenza, o l’“inclusione in una medesima connessione sociale”» (ibid., p. 71 e cfr. G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – I – cit., p. 514). 41 «Opposition is not merely a means of conserving the total relationship, but it is one of the concrete functions in which the relationship in reality consists. […] The impulse of hostility […] also occurs in quite
  • 10. 9 A questo punto, però, al fine di dare completezza a tale intuizione, è legittimo chiedersi perché il “noi” acquisisca una propria identità (una propria “unità”) in maniera contrastiva, opponendosi ad un “non-noi”. A questo scopo, può essere utile soffermarsi sull’analisi della vita nelle metropoli che compie il sociologo berlinese: «senza […] avversione, la vita in una metropoli, che quotidianamente mette a contatto ciascuno con innumerevoli altri, non avrebbe alcuna forma concepibile. L’intera organizzazione interna a questo commercio si basa su una gradazione estremamente complicata di simpatie, indifferenze e avversioni. […] A quasi tutte le impressioni ricevute da altre persone, l’attività della nostra mente risponde con una qualche forma di sentimento preciso la cui inconsapevolezza, transitorietà e variabilità sembra rimangano solo sotto forma di una certa indifferenza. In effetti, […] sarebbe intollerabile essere sommersi da una moltitudine di suggestioni rispetto alle quali non abbiamo scelta. L’antipatia ci protegge da questi […] pericoli tipici della metropoli. […] Produce le distanze e i tamponi senza i quali questo modo di vivere non potrebbe essere condotto affatto».42 Senza il “non-noi”, il “noi” sarebbe esposto a “pericoli”, quali la “moltitudine di suggestioni” che impediscono al “noi” di avere un’identità stabile, una forma definita, una sua “struttura”: è «il conflitto [che] dà all’intero complesso delle personalità, [al “noi”], una struttura peculiare».43 Il “noi” è una struttura ordinata che si percepisce e si costituisce come tale ponendosi in antitesi al “non-noi” che è “moltitudine” caotica ed instabile, inconoscibile e inquietante perché a noi straniero, come tende a sottolineare la stessa sociologia contemporanea. Per esempio, riferendosi alla modernità come fosse «a particular state of mind […], the time when one becomes conscious of being conscious of the need for order for the world, for oneself and for society», Bauman sostiene che: «la modernità ha a che fare con la produzione di ordine e questa ricerca di ordine è associata alla soppressione e all’esclusione degli stranieri. L’Altro o lo straniero, dalla prospettiva della volontà-di- ordine, incarna il caos e, di conseguenza, è una minaccia potenziale per i confini stabili e fissi che la modernità ha stabilito».44 peculiar forms, namely, the impulse to act in relationships with others» (G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – I – cit., pp. 493 e 505-6, traduzione nostra). 42 «Without […] aversion life in a great city, which daily brings each into contact with countless others, would have no thinkable form. The whole internal organization of this commerce rests on an extremely complicated gradation of sympathies, indifferences, and aversions. […] The activity of our minds responds to almost every impression received from other people in some sort of a definite feeling, all the unconsciousness, transience, and variability of which seems to remain only in the form of a certain indifference. In fact, […] it would be intolerable to be swamped under a multitude of suggestions among which we have no choice. Antipathy protects us against these […] typical dangers of the great city. […] It produces the distances and the buffers without which this kind of life could not be led at all» (G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – I – cit., p. 494, traduzione nostra). 43 «[…] conflict […] gives to the whole complex of personalities […] a peculiar structure» (G. SIMMEL, The Sociology of Conflict – III –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 6 (May, 1904), p. 801, traduzione nostra). 44 «Modernity is about the production of order and this search for order is associated with the suppression and exclusion of strangers. The Other or the stranger, from the perspective of the will-to-order, epitomizes chaos and thus is a potential threat to the stable and fixed boundaries modernity has established. […] At the very heart of the modern project is a paradox. Modernity seeks to eliminate chaos and ambivalence, but reproduces them» (V. MAROTTA, Zygmunt Bauman: Order, Strangerhood and Freedom, in «Thesis Eleven», Vol. 70, No. 1 (August 2002), p. 39, corsivo e traduzione nostri). In quest’articolo, l’autore si sofferma sul fatto che «order and ambivalence are important themes in Bauman’s assessment and interpretation of modernity and postmodernity. This concern with order and ambivalence has led Bauman to explore how the stranger comes to symbolize the very ambivalence that the ordering impulse is attempting to destroy. Strangers threaten the boundaries that the ordering process requires in order to impose stability and predictability on the social world. In Bauman’s words, strangers “befog and eclipse the boundary lines which ought to be clearly seen”» (ibid., p. 42, corsivo nostro) Moreover, «in Culture as Praxis Bauman […] illustrate[s] how rules of exclusion provide not only the necessary ground to establish and reinforce cultural order, but also group cohesion» (ibid., p. 44, corsivo nostro).
  • 11. 10 In sintesi ed in definitiva, dunque: «la comunità [il “noi”] è un luogo ‘caldo’, un luogo accogliente e confortevole […]. Nella comunità ci si può rilassare – siamo al sicuro, non ci sono pericoli che si profilano in angoli bui […]. In una comunità, tutti noi ci comprendiamo bene l’un l’altro […]. Non siamo mai stranieri gli uni agli altri. [D’altra parte], gli stranieri sono l’incarnazione dell’insicurezza (unsafety) e, quindi, rappresentano per traslazione quell’insicurezza (insecurity) che tormenta la propria vita. [Ma], in un modo bizzarro nonché perverso, la loro presenza è confortevole, persino rassicurante: le paure diffuse e sparse, difficili da individuare e da indicare con un nome, ora hanno un bersaglio tangibile sul quale ci si può focalizzare, [perché] si sa dove risiedono i pericoli […]. Finalmente, c’è qualcosa che si può fare».45 A questo punto, messi in risalto il come avvenga la creazione del “noi” (di una dimensione dell’appartenenza) mediante la logica del “noi – non-noi” ed il perché sia necessaria una contrapposizione a un “non-noi”, sarà opportuno soffermarsi su quest’ultimo aspetto, ultimo ‘ingrediente’ indispensabile per la realizzazione della cittadinanza come “appartenenza”. (2.3) L’indispensabilità dello straniero L’identità del cittadino della città comunale nel Basso Medioevo, del suddito-cittadino di uno Stato sovrano agli albori della modernità come luogo d’incorporazione dei sudditi-cittadini e del cittadino come parte integrante del popolo entro uno Stato-nazione in piena epoca moderna è strettamente connessa con la figura di quello che di volta in volta può essere considerato straniero. La figura dello straniero evidenzia efficacemente «la contemporaneità di inclusione ed esclusione nell’ambito d’azione della cittadinanza»,46 eppure va messo subito in chiaro in che senso lo si intende ai fini di questo discorso. A partire dalle riflessioni di Simmel, lo straniero non va inteso «come il viandante che oggi viene e domani va, bensì come colui che oggi viene e domani rimane – per così dire il viandante potenziale che, pur non avendo continuato a spostarsi, non ha superato del tutto l’assenza di legami dell’andare e del venire».47 “Andare e venire” – la dimensione entro la quale egli si pone è sempre un doppio, sempre ambigua o, quantomeno, sempre ambigua dalla prospettiva del “noi” che così la classifica e così la rifugge, pur traendo notevoli vantaggi dal confronto con questa: «la sua doppia posizione comunica incertezza,48 costringendo la società ospitante a ridefinire i propri confini cognitivi. Data questa incertezza, all’interno di una data società i criteri che determinano l’appartenenza vengono costantemente discussi e ricontestualizzati».49 È basandosi su tale ‘definizione’ di straniero che è possibile notare come egli si contraddistingua per compendiare in sé «due opposte polarità: dal punto di vista spaziale, la mobilità e la stabilità; dal punto di vista dei rapporti umani, dei sentimenti che sorreggono l’interazione, la distanza e la prossimità. [È così che si può notare, inoltre, che] lo straniero non è […] semplicemente qualcuno che sta fuori del gruppo: egli appartiene al gruppo in base a uno statuto che in gran parte lo esclude. I modi della sua esclusione definiscono i modi della sua inclusione»,50 un’inclusione del tutto particolare, sì, ma sostantiva per l’esistenza stessa della sua controparte – la figura del cittadino. Lo straniero è incluso perché escluso, membro del “noi” in quanto membro del “non-noi”, lontano perché porta vicino al “noi” un elemento di estraneità: 45 Cfr. Z. BAUMAN, Community: seeking safety in an insecure world, Polity, Cambridge 2001, pp. 145-6, traduzione nostra. 46 E. GARGIULO, Leggere la modernità cit., p. 62. 47 G. SIMMEL, Sociologia, Edizioni di comunità, Torino 1998, Excursus sullo straniero, p. 580. 48 Si pensi ancora una volta a quanto veniva sostenuto nel paragrafo precedente, la logica del “noi – non-noi”: la sicurezza e l’ordine contraddistinguono il “noi” nella misura in cui l’insicurezza ed il caos sono considerati caratteristiche intrinseche al “non-noi”. 49 E. GARGIULO, Leggere la modernità cit., p. 66. 50 S. TABBONI, Vicinanza e lontananza cit., p. 37.
  • 12. 11 «[…] l’essere straniero è naturalmente una relazione del tutto positiva, una particolare forma di azione reciproca […]. Lo straniero è un elemento del gruppo stesso, non diversamente dai poveri e dai molteplici “nemici interni” – un elemento la cui posizione immanente e di membro implica contemporaneamente un di fuori e un di fronte».51 Quindi, lo straniero è un prodotto inestinguibile della “logica dell’appartenenza”; è difficile «pensare l’appartenenza di qualcuno a qualcosa (a una comunità, a un’organizzazione politica) senza immaginare contestualmente un criterio di separazione, di precisazione di confini, di costruzione di un ‘dentro’ e di un ‘fuori’: la logica dell’appartenenza, la logica di […] un ‘gruppo-noi’, implica l’esistenza di “un’unità di azione politica o sociale” che si costituisce “solo grazie a concetti che le permettano di circoscriversi e quindi di escluderne altre, ossia di determinare e definire sé stessa».52 In questo senso, lo straniero, «figura di estraneità nei riguardi di un gruppo socio-politico qualsivoglia, […] sembra mantenere la medesima fisionomia di fronte al clan tribale, alla polis greca, alla città medievale, allo Stato moderno».53 Cercando di delineare molto sommariamente tale “fisionomia” dello straniero con alcuni cenni storici, si può notare che, già per quanto riguarda il discorso della cittadinanza medievale, è molto forte la tendenza a plasmare un “noi” – un ‘dentro’ sicuro e stabile – in contrapposizione ad un “non-noi” – un ‘fuori’ insicuro e caotico –. Nel Medioevo infatti: «il legame con la terra, con la città, con il signore è strettissimo: la condizione dello straniero è per lungo tempo penalizzata – si pensi al famigerato droit d’aubaine –54 e altrettanto forte è la tendenza della città a chiudere entro la cerchia della sua iurisdictio il regime delle appartenenze e dei privilegi, salvo concedersi oculate eccezioni […]. Quanto più il momento dell’autonomia [della singola parte, della città, del feudo, del regno] è forte, quanto più domina la logica del corpo e dell’appartenenza inclusiva, come nella città, tanto più la figura dello straniero si staglia nettamente contrapposta a quella del cittadino».55 Anche agli albori della modernità, quando «la solidarietà corporatista, l’intreccio di legami che cementano l’ordine, che sono l’ordine, è […] rafforzata in modo decisivo dalla convergenza di tutti sul sovrano»,56 «viene confermato l’antico gioco, che tanto più drammatizza l’estraneità quanto più esalta l’appartenenza».57 Per esempio, in un mondo dove la cittadinanza si “territorializza” e si lega, con riferimenti ad Hobbes per esempio, all’incorporazione dei cittadini entro il “corpo” del sovrano (il quale, non casualmente, è garante dell’ordine, della sicurezza individuale e collettiva di un ‘dentro’): «mutano le caratteristiche strutturali del fenomeno pauperistico che, soprattutto a partire dal XVI secolo, si intreccia con rilevanti fenomeni ‘migratori’ (dalla campagna alla città, da una città ad un’altra città): i ‘poveri’ formano spesso gruppi di ‘vagabondi’ e ‘mendicanti’ che le città non intendono più soltanto assistere caritatevolmente ma, [in quanto stranieri], vogliono controllare e neutralizzare. [Inoltre, parallelamente], una sfida [ancora] più consistente alla tradizionale concezione dell’ordine potrebbe provenire semmai, agli inizi del Cinquecento, dalla percezione di un’alterità più radicale, dall’introduzione di una nuova, inedita figura di estraneità, [anche se questa supera la categoria dello straniero presa in considerazione in questo lavoro]: il ‘selvaggio’ delle nuove terre scoperte e conquistate, un ‘altro’ non contiguo ma remoto, un altro tanto estraneo da renderci difficile il riconoscere, “al limite, […] la nostra comune appartenenza ad una medesima specie”».58 Cittadini di una ‘patria’ da un lato, di contro a ‘vagabondi’ e ‘selvaggi’ senza ‘patria’ dall’altro. ‘Vagabondi’ e ‘selvaggi’ senza ‘patria’ indispensabili per la costituzione stessa dei cittadini di una ‘patria’. Ciò emerge chiaramente in piena età moderna, quando, «nel rapporto di appartenenza dell’individuo alla nazione, 51 G. SIMMEL, Sociologia cit., p. 580, corsivo nostro. 52 P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento, p. 43. 53 Ibid., p. 44. 54 «Aubain è colui che non ha allégeance personale con il signore della terra: da qui il diritto ereditario del signore feudale e poi del re» (P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. I – Dalla civiltà comunale al Settecento, nota 148, p. 598). 55 Ibid., p. 45. 56 Ibid., p. 78. 57 Ibid., p. 119. 58 Ibid., pp. 120-1.
  • 13. 12 l’opposizione cittadino/straniero continua ad esprimere tutta la sua forza».59 Così in maniera emblematica, negli anni della rivoluzione francese, quando si pongono le fondamenta per la nascita dello Stato-nazione (ove «il rapporto dei soggetti con la civitas è […] tanto forte quanto diretto, [ove] ciascuno interagisce con gli altri e tutti insieme costituiscono il corpo che li include, li protegge, li realizza»),60 si argomentano i criteri dell’esclusione: «dandola per ovvia nel caso dei minori, ritenendo un “pregiudizio estremamente radicato” e per il momento immodificabile l’impossibilità di attribuire diritti politici alle donne e infine ribadendo la necessità di escludere dalla cittadinanza attiva alcune classi di soggetti in ragione della loro posizione nella società, o perché sradicati e marginali (i mendicanti, i vagabondi [ma anche gli ebrei, ad esempio]) o perché dipendenti “dall’arbitrio di un padrone” (come i domestici). [Infatti] l’elemento primario e fondante è la nazione come insieme di ‘tutti’ i soggetti eguali (che però prevede almeno due criteri di esclusione, lo straniero, per un verso, il ‘privilegiato’, per un altro verso) [in quanto condividono una stessa posizione verso la ‘patria’ comune: esercitano] un impegno politicamente ‘costruttivo’ che vuole i soggetti non solo liberi, ma anche inclusi, liberi perché inclusi in [un] ordine che coincide con il loro appartenere ad esso e riconoscersi in esso».61 Appartenere ad una nazione per essere cittadino non comporta la creazione dello straniero come sua logica conseguenza; piuttosto, giunti a questo punto, si è tentati di ritenere che sono l’esistenza stessa e la necessità di distinguersi dallo straniero che comportano la creazione del sentimento e della volontà di appartenere (attivamente) ad una nazione dalla quale egli, in quanto elemento perturbante, sia escluso. Conclusione «[…] sin dagli inizi della storia, tanto nelle piccole che nelle grandi cose, sono le influenze esterne che determinano lo sviluppo caratteristico dei singoli popoli. […] Molto spesso vediamo che lo stimolo proviene dagli “stranieri”».62 A partire da questa constatazione, l’autore di queste righe accennava poi a quanto potesse essere interessante ed estremamente utile riscrivere l’intera storia a partire dalla prospettiva dello straniero. Indubbiamente, si tratta di una pista di ricerca storiografica che potrebbe essere fondamentale anche per il discorso sulla cittadinanza qui preso in esame. Se infatti il concetto di cittadinanza è ancora oggi strettamente connesso alla dimensione dell’appartenenza, dimensione che non può che emergere sfruttando la logica del “noi – non-noi”, allora soffermarsi ulteriormente sul tema dello straniero è fondamentale. Senza lo straniero, non c’è il cittadino; senza la non-cittadinanza, non c’è cittadinanza. Ciò vale, ovviamente, se s’intende la cittadinanza come appartenenza, in senso etno-culturale o socio-politico, mentre diventa un discorso infondato se si prende in esame una nozione formale di cittadinanza, incentrata sui diritti e doveri del cittadino. Eppure, a dispetto di quest’ultima, la prospettiva della cittadinanza come appartenenza in una certa misura rimane valida, se è vero che il discorso della cittadinanza ancora oggi risente l’influsso del concetto di Stato-nazione,63 se ancora oggi si vuole riflettere sul fatto che essere cittadino italiano non significa essere un italiano, se ancora oggi dire cittadino francese piuttosto che cittadino tedesco ha un senso – sia pure un senso che si ricava in maniera contrastiva attraverso la figura dello straniero per il francese e dello straniero per il tedesco. 59 P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza cit., vol. II – L’età delle rivoluzioni, p. 94. 60 Ibid., p. 389. 61 Ibid., pp. 29 e 91. 62 Cfr. W. SOMBART, Il capitalismo moderno, Utet, Torino 1978, Gli stranieri, p. 279. 63 Cfr. R. BRUBAKER, Cittadinanza e nazionalità cit., p. 57.
  • 14. 13 Bibliografia MONOGRAFIE  BAUMAN, Z., Community: seeking safety in an insecure world, Polity, Cambridge 2001.  BRUBACKER, R., Cittadinanza e nazionalità in Francia e Germania, Il Mulino, Bologna, 1997.  COSTA, P., Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1999.  ESCOBAR, R., Paura e libertà, Morlacchi, Perugia 2009.  MARSHALL, T. H., Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma-Bari 2002.  SIMMEL, G., Sociologia, Edizioni di comunità, Torino 1998.  TABBONI, S. Vicinanza e lontananza: modelli e figure dello straniero come categoria sociologica. Elias, Merton, Park, Schutz, Simmel, Sombart, Angeli, Milano 1993.  WALZER, W., Sfere di giustizia, Laterza, Roma-Bari, 2008. ARTICOLI  BACCELLI, L., Cittadinanza e appartenenza, in D. ZOLO, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994.  GARGIULO, E., Leggere la modernità e le sue tensioni: la cittadinanza come chiave di lettura simmeliana, in Simmel e la cultura moderna. Interpretare i fenomeni sociali, 2 voll., a cura di C. Corradi, D. Pucelli, A. Santambrogio, Morlacchi, Perugia 2010.  GOSEWINKEL, D., Citizenship, Historical Development of, in N. J. SMELSER – P. B. BALTES, International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences, Elsevier, Oxford 2001.  MAROTTA, V., Zygmunt Bauman: Order, Strangerhood and Freedom, in «Thesis Eleven», Vol. 70, No. 1 (August 2002).  SOMBART, W., Gli stranieri, in Il capitalismo moderno, Utet, Torino 1978.  VERTOVA, F. P., Cittadinanza liberale, identità collettive, diritti sociali, in D. ZOLO, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari 1994. SITOGRAFIA  L. G. BAGLIONI, Capire le disuguaglianze attraverso la cittadinanza (dispense per studenti), Firenze 2008,[https://docs.google.com/viewer?a=v&q=cache:IobnscgJTMwJ:keynesiano.files.wordpress.co m/2009/12/capiredisuguaglianze.pdf+&hl=it&gl=it&pid=bl&srcid=ADGEESjsZvtvnbKh68LuA0qqwB2 XRspjybBpMzT8si01ANwZ8eUhT20QxyQ6hvERuWJ100VBUd0Y7YiW8c2PLhkFqno98Kl9blNK4bgZf2L 1GNYRCJR6L-qy2jXVMCwV693EA7nvB9C7&sig=AHIEtbTWRM8vcwlcwFipdwBV4xmu55sJkQ].  SIMMEL, G., The Sociology of Conflict – I –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 4 (Jan., 1904), [http://www.jstor.org/stable/2762175].  SIMMEL, G., The Sociology of Conflict – II –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 5 (Mar., 1904), [http://www.jstor.org/stable/2762103].  SIMMEL, G., The Sociology of Conflict – III –, in «American Journal of Sociology», Vol. 9, No. 6 (May, 1904), [http://www.jstor.org/stable/2762092].