SlideShare a Scribd company logo
1 of 62
Istituto di psicoterapia, intervento sul disagio in ambito organizzativo e
valorizzazione della persona
(G. U. n. 263 dell'11 novembre 2005)
TESI DI SPECIALIZZAZIONE
“NON MOLLARE MAI IL FILO”
La dimensione psicologica
nell'orientamento professionale
di
Stefania Zin
2012-2015
VI° Ciclo di Specializzazione
1
2
Grazie a tutti voi che mi avete accompagnata in questo cammino di crescita personale
e professionale e mi avete, ognuno a modo suo, secondo le proprie possibilità e
competenze, appoggiata e sostenuta con fiducia e rispetto.
Un pensiero particolare va a mio marito Paolo, sempre pronto ad ascoltarmi,
sostenermi e che ha abilmente gestito le mie assenze, e ai miei figli Giulia e Nicola
che, abbracciandomi, mi accoglievano quando rientravo da Padova. Vi amo!
Stefania è grata!
3
4
INDICE
Introduzione pag. 7
Capitolo I
I FENOMENI SOCIO-PSICOLOGICI NEL PROCESSO DI CAREER COUNSELING
Premessa: “Significato del lavoro per la costruzione dell'identità personale”
1.1 Dalla sicurezza del XX sec. all’insicurezza lavorativa del XXI secolo pag. 12
1.2 L'identità personale e professionale pag. 15
1.3 Il career counseling ad orientamento costruttivista: una possibile risposta
all’insicurezza lavorativa del XXI secolo
1.3.1 Introduzione pag. 16
1.3.2 L'impatto della teoria di Kelly pag. 18
1.3.3 Il costruttivismo nel career counseling pag. 19
Capitolo II
IL CAREER COUNSELING AD ORIENTAMENTO COSTRUTTIVISTA NEL
PROCESSO DI RECOVERY NELLE PERSONE CON DIPENDENZA
Premessa: “Il valore terapeutico del lavoro per le persone con svantaggio”
2.1 Una definizione di lavoratore svantaggiato pag. 25
2.2 Il persona con la dipendenza da sostanze pag. 29
2.3 La riabilitazione della persona con dipendenza: il nuovo paradigma, il recovery
2.3.1 Il significato ed accezioni del termine recovery pag.37
2.3.2 I modelli di riabilitazione volti alla inclusione socio lavorativa nel
paradigma del recovery pag.39
2.3.3 L'inserimento lavorativo per le perone con svantaggio: dagli schemi a
responsabilità sociale a quelli a responsabilità individuale pag. 41
2.3.4
2.4 Quale career counseling nell’inserimento lavorativo di persone con svantaggio
5
2.4.1 Introduzione pag. 44
2.4.2 Dal principio “conosci te stesso” all’etica “Cura del Sé” nel career
counseling per persone con svantaggio pag. 45
Conclusioni
Note su “ Il tempo della vita” nel relazione di sostegno, cura. pag. 54
Bibiografia pag. 60
Sitografia pag. 62
6
INTRODUZIONE
Entrare nel mondo del lavoro e muoversi da un posto di lavoro all'altro richiede oggi,
nel XXI sec., più sforzi e fiducia che nell'era industriale. Lavorare nell'economia globale
postmoderna comporta più rischi perché i lavori stanno per essere sostituiti con
incarichi temporanei e le organizzazioni da reti.
L'operazione di inserimento al lavoro si presenta, dunque, oggi come una
operazione da una doppia complessità: una collegata con l'organizzazione sociale e una
collegata alle specificità soggettive delle persone soprattutto a quelle legate alle fasce
più deboli. Rispetto alla prima stiamo assistendo all'imporsi di nuovi modelli produttivi,
ad un sempre maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro e ad una crescente
pluralizzazione di forme di lavoro, con una moltiplicazione di attività di tipo precario.
Vi è una progressiva segmentazione delle posizioni lavorative tradizionali e delle
condizioni professionali ad esse collegate e le aziende richiedono oggi ai lavoratori
elevate e complesse abilità professionali ed un alto grado di adattabilità. La seconda si
contraddistingue dalle tortuose storie cliniche e sociali e da difficoltà relazioni, affettive
ed educative spesso presenti nel contesto sociale e familiare.
Il primo capitolo è una riflessione sul lavoro in quanto elemento su cui le
persone costruiscono la propria identità personale/sociale e professionale. Riprendo e
tento di rispondere alla domanda che, già negli anni 50, si era posto Friedmann “Dove
va il lavoro umano?” al fine di restituire una visione d'insieme dei problemi e delle
tendenze in atto nell'attuale contesto socio economico. Il compito del professionista che
si occupa di orientamento sarà quello di aiutare le persone a riappropriarsi delle proprie
risorse, il capitale positivo personale, per rispondere in modo sicuro ad una società
dall'aspetto così fluido da apparire di frequente minacciosa. Vedremo come una
risposta alle pratiche di orientamento professionale, che si trovano ad operare in questa
società caratterizzata dall'incertezza, può venire dalla teoria dei costruttiti (Kelly, 1955).
Kelly riconosce la capacità umana, peculiare di ogni individuo, di costruire e sviluppare
le proprie teorie e le esperienza del mondo presente e poichè tali teorie e i costrutti
7
personali sono implementati nella realtà, le persone imparano a metterle alla prova. E'
mettendo al centro la persona e il modo in cui pensa, fa e sente che il professionista ha
la possibilità di rispondere in modo più adeguato ai nuovi bisogni, cioè quello di
muoversi con più sicurezza e fiducia nell'attuale contesto socio economico.
Nella secondo capitolo porto la possibilità di introdurre le pratiche di
orientamento professionale a orientamento costruttivista all'interno del mondo dello
svantaggio sociale. In particolorare dopo aver cercato di chiarire il significato di
svantaggio, chi vi rientra e accendando agli aspetti normativi, mi calo nel mondo della
dipendenza, mondo che ho inziato a conoscere attraverso il mio tirocinio di specialità.
Nel definire il mondo della dipendenza emerge chiaramente che un aspetto molto
importante della riabilitazione, nel nuovo paradigma del Recovery, è l'inclusione socio-
lavorativa. In questo nuovo paradigma si assiste ad uno spostamento negli schemi di
inserimento, passando da quelli di resposnabilità sociale a quelli a responsabilità
individuale. Spostando il centro sulla persona diventa necessario anche le persone con
svantaggio sociale, debbano inziare a diventare autrici delle loro storie fidandosi di più
di loro stesse. Il career counseling ad orientametno costruttivista potrebbe essere quello
che, per le ragioni descritte nel primo capitolo, meglio risponde ai bisogno di queste
persone.
Con la mia tesi di specializzazione cerco di evidenziare come per mettere in
comunicazione in modo strategico queste due complessità (persona ed organizzazione
sociale) diventa fondamentale ripensare e progettare una nuova modalità di
orientamento professionale che aiuti la Persona, in ogni sua manifestazione, a muoversi
in sicurezza in questo conteso socio-economico caratterizzato da una profonda
incertezza. Una risposta può venire dalla costruttivismo dove il professionista mettendo
al centro la Persona e il suo modo di costruire la realtà diventa lo strumento per
verificare la validità di tali costruzioni. Il processo è un processo di costruzione,
decostruzione e ricostruzione delle proprie storie all'interno di una storia di vita più che
fornisca significato e continuita.
In conclusione del mio elaborato porto una riflessione sulla dimensione
psicologica del tempo, il tempo dell'Io, del vissuto come elemento che deve far parte
8
integrande della relazione di aiuto, che sia di cura o supporto come in quella del carrer
counseling nella quale, prima di tutto, la persona ci porta un disagio, una sofferenza.
Questo significa, riprendendo Borgna (2015), lasciare da parte il tempo degli orologi
per concentrarci sul tempo dell'Io, del vissuto. La comprensione del tempo interiore
della persona, con cui si entra in relazione, può aiutare il professionista ad orientare la
sua attività cercando di offrirle orizzonti di senso, evitando, per quanto possibile, di
fissarla sul presente. Recuperando con la Persona la circolarità agostiniana “il passato
nel presente, il presente nel futuro”, il professionista cerca di tenere accese nella persona
le fiaccole del passato e del futuro, in questo modo cerca di tener viva la fiaccola della
speranza, la speranza che poi non è che l'anima di ogni relazione di aiuto.
9
10
CAPITOLO PRIMO
I FENOMENI SOCIO-PSICOLOGICI NEL PROCESSO DI
CAREER COUNSELING
Premessa “Significato del lavoro per la costruzione dell’identità personale”
Il LAVORO, categoria importante di molti ambiti specialistici dall'antropologia alla
teologia passando per la fisica e la sociologia, è un'attività produttiva che implica il
dispendio di energie fisiche e intellettuali per raggiungere uno scopo prefissato, e in
generale per procurare beni essenziali per vivere o altri tipi di beni, non solo attraverso
un valore monetario acquisito da terzi quale compenso. E' un servizio utile che si rende
alla società e per il quale di ottiene un compenso non solo monetario. (cfr. wikipedia)
Ancora, l’'attività lavorativa viene esplicata con l'esercizio di un mestiere o di una
professione ed ha come scopo la soddisfazione di bisogni individuali e collettivi.
Papa Giovanni Paolo II ha così descritto il significato del lavoro umano:
“Il lavoro è la dimensione fondamentale dell'uomo sulla terra. Come tale esprime
la sua essenza.”
Quale frase più significativa per inquadrare una realtà tanto vera quanto problematica?
Il lavoro è sempre stato e sempre sarà il fulcro della vita di ogni essere umano, l'anello
di congiunzione per il benessere dell'uomo, poiché la realizzazione professionale è
importante per se stessi e per la società in cui si vive.
Ha un valore spirituale profondo oltre che materiale. Nel lavoro l'uomo esprime
le sue capacità, il suo procurarsi da vivere. Attraverso il lavoro l'uomo conosce se
stesso, interpreta un ruolo corrispondente all'idea di sé.
11
Le scienze sociali riconducono l'argomento lavoro al modello esplicativo dei
bisogni elaborato da Maslow, alla sua applicazione in ambito professionale. Egli
teorizzò che gli individui agiscono secondo una gerarchia di valori che partono da quelli
fisiologici per giungere a quelli psicologico-emotivi. Il lavoro può soddisfare tutti questi
livelli di bisogni della scala di Maslow attraverso il reddito che garantisce. Con questo
infatti si possono soddisfare i bisogni fisici, di sicurezza, di status, sociali e di
autorealizzazione. Avere un lavoro è quindi indispensabile per la vita, per la
sopravvivenza; è quello che ci permette di diventare chi siamo, che contribuisce a
migliorare la vita della persona e, se si svolge il lavoro che piace diventa anche una
componente importante della nostra “felicità”. A tal proposito Maslow (1954) diceva
“Un musico deve fare il musicista, un pittore deve dipingere, un poeta deve scrivere, se
vuole essere definitivamente in pace con sé stesso. Ciò che un uomo può essere, deve
esserlo. Deve essere come natura lo vuole. Questo bisogno che possiamo chiamare auto-
realizzazione”.
Il lavoro, dunque, struttura gran parte della realtà quotidiana delle persone e costituisce
una delle principali fonti dell'identità e del senso del valore personale (Bandura, 1995).
1.1 Dalla sicurezza del XX secolo all’insicurezza lavorativa del XXI secolo
L’insicurezza lavorativa è il tema dominante del nostro secolo. Lo hanno
dimostrato numerosi contributi scientifici sulla flessibilità lavorativa e il precariato
pubblicati recentemente in ambito psicologico e sociologico, sugli atteggiamenti nei
riguardi della flessibilità e più in particolare sulla JOB INSECURITY (Pedon & Amato,
2009, p. 71).
Per parlare di insicurezza lavorativa in modo epistemologicamente corretto
credo sia di fondamentale importanza prendere in considerazione l’attualità dello
scenario socio-economico odierno partendo da uno sguardo agli anni Ottanta e Novanta.
12
Fino agli anni Ottanta e agli anni Novanta inoltrati la situazione lavorativa aveva
sostanzialmente bassi livelli di job insecurity: i contratti di lavoro erano essenzialmente
a tempo indeterminato, la flessibilità quasi assente e la disoccupazione era
principalmente inoccupazione dovuta a giovani in cerca di prima occupazione. Questo
scenario inizia a mutare con l’incremento esponenziale delle forme di lavoro atipico (1).
Questo fattore ha avuto forti ripercursioni sulla percezione di precarietà e insicurezza.
Altro fattore che ha contribuito a creare un clima di preoccupazione e di allarme
e quindi ad alimentare l’insicurezza lavorativa è il tasso di disoccupazione si è passati
da un 6.1% del 2007 al 12.7% del 2014 (dati ISTAT).
Ovviamente, fenomeni quali l’aumento dei lavori atipici e della disoccupazione
devono essere valutati in relazione a tutta una serie di altri fattori.
Innanzitutto, ogni anno i lavoratori sono coinvolti, più che un recente passato, in
ristrutturazioni aziendali caratterizzate da fusioni e acquisizioni, chiusura interi impianti
produttivi e riorganizzazione della forza lavoro (Probst, 2002, come citato in Nuovi
codici del lavoro, 2012 p. 113) operata attraverso la riconversione delle mansioni da
full-time a part-time, l’incremento in percentuale delle posizioni temporanee e atipiche
(Barling & Tetrick, 1195 come citato in Nuovi codici del lavoro, 2012 p. 113) e
naturalmente licenziamenti più o meno massivi; senza considerate, infine, coloro i quali
“rimangono”, cioè i non licenziati, e che soffrono della “sindrome da sopravvissuti”,
nella quale alla persistente insicurezza lavorativa si associano vissuti di colpa, rottura
del contratto psicologico, ecc. (Brockner, Wiesenfeld, Reed, Grover & Martin, 1993,
come citato in Nuovi codici del lavoro, 2012 p. 113).
Oltre ai fenomeni organizzativi prima citati, alcuni studiosi, si sono concentrati
sui macrofattori, soprattutto di ordine economico, che influenzano negativamente le
percezioni di insicurezza dei lavoratori; tra i principali possiamo citare: la
globalizzazione e l’incremento della competizione economica, la spinta la
privatizzazione nel settore pubblico, l’influenza degli stock market (mercato azionario)
sulle strategie di marketing a breve e medio-lungo termine, il declino dell’influenza
sindacale, la deregulation della normativa giuslavoristica (cfr, legge 30/2003 o cd Legge
Biagi) (A. Lo Presti, 2012).
13
Queste tendenze, organizzative e socio-economiche, si sono seguite negli anni
fino a trasformare, oggi, la natura stessa del lavoro: si è passati da una fase di lavoro
“sicuro” ad una fase di lavoro “precario” ed insicuro.
Negli ultimi anni il senso di “fiducia” dei lavoratori nel riuscire a mantenere il
proprio lavoro ha subito un drastico crollo. Questo dato è efficacemente illustrato da un
sondaggio della società Right Managment Counsultant che viene condotto, dal 2003,
due volte all’anno, su scala mondiale, allo scopo di misurare la fiducia nei riguardi del
proprio lavoro e della propria carriera dei lavoratori di tutto il mondo. I dati descrivono i
modo molto efficace come i sentimenti di fiducia, insicurezza e precarietà nei confronti
del lavoro siano ormai molto diffusi ed estesi anche nella società italiana. Dalle ultime
rilevazioni il nostro paese il nostro Paese sembra nutrire meno fiducia e più insicurezza
dei colleghi europei e nord americani.
Dalla contestualizzazione, organizzativa e socio-economica si può evincere
come fondamentalmente la insicurezza è di natura più soggettiva cioè dovuta al timore
di poter perdere il proprio lavoro che oggettiva, cioè dovuta all’essere obiettivamente a
rischio di perdere la propria posizione lavorativa (cioè si riferisce all’insieme di
informazioni, recepite sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione, riguardanti la
probabilità della perdita del lavoro) (Pedon, 2009).
In letteratura della natura soggettiva dell’insicurezza si possono ritrovare
definizioni importanti, la più recente la definisce come l’anticipazione dell’evento
(vitale e soprattutto non voluto) legato alla perdita di lavoro (Sverk & Hellgren, 2002;
Sverk, Hellgren e Naswall, 2006, citato in Pedon, 2009).
In questa prospettiva altri Autori l’hanno definita come la percezione della
minaccia della perdita di lavoro e i vissuti emotivi di preoccupazione e ansia collegati a
tale minaccia (Pedon, 2009).
________________________________
(1) Per forme contrattuali atipiche si intende tutte quelle tipologie contrattuali escluse
quelle a tempo indeterminato (a tempo determinato, interinali, di collaborazione,
presentazione occasionale, ecc)
14
Ecco che allora le caratteristiche sopra viste rendono così incerto l’attuale
contesto socio economico tanto da poter, il più delle volte, risultare minaccioso.
1.2 Identità personale e professionale
Parlare di identità professionale obbliga necessariamente a parlare di identità
personale, psicologica.
“L'identità psicologica non è una cosa, un'entità naturale, ma un effetto semiotico e
mutevole del campo relazionale. Essa è il significato e poi l'effetto auto/etero percepito
del rapporto che un individuo intrattiene con altri enti (persone significative, contesto
normativo, ruolo e situazione in cui si trova, le convinzioni, il vestito che ha scelto di
indossare). Le rappresentazioni di sé sono sempre contestuali, più o meno condizionate
dal grado di identificazione con il ruolo sociale scelto e offerto dalla situazione.
L'identità che emerge come auto-consapevolezza e presenza è sempre un compromesso
che fluttua tra continuità e coerenza da un lato e dall'altro rappresentazioni di sé,
socialmente e soggettivamente situate. L'identità è la dimensione della coscienza di sé; è
un evento costruito da processi, le cui coordinate possono essere i ruoli, le regole, le
intenzioni, i significati, gli atti e le azioni, attraverso i quali assume certe configurazioni
comportamentali. Coscienza di sé e identità non possono essere disgiunte dal sistema
interattivo da cui ogni persona trae il senso della sua individualità”. In conclusione
l'identità personale è una configurazione psicologica socialmente situata (Salvini, 2006,
p. 13).
Partendo da quanto fin ora scritto possiamo dire che la scelta professionale è un
aspetto centrale della “costruzione di sé” di un individuo: “Esprimendo una preferenza
professionale, una persona trascrive in termini professionali l'idea che si è fatta di sé
stessa ; così come, iniziando un lavoro, cerca di realizzare un’idea di sé; e allo stesso
modo continuando questo lavoro riesce ad attualizzare questa idea di sé” (Super, 1963
citato in Verani, 2005).
15
E' una scelta in cui il piano razionale si intreccia fortemente a quello più
inconsapevole dei sentimenti di identità, delle rappresentazioni immaginarie del futuro
lavoro e delle relative intime aspettative personali (Erickson, 1964 citato in Varani
2005).
La rappresentazione di sé può quindi essere disaggregata nelle componenti:
personale e sociale. La prima, attiene a quell'insieme di caratteristiche che l'individuo
pensa di possedere (attitudini, capacità, atteggiamenti, potenzialità) ed è costruita sulla
base del vissuto personale filtrato attraverso schemi interpretativi soggettivi. La
seconda, gli deriva dalla consapevolezza di appartenere ad un determinato gruppo
sociale e al peso valoriale che ad esso attribuisce all'interno di una struttura sociale
complessa; l'identità professionale ne è quindi una sua significativa componente
(Castelli & Venini 1998, citati in Varani, 2005).
1.3 Una risposta all’incertezza lavorativa del XXI secolo : il Career Counseling ad
orientamento Costruttivista
1.3.1 Introduzione
Da quanto fin'ora scritto, credo che si possa ragionevolmente affermare che oggi
entrare nel modo del lavoro e muoversi da un posto all’altro richiede più sforzi e fiducia
che nel XX secolo. Riprendendo Savickas (Maree, 2011) lavorare nell’economia
globale postmoderna comporta più rischi perché i lavori stanno per essere sostituti in
modo sostanziale da incarichi temporanei. Ecco che la questione di sicurezza della
posizione lavorativa sta diventando sempre più un problema. Le persone non possono
più progettare di lavorare per lunghi periodi all’interno di un’unica organizzazione
sviluppando al suo interno un percorso professionale.
“Il cambiamento dell’assetto sociale del lavoro fa sì che le persone diventino più
autonome nel gestire le loro stesse vite. Nel XX secolo, la società predisponeva un
ambiente aziendale; dopo che i lavoratori avevano trovato un posto e erano stati
selezionati per ricoprire una certa posizione, potevano contare sulla organizzazione e
16
veniva fornita loro una “grande narrazione” su come avrebbero avuto modo di far
procedere le loro vite. La società decideva i turni di lavoro dei lavoratori, dove
avrebbero vissuto, come avrebbero trascorso il loro tempo libero, quali amicizie e
quanti soldi avrebbero avuto. Simile alla culla che li aveva accompagnati da neonati,
alla famiglia durante l'infanzia e al gruppo di pari nell’adolescenza, l'organizzazione li
avrebbe accompagnati all’età adulta. Nel mondo post moderno, i lavoratori non possono
dipendere a lungo da una sola organizzazione che provveda a loro con un ambiente
familiare e prevedibile e che si occupi delle loro vite. Le imprese hanno cambiato
fisionomia, il fulcro della carriera si è spostato dall’organizzazione all’individuo” (Hall,
1996 in Maree, 2011, p.23). “Le persone devono, dunque fidarsi di loro stesse per
costruire una storia - un Sé e un percorso professionale - per tenere insieme se stesse e
le proprie vite quando sperimentano discontinuità. Come si muovono da un incarico
all’altro devono lasciare ciò che hanno fatto, ma non ciò che sono diventate. Se lasciano
ogni cosa, la perdita potrebbe sopraffarle. Basandosi sul Sé nella forma di una storia di
vita che fornisce significato e continuità, sono capaci di procedere in modo da avanzare
sulle linee della narrazione e attuare obiettivi importanti”. (Savickas, 2011 in Maree,
2011, p. 9)
“Le istituzioni del XX secolo hanno fornito una meta-narrazione per il percorso
di vita, una storia dotata di coerenza e continuità. La meta-narrazione ha tracciato
chiaramente alcune traiettorie caratterizzate da impegni stabili attorno ai quali le
persone hanno progettato la propria vita. La narrazione organizzativa del XXI secolo
riguardante la carriera è invece incerta e insicura, pertanto le persone non sono in grado
di fare progetti di vita attorno ad impegni istituzionali. Per agire, la loro bussola deve
dare indicazioni che conducano verso possibilità in modo fluido piuttosto che verso
percorsi predicibili in una società stabile” Savickas (2011/2014, p. 28).
Si assiste allo spostamento della responsabilità dall’organizzazione alla persona.
La persona deve assumersi maggiore responsabilità per la gestione della propria vita
lavorativa. Anziché vivere una narrazione fornita da un’organizzazione, le persone
devono diventare autrici delle proprie storie. Questo spostamento ha fatto emergere una
17
nuova domanda relativa a come le persone possano affrontare una vita caratterizzata da
continui cambiamenti lavorativi.
Una possibile risposta si basa sulla teoria della costruzione di carriera (Savickas,
2001, 2005 citato in Maree, 2011). Il career construction counseling o career
counseling il cui obbiettivo è di progettare la vita lavorativa, attraverso un processo di
costruzione, decostruzione e co-costruzione (costruire il percorso professionale
attraverso brevi storie, decostruire e ricostruire queste brevi storie in una storia più
ampia e co-costruire l’episodio successivo della storia), ha nella teoria dei costrutti
personali di Kelly i suoi presupposti e ne è influenzato. Ne riconosce le ispirazioni
filosofiche e le intuizioni intellettive.
Savicak (1997) mette, appunto, in relazione l’attenzione al costruttivismo con la
preoccupazione per il significato, l’identità e il contenuto elementi che caratterizzano il
XXI secolo con la necessità delle persone di prepararsi per affrontare e partecipare al
nuovo mondo del lavoro dandosi nuove narrazioni.
1.3.2 L’impatto della teoria dei costrutti personali di Kelly
La teoria di George Kelly (1955), con la psicologia dei costrutti personali,
sostiene che lo studio e la pratica della psicologia riguardano l'esplorazione e la
comprensione del mondo soggettivo di ogni individuo. Poiché questo mondo soggettivo
è unico per ogni persona, solo questi costrutti personali, che si riferiscono alla persona
interessata, possono, in ultimo, influenzare ciò che la persona pensa, fa e sente.
Secondo Charles P. Chein (Maree, 2011) al centro della teoria di Kelly c'è il
riconoscimento della capacità umana, peculiare di ogni individuo, di costruire e
sviluppare le proprie teorie e le esperienza del mondo esistente. Poiché le teorie e i
costrutti personali sono implementati nel mondo reale, le persone imparano a mettere
alla prova, migliorare e accrescere i propri costrutti personali.
Essenziale per la rilevanza e l’applicabilità dei costrutti personali non è tanto
l'esistenza degli stessi, piuttosto quanto essi siano percepiti come significativi ed
efficaci e quanto essi siano eventualmente utilizzati dalla persona che è il centro
18
operativo determinante per il mantenimento dei propri costrutti personali. Gli individui
fanno uso dei propri costrutti personali come risorse alternative per affrontare eventi di
vita ed esperienze attraverso i significati personali. In questo senso, ogni persona è il
maggior esperto, conoscitore o scienziato in merito alla propria esperienza di vita
(Savickas, 1997 citato in Maree, 2011), e la creazione di significato soggettiva è di
vitale importanza per questa esperienza (Chen, 2001, citato in Maree, 2011).
Chen sebbene riconosca che tutti i canoni e principi della teoria dei costrutti
personali siano estremamente preziosi nel career counseling ritiene che valga la pena
rilevare alcuni punti. Primo il career couseling mostra un totale rispetto per i costrutti
personali di un individuo nel suo mondo soggettivo e si sforza di usare questi costrutti
come centro per l’esplorazione e il cambiamento in positivo. Secondo, i costrutti
personali forniscono non solo i contenuti logici ma anche quelli pratici per la
formazione e lo sviluppo dei racconti di vita professionale di una persona. Terzo, i
costrutti personali legittimano e permettono il processo di creazione di significato nella
ricerca narrativa e nell’esplorazione della persona. Quarto, come costruttore essenziale
dei propri costrutti essenziali, la persona ha la capacità di essere l’attore e l’autore nella
costruzione dei propri racconti di vita professionale. Quinto, in parallelo alla natura
dinamica e in costante mutamento dei propri costrutti personali, la persona può creare,
ricreare, sviluppare nuove versioni delle narrazioni personali di vita professionale, con
un pensiero aperto e flessibile. Questa natura dinamica dei racconti implica che non
debbano essere capitoli fissi, ma piuttosto episodi aperti che incorporano continuamente
nuove esperienze e intuizioni.
1.3.3 Il costruttivismo nel Career counseling
Savickas ha sollecitato il fatto che il career counseling avesse bisogno di
muoversi dalla “ricerca della verità alla partecipazione nelle conversazioni;
dall’oggettività alla soggettività” (Savickas, 1993, p 205 citato in Maree, 2011). Poiché
il costruttivismo rappresenta una posizione epistemologica che enfatizza
19
l’autorganizzazione e la conoscenza proattiva, esso fornisce una prospettiva in base alla
quale concettualizzare il cambiamento della nozione di percorso professionale.
Herr (1997), sintetizzando alcune delle più importanti prospettive sul career
counseling ha illustrato il suo cambiamento dall’essere un processo una tantum, lineare
e focalizzato sul singolo a essere
“ un processo in gran parte verbale nel quale il couselor professionista e il/i
clienti sono in una relazione dinamica e collaborativa, centrata sull’identificare e
sull’agire gli obiettivi del cliente, nella quale il counselor usa un repertorio di
diverse tecniche o processi, per facilitare la comprensione di sè, la comprensione
delle preoccupazioni di percorso professionali implicate e le opzioni
comportamentali disponibili, nonché aiutare il decision-making del cliente, che
ha la responsabilità per le sue proprie azioni” (Herr, Cramer, & Niles, 2004, p
42, citato in K. Maree, 2011 p. 129).
Questa definizione enfatizza l’influenza del costruttivismo sul career counseling, in
quanto si focalizza sull’aspetto della relazione collaborativa del career counseling, sulla
natura ricorsiva delle preoccupazioni personali e lavorative e sull’importanza della
creazione attiva di significato dell’individuo relativo alle questioni di percorso
professionale. La definizione conferma il processo verbale tra le parti, poiché lavorano
insieme verso la co-costruzione di racconti e di storie relativi al percorso professionale.
Il lavoro di career counseling all’interno della prospettiva costruttivista si
focalizza sull’interazione degli individui con il loro contesto ambientale e sociale e sul
coinvolgimento in un processo di creazione di significato di life-career (vita
professionale) con il “counselor”.
La natura proattiva, autoconcepita e in evoluzione della conoscenza umana è
fondamentale nell’approccio costruttivista al career counseling. Nel career counseling,
le persone lavorano per costruire e ricostruire la realtà attraverso l’uso del linguaggio e
il dialogo con il “counselor”. Con il linguaggio si crea significato e conoscenza; la
conoscenza, che si costruisce attraverso il dialogo fra “career counselor” e il cliente,
20
diventa quel processo che comprende la costruzione e co-costruzione della realtà
dell’individuo. Gli elementi chiave del career counseling cioè la natura e il processo
della creazione di significato all’interno della relazione di counseling, l’uso del
linguaggio, l’emozione, l’azione individuale e il ruolo dell’assessment, vengono
influenzati dal costruttivismo. Qui di seguito l’approfondimento di questi aspetti.
La natura e il processo di creazione di significato nella relazione di counseling:
significato co-costruito
La relazione fra cliente e “counselor” è l’elemento centrale nel career counseling
ad orientamento costruttivista: il couseling è quel processo di creazione di significato
attraverso il quale il/la persona costruisce la sua vita con l’assistenza di un co-creatore:
il “counselor”. La presenza attiva del “counselor” nel processo, quando lavora con la
persona, mette in rilievo l’interconnessione di ogni sistema dell’individuo, crea un
sistema più ampio, il “sistema terapeutico”, come descritto da Patton e McMahon
(1999, 2006). E’ importante che questo livello di coinvolgimento, rivolto alla co-
costruzione di una storia individuale, venga compreso dal “counselor” ad orientamento
costruttivista e che il “couselor” sia consapevole del proprio sistema di influenza e come
esso giochi un ruolo fondamentale nel processo e nel dialogo di counseling.
Il linguaggio, rivestendo un ruolo centrale nella costruzione di una realtà
individuale, diventa rilevante per la comprensione del career counseling costruttivista.
Savickas (1995, p. 22 citato in Maree, 2011) ha sottolineato che “i concetti linguistici e
le loro definizioni non rispecchiano la realtà: le conferiscono significato”. Dewey e
Bentley (1949) hanno sostenuto che dare un nome è conoscere “to name is to know”
articolando la relazioni cruciale tra il linguaggio e la nostra percezione della realtà.
I significati condivisi fra “counselor” e cliente che si sviluppano all’interno di
un contesto condiviso, usando un linguaggio condiviso danno vita al processo di co-
costruzione della storia professionale.
21
Emozione
Alcuni Autori hanno lamentato che la componente “emozione” nelle
conversazioni di career counseling non sia stata adeguatamente trattata. Probabilmente
questa mancanza è dovuta a un concetto radicato nel quale il career decision-making sia
un processo razionale e cognitivo. Tuttavia per quanto riguarda il percorso professionale
e l’identità soggettiva, c’è una forte enfasi sulla relazione fra quest’ultima e gli aspetti
personali e fra la creazione di significato e l’“emozione”. Le prospettive emergenti sul
percorso professionale considerano le “emozioni” come una parte intrinseca ed esplicita
del percorso di self-construction dell’identità professionale. Nel percorso di self-
construction, come in qualsiasi altro percorso di cambiamento, la persona si trova in
transizione ed è proprio in questa fase, che per la teoria dei costrutti personali, si
inseriscono le “emozioni”. L'esperienza di una “emozione”, infatti, avviene quando
viene validato un aspetto importante del nostro sè o quando diventiamo consapevoli di
una qualche inadeguatezza nella nostra attuale costruzione degli eventi.
Azione individuale
Un approccio con orientamento costruttivista al career counseling, nonostante il
suo orientamento al linguaggio, non trascura di prendere in considerazione l’azione e
l’agenticità individuale nel contesto (Christensen & Johnston, 2003; Reid, 2006 citati in
Maree, 2011), specialmente per il bisogno di coinvolgimento attivo in un ambiente di
apprendimento per lo sviluppo dell’identità di percorso professionale (Amundson, 2006;
Young & Valach, 2004, citati in Maree, 2011). Il processo di career decision-making
comporta lo sviluppo di un racconto - ideale e facoltativo - in grado di guidare un
individuo verso possibili futuri; linguaggio ed azione sono inestricabilmente connessi.
Assessment nel career counseling costruttivista
Nel career counseling ad orientamento costruttivista i processi di assessment e di
counseling sono inestricabilmente connessi. L’assessment è sicuramente counseling,
non un semplice processo di raccolta.
22
Un’esemplificazione è costituita dall’integrazione di procedure di assessment
qualitative all’interno del processo di counseling. Tra le procedure qualitative possiamo
includere: genogrammi, la costruzione di linee di vita e spazi di vita, le card-sort, il
career-o-gram, la metafora, e interviste semistrutturate che rientrano nel colloquio di
counseling. Tutti questi approcci incoraggiano l’uso della parola e della scrittura e di
tecniche visive e creative (McMahon & Patton, 2006 citati in Maree, 2011).
Ecco che il career counseling connesso strettamente ai principi costruttivisti è un
approccio al counseling orientato all’azione, emotivo, significativo, personale nel quale
il cliente e il “counselor” collaborano per la creazione di significato.
I suoi aspetti principali comportano il focus sullo sviluppo del significato
attraverso il linguaggio (dialogo sia scritto che verbale), la stretta relazione tra questioni
personali e professionali, l’inclusione dell'“emozione” e dell'azione, lo stesso legame fra
assessment ed intervento, e il ruolo del “counselor” come collaboratore che lavora con il
cliente verso la costruzione di significato.
23
24
CAPITOLO II
IL CAREER COUNSELING ad ORIENTAMENTO
COSTRUTTIVISTA nel PROCESSO DI RECOVERY NELLE
PERSONE con DIPENDENZA
Premessa: “Il valore terapeutico del lavoro per le persone con vantaggio”
Per le persone con svantaggio il lavoro svolge un ruolo fondamentale. Per questa
categoria di persone, come per tutte le altre, l’inserimento a pieno titolo nell’attività
lavorativa attua uno dei principi fondamentali della Costituzione e fornisce le risorse
economiche necessarie alla vita. In aggiunta, poiché buona parte delle interazioni sociali
sono connesse al lavoro, l’attività lavorativa favorisce la costruzione e il riconoscimento
di un’identità attraverso il ruolo professionale e l’inclusione nella rete sociale. Il lavoro,
quindi, non fornisce solo reddito, ma è luogo di realizzazione, di rafforzamento di
fiducia e rispetto di sé, di scambio e di relazioni sociali, di valorizzazione, di
apprendimento, di accrescimento personale e professionale, di acquisizione di
indipendenza e autonomia.
Lavorare diviene uno degli elementi fondanti e qualificanti nella costruzione di
un percorso di inclusione sociale; è l’imprescindibile punto di partenza per un percorso
di crescita umana e di riabilitazione sociale.
2.1 Un definizione di “lavoratore svantaggiato”
La definizione di "lavoratore svantaggiato" è contenuta nell'art. 13 del Decreto
Legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e si distingue concettualmete e normativamente,
in quanto decisamente più ampia e fumosa, dal concetto di “lavoratore disabile” il quale
usufruisce, una volta considerata la comprovata difficoltà di rendersi “appetibile” sul
25
mercato del lavoro, di un regime di collocamento obbligatorio disciplinato dalla Legge
68/1999.
Il citato articolo 13 del Decreto, fondamentalmente, contiene una disciplina
specifica per il collocamento dei “lavoratori svantaggiati” attraverso la promozione del
coordinamento tra le agenzie di somministrazione e le istituzioni pubbliche.
E’ necessario rammentare la definizione che l’art. 2 lettera f) del regolamento
(CE) n. 2204/2002 dà di lavoratore svantaggiato: “qualsiasi persona appartenente a una
categoria che abbia difficoltà a entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro ai sensi
dell'articolo 2, lettera f) del regolamento (CE) n. 2204/2002” e della legge sulle
cooperative sociali; tale regolamento, a sua volta, fa un elenco molto vasto ed
eterogeneo di soggetti considerati svantaggiati, tutti accomunati da una (potenziale e)
particolare difficoltà a trovare un posto di lavoro in quanto meno appetibili per i datori
di lavoro.
Gli atti legislativi ai quali l’art. 2 D. Lgs 276/2003 rinvia fanno riferimento ad un vasto
pubblico di soggetti tra cui:
● i giovani con meno di 25 anni o che abbiano completato il ciclo formativo da più
di due anni, ma non abbiano ancora ottenuto il primo impiego retribuito
regolarmente;
● i lavoratori extracomunitari che si spostino all'interno degli Stati membri della
Comunità europea alla ricerca di una occupazione;
● i lavoratori, appartenenti alla minoranza etnica di uno Stato membro, che
debbano migliorare le loro conoscenze linguistiche, la loro formazione
professionale o la loro esperienza lavorativa per incrementare la possibilità di
ottenere una occupazione stabile;
● i lavoratori che desiderino intraprendere o riprendere una attività lavorativa e
che non abbiano lavorato per almeno due anni, in particolare quei soggetti che
abbiano dovuto abbandonare l’attività lavorativa per difficoltà nel conciliare la
vita lavorativa e la vita familiare;
26
● i lavoratori adulti che vivano soli con uno o più figli a carico;
● i lavoratori che siano privi di un titolo di studio, di livello secondario o
equivalente, o che abbiano compiuto 50 anni e siano privi di un posto di lavoro o
in procinto di perderlo;
● i lavoratori riconosciuti affetti, al momento o in passato, da una dipendenza
ai sensi della legislazione nazionale;
● i lavoratori che, dopo essere stati sottoposti a una pena detentiva, non abbiano
ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente;
● le lavoratrici residenti in una area geografica del livello NUTS II, nella quale il
tasso medio di disoccupazione superi il 100% della media comunitaria da
almeno due anni civili e nella quale la disoccupazione femminile abbia superato
il 150% del tasso di disoccupazione maschile dell’area considerata per almeno
due dei tre anni civili precedenti;
● i disoccupati di lunga durata senza lavoro per 12 dei 16 mesi precedenti o per 6
degli 8 mesi precedenti nel caso di persone di meno di 25 anni d’età;
● gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i
soggetti in trattamento psichiatrico;
● i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare;
● i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste dagli
articoli 47, 47-bis, 47-ter e 48 della legge 26 luglio 1975, n. 354, come
modificati dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663.
Da questo elenco si nota come all’interno della categoria “svantaggiati sociali”
coesistono soggetti in stato di disagio conclamato (persone con disabilità fisica-
psichica-sensoriale, minori e giovani segnalati “a rischio”, persone con dipendenza da
sostanze, persone condannate) e tutta una larga fascia di persone non facilmente
“censibili”, che esprimono bisogni talvolta indeterminati ma che confluiscono nell’area
dell’emergenza sociale. La nozione di “svantaggio sociale” appare dunque alquanto
ampia e si sta ulteriormente estendendo in ragione della crescente vulnerabilità che
27
caratterizza la vita di un numero sempre più consistente di persone in un contesto
sociale con elevate potenzialità di rischio, come quello attuale, rendendo sempre più
difficile poter circoscrivere il concetto si svantaggio sociale.
Cenni normativi: implicazioni attuali e prospettive future
La difficoltà di circoscrivere il concetto di “svantaggio” si riflette anche livello
normativo, portando all’individuazione di categorie tutt’altro che esaustive della
pluralità delle biografie e dei profili in cui può manifestarsi.
Infatti ogni area normativa (Legge 68 del 1999, legge 381 del 1991, il
regolamento della CE n. 800 del 2008) individua alcuni gruppi target di riferimento, ma
sovente non coincidono con i gruppi reali in quanto ciascuna area individua specifiche
categorie di cui si ritiene auspicabile promuovere l’inserimento lavorativo. Può così
verificarsi che, ad esempio, la persona portatrice di uno svantaggio sociale certificato
(Legge 118/17, Legge 104/92, Legge 68/99) possa essere richiamata all’interno di tutte
le aree normative mentre altri soggetti, ad esempio quelli in stato di disoccupazione,
data la loro specificità ne sono interessati solo parzialmente.
Le differenze nella classificazione dei soggetti con svantaggio sono state il
risultato dell’avvicendarsi di normative nazionali ed europee che intrecciandosi con
legislazioni regionali ha portato all’introduzione di strumenti e modalità operative
spesso difformi per promuovere l’inserimento lavorativo.
Essendo il lavoro l’obiettivo da perseguire sta emergendo la necessità di
evolvere le politiche assistenziali in azioni di recupero sociale, riabilitazione e
reintegrazione in contesti di ordinaria autonomia. Ci si sta spostando, come vedremo più
avanti, dagli schemi a responsabilità sociale a quelli a responsabilità individuale.
28
2.2 La persona dipendente da sostanze
All’interno della categoria dei “lavoratori svantaggiati” troviamo anche “le persone che
sono riconosciute affette, al momento o in passato, da una dipendenza ai sensi della
legislazione nazionale”. Ma cosa è un dipendenza e quando questa diventa patologica?
Come si manifesta e che effetti può avere sulla persona che ne soffre. In una domanda:
chi è la persona con dipendenza? In questo capitolo cercherò di dare risposta a questi
interrogativi attingendo dagli scritti del Prof. Leopoldo Grosso, studioso impegnato da
decenni nel trattamento di persone con dipendenza.
Che cosa sono le dipendenze: i termini e i significati
Tutti noi coltiviamo personali abitudini che intessono le nostre giornate, ne
scandiscono i ritmi, e che viviamo come isole di piacere, di ritorno a noi stessi. Le
abitudini nutrono la vita intessendola di pause, punti di riferimento, gratificazioni.
Queste abitudini “benigne” giocano un ruolo ben preciso e non sempre secondario, nel
mantenimento dell’equilibrio di una persona del suo stile di vita. Sono per lo più
rassicuranti, s'instaurano nel corso dei primi periodi di vita (il succhiotto, la copertina di
linus) e assumono spesso il significato di oggetti transazionali, che poi possono
evolversi e assumere altre forme o essere sostituite da abitudini altre (le tazzine di caffè
che scandiscono i ritmi della giornata, il rituale dell’acquisto del giornale la mattina o
del telegiornale la sera, la dedizione al proprio cane, le ore che l’adolescente trascorre al
telefono con l’amico del cuore etc.).
La particolarità di queste abitudini consiste sta nella loro transitorietà (molto
spesso le abbandoniamo spontaneamente nel corso del tempo) e nel poter essere oggetto
di rinuncia, pur con fatica, a fronte di impedimenti sopravvenuti o dell’evidenziarsi di
conseguenze negative e non desiderate. Tali abitudini fortemente connaturate e a cui è
difficile rinunciare (impropriamente dette nel linguaggio quotidiano “dipendenze”),
connotano l’esistenza delle persone umane su un ampio spettro di comportamenti.
Possono portare a conseguenze dannose ma, nel momento in cui si prende atto che gli
effetti non desiderati prevalgono sui vantaggi attesi, esse consentono alle persone di
29
fruire della propria capacità di autocontrollo e di orientare diversamente il proprio
comportamento e le scelte che lo guidano.
Il fattore che segna il confine tra un'abitudine (anche con qualità di “abuso”) e
una dipendenza patologica è la capacità di rinunciare a un comportamento gratificante.
E' la capacità di limitare, di saper differire nel tempo e di contenere la “invadenza” di un
piacere al quale una consolidata e assai confortevole consuetudine tiene fortemente
legati, che fa la differenza.
E' quando la persona mette in atto un comportamento vissuto come incoercibile
per ottenere “l'oggetto del desiderio” che entriamo nel campo della dipendenza
patologica. Nella dipendenza patologica la persona esperisce un coinvolgimento
totalizzante con “l’oggetto”, determinato dall’uso compulsivo della sostanza in questo
caso o da qualunque altro oggetto di dipendenza. Diventa una modalità di essere, una
condizione esistenziale globale.
Perché si consuma, si abusa, si diventa dipendenti
Il primo movente è la sensazione di piacere e di benessere anche se in principio,
al momento della “iniziazione” al consumo, la dimensione del piacere non è scontata. Si
deve Becker in “Come si diventa fumatori di marijuana” (1963) la descrizione
dettagliata dei tre atti propri della scena iniziatoria: 1° imparare la tecnica; 2° percepire
gli effetti; 3° definire gli effetti percepiti come piacevoli. Essendoci un apprendimento
significa che ci sono anche dei maestri (il gruppo dei pari), sono questi che, svolgendo
un ruolo rassicurante, accompagnano all’individuazione del piacere specifico.
La sensazione di piacere è il primo e importante effetto che si apprezza nel
consumo. Non è l’unico. Il beneficio è più ampio per la persona e fornisce altre
ricompense. Le ricompense possono essere differenti, primarie e secondarie, e si
declinano secondo le caratteristiche della persona (es: sentirsi spensierati, sentirsi più
“legger”, sentirsi rilassati ecc.).
Molto si è discusso, approfondito, studiato e ricercato sul perché alcune persone
diventino dipendenti, alcune conservino una moderata abitudine al consumo altre vi
rinunciano senza un’apparente grossa difficoltà. Alle volte la causa è stata attribuita alla
30
sostanza (demonizzazione dell’oggetto), altre volte alla persona (la patologizzazione del
soggetto) e alla società, altre volte ancora all’ambiente che ammala (la
criminalizzazione del contesto). Qui di seguito la presentazione di queste cause.
Il ruolo dell’oggetto
“Drug” per gli anglosassoni significa sia farmaco sia droga e il termine ne
riassume tutta l’ambivalenza: cura, ma ammala e il rimedio, come l’abuso, è rimandato
al “giudizio” di chi l’utilizza.
L’oggetto della dipendenza può essere collegato alle credenze e alle aspettative
che si riversano sui loro possibili effetti e sulla loro funzione di fornire un qualche tipo
di risposta a bisogni e desideri personali, quali:
● il bisogno di modificare, alterare e/o espandere gli stati di coscienza, ottenere
cioè sensazioni e stati psicologici percepiti come piacevoli;
● la ricerca di sensazioni forti, intense e inusuali – accompagnata, specie in
adolescenza, dalla curiosità e dal desiderio di fare delle “esperienze sulla propria
pelle”, di entrare in competizione con una sostanza, di sperimentare i propri
limiti; insomma, di mettersi alla prova (tipico di personalità con alti tratti di
sensation-seeking);
● il bisogno di facilitazione sociale, di appartenenza e di prestigio – la sostanza, in
tal senso, diviene un mezzo che consente di semplificare, migliorare o rendere
più intense le relazioni con gli altri, favorendo comportamenti più sciolti,
disinibiti e socievoli, spesso al fine di facilitare sentimenti di coesione nei
confronti di un gruppo;
● il bisogno di salvaguardare e migliorare l’immagine di sé – favorendo sentimenti
di maggior efficacia e controllo personale, rafforzando l’autostima e attenuando
autovalutazioni negative;
● la ricerca di autonomia, di emancipazione, di sfida – l’esperienza con la droga
rappresenta, talvolta, soprattutto per gli adolescenti, una sfida e una ricerca di
occasioni concrete in cui verificare il grado di indipendenza emotiva raggiunta
rispetto ai modelli e alle norme proposte dai genitori;
31
● il bisogno di ridurre gli stati di disagio e di regolare le emozioni – la sostanza
appare come un mezzo per ridurre, evitare e/o controllare emozioni negative
quali ansia, angoscia, incertezza, tensione, depressione, etc. che possono
scaturire da sentimenti di inadeguatezza, di scarsa fiducia in se stessi, di non
essere all’altezza delle situazioni con le quali ci si confronta, in cui si teme di
sbagliare e di non essere considerati dagli altri come si desidererebbe.
Il ruolo del soggetto
Tradizionalmente la dipendenza viene interpretata come vizio. Tale
interpretazione rimanda ad una visione della persona come una persona “dissipata”, che
non ha il controllo di sé e delle proprie azioni, che si lascia trascinare dalle dalle parti
più basse ed è in preda ai propri “istinti”, che è “causa del suo mal” e della rovina della
sua vita. In tale interpretazione la responsabilità viene imputata interamente al soggetto.
Tale interpretazione viene rafforzata con la concettualizzazione di devianza sociale.
Tale devianza (l’assunzione eccessiva della sostanza/comportamento) fa si che l’oggetto
diventa il padrone delle vita e il mantenerlo conduce a comportamenti illeciti. Prima
della Legge 685 del 1965 in Italia l’esito della trasgressione dell’ordine sociale era il
carcere o l’ospedale psichiatrico.
Nel 1987 la tossicodipendenza viene qualificata come patologia grazie al suo
ingresso nel Manuale diagnostico per i disturbi mentali. Introducendo così il concetto di
malattia, la persona non è più (o non solo) colpevole, ma anche vittima. Vittima di una
perdita di controllo, di finalizzare diversamente le proprie azioni. Significa asserire alla
persona un disturbo del controllo delle azioni e un grave indebolimento della volontà. In
termini più attuali si può parlare di malattia della motivazione o sindrome
amotivazionale, da cui i “tratti” trasversali all’esperienza delle persone dipendenti sono
incapacità di provare piacere (anedonia), incapacità di riconoscere le emozioni
(alessitemia), impulsività e scarsa tolleranza alle frustrazioni.
32
Il ruolo della società
Tra “vizio” e “malattia” i due vasi di ferro in cui è “contenuta” la dipendenza,
c’è un vaso di coccio che interpreta la dipendenza come espressione di un non risolto e
allo stesso tempo non ben definito disagio. Il disagio si configura come un’inquietudine
e una difficoltà, personale e sociale, un mal di vivere che si ricollega al malessere
esistenziale e che trova nell’uso delle sostanze un sollievo, un rimedio provvisorio,
talvolta una protesi per l’adattamento sociale. La dipendenza, allora, né come vizio né
come malattia, si configura invece come fenomeno sociale che esprime un disordine, un
disagio della civiltà che riguarda l’ordine economico e il suo disordine, i processi di
produzione e il consumo, alcune derive culturali che lo accompagnano (consumismo,
individualismo,...), gli assetti organizzativi che ne conseguono in termini di richieste di
adattamento sociale e discipline di vita a cui la farmacologia legale e il mercato illegale
di ogni tipo di sostanza vengono in soccorso. Nella letteratura sociologica si coglie un
nesso - anche un nesso di responsabilità - tra società e dipendenza, che invita a cercare
gli input patogeni che conducono alla dipendenza nei mutamenti sociali, nelle
trasformazioni del nostro tempo, nell’organizzazione e nei tempi di vita di ciascuno, nei
diktat culturali trasformati in vissuti di rigide e richiedenti aspettative personali.
In conclusione, tenendo conto che l’uso di sostanze psicotrope risponde a
bisogni diversificati, la comprensione del perché le persone vi ricorrono dovrà
considerare strettamente l’interazione di tre fattori principali: a) l’individuo con la sua
storia; b) la sostanza con i suoi effetti; e c) le situazioni (ovvero il contesto sociale) che
mettono in rapporto l’individuo con la sostanza. E’ proprio l’interazione di questi tre
fattori (oggetto, “soggetto” e contesto) che rende così problematica la diagnosi di
dipendenza patologica.
Il problema della “diagnosi” di dipendenza patologica (addiction)
La diagnosi è lo strumento conoscitivo fondamentale e decisivo di una malattia,
qual è la dipendenza patologica, che si è progressivamente strutturata nel tempo. La
raccolta di informazioni adeguate per disporre degli elementi utili a una valutazione
33
complessiva comporta un lavoro di assessment preliminare allo stesso processo
diagnostico. La diagnosi a sua volta rimanda non solo alle modalità e agli strumenti che
si utilizzano per la sua formulazione, ma soprattutto alla struttura logica che la sottende
e ai criteri epistemologici di riferimento. In particolore, alla consapevolezza di tutti i
limiti che l’accompagnano.
Il ricorso alla diagnosi è una esigenza che si rivela ineludibile e come tale essa è
utilizzata nell’ambito della clinica dell’addiction. Non solo per certificare la malattia a
scopo terapeutico o legale, ma soprattutto per comprendere la specifica declinazione
individuale della dipendenza per ogni persona con dipendenza: la propria
configurazione sintomatica, il significato attribuito all’oggetto, la psicodinamica del
comportamento d'addiction nel vissuto personale, i fattori interni ed esterni che
condizionano il livello di compulsività, i punti di forza e di debolezza di quella specifica
persona.
La difficoltà della diagnosi si pone in relazione alle specifiche difficoltà
personali della persona che assume (le possibili patologie psichiatriche associate), alle
diverse sostanze d'abuso, in concomitanza con altre dipendenze comportamentali e in
relazione ai contesti sociali in cui l'addiction si pratica. Essendo molto ampia la
variabilità delle situazioni che possono portare alla dipendenza patologiche la
valutazione della gravità dell’addiction diventa operazione difficile e complessa, che
deve tener conto di più piani di analisi e angoli di osservazione.
La diagnosi non si pone come operazione puntuale, definita una volta per tutte e
immobile nel tempo, ma si caratterizza come un processo continuamente verificabile,
ridefinibile e ricomponibile, nello stesso lungo periodo del trattamento: “La diagnosi
assolve a due funzioni principali tra loro strettamente integrate ma, al tempo stesso,
difficilmente conciliabili. Da una parte rappresenta il percorso attraverso il quale il
clinico e l’équipe terapeutica provano a conoscere la persona che chiede aiuto, la sua
storia, il suo funzionamento psichico e le sue dinamiche”, ma risponde anche
“all’esigenza di standardizzazione e confrontabilità dei criteri con cui si effettua il
procedimento diagnostico e dei parametri per al valutazione degli esiti dei trattamenti”
(Consolo, Frossi, 2014 in Atlante delle dipendenze p 17).
34
Nell’ultima versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali
(Dsm-5, 2014) la diagnosi da dipendenza patologica in relazione all’alcoldipendenza e
alla tossicodipendenza è trattata tra i Disturbi da uso di sostanze. Si distingue tra
dipendenze lievi, moderate e gravi. Per la diagnosi è in genere richiesta la concomitanza
di almeno due tra i seguenti sintomi: stato di astinenza quando l’uso è interrotto o
fortemente ridotto; segni di assuefazione, con l’assunzione di dosi maggiori per ottenere
l’effetto originariamente prodotto con dosi minori; desiderio forte e irrefrenabile di
assunzione (craving); difficoltà nel controllare il comportamento di consumo; perdita o
disinteresse rispetto alle fonti di piacere alternative; persistenza del consumo nonostante
la consapevolezza di evidenti conseguenze dannose.
Riassumendo si potrebbe dire che la dipendenza patologica consiste in una
modalità d’essere, una condizione esistenziale globale determinata dall’uso compulsivo
di una sostanza, da un coinvolgimento totalizzante con un “oggetto” del desiderio, per
ottenere il quale il soggetto mette in atto un comportamento vissuto come incoercibile.
Il soggetto pur consapevole dei danni gravi che ne derivano a sé e agli altri, sceglie di
continuare a varcare i confini, vincoli, norme di salvaguardia e protezione.
Ancora, la dipendenza può essere intesa come una alterazione del
comportamento che da semplice o comune abitudine diventa una ricerca esagerata e
patologica del piacere attraverso mezzi o sostanze o comportamenti che sfociano nella
condizione patologica L'individuo dipendente tende a perdere la capacità di un controllo
sull'abitudine.
Cenni di neurobiologia
Gli studi neurobiologici sulle dipendenze da sostanze e l’alcolismo degli ultimi decenni
hanno individuato delle alterazioni neurochimiche dei sistemi norepinefrinergici,
serotoninergici, dopaminergici e del sistema degli oppiacei endogeni, una delle cause
fondamentali della compulsione ad assumere una sostanza. La disfunzione di questi
35
sistemi, non originata dagli effetti chimici della sostanza d’abuso, risulta dall’intreccio
di specifiche condizioni genetiche e ambientali.
Ad esempio, l’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA) potrebbe
essere spiegata in termini evolutivi come retaggio di esperienze traumatiche vissute nei
primi anni di vita: il rilascio di eccessive quantità di cortisolo (l’ormone dello stress),
rilevate nei bambini con relazioni primarie insicure, si accompagna ad un’ipersensibilità
dei recettori postsinaptici alla norepinefrina del sistema limbico – con il risultato di una
maggiore sensibilità allo stress, difficoltà nella gestione delle emozioni, intensi stati di
disagio e tensione.
I soggetti dipendenti da sostanze psicotrope (così come nelle new addiction) si
contraddistinguono, inoltre, per valori al di sotto della norma nei livelli di serotonina,
dopamina e oppiacei endogeni. Comportamenti compulsivi e di dipendenza
determinano (sia attraverso l’azione diretta della sostanza psicotropa, sia in maniera
indiretta, come nel caso del gambling, del sesso compulsivo e del binge eating) un
aumento di dopamina nel nucleo accumbens e l’attivazione dei recettori postsinaptici
degli oppiacei, i quali promuovono vissuti di gratificazione e di ricerca della novità.
2.3 La Riabilitazione della persona con dipendenza: il nuovo paradigma, il
Recovery
Premessa
Il nucleo del paradigma del recovery consiste nel tentare di restituire
l’esperienza soggettiva, un’identità positiva, il diritto di scegliere, la speranza di
“ricostruirsi una vita”. Un tentativo di restituzione centrato sull’esercizio di
autodeterminazione in quanto elemento essenziale di ogni impresa umana, della vita di
ognuno di noi. La traduzione più vera del concetto di recovery, “riprendersi” e non
“guarire”. Il paragrafo successivo per esplicitare il significato di ripresa col contributo
di Maone (2015).
36
2.3.1 Significato e accezioni del termine Recovery
“Recovery” ha nella lingua inglese un significato che può essere reso in italiano col
termine “guarigione”. Tuttavia il termine inglese ha una maggiore ampiezza semantica,
con un’enfasi sul processo piuttosto che sull’esito: in medicina, oltre che guarire, “to
recover” può significare riprendersi, ristabilirsi, recuperare. La guarigione definitiva da
una malattia, infatti, specie se intesa come effetto di uno specifico trattamento, spesso
richiede in inglese un’ulteriore qualificazione “full recovery” o l’utilizzo del termine
“cure”. Proprio tale relativa indeterminatezza può essere fonte di ambiguità
terminologiche quando, il concetto, viene utilizzato in quelle malattie o stati di salute
nel cui decorso si possono ottenere condizioni di remissione dei sintomi e di parziale o
temporaneo miglioramento, anche quando la malattia non sia stata del tutto debellata.
Attualmente si ha che fare con due diverse accezioni del concetto di recovery.
La prima è radicata nella tradizione medica (recovery come esito, “from” mental
illness) dove la condizione clinica viene valutata in base a quanto vengono soddisfatti i
criteri di guarigione operazionalmente definiti: remissione dei sintomi, ripristino del
funzionamento personale e sociale, ecc. La seconda, più recente, riguarda invece la
soggettività del paziente e la sua esperienza vissuta della malattia (recovery come
processo, “in” mental illness); non si riferisce all’esito clinico anzi essa riflette un
processo autenticamente personale, avviato a un certo punto del decorso e caratterizzato
da un impegno attivo del paziente nel tentativo di ripristinare un certo controllo sulla
propria vita attraverso il recupero di potenzialità e aspettative di realizzazione di sé che
la “malattia” aveva compromesso in modo apparentemente irreversibile. Essere “in
recovery” in questo senso richiede che il disturbo mentale venga considerato come solo
uno degli aspetti della personalità nella sua totalità. Non implica in primis né una
riduzione dei sintomi o dei deficit, né il ritorno a un pre-esistente stato di salute.
Benché siano presenti queste due eccezioni del concetto di recovery è quest’ultima
visione che sta acquisendo sempre maggiori consensi tanto da spingere vari paesi a
promulgare policy governative finalizzate alla trasformazione dei servizi di salute
mentale.
37
Il concetto di Recovery, pertanto, fa riferimento non tanto alla guarigione in senso
clinico quanto a un percorso personale che consenta al paziente di condurre una vita
soddisfacente sia sotto l'aspetto dell'autorealizzazione sia nella possibilità di acquisire
un ruolo sociale nel proprio contesto relazionale e comunitario. Patricia Deegan sul
Psychosocial Rehabilitation Journal ha pubblicato un articolo dal titolo “Recovery: the
lived experience of rehabilitation” (Deegan, 1988, p 11-19) dove definisce il recovery
come “un modo di vedere, un atteggiamento, un modo di far fronte alle sfide
quotidiane. Non è un processo perfettamente lineare: origina dalla necessità di
affrontare le sfide della disabilità e di ritrovare un nuovo senso di integrità e valore, un
nuovo scopo all'interno dei limiti della disabilità; l'aspirazione è di vivere, lavorare e
amare all'interno di un contesto sociale a cui dare un contributo significativo”.
“Recovery” potrebbe essere tradotto in italiano come “riaversi”, “ri-prendersi”, cioè
tornare ad appartenere a se stessi in un processo in cui la persona non si lascia
passivamente vivere dagli effetti della sua malattia, ma lavora attivamente per costruire
percorsi personali di guarigione.
L’OMS tramite il documento “Users empowerment in mental health. Empowerment is
not a destination but a journey”, edito nel 2010, declina il concetto nel contesto della
salute mentale mettendolo in relazione alle possibilità di scelta, di decisione e controllo
che gli utenti dei servizi di salute mentale possono avere sugli eventi della propria vita.
All’interno di questo quadro di riferimento il lavoro diventa uno degli strumenti
essenziali nel lungo processo di recovery e di inclusione fornendo l’opportunità di
partecipare alla società come cittadini attivi.
2.3.2 I modelli di riabilitazione volti all’inclusione socio-lavorativa nel paradigma
del recovery
38
Interessante è il contributo di Fioriti A. e Maone A. i quali ritengono che il
lavoro e la vita indipendente sono universalmente considerati aspetti determinanti per
l’inclusione sociale e quindi dovrebbero rientrare come obiettivi nella riabilitazione.
E’ ha sostegno di tale posizione che portano la posizione di Luc Ciompi punto di
riferimento nel campo della riabilitazione negli anni Ottanta e Novanta. Nel suo lavoro
(Ciompi, Dauwalder, Aguè, 1987) la pianificazione e valutazione degli esiti dei
programmi riabilitativi avveniva lungo due assi, asse-casa e asse-lavoro, ognuno dei
quali si differenziava in sette livelli. Il successo dei programmi era misurato in funzione
del raggiungimento di obiettivi significativi nel capo della situazione abitativa (lungo il
continuum dalle strutture restrittive all’abitazione indipendente) e dell’attività lavorativa
(dalla terapia occupazionale all’impiego retribuito).
La caratteristica di questo lavoro è la strutturazione del percorso riabilitativo
lungo un continuum lineare che riflette il paradigma della stimolazione ottimale. Si
tratta di trovare un punto di equilibrio fra l'esigenza di promuovere attivamente il
recupero della abilità, dell'autonomia e dei ruoli sociali e lavorativi, e quella di
proteggere il paziente dal rischio di iperstimolazione e conseguente scompenso e
ricaduta. Secondo tale impostazione il paziente può perciò transitare verso una più
impegnativa situazione lavorativa solo quando ha dimostrato un risultato positivo nella
fase precedente. Emerge, tuttavia, la questione della generalizzazione dei risultati,
ovvero la trasferibilità delle abilità acquisite durante l’apprendimento nella vita reale.
A questo proposito i due Autori portano la posizione di Benedetto Saraceno, il
quale ritiene che “la generalizzazione dei comportamenti appresi è destinata a fallire, in
quanto il contesto reale di vita esprime continuamente variabili di confondimento che
non si lasciano catturare all’ipercontrollo che è implicito nell’intero approccio”
(Saraceno, 1995, p. 21 citato in Maone, 2015). Nel percorso riabilitativo, in altri
termini, l’effettivo superamento della “frontiera” dell’inclusione sociale richiede che si
prendano in considerazione non solo le variabili connesse ai deficit dell’individuo, ma
anche fattori meno visibili ma ugualmente operanti e condizionanti, quali le reali
caratteristiche dei contesti ambientali e la loro modificabilità, le aspettative degli
39
stakeholder, i fattori motivazionali, nonché la concreta possibilità dei mezzi materiali
(ovvero reali opportunità di impiego lavorativo e soluzioni abitative).
Un altro aspetto critico, nel modello del continuum, riguarda dapprima il
principio del “prima preparare e poi collocare” (train and place) e delle conseguenze
che le diverse transizioni comportano: cambiamento di setting con il rischio di rottura
dei legami interpersonali significati e di perdita dei supporti psicosociali acquisiti nella
situazione precedente e, conseguentemente, il differimento dell’obiettivo finale col
rischio di prolungare la dipendenza dall'istituzione e di confermare le aspettative
negative, lo stigma interno e la disaffezione.
La critica più radicale si basa sull’assunzione che le persone apprendano dalle
esperienze reali quando queste sono concretamente disponibili, non dopo aver
dimostrato un miglioramento dei sintomi e del funzionamento. Sta prendendo forma
così un modello alternativo quello, del “place and train” secondo il quale dove la
persona è tempestivamente inserita in una reale situazione lavorativa attivando una rete
di supporto di pronta reperibilità, con lo scopo di fornire tutta l’assistenza necessaria al
conseguimento dell’obiettivo in vivo. In tal modo i fattori ambientali e sociali che
impediscono alla persona con “disabilità” di accedere al lavoro diventano ostacoli reali
che devono essere affrontati e superati (Corrigan & McCracken, 2005 citati in Maone,
A. 2015).
2.3.3 L’inserimento lavorativo per le persone con svantaggio: dagli schemi a
responsabilità sociale a quelli a responsabilità individuale.
Assistendo all’avvio dei processi di deistituzionalizzazione, diviene sempre più
chiaro che il lavoro è ben più che l’organizzazione del tempo personale e
dell'occupazione di esso in attività dotate di senso. Il lavoro diventa il principale marker
con cui la maggior parte delle persone misura la propria inclusione sociale, è una
caratteristica fondamentale dell’identità, è la realizzazione di aspirazioni profonde
inerenti la persona.
40
Nei paesi occidentali l’inserimento lavorativo viene perseguito prevalentemente
attraverso i cosiddetti “schemi di responsabiltà sociale”. Se il lavoro è un diritto e se
esistono classi di cittadini svantaggiati che trovano serie difficoltà ad accedere a questo
diritto, allora devono esistere meccanismi sociali che ne garantiscono la fruizione.
Questo è il senso dei meccanismi a collocazione mirata previsti dalla Legge n. 68/99,
basata sulla riserva di quote di posti di lavoro nelle aziende pubbliche e private per
cittadini con disabilità, compresa quella psichica. E’ anche il senso del forte impegno
dei servizi salute mentale (CSM e Ser.T) nello sperimentare percorsi protetti di
formazione e inserimento, basati sullo strumento delle borse lavoro, in collaborazione
con la cooperazione sociale e con i vari soggetti del terzo settore (Legge 381/91
Disciplina delle cooperative sociali). Il modello cooperativo ha suscitato grande
attenzione perché, come tutti i sistemi a responsabilità sociale, offre a un gran numero
di persone (maggiore rispetto alla Legge 68/99) opportunità che non troverebbero nel
mercato di lavoro competitivo/aperto. Tuttavia gli schemi a responsabilità sociale
stanno trovando sempre maggiori ostacoli nel garantire il raggiungimento di posizioni
lavorative effettive, vale a dire posizioni contrattualizzate, disponibili a qualsiasi
cittadino, svantaggiato o meno. La Legge 68/99 ha dimostrato discrete capacità di
sostegno e di contrattualità in favore di cittadini con disabilità fisica e intellettiva,
mentre è risultata più di ostacolo che una risorsa nella maggior parte dei casi per i
pazienti con disturbi mentali. Il movimento cooperativo è stato il genere la risorsa
principale su cui i Dipartimenti dei Salute Mentale e per le Dipendenze hanno potuto
contare, ma nell’ultimo decennio ha incontrato sempre più problemi nel ritagliarsi quote
di lavoro nel libero mercato e nel promuovere il lavoro contrattualizzato dei propri soci
svantaggiati. Inoltre, la nuova generazione di pazienti, meno disabile rispetto a quella
del passato, esprime una sempre maggiore insoddisfazione rispetto ai lunghi percorsi
fomativi, alle complesse procedure di preparazione al lavoro, alla ridotta probabilità di
ingresso nel mercato competitivo/aperto.
Queste contraddizioni si erano rese visibili già negli anni ‘90 negli Stati Uniti e
in coerenza con il loro contesto socio culturale di quegli anni si sono sperimentate, con
successo, forme alcuni “schemi sociali a responsabilità individuale”. Il lavoro, secondo
41
questo approccio, è una scelta individuale nella quale ciascuno mette in gioco le proprie
motivazioni, le proprie capacità e le proprie esperienze. La forza di questa spinta
motivazionale rischia di essere frenata dagli schemi di responsabilità sociale, mentre
può essere potenziata con supporti personalizzati alle capacità individuali. Tali schemi
vanno sotto il nome di supported employment (impiego con supporto).
Supported employment: definizione e principi
La definizione di Inserimento Lavorativo Assistito (Supported Employment, SE)
accettata e concordata tra l'Unione Europea per l’Inserimento Lavorativo Assistito
(EUSE) è “fornire sostegno alle persone con disabilità o altri gruppi svantaggiati per
ottenere e mantenere un lavoro retribuito nel mercato del lavoro aperto”.
L’obiettivo del SE è il lavoro competitivo. L’occupazione competitiva è così definita:
pagato almeno il minimo salariale, con uno stipendio uguale a quello che gli altri
ricevono svolgendo lo stesso lavoro, con sede in contesti non discriminanti accanto agli
altri lavoratori senza disabilità, con una posizione non riservata a persone con disabilità.
I clienti preferiscono posti di lavoro competitivi al lavoro protetto. Lavorare fianco a
fianco agli altri senza disabilità psichiatriche aiuta a ridurre lo stigma e la
discriminazione.
Si tratta di una metodologia che affronta il problema dell’occupazione dei
disabili o altre figure svantaggiate in modo completo e integrato, comprendendo
l'orientamento, il profiling professionale, la formazione, la ricerca di lavoro, ed il
supporto all’interno e fuori dal posto di lavoro.
I valori e i principi alla base dell’inserimento lavorativo assistito sono del tutto
coerenti con i concetti di empowerment, inclusione sociale, dignità e rispetto della
persona. Nel quadro dell’inserimento lavorativo assistito questi concetti possono essere
ulteriormente definiti dai seguenti valori e principi che sono presenti in tutte le fasi e le
attività del supported employment (obiettivo lavoro competitivo; sostegno integrato con
il trattamento del diturbo; Zero exclusion; partire dalle preferenze del cliente;
42
consulenza sulle opportunità economiche; rapida ricerca del lavoro; lavoro sistematico
di sviluppo personale, sostegno a tempo illimitato), di seguito descritti.
Individualità. L’inserimento lavorativo assistito considera ogni individuo come unico,
con il suo/suoi interessi, preferenze, condizioni e storia di vita.
Rispetto. Le attività di inserimento lavorativo assistito sono sempre appropriate all’età
della persona, nel rispetto della sua dignità umana.
Autodeterminazione. L’inserimento lavorativo assistito aiuta le persone a sviluppare i
propri interessi e preferenze, esprimere le proprie scelte, e definire il proprio progetto
occupazionale di vita secondo le condizioni personali e di contesto.
Scelta informata. L’inserimento lavorativo assistito aiuta le persone a capire a fondo le
proprie opportunità in modo da poter scegliere in modo coerente all'interno delle
preferenze individuali e con una comprensione delle conseguenze delle proprie scelte.
Empowerment. L’inserimento lavorativo assistito aiuta le persone a prendere decisioni
sul proprio stile di vita e sulla partecipazione alla vita sociale.
Gli individui sono coinvolti in posizione centrale nella pianificazione, valutazione e
sviluppo dei servizi.
Riservatezza. Gli operatori dell’inserimento lavorativo assistito considerano le
informazioni loro fornite dagli utenti in modo riservato. L'utente del servizio ha accesso
alle sue informazioni personali raccolte dal servizio e ogni divulgazione o utilizzo dei
dati necessità dell’accordo dell’utente.
Flessibilità. Il personale e le strutture organizzative sono in grado di modificare
l’approccio metodologico in base alle esigenze degli utenti del servizio. I servizi sono
flessibili e rispondenti alle esigenze degli individui e possono essere adattati alle
esigenze specifiche.
Accessibilità. I servizi, le strutture e le informazioni dell’inserimento lavorativo
assistito sono completamente accessibili a tutte le persone con disabilità.
43
2.4 Quale career counseling nellinserimento lavorativo di persone con svantaggio
2.4.1 Introduzione
Il cambiamento dell’assetto socio-economico sta facendo sì che le persone debbano
diventare più autonome nel gestire le loro vite: nel mondo del lavoro non sono più le
organizzazioni che forniscono alle persone la “narrazione” su come dovrebbe procedere
la loro vita, anche e soprattutto lavorativa, ma sono le stesse persone che devono
iniziare a costruirsi la propria storia di vita e professionale, lo stesso nel mondo del
sociale, con il graduale spostamento dagli schemi a “responsabilità sociale” a quelli a
“responsabilità individuale”. L’emergere della dimensione individuale, soggettiva,
riprendendo quanto già citato (a pag 9), necessita che le persone debbano fidarsi di loro
stesse per costruire la loro storia - un Sé e un percorso professionale - per tenere insieme
loro stesse e le proprie vite e affinché il sentimento di perdita, che si sperimenta nei
momenti di discontinuità, di transizione, non le opprima. Le persone, sostanzialmente,
devono diventare autrici della loro storia.
Il career counseling viene in aiuto della persona dal momento che ha come
obiettivo quello di preparare le persone ad affrontare e a partecipare al nuovo mondo,
dandosi nuove narrazioni attraverso un processo di costruzione, decostruzione e
ricostruzione delle singole storie in una storia più ampia e costruzione dell’episodio
successivo, il tutto all’interno di una storia di vita che fornisca significato e continuità.
Il career counseling, dunque, per curare il sé al fine di costruire una narrativa del
percorso professionale; il career counseling come processo che potenzialmente possa
assistere tutte le persone, in qualsiasi circostanza (anche per quelle le cui vite non
sembrano conformarsi alle tendenze e agli assunti di “carriera” comuni) per progettare,
in modo significativo, le proprie vite in anticipo. Tutti, anche se con sfumature diverse,
nutriamo intenzioni di creare significato nelle nostre vite.
2.4.2 Dal principio “conosci te stesso” all’etica “Cura del Sé” nel career counseling
per persone con svantaggio
44
E’ possibile che il career counseling sia utile anche a quelle persone le cui vite
sembrano non conformarsi alle tendenze comuni: a una donna che è stata costretta alla
prostituzione, a un uomo che assuma un bottiglia di gin al giorno e vive per strada, a un
membro di una gang di un ghetto urbano, a una mamma single con quatto bambini che
vivono in condizioni di estrema povertà, etc.?
Al come il career counseling possa essere utile anche a queste persone ha
provato a dar risposta John Winslade attingendo al lavoro di Micheal Focault, all’enfasi
che lo stesso dà alla cura del Sé. Foucault la concepisce come “un processo deliberato di
proiezione in avanti di una storia in modo consapevole delle forze guida che operano
nella produzione di una vita” (Maree, 2011, p. 57) .
Se pensiamo al lavoro come a un’attività piena di significato, allora un percorso
professionale è un’idea organizzata che esprime scopi pregevoli, sui quali possono
essere generate specifiche attività. La costruzione è connessa alla costruzione di un
senso di sé e di un’identità. E’ un processo di produzione, creazione e articolazione. E’
un progetto sempre in divenire. Allo stesso tempo, è un progetto che si realizza nel
mondo reale che pone vincoli e limiti a ciò che le singole persone possono fare. Questo
mondo è plasmato da relazioni di potere che costituiscono la nostra vita in modo in cui
talvolta abbiamo poca voce in capitolo. Il processo di creazione del sé prende sempre in
considerazione gli effetti del potere.
Proprio il tipo di progetto che un percorso professionale rappresenta dipende da
come noi lo pensiamo. Se abbiamo una concezione narrativa di questo progetto, allora
potremo sviluppare non solo un percorso effettivo, ma un resoconto di un percorso, un
sostegno e una guida narrativa alle quali riferirci nei momenti di confusione e
contraddizione. L’assunto è che la rappresentazione di un evento o oggetto, la sua
storia, giocano un ruolo nella sua creazione. Le storie (la costruzione degli eventi)
influenzano le vite, non sono solo storie. Quindi il counseling può lavorare direttamente
sulla narrazione per incidere sul modo in cui la storia (trama) viene vissuta. Il compito
del career counseling diventa, a questo punto, quello di rendere manifesto il racconto
(tema) di una persona relativo alla propria significativa azione nel mondo.
45
Il primo Foucault (1971) parte dal prendere in considerazione le relazioni di
potere mettendo in luce come le relazioni di potere (discorsi dominanti di materia
economica, apprendimento ed educazione, familiari) governino i percorsi professionali.
Tuttavia la portata di questi discorsi dominanti, sempre secondo Foucault, non è poi così
ampia, infatti evidenzia il fatto di come il potere produca, più o meno automaticamente,
resistenza, ovunque venga applicato. La produzione di resistenza passa attraverso la
scoperta del gap nei discorsi dominanti.
La scoperta di questi gap nei discorsi dominati o principali porta all’apertura di
storie alternative, vale a dire che la portata dei discorsi dominati, per promuovere
identità da loro interiorizzate, non è poi così ampia. Ci sono sempre momenti, nobili
intenzioni, contraddizioni (celare ambizioni private, sogni professionali “irrealistici”)
che sono lasciati fuori dalle storie di identità personale perché essi non si adattano alla
narrazione dominante. Sono proprio queste “contraddizioni” da ricercare perché sono la
base per la crescita di una storia alternativa e possono portare ad aperture professionali
privilegiate.
Queste contraddizioni sono l’espressione di resistenza ai processi di potere della
produzione sociale. Tale resistenza può essere intesa come l’espressione del desiderio di
qualcosa di meglio. Nella resistenza spesso si trovano degli impliciti progetti di vita che
un cliente tiene “cari”. La resistenza, in questo senso, diventa un’espressione di
speranza. Nel career counseling può anche essere un’espressione di ambizione, spesso
di coraggio di fronte alle forze della limitazione.
Il secondo Foucault (1992, 1991, 1997, 2003) sostiene che la resistenza al potere
è tuttavia una base limitata sulla quale costruire progetti professionali; il suo focus è
negativo e la sua forza motivante dipende dalla continua esistenza della relazione di
potere. Egli indaga da una base differente l’esercizio della gestione di sé (self-
governance) reinserendo un antico principio relativo alla cura del Sé.
Foucault (2003), sulla base della sua analisi del potere, sostiene che lo sviluppo
personale è basato sull’etica della “cura del Sé”. Questa etica è differente dalla logica
emancipatoria, e relativa alla liberazione del vero Sé dai limiti repressivi, portata avanti
dagli assunti umanistici, che dominano la psicologia (specialmente nel campo del
46
counseling), dove lo sviluppo personale riguarda l’aumento di consapevolezza o una
migliore conoscenza di se stessi. Il valore umanistico è, riprendendo l’antico principio
delfico, “Conosci te stesso!”.
La psicologia umanistica, infatti postula l’esistenza di un nucleo centrale nella
persona che emerge con la crescita personale. Il career development diventa così un
modo di apprendere questa essenza interiore. Le decisioni professionali equivalgono a
un processo di allineamento della propria “vera natura” con un percorso che realizzerà il
massimo grado di soddisfazione personale.
Per la psicologia umanistica, arrivare a conoscere se stessi è considerato
emancipante il Sé più veritiero, dalle costrizioni repressive del contesto sociale;
Foucault invece afferma che lo sviluppo personale è basato su un’etica differente dalla
logica emancipatoria. Lo sviluppo personale secondo lui necessità di un processo di
costruzione intenzionale (piuttosto che la scoperta) del Sé e trova espressione, per
questa etica, nell’antica “cura del Sé”, attraverso le cui pratiche la persona agisce su di
sé per generare una vita; sono sforzi deliberati per costruire un’esperienza interiore
desiderata, sempre nel contesto delle forze disciplinari che operano intorno alla persona.
Questa etica della “cura del Sé” propone un percorso professionale come un
progetto estetico, più simile ad un’opera d’arte che a un progetto scientifico. Riportato il
tutto nel career counseling, ci potrebbe essere meno enfasi sulla scoperta di propensioni
naturali (o attitudini) e più sulla costruzione di una traiettoria narrativa che potrebbe
dar vita al Sé.
Foucault (2003) quando introduce l’etica della “cura del Sé” lo fa pensando all’
askesis termine greco che identifica l’antica pratica della cura del Sé come a un inseme
di esercizi meditativi. In questa cornice di pensiero la cura del Sé è un esercizio ascetico
di creazione di sé piuttosto che di scoperta di sé.
Un colloquio di counseling è, può diventare, un contesto dove questa stessa
opera (“cura del Sé”) può essere generata nel modo moderno. Winslade traduce questi
esercizi ascetici in un insieme di quattro pratiche che potrebbero dar luogo alla pratica
del career counseling: il ruolo del ricordo nella progettazione di una narrazione futura;
immaginare il futuro; testare se stessi nel mondo dell’esperienza e valutare i propri
47
progetti come se fossimo di fronte alla morte. Il riferimento è al corso che Foucault
tenne al College de France: la serie di lezioni sull’Ermeneutica del soggetto, molte delle
quali si concentrano sulla cura del Sé (Foucault, 2003).
Il ruolo del ricordo nella progettazione di una narrazione futura
Il ruolo della memoria nella cura del Sé si correla ai processi di apprendimento
attraverso l’ascolto e la scrittura e la costruzione della conoscenza. Riferendoci ad essa
come ad esempio all’educazione, mettendo insieme la conoscenza memorizzata del
mondo e di se stessi, si crea ricchezza interiore; questa deve essere costantemente
rivisitata per creare valore. Foucault descrive il processo come segue: “Si deve avere
dentro di sé una sorta di libro da rileggere di volta in volta”.
Questo libro interiore di esperienze e conoscenze viene riletto, e nella rilettura ci
ci si impegna a fare il punto su noi stessi. E’ così che i ricordi permettono di fare il
punto o l’inventario dei resoconti di ciò che si è diventati.
Il career couseling potrebbe quindi enfatizzare domande che invitano a un
processo di memorizzazione e di inventario. La stesura di un curriculum vitae è
un’attività che potrebbe essere un esempio di tale memorizzazione e le questioni
potrebbero centrarsi sul racconto di storie, di situazioni nelle quali una persona ha
sperimentato attività significative che la sostengono e la rinforzano. Le persone
dovrebbero essere invitate a rispondere a domande che le permettano di fare il punto su
ciò che è “stato prodotto” in loro stessi in relazione ai ricordi positivi: quali qualità
personali sono state sviluppate; quali valori sono stati espressi; quali progetti di vita
sono stati suggeriti; quali impegni sono implicati.
Immaginare il futuro
Un altro esercizio che Foucault porta nella cura del Sé richiede di immaginare il
futuro. In tempi antichi, gli stoici erano conosciuti per un esercizio controverso
chiamato “praemeditation malorum, la meditazione sui mali futuri” (p. 501). Questo era
un esercizio per immaginare i mali attuali e proiettarli nel futuro, contemplando il
peggio che sarebbe potuto accadere. L’esercizio veniva svolto per capire che simili
paure stanno solo nella nostra stessa costruzione e non necessariamente si realizzeranno.
48
Lo scopo era di separare tali visioni del futuro dal potere che esse potrebbero esercitare
sul presente.
Come portare l’enfasi di questa antica meditazione nella pratica del career
counseling? Innanzittutto, i mali degli stoici si riferiscono a quelli che oggi chiamiamo
“problemi”. Questi sono gli ostacoli della vita, o i vincoli, o le fonti di sofferenza che
incontriamo nel corso della nostra vita spesso prodotti fuori dalle relazioni di potere
intorno a noi. Nel counseling, la costruzione di un futuro preferito è necessaria per
affrontare il potere di simili problemi che indeboliscono i nostri progetti di vita.
La pratica di costruzioni di conversazioni esteriorizzate (White & Epston, 1990)
è perfettamente adatta a questo compito. In essa, i problemi (i mali) sono dati da una
entità separata e vengono esplorati in profondità per gli effetti che producono. Le
domande sono fatte frequentemente sul passato, presente e futuro di questi effetti. Le
domande fatte sui possibili effetti futuri immaginati del disagio rappresentano l’antica
meditazione sui mali futuri.
Ad esempio: “Se questo problema continuasse a dominare la tua vita, che tipo di
futuro vorresti per te? Quale tipo di percorso lavorativo potresti immaginare per te?”
Queste tematiche non mirano a radicare le persone in storie problematiche anzi portano
a creare una giusta distanza da loro, valutandole per la loro utilità, e il valore della
verità. Esse stabiliscono la motivazione ad affermare un futuro alternativo che potrebbe
rafforzare la motivazione a perseguire un particolare percorso lavorativo.
Testare se stessi nel mondo dell’esperienza
Un altro esercizio è l’esame del Sé nel mondo della prassi e dell’esperienza.
Nell’antichità si trattava di esercizi di privazione e astinenza per provare ed analizzare
la propria risolutezza interiore. Lo scopo spiega Foucault era di “stabilire e testare
l’indipendenza degli individui in relazione al mondo esterno”.
Nel contesto del moderno career counseling, questo è l’ambito in cui si lavora
con le persone per sviluppare le identità preferite in azione. Ciò comporta la formazione
49
e l’implementazione di decisioni, l’assunzione di rischi, la produzione del futuro
immaginato nel mondo dell’esperienza.
Il career counseling narrativo sottolinea il fatto di fare domande che muovano
dal panorama dell’identità al panorama dell’azione (Bruner, 1986) e viceversa. Questo
implica stimolare a raccontare storie di ciò che è successo e a riflettere sul dettaglio
della vita vissuta; richiede di ricordare di nuovo i principi e i valori che una persona
ritiene cari e le strategie per renderli praticabili. Comporta la creazione di uditori che
apprezzino le storie e i progetti di identità che i clienti costruiscono, in base al principio
che le storie esistono e diventano influenti nei contesti in cui sono state raccontate.
Valutare i propri progetti come se fossimo di fronte alla morte
Foucault (2005) delinea l’insieme finale delle pratiche ascetiche riferendosi a
una meditazione famosa presso gli antichi stoici, chiamata melete thanatos, o
preparazione alla morte. Questa pratica implicava la proiezione di se stessi fino al
momento prima della morte e uno “sguardo indietro, in anticipo, per parlare della
propria vita”. Da questo punto di vista ci si potrebbe porre la questione del giudizio
morale finale, “se la virtù era solo nelle mie parole o realmente nel mio cuore” (Seneca,
citato da Foucault, 2005 p. 505). Il momento della morte viene estrapolato dagli stoici
nel rituale giornaliero di valutazione personale. Ogni giorno deve essere vissuto come se
fosse l’ultimo così che, come disse Marco Aurelio: “Quando ci prepariamo ad andare a
dormire, diciamo, con gioia ed espressione serena: ho vissuto” (citato in Foucault, 2005,
p. 504).
Foucault sostiene che questa pratica non era legata ad una preoccupazione della
morte, quanto uno studio di autovalutazione dallo speciale punto di vista di immaginare
l’approccio alla morte. La domanda, impegnativa, a cui rispondere è: “Sono convinto di
essermi concentrato su ciò che è stato importante nella mia vita?”.
Focalizzarsi sulla morte diventa il modo di intensificare il significato dei propri
scopi e progetti di vita. Le domande fatte per stimolare una simile autovalutazione sono
utili nel career counseling, anche se non sono accompagnate dalla menzione del
momento finale. All’interno del focus narrativo, un counselor pone di frequente
50
domande che sollecitano la presa di posizione in relazione al problema o alla
preferenza per una storia alternativa. Un modo per fare questo, nel career counseling,
potrebbe essere una domanda quale: “Quando guardi alla tua vita di cosa vorresti
essere fiero?”. Inoltre riprendendo l’esempio di Marco Aurelio, la domanda che può
essere fatta quotidianamente diventa: “Quando guardi alla tua vita alla fine del giorno
(o settimana, mese, anno ecc.) di cosa vorresti essere orgoglioso?”.
Le quattro pratiche che nell’etica antica sottolineano la meditazione individuale,
nella moderna pratica del career counseling, come presentato da Winslade, possono
essere pensate come conversazioni riflessive dove le domande del “counselor” formano
ciò e costituiscono ciò su cui meditare.
Tornado, in conclusione, alla persone immaginate all’inizio del paragrafo allora
possiamo ipotizzare una conversazione sui ricordi o sulle speranze nutrite per la donna,
che vive in povertà con quattro figli, per i bambini e per se stessa; o domande sui ricordi
di sé per l’uomo che è senza casa ed è un bevitore abituale; o domande, al componente
della gang del ghetto urbano sui peggiori effetti che si sarebbero potuti verificare se la
cultura della gang avesse continuato a dominare la sua vita e se sarebbe felice di vivere
con questi effetti oppure no. Ognuna di queste domande potrebbe rappresentare l’inizio
di un colloquio. Ognuna potrebbe aprire un racconto. E ogni narrazione, adeguata al
giusto tipo di pubblico, in modo da nutrire e dissetare la sua crescita, potrebbe maturare
in un progetto. La parola “progetto” si riferisce letteralmente al proiettare qualcosa in
avanti e proiettare un’identità in avanti nella vita potrebbe potenzialmente assumere la
caratteristica di un percorso.
Mi piace l’idea di chiudere questo capitolo con una poesia che secondo me
sintetizza i concetti fin qui sviluppati e cioè che oggi, più che nel passato, emerge forte
il bisogno di costruirsi una carriera professionale, un profilo professionale, una storia
professionale all’interno dei quel racconto personale relativo alla propria significativa
azione nel mondo, che il più delle volte rimane celato o si può manifestare nei momenti
drammatici del proprio percorso professionale/personale.
51
Il career counseling lo vedo come uno strumento per costruire una narrativa che
può dar vita al Sé. Come strumento che coglie la linea trasversale che collega le brevi
strorie in una macronarrazione tracciando un filone centrale di sviluppo. E’ ricercare lo
schema implicito nei racconti, il filo che unisce le perle di una storia di vita.
La poesia a cui ho pensato e che elicita questi concetti è quella di William
Stafford (1999, p. 144) intitolata E’ così (The way is it):
E’ Così The Way It Is
52
C’è un filo che segui. Va tra le cose
che cambiano. Ma il filo non cambia.
Gli altri si chiedono dove vai.
Devi dare spiegazioni del filo.
Ma per gli altri è difficile capire.
Se tieni il filo non puoi perderti.
Le tragedie capitano; le persone vengono ferite
o muoiono; e tu soffri e invecchi.
Non puoi fermare il tempo.
Non mollare mai il filo.
There’s a thread you follow. It goes among
things that change. But it doesn’t change.
People wonder about what you are pursuing.
You have to explain about the thread.
But it is hard for others to see.
While you hold it you can’t get lost.
Tragedies happen; people get hurt
or die; and you suffer and get old.
Nothing you do can stop time’s unfolding.
You don’t ever let go of the thread.
Conslusioni
Note su “ Il tempo della vita” nel relazione di sostegno, cura.
53
Il bisogno emergente di costruirsi una storia professionale all’interno di quel
racconto personale relativo alla propria significativa azione nel mondo il più delle volte
rimane celato o si può manifestare in momenti drammatici del proprio percorso
professionale/personale. In questi momenti “drammatici” il professionista non può
trascurare la dimensione tempo o meglio il tempo e l'esperienza che la persona ne fa. Si
potrebbe dire, riprendendo le parole di Borgna (2015) che lo scopo del professionista sta
nell'aiutare la persona a non lasciarsi divorare dal presente, quando è possibile, ma che
tenga sempre vive nella persona le fiaccole trepidanti del passato e del futuro, facendole
recuperare fino in fondo la circolarità agostiniana del tempo.
Il tempo per la comprensione della psicologia umana: circolarità agostiniana
Per Borgna (2015) il concetto di tempo è il tema cruciale per la comprensione
della psicologia umana, la cui natura sfaccettata, relativa e dalle infinite declinazioni,
diventa fattore imprescindibile quando si considerino la natura e la psiche umane.
La nostra vita nasce e muore nel tempo, si svolge in esso e per meglio
comprenderla dobbiamo avere presenti le esperienze del tempo. C'è il tempo degli
orologi, quello misurabile, che è uguale in ognuno di noi e il tempo interiore, il tempo
del vissuto, che è diverso in ciascuno di noi, che cambia indipendentemente dalla
scansione cronologica delle ore e che è influenzato dalle nostre emozioni, dai nostri
vissuti. Il tempo interiore ci fa vivere in misura diversa, perché mediata dalle proprie
emozioni, dai propri stati d'animo, una uguale estensione temporale.
Quindi la percezione soggettiva del tempo ad esempio di quando ci si sente
stanchi, o tristi, o annoiati è diversa da quando ci si sente lieti, o sereni, o si è interessati
a qualcosa. Nel primo caso probabilmente un'ora di tempo diventa interminabile nel
secondo, invece, sarà breve e fluida. Le nostre emozioni e i nostri stati d'animo si
riflettono nella percezione che ognuno di noi ha del tempo. Il tempo geometrico, quello
che scandisce le nostre ore, è influenzato dal tempo vissuto, e la persona non sarebbe
tale in assenza della traiettoria temporale; é un elemento costitutivo dell'identità e
permea la coscienza e l’esistenza di ciascuno.
54
Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE
Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE
Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE
Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE
Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE
Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE
Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE
Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE

More Related Content

Similar to Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE

Le organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionale
Le organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionaleLe organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionale
Le organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionaleMarinella De Simone
 
Pratiche Filosofiche in Azienda - Pensiero condiviso per il potenziamento del...
Pratiche Filosofiche in Azienda - Pensiero condiviso per il potenziamento del...Pratiche Filosofiche in Azienda - Pensiero condiviso per il potenziamento del...
Pratiche Filosofiche in Azienda - Pensiero condiviso per il potenziamento del...Giulia Biguzzi
 
Sintesi Aif Learning News Nov 2008
Sintesi   Aif Learning News   Nov 2008Sintesi   Aif Learning News   Nov 2008
Sintesi Aif Learning News Nov 2008Maurizio Rossi
 
Counselling, definizione e ambiti operativi
Counselling, definizione e ambiti operativiCounselling, definizione e ambiti operativi
Counselling, definizione e ambiti operativiBruno Marzemin
 
Dispensa de carli mg3 ud1 14 15
Dispensa de carli mg3 ud1 14 15Dispensa de carli mg3 ud1 14 15
Dispensa de carli mg3 ud1 14 15RosaDelDeserto
 
Canevaro v
Canevaro vCanevaro v
Canevaro vimartini
 
HPT COACH - Program Book Estate 2014
HPT COACH - Program Book Estate 2014HPT COACH - Program Book Estate 2014
HPT COACH - Program Book Estate 2014Marinella De Simone
 
Prog Dialogica E Assessment Integrato
Prog  Dialogica E Assessment IntegratoProg  Dialogica E Assessment Integrato
Prog Dialogica E Assessment IntegratoMassimo
 
Dispense di Gestione della Conoscenza
Dispense di Gestione della ConoscenzaDispense di Gestione della Conoscenza
Dispense di Gestione della ConoscenzaAnna Bollella
 
L’organizzazione che non si nasconde ma si mette in gioco
L’organizzazione che non si nasconde ma si mette in giocoL’organizzazione che non si nasconde ma si mette in gioco
L’organizzazione che non si nasconde ma si mette in giocoValeria Degiovanni
 
Citazioni sul costruttivismo
Citazioni sul costruttivismoCitazioni sul costruttivismo
Citazioni sul costruttivismoicpitalia
 
Crisi lavoro psicopatologia mobbing - a cura di Rosalba Gerli
Crisi lavoro psicopatologia mobbing - a cura di Rosalba GerliCrisi lavoro psicopatologia mobbing - a cura di Rosalba Gerli
Crisi lavoro psicopatologia mobbing - a cura di Rosalba GerliDrughe .it
 
Quale formazione per l’empowerment personale e organizzativo?
Quale formazione per l’empowerment personale e organizzativo?Quale formazione per l’empowerment personale e organizzativo?
Quale formazione per l’empowerment personale e organizzativo?Baglietto andpartners
 
Condurre Nell Incertezza
Condurre Nell IncertezzaCondurre Nell Incertezza
Condurre Nell IncertezzaFabio Bordigoni
 
Manukian f. - presentazione le trame dello stare insieme
Manukian   f. - presentazione le trame dello stare insiemeManukian   f. - presentazione le trame dello stare insieme
Manukian f. - presentazione le trame dello stare insiemeRaffaele Barone
 
Senso significato motivazione nei servizi alla persona, relazione di suor Liv...
Senso significato motivazione nei servizi alla persona, relazione di suor Liv...Senso significato motivazione nei servizi alla persona, relazione di suor Liv...
Senso significato motivazione nei servizi alla persona, relazione di suor Liv...Uneba
 
Restituzione del corso di psicologia clinica dei gruppi e delle organizzazioni
Restituzione del corso di psicologia clinica dei gruppi e delle organizzazioniRestituzione del corso di psicologia clinica dei gruppi e delle organizzazioni
Restituzione del corso di psicologia clinica dei gruppi e delle organizzazioniSimona Toni
 

Similar to Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE (20)

Le organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionale
Le organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionaleLe organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionale
Le organizzazioni come incubatori di conoscenza relazionale
 
The circle light
The circle lightThe circle light
The circle light
 
Pratiche Filosofiche in Azienda - Pensiero condiviso per il potenziamento del...
Pratiche Filosofiche in Azienda - Pensiero condiviso per il potenziamento del...Pratiche Filosofiche in Azienda - Pensiero condiviso per il potenziamento del...
Pratiche Filosofiche in Azienda - Pensiero condiviso per il potenziamento del...
 
Sintesi Aif Learning News Nov 2008
Sintesi   Aif Learning News   Nov 2008Sintesi   Aif Learning News   Nov 2008
Sintesi Aif Learning News Nov 2008
 
Counselling, definizione e ambiti operativi
Counselling, definizione e ambiti operativiCounselling, definizione e ambiti operativi
Counselling, definizione e ambiti operativi
 
Dispensa de carli mg3 ud1 14 15
Dispensa de carli mg3 ud1 14 15Dispensa de carli mg3 ud1 14 15
Dispensa de carli mg3 ud1 14 15
 
Canevaro v
Canevaro vCanevaro v
Canevaro v
 
HPT COACH - Program Book Estate 2014
HPT COACH - Program Book Estate 2014HPT COACH - Program Book Estate 2014
HPT COACH - Program Book Estate 2014
 
Prog Dialogica E Assessment Integrato
Prog  Dialogica E Assessment IntegratoProg  Dialogica E Assessment Integrato
Prog Dialogica E Assessment Integrato
 
Dispense di Gestione della Conoscenza
Dispense di Gestione della ConoscenzaDispense di Gestione della Conoscenza
Dispense di Gestione della Conoscenza
 
L’organizzazione che non si nasconde ma si mette in gioco
L’organizzazione che non si nasconde ma si mette in giocoL’organizzazione che non si nasconde ma si mette in gioco
L’organizzazione che non si nasconde ma si mette in gioco
 
Citazioni sul costruttivismo
Citazioni sul costruttivismoCitazioni sul costruttivismo
Citazioni sul costruttivismo
 
Crisi lavoro psicopatologia mobbing - a cura di Rosalba Gerli
Crisi lavoro psicopatologia mobbing - a cura di Rosalba GerliCrisi lavoro psicopatologia mobbing - a cura di Rosalba Gerli
Crisi lavoro psicopatologia mobbing - a cura di Rosalba Gerli
 
Quale formazione per l’empowerment personale e organizzativo?
Quale formazione per l’empowerment personale e organizzativo?Quale formazione per l’empowerment personale e organizzativo?
Quale formazione per l’empowerment personale e organizzativo?
 
Condurre Nell Incertezza
Condurre Nell IncertezzaCondurre Nell Incertezza
Condurre Nell Incertezza
 
Manukian f. - presentazione le trame dello stare insieme
Manukian   f. - presentazione le trame dello stare insiemeManukian   f. - presentazione le trame dello stare insieme
Manukian f. - presentazione le trame dello stare insieme
 
Le parole dell'orientamento
Le parole dell'orientamentoLe parole dell'orientamento
Le parole dell'orientamento
 
ABI FORUM HR 2014 Articolo MGDA
ABI FORUM HR  2014 Articolo MGDAABI FORUM HR  2014 Articolo MGDA
ABI FORUM HR 2014 Articolo MGDA
 
Senso significato motivazione nei servizi alla persona, relazione di suor Liv...
Senso significato motivazione nei servizi alla persona, relazione di suor Liv...Senso significato motivazione nei servizi alla persona, relazione di suor Liv...
Senso significato motivazione nei servizi alla persona, relazione di suor Liv...
 
Restituzione del corso di psicologia clinica dei gruppi e delle organizzazioni
Restituzione del corso di psicologia clinica dei gruppi e delle organizzazioniRestituzione del corso di psicologia clinica dei gruppi e delle organizzazioni
Restituzione del corso di psicologia clinica dei gruppi e delle organizzazioni
 

Tesi di Specialità LA DIMENSIONE PSICOLOGICA NELL'ORIENTMENTO PROFESSIONALE

  • 1. Istituto di psicoterapia, intervento sul disagio in ambito organizzativo e valorizzazione della persona (G. U. n. 263 dell'11 novembre 2005) TESI DI SPECIALIZZAZIONE “NON MOLLARE MAI IL FILO” La dimensione psicologica nell'orientamento professionale di Stefania Zin 2012-2015 VI° Ciclo di Specializzazione 1
  • 2. 2
  • 3. Grazie a tutti voi che mi avete accompagnata in questo cammino di crescita personale e professionale e mi avete, ognuno a modo suo, secondo le proprie possibilità e competenze, appoggiata e sostenuta con fiducia e rispetto. Un pensiero particolare va a mio marito Paolo, sempre pronto ad ascoltarmi, sostenermi e che ha abilmente gestito le mie assenze, e ai miei figli Giulia e Nicola che, abbracciandomi, mi accoglievano quando rientravo da Padova. Vi amo! Stefania è grata! 3
  • 4. 4
  • 5. INDICE Introduzione pag. 7 Capitolo I I FENOMENI SOCIO-PSICOLOGICI NEL PROCESSO DI CAREER COUNSELING Premessa: “Significato del lavoro per la costruzione dell'identità personale” 1.1 Dalla sicurezza del XX sec. all’insicurezza lavorativa del XXI secolo pag. 12 1.2 L'identità personale e professionale pag. 15 1.3 Il career counseling ad orientamento costruttivista: una possibile risposta all’insicurezza lavorativa del XXI secolo 1.3.1 Introduzione pag. 16 1.3.2 L'impatto della teoria di Kelly pag. 18 1.3.3 Il costruttivismo nel career counseling pag. 19 Capitolo II IL CAREER COUNSELING AD ORIENTAMENTO COSTRUTTIVISTA NEL PROCESSO DI RECOVERY NELLE PERSONE CON DIPENDENZA Premessa: “Il valore terapeutico del lavoro per le persone con svantaggio” 2.1 Una definizione di lavoratore svantaggiato pag. 25 2.2 Il persona con la dipendenza da sostanze pag. 29 2.3 La riabilitazione della persona con dipendenza: il nuovo paradigma, il recovery 2.3.1 Il significato ed accezioni del termine recovery pag.37 2.3.2 I modelli di riabilitazione volti alla inclusione socio lavorativa nel paradigma del recovery pag.39 2.3.3 L'inserimento lavorativo per le perone con svantaggio: dagli schemi a responsabilità sociale a quelli a responsabilità individuale pag. 41 2.3.4 2.4 Quale career counseling nell’inserimento lavorativo di persone con svantaggio 5
  • 6. 2.4.1 Introduzione pag. 44 2.4.2 Dal principio “conosci te stesso” all’etica “Cura del Sé” nel career counseling per persone con svantaggio pag. 45 Conclusioni Note su “ Il tempo della vita” nel relazione di sostegno, cura. pag. 54 Bibiografia pag. 60 Sitografia pag. 62 6
  • 7. INTRODUZIONE Entrare nel mondo del lavoro e muoversi da un posto di lavoro all'altro richiede oggi, nel XXI sec., più sforzi e fiducia che nell'era industriale. Lavorare nell'economia globale postmoderna comporta più rischi perché i lavori stanno per essere sostituiti con incarichi temporanei e le organizzazioni da reti. L'operazione di inserimento al lavoro si presenta, dunque, oggi come una operazione da una doppia complessità: una collegata con l'organizzazione sociale e una collegata alle specificità soggettive delle persone soprattutto a quelle legate alle fasce più deboli. Rispetto alla prima stiamo assistendo all'imporsi di nuovi modelli produttivi, ad un sempre maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro e ad una crescente pluralizzazione di forme di lavoro, con una moltiplicazione di attività di tipo precario. Vi è una progressiva segmentazione delle posizioni lavorative tradizionali e delle condizioni professionali ad esse collegate e le aziende richiedono oggi ai lavoratori elevate e complesse abilità professionali ed un alto grado di adattabilità. La seconda si contraddistingue dalle tortuose storie cliniche e sociali e da difficoltà relazioni, affettive ed educative spesso presenti nel contesto sociale e familiare. Il primo capitolo è una riflessione sul lavoro in quanto elemento su cui le persone costruiscono la propria identità personale/sociale e professionale. Riprendo e tento di rispondere alla domanda che, già negli anni 50, si era posto Friedmann “Dove va il lavoro umano?” al fine di restituire una visione d'insieme dei problemi e delle tendenze in atto nell'attuale contesto socio economico. Il compito del professionista che si occupa di orientamento sarà quello di aiutare le persone a riappropriarsi delle proprie risorse, il capitale positivo personale, per rispondere in modo sicuro ad una società dall'aspetto così fluido da apparire di frequente minacciosa. Vedremo come una risposta alle pratiche di orientamento professionale, che si trovano ad operare in questa società caratterizzata dall'incertezza, può venire dalla teoria dei costruttiti (Kelly, 1955). Kelly riconosce la capacità umana, peculiare di ogni individuo, di costruire e sviluppare le proprie teorie e le esperienza del mondo presente e poichè tali teorie e i costrutti 7
  • 8. personali sono implementati nella realtà, le persone imparano a metterle alla prova. E' mettendo al centro la persona e il modo in cui pensa, fa e sente che il professionista ha la possibilità di rispondere in modo più adeguato ai nuovi bisogni, cioè quello di muoversi con più sicurezza e fiducia nell'attuale contesto socio economico. Nella secondo capitolo porto la possibilità di introdurre le pratiche di orientamento professionale a orientamento costruttivista all'interno del mondo dello svantaggio sociale. In particolorare dopo aver cercato di chiarire il significato di svantaggio, chi vi rientra e accendando agli aspetti normativi, mi calo nel mondo della dipendenza, mondo che ho inziato a conoscere attraverso il mio tirocinio di specialità. Nel definire il mondo della dipendenza emerge chiaramente che un aspetto molto importante della riabilitazione, nel nuovo paradigma del Recovery, è l'inclusione socio- lavorativa. In questo nuovo paradigma si assiste ad uno spostamento negli schemi di inserimento, passando da quelli di resposnabilità sociale a quelli a responsabilità individuale. Spostando il centro sulla persona diventa necessario anche le persone con svantaggio sociale, debbano inziare a diventare autrici delle loro storie fidandosi di più di loro stesse. Il career counseling ad orientametno costruttivista potrebbe essere quello che, per le ragioni descritte nel primo capitolo, meglio risponde ai bisogno di queste persone. Con la mia tesi di specializzazione cerco di evidenziare come per mettere in comunicazione in modo strategico queste due complessità (persona ed organizzazione sociale) diventa fondamentale ripensare e progettare una nuova modalità di orientamento professionale che aiuti la Persona, in ogni sua manifestazione, a muoversi in sicurezza in questo conteso socio-economico caratterizzato da una profonda incertezza. Una risposta può venire dalla costruttivismo dove il professionista mettendo al centro la Persona e il suo modo di costruire la realtà diventa lo strumento per verificare la validità di tali costruzioni. Il processo è un processo di costruzione, decostruzione e ricostruzione delle proprie storie all'interno di una storia di vita più che fornisca significato e continuita. In conclusione del mio elaborato porto una riflessione sulla dimensione psicologica del tempo, il tempo dell'Io, del vissuto come elemento che deve far parte 8
  • 9. integrande della relazione di aiuto, che sia di cura o supporto come in quella del carrer counseling nella quale, prima di tutto, la persona ci porta un disagio, una sofferenza. Questo significa, riprendendo Borgna (2015), lasciare da parte il tempo degli orologi per concentrarci sul tempo dell'Io, del vissuto. La comprensione del tempo interiore della persona, con cui si entra in relazione, può aiutare il professionista ad orientare la sua attività cercando di offrirle orizzonti di senso, evitando, per quanto possibile, di fissarla sul presente. Recuperando con la Persona la circolarità agostiniana “il passato nel presente, il presente nel futuro”, il professionista cerca di tenere accese nella persona le fiaccole del passato e del futuro, in questo modo cerca di tener viva la fiaccola della speranza, la speranza che poi non è che l'anima di ogni relazione di aiuto. 9
  • 10. 10
  • 11. CAPITOLO PRIMO I FENOMENI SOCIO-PSICOLOGICI NEL PROCESSO DI CAREER COUNSELING Premessa “Significato del lavoro per la costruzione dell’identità personale” Il LAVORO, categoria importante di molti ambiti specialistici dall'antropologia alla teologia passando per la fisica e la sociologia, è un'attività produttiva che implica il dispendio di energie fisiche e intellettuali per raggiungere uno scopo prefissato, e in generale per procurare beni essenziali per vivere o altri tipi di beni, non solo attraverso un valore monetario acquisito da terzi quale compenso. E' un servizio utile che si rende alla società e per il quale di ottiene un compenso non solo monetario. (cfr. wikipedia) Ancora, l’'attività lavorativa viene esplicata con l'esercizio di un mestiere o di una professione ed ha come scopo la soddisfazione di bisogni individuali e collettivi. Papa Giovanni Paolo II ha così descritto il significato del lavoro umano: “Il lavoro è la dimensione fondamentale dell'uomo sulla terra. Come tale esprime la sua essenza.” Quale frase più significativa per inquadrare una realtà tanto vera quanto problematica? Il lavoro è sempre stato e sempre sarà il fulcro della vita di ogni essere umano, l'anello di congiunzione per il benessere dell'uomo, poiché la realizzazione professionale è importante per se stessi e per la società in cui si vive. Ha un valore spirituale profondo oltre che materiale. Nel lavoro l'uomo esprime le sue capacità, il suo procurarsi da vivere. Attraverso il lavoro l'uomo conosce se stesso, interpreta un ruolo corrispondente all'idea di sé. 11
  • 12. Le scienze sociali riconducono l'argomento lavoro al modello esplicativo dei bisogni elaborato da Maslow, alla sua applicazione in ambito professionale. Egli teorizzò che gli individui agiscono secondo una gerarchia di valori che partono da quelli fisiologici per giungere a quelli psicologico-emotivi. Il lavoro può soddisfare tutti questi livelli di bisogni della scala di Maslow attraverso il reddito che garantisce. Con questo infatti si possono soddisfare i bisogni fisici, di sicurezza, di status, sociali e di autorealizzazione. Avere un lavoro è quindi indispensabile per la vita, per la sopravvivenza; è quello che ci permette di diventare chi siamo, che contribuisce a migliorare la vita della persona e, se si svolge il lavoro che piace diventa anche una componente importante della nostra “felicità”. A tal proposito Maslow (1954) diceva “Un musico deve fare il musicista, un pittore deve dipingere, un poeta deve scrivere, se vuole essere definitivamente in pace con sé stesso. Ciò che un uomo può essere, deve esserlo. Deve essere come natura lo vuole. Questo bisogno che possiamo chiamare auto- realizzazione”. Il lavoro, dunque, struttura gran parte della realtà quotidiana delle persone e costituisce una delle principali fonti dell'identità e del senso del valore personale (Bandura, 1995). 1.1 Dalla sicurezza del XX secolo all’insicurezza lavorativa del XXI secolo L’insicurezza lavorativa è il tema dominante del nostro secolo. Lo hanno dimostrato numerosi contributi scientifici sulla flessibilità lavorativa e il precariato pubblicati recentemente in ambito psicologico e sociologico, sugli atteggiamenti nei riguardi della flessibilità e più in particolare sulla JOB INSECURITY (Pedon & Amato, 2009, p. 71). Per parlare di insicurezza lavorativa in modo epistemologicamente corretto credo sia di fondamentale importanza prendere in considerazione l’attualità dello scenario socio-economico odierno partendo da uno sguardo agli anni Ottanta e Novanta. 12
  • 13. Fino agli anni Ottanta e agli anni Novanta inoltrati la situazione lavorativa aveva sostanzialmente bassi livelli di job insecurity: i contratti di lavoro erano essenzialmente a tempo indeterminato, la flessibilità quasi assente e la disoccupazione era principalmente inoccupazione dovuta a giovani in cerca di prima occupazione. Questo scenario inizia a mutare con l’incremento esponenziale delle forme di lavoro atipico (1). Questo fattore ha avuto forti ripercursioni sulla percezione di precarietà e insicurezza. Altro fattore che ha contribuito a creare un clima di preoccupazione e di allarme e quindi ad alimentare l’insicurezza lavorativa è il tasso di disoccupazione si è passati da un 6.1% del 2007 al 12.7% del 2014 (dati ISTAT). Ovviamente, fenomeni quali l’aumento dei lavori atipici e della disoccupazione devono essere valutati in relazione a tutta una serie di altri fattori. Innanzitutto, ogni anno i lavoratori sono coinvolti, più che un recente passato, in ristrutturazioni aziendali caratterizzate da fusioni e acquisizioni, chiusura interi impianti produttivi e riorganizzazione della forza lavoro (Probst, 2002, come citato in Nuovi codici del lavoro, 2012 p. 113) operata attraverso la riconversione delle mansioni da full-time a part-time, l’incremento in percentuale delle posizioni temporanee e atipiche (Barling & Tetrick, 1195 come citato in Nuovi codici del lavoro, 2012 p. 113) e naturalmente licenziamenti più o meno massivi; senza considerate, infine, coloro i quali “rimangono”, cioè i non licenziati, e che soffrono della “sindrome da sopravvissuti”, nella quale alla persistente insicurezza lavorativa si associano vissuti di colpa, rottura del contratto psicologico, ecc. (Brockner, Wiesenfeld, Reed, Grover & Martin, 1993, come citato in Nuovi codici del lavoro, 2012 p. 113). Oltre ai fenomeni organizzativi prima citati, alcuni studiosi, si sono concentrati sui macrofattori, soprattutto di ordine economico, che influenzano negativamente le percezioni di insicurezza dei lavoratori; tra i principali possiamo citare: la globalizzazione e l’incremento della competizione economica, la spinta la privatizzazione nel settore pubblico, l’influenza degli stock market (mercato azionario) sulle strategie di marketing a breve e medio-lungo termine, il declino dell’influenza sindacale, la deregulation della normativa giuslavoristica (cfr, legge 30/2003 o cd Legge Biagi) (A. Lo Presti, 2012). 13
  • 14. Queste tendenze, organizzative e socio-economiche, si sono seguite negli anni fino a trasformare, oggi, la natura stessa del lavoro: si è passati da una fase di lavoro “sicuro” ad una fase di lavoro “precario” ed insicuro. Negli ultimi anni il senso di “fiducia” dei lavoratori nel riuscire a mantenere il proprio lavoro ha subito un drastico crollo. Questo dato è efficacemente illustrato da un sondaggio della società Right Managment Counsultant che viene condotto, dal 2003, due volte all’anno, su scala mondiale, allo scopo di misurare la fiducia nei riguardi del proprio lavoro e della propria carriera dei lavoratori di tutto il mondo. I dati descrivono i modo molto efficace come i sentimenti di fiducia, insicurezza e precarietà nei confronti del lavoro siano ormai molto diffusi ed estesi anche nella società italiana. Dalle ultime rilevazioni il nostro paese il nostro Paese sembra nutrire meno fiducia e più insicurezza dei colleghi europei e nord americani. Dalla contestualizzazione, organizzativa e socio-economica si può evincere come fondamentalmente la insicurezza è di natura più soggettiva cioè dovuta al timore di poter perdere il proprio lavoro che oggettiva, cioè dovuta all’essere obiettivamente a rischio di perdere la propria posizione lavorativa (cioè si riferisce all’insieme di informazioni, recepite sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione, riguardanti la probabilità della perdita del lavoro) (Pedon, 2009). In letteratura della natura soggettiva dell’insicurezza si possono ritrovare definizioni importanti, la più recente la definisce come l’anticipazione dell’evento (vitale e soprattutto non voluto) legato alla perdita di lavoro (Sverk & Hellgren, 2002; Sverk, Hellgren e Naswall, 2006, citato in Pedon, 2009). In questa prospettiva altri Autori l’hanno definita come la percezione della minaccia della perdita di lavoro e i vissuti emotivi di preoccupazione e ansia collegati a tale minaccia (Pedon, 2009). ________________________________ (1) Per forme contrattuali atipiche si intende tutte quelle tipologie contrattuali escluse quelle a tempo indeterminato (a tempo determinato, interinali, di collaborazione, presentazione occasionale, ecc) 14
  • 15. Ecco che allora le caratteristiche sopra viste rendono così incerto l’attuale contesto socio economico tanto da poter, il più delle volte, risultare minaccioso. 1.2 Identità personale e professionale Parlare di identità professionale obbliga necessariamente a parlare di identità personale, psicologica. “L'identità psicologica non è una cosa, un'entità naturale, ma un effetto semiotico e mutevole del campo relazionale. Essa è il significato e poi l'effetto auto/etero percepito del rapporto che un individuo intrattiene con altri enti (persone significative, contesto normativo, ruolo e situazione in cui si trova, le convinzioni, il vestito che ha scelto di indossare). Le rappresentazioni di sé sono sempre contestuali, più o meno condizionate dal grado di identificazione con il ruolo sociale scelto e offerto dalla situazione. L'identità che emerge come auto-consapevolezza e presenza è sempre un compromesso che fluttua tra continuità e coerenza da un lato e dall'altro rappresentazioni di sé, socialmente e soggettivamente situate. L'identità è la dimensione della coscienza di sé; è un evento costruito da processi, le cui coordinate possono essere i ruoli, le regole, le intenzioni, i significati, gli atti e le azioni, attraverso i quali assume certe configurazioni comportamentali. Coscienza di sé e identità non possono essere disgiunte dal sistema interattivo da cui ogni persona trae il senso della sua individualità”. In conclusione l'identità personale è una configurazione psicologica socialmente situata (Salvini, 2006, p. 13). Partendo da quanto fin ora scritto possiamo dire che la scelta professionale è un aspetto centrale della “costruzione di sé” di un individuo: “Esprimendo una preferenza professionale, una persona trascrive in termini professionali l'idea che si è fatta di sé stessa ; così come, iniziando un lavoro, cerca di realizzare un’idea di sé; e allo stesso modo continuando questo lavoro riesce ad attualizzare questa idea di sé” (Super, 1963 citato in Verani, 2005). 15
  • 16. E' una scelta in cui il piano razionale si intreccia fortemente a quello più inconsapevole dei sentimenti di identità, delle rappresentazioni immaginarie del futuro lavoro e delle relative intime aspettative personali (Erickson, 1964 citato in Varani 2005). La rappresentazione di sé può quindi essere disaggregata nelle componenti: personale e sociale. La prima, attiene a quell'insieme di caratteristiche che l'individuo pensa di possedere (attitudini, capacità, atteggiamenti, potenzialità) ed è costruita sulla base del vissuto personale filtrato attraverso schemi interpretativi soggettivi. La seconda, gli deriva dalla consapevolezza di appartenere ad un determinato gruppo sociale e al peso valoriale che ad esso attribuisce all'interno di una struttura sociale complessa; l'identità professionale ne è quindi una sua significativa componente (Castelli & Venini 1998, citati in Varani, 2005). 1.3 Una risposta all’incertezza lavorativa del XXI secolo : il Career Counseling ad orientamento Costruttivista 1.3.1 Introduzione Da quanto fin'ora scritto, credo che si possa ragionevolmente affermare che oggi entrare nel modo del lavoro e muoversi da un posto all’altro richiede più sforzi e fiducia che nel XX secolo. Riprendendo Savickas (Maree, 2011) lavorare nell’economia globale postmoderna comporta più rischi perché i lavori stanno per essere sostituti in modo sostanziale da incarichi temporanei. Ecco che la questione di sicurezza della posizione lavorativa sta diventando sempre più un problema. Le persone non possono più progettare di lavorare per lunghi periodi all’interno di un’unica organizzazione sviluppando al suo interno un percorso professionale. “Il cambiamento dell’assetto sociale del lavoro fa sì che le persone diventino più autonome nel gestire le loro stesse vite. Nel XX secolo, la società predisponeva un ambiente aziendale; dopo che i lavoratori avevano trovato un posto e erano stati selezionati per ricoprire una certa posizione, potevano contare sulla organizzazione e 16
  • 17. veniva fornita loro una “grande narrazione” su come avrebbero avuto modo di far procedere le loro vite. La società decideva i turni di lavoro dei lavoratori, dove avrebbero vissuto, come avrebbero trascorso il loro tempo libero, quali amicizie e quanti soldi avrebbero avuto. Simile alla culla che li aveva accompagnati da neonati, alla famiglia durante l'infanzia e al gruppo di pari nell’adolescenza, l'organizzazione li avrebbe accompagnati all’età adulta. Nel mondo post moderno, i lavoratori non possono dipendere a lungo da una sola organizzazione che provveda a loro con un ambiente familiare e prevedibile e che si occupi delle loro vite. Le imprese hanno cambiato fisionomia, il fulcro della carriera si è spostato dall’organizzazione all’individuo” (Hall, 1996 in Maree, 2011, p.23). “Le persone devono, dunque fidarsi di loro stesse per costruire una storia - un Sé e un percorso professionale - per tenere insieme se stesse e le proprie vite quando sperimentano discontinuità. Come si muovono da un incarico all’altro devono lasciare ciò che hanno fatto, ma non ciò che sono diventate. Se lasciano ogni cosa, la perdita potrebbe sopraffarle. Basandosi sul Sé nella forma di una storia di vita che fornisce significato e continuità, sono capaci di procedere in modo da avanzare sulle linee della narrazione e attuare obiettivi importanti”. (Savickas, 2011 in Maree, 2011, p. 9) “Le istituzioni del XX secolo hanno fornito una meta-narrazione per il percorso di vita, una storia dotata di coerenza e continuità. La meta-narrazione ha tracciato chiaramente alcune traiettorie caratterizzate da impegni stabili attorno ai quali le persone hanno progettato la propria vita. La narrazione organizzativa del XXI secolo riguardante la carriera è invece incerta e insicura, pertanto le persone non sono in grado di fare progetti di vita attorno ad impegni istituzionali. Per agire, la loro bussola deve dare indicazioni che conducano verso possibilità in modo fluido piuttosto che verso percorsi predicibili in una società stabile” Savickas (2011/2014, p. 28). Si assiste allo spostamento della responsabilità dall’organizzazione alla persona. La persona deve assumersi maggiore responsabilità per la gestione della propria vita lavorativa. Anziché vivere una narrazione fornita da un’organizzazione, le persone devono diventare autrici delle proprie storie. Questo spostamento ha fatto emergere una 17
  • 18. nuova domanda relativa a come le persone possano affrontare una vita caratterizzata da continui cambiamenti lavorativi. Una possibile risposta si basa sulla teoria della costruzione di carriera (Savickas, 2001, 2005 citato in Maree, 2011). Il career construction counseling o career counseling il cui obbiettivo è di progettare la vita lavorativa, attraverso un processo di costruzione, decostruzione e co-costruzione (costruire il percorso professionale attraverso brevi storie, decostruire e ricostruire queste brevi storie in una storia più ampia e co-costruire l’episodio successivo della storia), ha nella teoria dei costrutti personali di Kelly i suoi presupposti e ne è influenzato. Ne riconosce le ispirazioni filosofiche e le intuizioni intellettive. Savicak (1997) mette, appunto, in relazione l’attenzione al costruttivismo con la preoccupazione per il significato, l’identità e il contenuto elementi che caratterizzano il XXI secolo con la necessità delle persone di prepararsi per affrontare e partecipare al nuovo mondo del lavoro dandosi nuove narrazioni. 1.3.2 L’impatto della teoria dei costrutti personali di Kelly La teoria di George Kelly (1955), con la psicologia dei costrutti personali, sostiene che lo studio e la pratica della psicologia riguardano l'esplorazione e la comprensione del mondo soggettivo di ogni individuo. Poiché questo mondo soggettivo è unico per ogni persona, solo questi costrutti personali, che si riferiscono alla persona interessata, possono, in ultimo, influenzare ciò che la persona pensa, fa e sente. Secondo Charles P. Chein (Maree, 2011) al centro della teoria di Kelly c'è il riconoscimento della capacità umana, peculiare di ogni individuo, di costruire e sviluppare le proprie teorie e le esperienza del mondo esistente. Poiché le teorie e i costrutti personali sono implementati nel mondo reale, le persone imparano a mettere alla prova, migliorare e accrescere i propri costrutti personali. Essenziale per la rilevanza e l’applicabilità dei costrutti personali non è tanto l'esistenza degli stessi, piuttosto quanto essi siano percepiti come significativi ed efficaci e quanto essi siano eventualmente utilizzati dalla persona che è il centro 18
  • 19. operativo determinante per il mantenimento dei propri costrutti personali. Gli individui fanno uso dei propri costrutti personali come risorse alternative per affrontare eventi di vita ed esperienze attraverso i significati personali. In questo senso, ogni persona è il maggior esperto, conoscitore o scienziato in merito alla propria esperienza di vita (Savickas, 1997 citato in Maree, 2011), e la creazione di significato soggettiva è di vitale importanza per questa esperienza (Chen, 2001, citato in Maree, 2011). Chen sebbene riconosca che tutti i canoni e principi della teoria dei costrutti personali siano estremamente preziosi nel career counseling ritiene che valga la pena rilevare alcuni punti. Primo il career couseling mostra un totale rispetto per i costrutti personali di un individuo nel suo mondo soggettivo e si sforza di usare questi costrutti come centro per l’esplorazione e il cambiamento in positivo. Secondo, i costrutti personali forniscono non solo i contenuti logici ma anche quelli pratici per la formazione e lo sviluppo dei racconti di vita professionale di una persona. Terzo, i costrutti personali legittimano e permettono il processo di creazione di significato nella ricerca narrativa e nell’esplorazione della persona. Quarto, come costruttore essenziale dei propri costrutti essenziali, la persona ha la capacità di essere l’attore e l’autore nella costruzione dei propri racconti di vita professionale. Quinto, in parallelo alla natura dinamica e in costante mutamento dei propri costrutti personali, la persona può creare, ricreare, sviluppare nuove versioni delle narrazioni personali di vita professionale, con un pensiero aperto e flessibile. Questa natura dinamica dei racconti implica che non debbano essere capitoli fissi, ma piuttosto episodi aperti che incorporano continuamente nuove esperienze e intuizioni. 1.3.3 Il costruttivismo nel Career counseling Savickas ha sollecitato il fatto che il career counseling avesse bisogno di muoversi dalla “ricerca della verità alla partecipazione nelle conversazioni; dall’oggettività alla soggettività” (Savickas, 1993, p 205 citato in Maree, 2011). Poiché il costruttivismo rappresenta una posizione epistemologica che enfatizza 19
  • 20. l’autorganizzazione e la conoscenza proattiva, esso fornisce una prospettiva in base alla quale concettualizzare il cambiamento della nozione di percorso professionale. Herr (1997), sintetizzando alcune delle più importanti prospettive sul career counseling ha illustrato il suo cambiamento dall’essere un processo una tantum, lineare e focalizzato sul singolo a essere “ un processo in gran parte verbale nel quale il couselor professionista e il/i clienti sono in una relazione dinamica e collaborativa, centrata sull’identificare e sull’agire gli obiettivi del cliente, nella quale il counselor usa un repertorio di diverse tecniche o processi, per facilitare la comprensione di sè, la comprensione delle preoccupazioni di percorso professionali implicate e le opzioni comportamentali disponibili, nonché aiutare il decision-making del cliente, che ha la responsabilità per le sue proprie azioni” (Herr, Cramer, & Niles, 2004, p 42, citato in K. Maree, 2011 p. 129). Questa definizione enfatizza l’influenza del costruttivismo sul career counseling, in quanto si focalizza sull’aspetto della relazione collaborativa del career counseling, sulla natura ricorsiva delle preoccupazioni personali e lavorative e sull’importanza della creazione attiva di significato dell’individuo relativo alle questioni di percorso professionale. La definizione conferma il processo verbale tra le parti, poiché lavorano insieme verso la co-costruzione di racconti e di storie relativi al percorso professionale. Il lavoro di career counseling all’interno della prospettiva costruttivista si focalizza sull’interazione degli individui con il loro contesto ambientale e sociale e sul coinvolgimento in un processo di creazione di significato di life-career (vita professionale) con il “counselor”. La natura proattiva, autoconcepita e in evoluzione della conoscenza umana è fondamentale nell’approccio costruttivista al career counseling. Nel career counseling, le persone lavorano per costruire e ricostruire la realtà attraverso l’uso del linguaggio e il dialogo con il “counselor”. Con il linguaggio si crea significato e conoscenza; la conoscenza, che si costruisce attraverso il dialogo fra “career counselor” e il cliente, 20
  • 21. diventa quel processo che comprende la costruzione e co-costruzione della realtà dell’individuo. Gli elementi chiave del career counseling cioè la natura e il processo della creazione di significato all’interno della relazione di counseling, l’uso del linguaggio, l’emozione, l’azione individuale e il ruolo dell’assessment, vengono influenzati dal costruttivismo. Qui di seguito l’approfondimento di questi aspetti. La natura e il processo di creazione di significato nella relazione di counseling: significato co-costruito La relazione fra cliente e “counselor” è l’elemento centrale nel career counseling ad orientamento costruttivista: il couseling è quel processo di creazione di significato attraverso il quale il/la persona costruisce la sua vita con l’assistenza di un co-creatore: il “counselor”. La presenza attiva del “counselor” nel processo, quando lavora con la persona, mette in rilievo l’interconnessione di ogni sistema dell’individuo, crea un sistema più ampio, il “sistema terapeutico”, come descritto da Patton e McMahon (1999, 2006). E’ importante che questo livello di coinvolgimento, rivolto alla co- costruzione di una storia individuale, venga compreso dal “counselor” ad orientamento costruttivista e che il “couselor” sia consapevole del proprio sistema di influenza e come esso giochi un ruolo fondamentale nel processo e nel dialogo di counseling. Il linguaggio, rivestendo un ruolo centrale nella costruzione di una realtà individuale, diventa rilevante per la comprensione del career counseling costruttivista. Savickas (1995, p. 22 citato in Maree, 2011) ha sottolineato che “i concetti linguistici e le loro definizioni non rispecchiano la realtà: le conferiscono significato”. Dewey e Bentley (1949) hanno sostenuto che dare un nome è conoscere “to name is to know” articolando la relazioni cruciale tra il linguaggio e la nostra percezione della realtà. I significati condivisi fra “counselor” e cliente che si sviluppano all’interno di un contesto condiviso, usando un linguaggio condiviso danno vita al processo di co- costruzione della storia professionale. 21
  • 22. Emozione Alcuni Autori hanno lamentato che la componente “emozione” nelle conversazioni di career counseling non sia stata adeguatamente trattata. Probabilmente questa mancanza è dovuta a un concetto radicato nel quale il career decision-making sia un processo razionale e cognitivo. Tuttavia per quanto riguarda il percorso professionale e l’identità soggettiva, c’è una forte enfasi sulla relazione fra quest’ultima e gli aspetti personali e fra la creazione di significato e l’“emozione”. Le prospettive emergenti sul percorso professionale considerano le “emozioni” come una parte intrinseca ed esplicita del percorso di self-construction dell’identità professionale. Nel percorso di self- construction, come in qualsiasi altro percorso di cambiamento, la persona si trova in transizione ed è proprio in questa fase, che per la teoria dei costrutti personali, si inseriscono le “emozioni”. L'esperienza di una “emozione”, infatti, avviene quando viene validato un aspetto importante del nostro sè o quando diventiamo consapevoli di una qualche inadeguatezza nella nostra attuale costruzione degli eventi. Azione individuale Un approccio con orientamento costruttivista al career counseling, nonostante il suo orientamento al linguaggio, non trascura di prendere in considerazione l’azione e l’agenticità individuale nel contesto (Christensen & Johnston, 2003; Reid, 2006 citati in Maree, 2011), specialmente per il bisogno di coinvolgimento attivo in un ambiente di apprendimento per lo sviluppo dell’identità di percorso professionale (Amundson, 2006; Young & Valach, 2004, citati in Maree, 2011). Il processo di career decision-making comporta lo sviluppo di un racconto - ideale e facoltativo - in grado di guidare un individuo verso possibili futuri; linguaggio ed azione sono inestricabilmente connessi. Assessment nel career counseling costruttivista Nel career counseling ad orientamento costruttivista i processi di assessment e di counseling sono inestricabilmente connessi. L’assessment è sicuramente counseling, non un semplice processo di raccolta. 22
  • 23. Un’esemplificazione è costituita dall’integrazione di procedure di assessment qualitative all’interno del processo di counseling. Tra le procedure qualitative possiamo includere: genogrammi, la costruzione di linee di vita e spazi di vita, le card-sort, il career-o-gram, la metafora, e interviste semistrutturate che rientrano nel colloquio di counseling. Tutti questi approcci incoraggiano l’uso della parola e della scrittura e di tecniche visive e creative (McMahon & Patton, 2006 citati in Maree, 2011). Ecco che il career counseling connesso strettamente ai principi costruttivisti è un approccio al counseling orientato all’azione, emotivo, significativo, personale nel quale il cliente e il “counselor” collaborano per la creazione di significato. I suoi aspetti principali comportano il focus sullo sviluppo del significato attraverso il linguaggio (dialogo sia scritto che verbale), la stretta relazione tra questioni personali e professionali, l’inclusione dell'“emozione” e dell'azione, lo stesso legame fra assessment ed intervento, e il ruolo del “counselor” come collaboratore che lavora con il cliente verso la costruzione di significato. 23
  • 24. 24
  • 25. CAPITOLO II IL CAREER COUNSELING ad ORIENTAMENTO COSTRUTTIVISTA nel PROCESSO DI RECOVERY NELLE PERSONE con DIPENDENZA Premessa: “Il valore terapeutico del lavoro per le persone con vantaggio” Per le persone con svantaggio il lavoro svolge un ruolo fondamentale. Per questa categoria di persone, come per tutte le altre, l’inserimento a pieno titolo nell’attività lavorativa attua uno dei principi fondamentali della Costituzione e fornisce le risorse economiche necessarie alla vita. In aggiunta, poiché buona parte delle interazioni sociali sono connesse al lavoro, l’attività lavorativa favorisce la costruzione e il riconoscimento di un’identità attraverso il ruolo professionale e l’inclusione nella rete sociale. Il lavoro, quindi, non fornisce solo reddito, ma è luogo di realizzazione, di rafforzamento di fiducia e rispetto di sé, di scambio e di relazioni sociali, di valorizzazione, di apprendimento, di accrescimento personale e professionale, di acquisizione di indipendenza e autonomia. Lavorare diviene uno degli elementi fondanti e qualificanti nella costruzione di un percorso di inclusione sociale; è l’imprescindibile punto di partenza per un percorso di crescita umana e di riabilitazione sociale. 2.1 Un definizione di “lavoratore svantaggiato” La definizione di "lavoratore svantaggiato" è contenuta nell'art. 13 del Decreto Legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e si distingue concettualmete e normativamente, in quanto decisamente più ampia e fumosa, dal concetto di “lavoratore disabile” il quale usufruisce, una volta considerata la comprovata difficoltà di rendersi “appetibile” sul 25
  • 26. mercato del lavoro, di un regime di collocamento obbligatorio disciplinato dalla Legge 68/1999. Il citato articolo 13 del Decreto, fondamentalmente, contiene una disciplina specifica per il collocamento dei “lavoratori svantaggiati” attraverso la promozione del coordinamento tra le agenzie di somministrazione e le istituzioni pubbliche. E’ necessario rammentare la definizione che l’art. 2 lettera f) del regolamento (CE) n. 2204/2002 dà di lavoratore svantaggiato: “qualsiasi persona appartenente a una categoria che abbia difficoltà a entrare, senza assistenza, nel mercato del lavoro ai sensi dell'articolo 2, lettera f) del regolamento (CE) n. 2204/2002” e della legge sulle cooperative sociali; tale regolamento, a sua volta, fa un elenco molto vasto ed eterogeneo di soggetti considerati svantaggiati, tutti accomunati da una (potenziale e) particolare difficoltà a trovare un posto di lavoro in quanto meno appetibili per i datori di lavoro. Gli atti legislativi ai quali l’art. 2 D. Lgs 276/2003 rinvia fanno riferimento ad un vasto pubblico di soggetti tra cui: ● i giovani con meno di 25 anni o che abbiano completato il ciclo formativo da più di due anni, ma non abbiano ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente; ● i lavoratori extracomunitari che si spostino all'interno degli Stati membri della Comunità europea alla ricerca di una occupazione; ● i lavoratori, appartenenti alla minoranza etnica di uno Stato membro, che debbano migliorare le loro conoscenze linguistiche, la loro formazione professionale o la loro esperienza lavorativa per incrementare la possibilità di ottenere una occupazione stabile; ● i lavoratori che desiderino intraprendere o riprendere una attività lavorativa e che non abbiano lavorato per almeno due anni, in particolare quei soggetti che abbiano dovuto abbandonare l’attività lavorativa per difficoltà nel conciliare la vita lavorativa e la vita familiare; 26
  • 27. ● i lavoratori adulti che vivano soli con uno o più figli a carico; ● i lavoratori che siano privi di un titolo di studio, di livello secondario o equivalente, o che abbiano compiuto 50 anni e siano privi di un posto di lavoro o in procinto di perderlo; ● i lavoratori riconosciuti affetti, al momento o in passato, da una dipendenza ai sensi della legislazione nazionale; ● i lavoratori che, dopo essere stati sottoposti a una pena detentiva, non abbiano ancora ottenuto il primo impiego retribuito regolarmente; ● le lavoratrici residenti in una area geografica del livello NUTS II, nella quale il tasso medio di disoccupazione superi il 100% della media comunitaria da almeno due anni civili e nella quale la disoccupazione femminile abbia superato il 150% del tasso di disoccupazione maschile dell’area considerata per almeno due dei tre anni civili precedenti; ● i disoccupati di lunga durata senza lavoro per 12 dei 16 mesi precedenti o per 6 degli 8 mesi precedenti nel caso di persone di meno di 25 anni d’età; ● gli invalidi fisici, psichici e sensoriali, gli ex degenti di istituti psichiatrici, i soggetti in trattamento psichiatrico; ● i minori in età lavorativa in situazioni di difficoltà familiare; ● i condannati ammessi alle misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47, 47-bis, 47-ter e 48 della legge 26 luglio 1975, n. 354, come modificati dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663. Da questo elenco si nota come all’interno della categoria “svantaggiati sociali” coesistono soggetti in stato di disagio conclamato (persone con disabilità fisica- psichica-sensoriale, minori e giovani segnalati “a rischio”, persone con dipendenza da sostanze, persone condannate) e tutta una larga fascia di persone non facilmente “censibili”, che esprimono bisogni talvolta indeterminati ma che confluiscono nell’area dell’emergenza sociale. La nozione di “svantaggio sociale” appare dunque alquanto ampia e si sta ulteriormente estendendo in ragione della crescente vulnerabilità che 27
  • 28. caratterizza la vita di un numero sempre più consistente di persone in un contesto sociale con elevate potenzialità di rischio, come quello attuale, rendendo sempre più difficile poter circoscrivere il concetto si svantaggio sociale. Cenni normativi: implicazioni attuali e prospettive future La difficoltà di circoscrivere il concetto di “svantaggio” si riflette anche livello normativo, portando all’individuazione di categorie tutt’altro che esaustive della pluralità delle biografie e dei profili in cui può manifestarsi. Infatti ogni area normativa (Legge 68 del 1999, legge 381 del 1991, il regolamento della CE n. 800 del 2008) individua alcuni gruppi target di riferimento, ma sovente non coincidono con i gruppi reali in quanto ciascuna area individua specifiche categorie di cui si ritiene auspicabile promuovere l’inserimento lavorativo. Può così verificarsi che, ad esempio, la persona portatrice di uno svantaggio sociale certificato (Legge 118/17, Legge 104/92, Legge 68/99) possa essere richiamata all’interno di tutte le aree normative mentre altri soggetti, ad esempio quelli in stato di disoccupazione, data la loro specificità ne sono interessati solo parzialmente. Le differenze nella classificazione dei soggetti con svantaggio sono state il risultato dell’avvicendarsi di normative nazionali ed europee che intrecciandosi con legislazioni regionali ha portato all’introduzione di strumenti e modalità operative spesso difformi per promuovere l’inserimento lavorativo. Essendo il lavoro l’obiettivo da perseguire sta emergendo la necessità di evolvere le politiche assistenziali in azioni di recupero sociale, riabilitazione e reintegrazione in contesti di ordinaria autonomia. Ci si sta spostando, come vedremo più avanti, dagli schemi a responsabilità sociale a quelli a responsabilità individuale. 28
  • 29. 2.2 La persona dipendente da sostanze All’interno della categoria dei “lavoratori svantaggiati” troviamo anche “le persone che sono riconosciute affette, al momento o in passato, da una dipendenza ai sensi della legislazione nazionale”. Ma cosa è un dipendenza e quando questa diventa patologica? Come si manifesta e che effetti può avere sulla persona che ne soffre. In una domanda: chi è la persona con dipendenza? In questo capitolo cercherò di dare risposta a questi interrogativi attingendo dagli scritti del Prof. Leopoldo Grosso, studioso impegnato da decenni nel trattamento di persone con dipendenza. Che cosa sono le dipendenze: i termini e i significati Tutti noi coltiviamo personali abitudini che intessono le nostre giornate, ne scandiscono i ritmi, e che viviamo come isole di piacere, di ritorno a noi stessi. Le abitudini nutrono la vita intessendola di pause, punti di riferimento, gratificazioni. Queste abitudini “benigne” giocano un ruolo ben preciso e non sempre secondario, nel mantenimento dell’equilibrio di una persona del suo stile di vita. Sono per lo più rassicuranti, s'instaurano nel corso dei primi periodi di vita (il succhiotto, la copertina di linus) e assumono spesso il significato di oggetti transazionali, che poi possono evolversi e assumere altre forme o essere sostituite da abitudini altre (le tazzine di caffè che scandiscono i ritmi della giornata, il rituale dell’acquisto del giornale la mattina o del telegiornale la sera, la dedizione al proprio cane, le ore che l’adolescente trascorre al telefono con l’amico del cuore etc.). La particolarità di queste abitudini consiste sta nella loro transitorietà (molto spesso le abbandoniamo spontaneamente nel corso del tempo) e nel poter essere oggetto di rinuncia, pur con fatica, a fronte di impedimenti sopravvenuti o dell’evidenziarsi di conseguenze negative e non desiderate. Tali abitudini fortemente connaturate e a cui è difficile rinunciare (impropriamente dette nel linguaggio quotidiano “dipendenze”), connotano l’esistenza delle persone umane su un ampio spettro di comportamenti. Possono portare a conseguenze dannose ma, nel momento in cui si prende atto che gli effetti non desiderati prevalgono sui vantaggi attesi, esse consentono alle persone di 29
  • 30. fruire della propria capacità di autocontrollo e di orientare diversamente il proprio comportamento e le scelte che lo guidano. Il fattore che segna il confine tra un'abitudine (anche con qualità di “abuso”) e una dipendenza patologica è la capacità di rinunciare a un comportamento gratificante. E' la capacità di limitare, di saper differire nel tempo e di contenere la “invadenza” di un piacere al quale una consolidata e assai confortevole consuetudine tiene fortemente legati, che fa la differenza. E' quando la persona mette in atto un comportamento vissuto come incoercibile per ottenere “l'oggetto del desiderio” che entriamo nel campo della dipendenza patologica. Nella dipendenza patologica la persona esperisce un coinvolgimento totalizzante con “l’oggetto”, determinato dall’uso compulsivo della sostanza in questo caso o da qualunque altro oggetto di dipendenza. Diventa una modalità di essere, una condizione esistenziale globale. Perché si consuma, si abusa, si diventa dipendenti Il primo movente è la sensazione di piacere e di benessere anche se in principio, al momento della “iniziazione” al consumo, la dimensione del piacere non è scontata. Si deve Becker in “Come si diventa fumatori di marijuana” (1963) la descrizione dettagliata dei tre atti propri della scena iniziatoria: 1° imparare la tecnica; 2° percepire gli effetti; 3° definire gli effetti percepiti come piacevoli. Essendoci un apprendimento significa che ci sono anche dei maestri (il gruppo dei pari), sono questi che, svolgendo un ruolo rassicurante, accompagnano all’individuazione del piacere specifico. La sensazione di piacere è il primo e importante effetto che si apprezza nel consumo. Non è l’unico. Il beneficio è più ampio per la persona e fornisce altre ricompense. Le ricompense possono essere differenti, primarie e secondarie, e si declinano secondo le caratteristiche della persona (es: sentirsi spensierati, sentirsi più “legger”, sentirsi rilassati ecc.). Molto si è discusso, approfondito, studiato e ricercato sul perché alcune persone diventino dipendenti, alcune conservino una moderata abitudine al consumo altre vi rinunciano senza un’apparente grossa difficoltà. Alle volte la causa è stata attribuita alla 30
  • 31. sostanza (demonizzazione dell’oggetto), altre volte alla persona (la patologizzazione del soggetto) e alla società, altre volte ancora all’ambiente che ammala (la criminalizzazione del contesto). Qui di seguito la presentazione di queste cause. Il ruolo dell’oggetto “Drug” per gli anglosassoni significa sia farmaco sia droga e il termine ne riassume tutta l’ambivalenza: cura, ma ammala e il rimedio, come l’abuso, è rimandato al “giudizio” di chi l’utilizza. L’oggetto della dipendenza può essere collegato alle credenze e alle aspettative che si riversano sui loro possibili effetti e sulla loro funzione di fornire un qualche tipo di risposta a bisogni e desideri personali, quali: ● il bisogno di modificare, alterare e/o espandere gli stati di coscienza, ottenere cioè sensazioni e stati psicologici percepiti come piacevoli; ● la ricerca di sensazioni forti, intense e inusuali – accompagnata, specie in adolescenza, dalla curiosità e dal desiderio di fare delle “esperienze sulla propria pelle”, di entrare in competizione con una sostanza, di sperimentare i propri limiti; insomma, di mettersi alla prova (tipico di personalità con alti tratti di sensation-seeking); ● il bisogno di facilitazione sociale, di appartenenza e di prestigio – la sostanza, in tal senso, diviene un mezzo che consente di semplificare, migliorare o rendere più intense le relazioni con gli altri, favorendo comportamenti più sciolti, disinibiti e socievoli, spesso al fine di facilitare sentimenti di coesione nei confronti di un gruppo; ● il bisogno di salvaguardare e migliorare l’immagine di sé – favorendo sentimenti di maggior efficacia e controllo personale, rafforzando l’autostima e attenuando autovalutazioni negative; ● la ricerca di autonomia, di emancipazione, di sfida – l’esperienza con la droga rappresenta, talvolta, soprattutto per gli adolescenti, una sfida e una ricerca di occasioni concrete in cui verificare il grado di indipendenza emotiva raggiunta rispetto ai modelli e alle norme proposte dai genitori; 31
  • 32. ● il bisogno di ridurre gli stati di disagio e di regolare le emozioni – la sostanza appare come un mezzo per ridurre, evitare e/o controllare emozioni negative quali ansia, angoscia, incertezza, tensione, depressione, etc. che possono scaturire da sentimenti di inadeguatezza, di scarsa fiducia in se stessi, di non essere all’altezza delle situazioni con le quali ci si confronta, in cui si teme di sbagliare e di non essere considerati dagli altri come si desidererebbe. Il ruolo del soggetto Tradizionalmente la dipendenza viene interpretata come vizio. Tale interpretazione rimanda ad una visione della persona come una persona “dissipata”, che non ha il controllo di sé e delle proprie azioni, che si lascia trascinare dalle dalle parti più basse ed è in preda ai propri “istinti”, che è “causa del suo mal” e della rovina della sua vita. In tale interpretazione la responsabilità viene imputata interamente al soggetto. Tale interpretazione viene rafforzata con la concettualizzazione di devianza sociale. Tale devianza (l’assunzione eccessiva della sostanza/comportamento) fa si che l’oggetto diventa il padrone delle vita e il mantenerlo conduce a comportamenti illeciti. Prima della Legge 685 del 1965 in Italia l’esito della trasgressione dell’ordine sociale era il carcere o l’ospedale psichiatrico. Nel 1987 la tossicodipendenza viene qualificata come patologia grazie al suo ingresso nel Manuale diagnostico per i disturbi mentali. Introducendo così il concetto di malattia, la persona non è più (o non solo) colpevole, ma anche vittima. Vittima di una perdita di controllo, di finalizzare diversamente le proprie azioni. Significa asserire alla persona un disturbo del controllo delle azioni e un grave indebolimento della volontà. In termini più attuali si può parlare di malattia della motivazione o sindrome amotivazionale, da cui i “tratti” trasversali all’esperienza delle persone dipendenti sono incapacità di provare piacere (anedonia), incapacità di riconoscere le emozioni (alessitemia), impulsività e scarsa tolleranza alle frustrazioni. 32
  • 33. Il ruolo della società Tra “vizio” e “malattia” i due vasi di ferro in cui è “contenuta” la dipendenza, c’è un vaso di coccio che interpreta la dipendenza come espressione di un non risolto e allo stesso tempo non ben definito disagio. Il disagio si configura come un’inquietudine e una difficoltà, personale e sociale, un mal di vivere che si ricollega al malessere esistenziale e che trova nell’uso delle sostanze un sollievo, un rimedio provvisorio, talvolta una protesi per l’adattamento sociale. La dipendenza, allora, né come vizio né come malattia, si configura invece come fenomeno sociale che esprime un disordine, un disagio della civiltà che riguarda l’ordine economico e il suo disordine, i processi di produzione e il consumo, alcune derive culturali che lo accompagnano (consumismo, individualismo,...), gli assetti organizzativi che ne conseguono in termini di richieste di adattamento sociale e discipline di vita a cui la farmacologia legale e il mercato illegale di ogni tipo di sostanza vengono in soccorso. Nella letteratura sociologica si coglie un nesso - anche un nesso di responsabilità - tra società e dipendenza, che invita a cercare gli input patogeni che conducono alla dipendenza nei mutamenti sociali, nelle trasformazioni del nostro tempo, nell’organizzazione e nei tempi di vita di ciascuno, nei diktat culturali trasformati in vissuti di rigide e richiedenti aspettative personali. In conclusione, tenendo conto che l’uso di sostanze psicotrope risponde a bisogni diversificati, la comprensione del perché le persone vi ricorrono dovrà considerare strettamente l’interazione di tre fattori principali: a) l’individuo con la sua storia; b) la sostanza con i suoi effetti; e c) le situazioni (ovvero il contesto sociale) che mettono in rapporto l’individuo con la sostanza. E’ proprio l’interazione di questi tre fattori (oggetto, “soggetto” e contesto) che rende così problematica la diagnosi di dipendenza patologica. Il problema della “diagnosi” di dipendenza patologica (addiction) La diagnosi è lo strumento conoscitivo fondamentale e decisivo di una malattia, qual è la dipendenza patologica, che si è progressivamente strutturata nel tempo. La raccolta di informazioni adeguate per disporre degli elementi utili a una valutazione 33
  • 34. complessiva comporta un lavoro di assessment preliminare allo stesso processo diagnostico. La diagnosi a sua volta rimanda non solo alle modalità e agli strumenti che si utilizzano per la sua formulazione, ma soprattutto alla struttura logica che la sottende e ai criteri epistemologici di riferimento. In particolore, alla consapevolezza di tutti i limiti che l’accompagnano. Il ricorso alla diagnosi è una esigenza che si rivela ineludibile e come tale essa è utilizzata nell’ambito della clinica dell’addiction. Non solo per certificare la malattia a scopo terapeutico o legale, ma soprattutto per comprendere la specifica declinazione individuale della dipendenza per ogni persona con dipendenza: la propria configurazione sintomatica, il significato attribuito all’oggetto, la psicodinamica del comportamento d'addiction nel vissuto personale, i fattori interni ed esterni che condizionano il livello di compulsività, i punti di forza e di debolezza di quella specifica persona. La difficoltà della diagnosi si pone in relazione alle specifiche difficoltà personali della persona che assume (le possibili patologie psichiatriche associate), alle diverse sostanze d'abuso, in concomitanza con altre dipendenze comportamentali e in relazione ai contesti sociali in cui l'addiction si pratica. Essendo molto ampia la variabilità delle situazioni che possono portare alla dipendenza patologiche la valutazione della gravità dell’addiction diventa operazione difficile e complessa, che deve tener conto di più piani di analisi e angoli di osservazione. La diagnosi non si pone come operazione puntuale, definita una volta per tutte e immobile nel tempo, ma si caratterizza come un processo continuamente verificabile, ridefinibile e ricomponibile, nello stesso lungo periodo del trattamento: “La diagnosi assolve a due funzioni principali tra loro strettamente integrate ma, al tempo stesso, difficilmente conciliabili. Da una parte rappresenta il percorso attraverso il quale il clinico e l’équipe terapeutica provano a conoscere la persona che chiede aiuto, la sua storia, il suo funzionamento psichico e le sue dinamiche”, ma risponde anche “all’esigenza di standardizzazione e confrontabilità dei criteri con cui si effettua il procedimento diagnostico e dei parametri per al valutazione degli esiti dei trattamenti” (Consolo, Frossi, 2014 in Atlante delle dipendenze p 17). 34
  • 35. Nell’ultima versione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm-5, 2014) la diagnosi da dipendenza patologica in relazione all’alcoldipendenza e alla tossicodipendenza è trattata tra i Disturbi da uso di sostanze. Si distingue tra dipendenze lievi, moderate e gravi. Per la diagnosi è in genere richiesta la concomitanza di almeno due tra i seguenti sintomi: stato di astinenza quando l’uso è interrotto o fortemente ridotto; segni di assuefazione, con l’assunzione di dosi maggiori per ottenere l’effetto originariamente prodotto con dosi minori; desiderio forte e irrefrenabile di assunzione (craving); difficoltà nel controllare il comportamento di consumo; perdita o disinteresse rispetto alle fonti di piacere alternative; persistenza del consumo nonostante la consapevolezza di evidenti conseguenze dannose. Riassumendo si potrebbe dire che la dipendenza patologica consiste in una modalità d’essere, una condizione esistenziale globale determinata dall’uso compulsivo di una sostanza, da un coinvolgimento totalizzante con un “oggetto” del desiderio, per ottenere il quale il soggetto mette in atto un comportamento vissuto come incoercibile. Il soggetto pur consapevole dei danni gravi che ne derivano a sé e agli altri, sceglie di continuare a varcare i confini, vincoli, norme di salvaguardia e protezione. Ancora, la dipendenza può essere intesa come una alterazione del comportamento che da semplice o comune abitudine diventa una ricerca esagerata e patologica del piacere attraverso mezzi o sostanze o comportamenti che sfociano nella condizione patologica L'individuo dipendente tende a perdere la capacità di un controllo sull'abitudine. Cenni di neurobiologia Gli studi neurobiologici sulle dipendenze da sostanze e l’alcolismo degli ultimi decenni hanno individuato delle alterazioni neurochimiche dei sistemi norepinefrinergici, serotoninergici, dopaminergici e del sistema degli oppiacei endogeni, una delle cause fondamentali della compulsione ad assumere una sostanza. La disfunzione di questi 35
  • 36. sistemi, non originata dagli effetti chimici della sostanza d’abuso, risulta dall’intreccio di specifiche condizioni genetiche e ambientali. Ad esempio, l’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA) potrebbe essere spiegata in termini evolutivi come retaggio di esperienze traumatiche vissute nei primi anni di vita: il rilascio di eccessive quantità di cortisolo (l’ormone dello stress), rilevate nei bambini con relazioni primarie insicure, si accompagna ad un’ipersensibilità dei recettori postsinaptici alla norepinefrina del sistema limbico – con il risultato di una maggiore sensibilità allo stress, difficoltà nella gestione delle emozioni, intensi stati di disagio e tensione. I soggetti dipendenti da sostanze psicotrope (così come nelle new addiction) si contraddistinguono, inoltre, per valori al di sotto della norma nei livelli di serotonina, dopamina e oppiacei endogeni. Comportamenti compulsivi e di dipendenza determinano (sia attraverso l’azione diretta della sostanza psicotropa, sia in maniera indiretta, come nel caso del gambling, del sesso compulsivo e del binge eating) un aumento di dopamina nel nucleo accumbens e l’attivazione dei recettori postsinaptici degli oppiacei, i quali promuovono vissuti di gratificazione e di ricerca della novità. 2.3 La Riabilitazione della persona con dipendenza: il nuovo paradigma, il Recovery Premessa Il nucleo del paradigma del recovery consiste nel tentare di restituire l’esperienza soggettiva, un’identità positiva, il diritto di scegliere, la speranza di “ricostruirsi una vita”. Un tentativo di restituzione centrato sull’esercizio di autodeterminazione in quanto elemento essenziale di ogni impresa umana, della vita di ognuno di noi. La traduzione più vera del concetto di recovery, “riprendersi” e non “guarire”. Il paragrafo successivo per esplicitare il significato di ripresa col contributo di Maone (2015). 36
  • 37. 2.3.1 Significato e accezioni del termine Recovery “Recovery” ha nella lingua inglese un significato che può essere reso in italiano col termine “guarigione”. Tuttavia il termine inglese ha una maggiore ampiezza semantica, con un’enfasi sul processo piuttosto che sull’esito: in medicina, oltre che guarire, “to recover” può significare riprendersi, ristabilirsi, recuperare. La guarigione definitiva da una malattia, infatti, specie se intesa come effetto di uno specifico trattamento, spesso richiede in inglese un’ulteriore qualificazione “full recovery” o l’utilizzo del termine “cure”. Proprio tale relativa indeterminatezza può essere fonte di ambiguità terminologiche quando, il concetto, viene utilizzato in quelle malattie o stati di salute nel cui decorso si possono ottenere condizioni di remissione dei sintomi e di parziale o temporaneo miglioramento, anche quando la malattia non sia stata del tutto debellata. Attualmente si ha che fare con due diverse accezioni del concetto di recovery. La prima è radicata nella tradizione medica (recovery come esito, “from” mental illness) dove la condizione clinica viene valutata in base a quanto vengono soddisfatti i criteri di guarigione operazionalmente definiti: remissione dei sintomi, ripristino del funzionamento personale e sociale, ecc. La seconda, più recente, riguarda invece la soggettività del paziente e la sua esperienza vissuta della malattia (recovery come processo, “in” mental illness); non si riferisce all’esito clinico anzi essa riflette un processo autenticamente personale, avviato a un certo punto del decorso e caratterizzato da un impegno attivo del paziente nel tentativo di ripristinare un certo controllo sulla propria vita attraverso il recupero di potenzialità e aspettative di realizzazione di sé che la “malattia” aveva compromesso in modo apparentemente irreversibile. Essere “in recovery” in questo senso richiede che il disturbo mentale venga considerato come solo uno degli aspetti della personalità nella sua totalità. Non implica in primis né una riduzione dei sintomi o dei deficit, né il ritorno a un pre-esistente stato di salute. Benché siano presenti queste due eccezioni del concetto di recovery è quest’ultima visione che sta acquisendo sempre maggiori consensi tanto da spingere vari paesi a promulgare policy governative finalizzate alla trasformazione dei servizi di salute mentale. 37
  • 38. Il concetto di Recovery, pertanto, fa riferimento non tanto alla guarigione in senso clinico quanto a un percorso personale che consenta al paziente di condurre una vita soddisfacente sia sotto l'aspetto dell'autorealizzazione sia nella possibilità di acquisire un ruolo sociale nel proprio contesto relazionale e comunitario. Patricia Deegan sul Psychosocial Rehabilitation Journal ha pubblicato un articolo dal titolo “Recovery: the lived experience of rehabilitation” (Deegan, 1988, p 11-19) dove definisce il recovery come “un modo di vedere, un atteggiamento, un modo di far fronte alle sfide quotidiane. Non è un processo perfettamente lineare: origina dalla necessità di affrontare le sfide della disabilità e di ritrovare un nuovo senso di integrità e valore, un nuovo scopo all'interno dei limiti della disabilità; l'aspirazione è di vivere, lavorare e amare all'interno di un contesto sociale a cui dare un contributo significativo”. “Recovery” potrebbe essere tradotto in italiano come “riaversi”, “ri-prendersi”, cioè tornare ad appartenere a se stessi in un processo in cui la persona non si lascia passivamente vivere dagli effetti della sua malattia, ma lavora attivamente per costruire percorsi personali di guarigione. L’OMS tramite il documento “Users empowerment in mental health. Empowerment is not a destination but a journey”, edito nel 2010, declina il concetto nel contesto della salute mentale mettendolo in relazione alle possibilità di scelta, di decisione e controllo che gli utenti dei servizi di salute mentale possono avere sugli eventi della propria vita. All’interno di questo quadro di riferimento il lavoro diventa uno degli strumenti essenziali nel lungo processo di recovery e di inclusione fornendo l’opportunità di partecipare alla società come cittadini attivi. 2.3.2 I modelli di riabilitazione volti all’inclusione socio-lavorativa nel paradigma del recovery 38
  • 39. Interessante è il contributo di Fioriti A. e Maone A. i quali ritengono che il lavoro e la vita indipendente sono universalmente considerati aspetti determinanti per l’inclusione sociale e quindi dovrebbero rientrare come obiettivi nella riabilitazione. E’ ha sostegno di tale posizione che portano la posizione di Luc Ciompi punto di riferimento nel campo della riabilitazione negli anni Ottanta e Novanta. Nel suo lavoro (Ciompi, Dauwalder, Aguè, 1987) la pianificazione e valutazione degli esiti dei programmi riabilitativi avveniva lungo due assi, asse-casa e asse-lavoro, ognuno dei quali si differenziava in sette livelli. Il successo dei programmi era misurato in funzione del raggiungimento di obiettivi significativi nel capo della situazione abitativa (lungo il continuum dalle strutture restrittive all’abitazione indipendente) e dell’attività lavorativa (dalla terapia occupazionale all’impiego retribuito). La caratteristica di questo lavoro è la strutturazione del percorso riabilitativo lungo un continuum lineare che riflette il paradigma della stimolazione ottimale. Si tratta di trovare un punto di equilibrio fra l'esigenza di promuovere attivamente il recupero della abilità, dell'autonomia e dei ruoli sociali e lavorativi, e quella di proteggere il paziente dal rischio di iperstimolazione e conseguente scompenso e ricaduta. Secondo tale impostazione il paziente può perciò transitare verso una più impegnativa situazione lavorativa solo quando ha dimostrato un risultato positivo nella fase precedente. Emerge, tuttavia, la questione della generalizzazione dei risultati, ovvero la trasferibilità delle abilità acquisite durante l’apprendimento nella vita reale. A questo proposito i due Autori portano la posizione di Benedetto Saraceno, il quale ritiene che “la generalizzazione dei comportamenti appresi è destinata a fallire, in quanto il contesto reale di vita esprime continuamente variabili di confondimento che non si lasciano catturare all’ipercontrollo che è implicito nell’intero approccio” (Saraceno, 1995, p. 21 citato in Maone, 2015). Nel percorso riabilitativo, in altri termini, l’effettivo superamento della “frontiera” dell’inclusione sociale richiede che si prendano in considerazione non solo le variabili connesse ai deficit dell’individuo, ma anche fattori meno visibili ma ugualmente operanti e condizionanti, quali le reali caratteristiche dei contesti ambientali e la loro modificabilità, le aspettative degli 39
  • 40. stakeholder, i fattori motivazionali, nonché la concreta possibilità dei mezzi materiali (ovvero reali opportunità di impiego lavorativo e soluzioni abitative). Un altro aspetto critico, nel modello del continuum, riguarda dapprima il principio del “prima preparare e poi collocare” (train and place) e delle conseguenze che le diverse transizioni comportano: cambiamento di setting con il rischio di rottura dei legami interpersonali significati e di perdita dei supporti psicosociali acquisiti nella situazione precedente e, conseguentemente, il differimento dell’obiettivo finale col rischio di prolungare la dipendenza dall'istituzione e di confermare le aspettative negative, lo stigma interno e la disaffezione. La critica più radicale si basa sull’assunzione che le persone apprendano dalle esperienze reali quando queste sono concretamente disponibili, non dopo aver dimostrato un miglioramento dei sintomi e del funzionamento. Sta prendendo forma così un modello alternativo quello, del “place and train” secondo il quale dove la persona è tempestivamente inserita in una reale situazione lavorativa attivando una rete di supporto di pronta reperibilità, con lo scopo di fornire tutta l’assistenza necessaria al conseguimento dell’obiettivo in vivo. In tal modo i fattori ambientali e sociali che impediscono alla persona con “disabilità” di accedere al lavoro diventano ostacoli reali che devono essere affrontati e superati (Corrigan & McCracken, 2005 citati in Maone, A. 2015). 2.3.3 L’inserimento lavorativo per le persone con svantaggio: dagli schemi a responsabilità sociale a quelli a responsabilità individuale. Assistendo all’avvio dei processi di deistituzionalizzazione, diviene sempre più chiaro che il lavoro è ben più che l’organizzazione del tempo personale e dell'occupazione di esso in attività dotate di senso. Il lavoro diventa il principale marker con cui la maggior parte delle persone misura la propria inclusione sociale, è una caratteristica fondamentale dell’identità, è la realizzazione di aspirazioni profonde inerenti la persona. 40
  • 41. Nei paesi occidentali l’inserimento lavorativo viene perseguito prevalentemente attraverso i cosiddetti “schemi di responsabiltà sociale”. Se il lavoro è un diritto e se esistono classi di cittadini svantaggiati che trovano serie difficoltà ad accedere a questo diritto, allora devono esistere meccanismi sociali che ne garantiscono la fruizione. Questo è il senso dei meccanismi a collocazione mirata previsti dalla Legge n. 68/99, basata sulla riserva di quote di posti di lavoro nelle aziende pubbliche e private per cittadini con disabilità, compresa quella psichica. E’ anche il senso del forte impegno dei servizi salute mentale (CSM e Ser.T) nello sperimentare percorsi protetti di formazione e inserimento, basati sullo strumento delle borse lavoro, in collaborazione con la cooperazione sociale e con i vari soggetti del terzo settore (Legge 381/91 Disciplina delle cooperative sociali). Il modello cooperativo ha suscitato grande attenzione perché, come tutti i sistemi a responsabilità sociale, offre a un gran numero di persone (maggiore rispetto alla Legge 68/99) opportunità che non troverebbero nel mercato di lavoro competitivo/aperto. Tuttavia gli schemi a responsabilità sociale stanno trovando sempre maggiori ostacoli nel garantire il raggiungimento di posizioni lavorative effettive, vale a dire posizioni contrattualizzate, disponibili a qualsiasi cittadino, svantaggiato o meno. La Legge 68/99 ha dimostrato discrete capacità di sostegno e di contrattualità in favore di cittadini con disabilità fisica e intellettiva, mentre è risultata più di ostacolo che una risorsa nella maggior parte dei casi per i pazienti con disturbi mentali. Il movimento cooperativo è stato il genere la risorsa principale su cui i Dipartimenti dei Salute Mentale e per le Dipendenze hanno potuto contare, ma nell’ultimo decennio ha incontrato sempre più problemi nel ritagliarsi quote di lavoro nel libero mercato e nel promuovere il lavoro contrattualizzato dei propri soci svantaggiati. Inoltre, la nuova generazione di pazienti, meno disabile rispetto a quella del passato, esprime una sempre maggiore insoddisfazione rispetto ai lunghi percorsi fomativi, alle complesse procedure di preparazione al lavoro, alla ridotta probabilità di ingresso nel mercato competitivo/aperto. Queste contraddizioni si erano rese visibili già negli anni ‘90 negli Stati Uniti e in coerenza con il loro contesto socio culturale di quegli anni si sono sperimentate, con successo, forme alcuni “schemi sociali a responsabilità individuale”. Il lavoro, secondo 41
  • 42. questo approccio, è una scelta individuale nella quale ciascuno mette in gioco le proprie motivazioni, le proprie capacità e le proprie esperienze. La forza di questa spinta motivazionale rischia di essere frenata dagli schemi di responsabilità sociale, mentre può essere potenziata con supporti personalizzati alle capacità individuali. Tali schemi vanno sotto il nome di supported employment (impiego con supporto). Supported employment: definizione e principi La definizione di Inserimento Lavorativo Assistito (Supported Employment, SE) accettata e concordata tra l'Unione Europea per l’Inserimento Lavorativo Assistito (EUSE) è “fornire sostegno alle persone con disabilità o altri gruppi svantaggiati per ottenere e mantenere un lavoro retribuito nel mercato del lavoro aperto”. L’obiettivo del SE è il lavoro competitivo. L’occupazione competitiva è così definita: pagato almeno il minimo salariale, con uno stipendio uguale a quello che gli altri ricevono svolgendo lo stesso lavoro, con sede in contesti non discriminanti accanto agli altri lavoratori senza disabilità, con una posizione non riservata a persone con disabilità. I clienti preferiscono posti di lavoro competitivi al lavoro protetto. Lavorare fianco a fianco agli altri senza disabilità psichiatriche aiuta a ridurre lo stigma e la discriminazione. Si tratta di una metodologia che affronta il problema dell’occupazione dei disabili o altre figure svantaggiate in modo completo e integrato, comprendendo l'orientamento, il profiling professionale, la formazione, la ricerca di lavoro, ed il supporto all’interno e fuori dal posto di lavoro. I valori e i principi alla base dell’inserimento lavorativo assistito sono del tutto coerenti con i concetti di empowerment, inclusione sociale, dignità e rispetto della persona. Nel quadro dell’inserimento lavorativo assistito questi concetti possono essere ulteriormente definiti dai seguenti valori e principi che sono presenti in tutte le fasi e le attività del supported employment (obiettivo lavoro competitivo; sostegno integrato con il trattamento del diturbo; Zero exclusion; partire dalle preferenze del cliente; 42
  • 43. consulenza sulle opportunità economiche; rapida ricerca del lavoro; lavoro sistematico di sviluppo personale, sostegno a tempo illimitato), di seguito descritti. Individualità. L’inserimento lavorativo assistito considera ogni individuo come unico, con il suo/suoi interessi, preferenze, condizioni e storia di vita. Rispetto. Le attività di inserimento lavorativo assistito sono sempre appropriate all’età della persona, nel rispetto della sua dignità umana. Autodeterminazione. L’inserimento lavorativo assistito aiuta le persone a sviluppare i propri interessi e preferenze, esprimere le proprie scelte, e definire il proprio progetto occupazionale di vita secondo le condizioni personali e di contesto. Scelta informata. L’inserimento lavorativo assistito aiuta le persone a capire a fondo le proprie opportunità in modo da poter scegliere in modo coerente all'interno delle preferenze individuali e con una comprensione delle conseguenze delle proprie scelte. Empowerment. L’inserimento lavorativo assistito aiuta le persone a prendere decisioni sul proprio stile di vita e sulla partecipazione alla vita sociale. Gli individui sono coinvolti in posizione centrale nella pianificazione, valutazione e sviluppo dei servizi. Riservatezza. Gli operatori dell’inserimento lavorativo assistito considerano le informazioni loro fornite dagli utenti in modo riservato. L'utente del servizio ha accesso alle sue informazioni personali raccolte dal servizio e ogni divulgazione o utilizzo dei dati necessità dell’accordo dell’utente. Flessibilità. Il personale e le strutture organizzative sono in grado di modificare l’approccio metodologico in base alle esigenze degli utenti del servizio. I servizi sono flessibili e rispondenti alle esigenze degli individui e possono essere adattati alle esigenze specifiche. Accessibilità. I servizi, le strutture e le informazioni dell’inserimento lavorativo assistito sono completamente accessibili a tutte le persone con disabilità. 43
  • 44. 2.4 Quale career counseling nellinserimento lavorativo di persone con svantaggio 2.4.1 Introduzione Il cambiamento dell’assetto socio-economico sta facendo sì che le persone debbano diventare più autonome nel gestire le loro vite: nel mondo del lavoro non sono più le organizzazioni che forniscono alle persone la “narrazione” su come dovrebbe procedere la loro vita, anche e soprattutto lavorativa, ma sono le stesse persone che devono iniziare a costruirsi la propria storia di vita e professionale, lo stesso nel mondo del sociale, con il graduale spostamento dagli schemi a “responsabilità sociale” a quelli a “responsabilità individuale”. L’emergere della dimensione individuale, soggettiva, riprendendo quanto già citato (a pag 9), necessita che le persone debbano fidarsi di loro stesse per costruire la loro storia - un Sé e un percorso professionale - per tenere insieme loro stesse e le proprie vite e affinché il sentimento di perdita, che si sperimenta nei momenti di discontinuità, di transizione, non le opprima. Le persone, sostanzialmente, devono diventare autrici della loro storia. Il career counseling viene in aiuto della persona dal momento che ha come obiettivo quello di preparare le persone ad affrontare e a partecipare al nuovo mondo, dandosi nuove narrazioni attraverso un processo di costruzione, decostruzione e ricostruzione delle singole storie in una storia più ampia e costruzione dell’episodio successivo, il tutto all’interno di una storia di vita che fornisca significato e continuità. Il career counseling, dunque, per curare il sé al fine di costruire una narrativa del percorso professionale; il career counseling come processo che potenzialmente possa assistere tutte le persone, in qualsiasi circostanza (anche per quelle le cui vite non sembrano conformarsi alle tendenze e agli assunti di “carriera” comuni) per progettare, in modo significativo, le proprie vite in anticipo. Tutti, anche se con sfumature diverse, nutriamo intenzioni di creare significato nelle nostre vite. 2.4.2 Dal principio “conosci te stesso” all’etica “Cura del Sé” nel career counseling per persone con svantaggio 44
  • 45. E’ possibile che il career counseling sia utile anche a quelle persone le cui vite sembrano non conformarsi alle tendenze comuni: a una donna che è stata costretta alla prostituzione, a un uomo che assuma un bottiglia di gin al giorno e vive per strada, a un membro di una gang di un ghetto urbano, a una mamma single con quatto bambini che vivono in condizioni di estrema povertà, etc.? Al come il career counseling possa essere utile anche a queste persone ha provato a dar risposta John Winslade attingendo al lavoro di Micheal Focault, all’enfasi che lo stesso dà alla cura del Sé. Foucault la concepisce come “un processo deliberato di proiezione in avanti di una storia in modo consapevole delle forze guida che operano nella produzione di una vita” (Maree, 2011, p. 57) . Se pensiamo al lavoro come a un’attività piena di significato, allora un percorso professionale è un’idea organizzata che esprime scopi pregevoli, sui quali possono essere generate specifiche attività. La costruzione è connessa alla costruzione di un senso di sé e di un’identità. E’ un processo di produzione, creazione e articolazione. E’ un progetto sempre in divenire. Allo stesso tempo, è un progetto che si realizza nel mondo reale che pone vincoli e limiti a ciò che le singole persone possono fare. Questo mondo è plasmato da relazioni di potere che costituiscono la nostra vita in modo in cui talvolta abbiamo poca voce in capitolo. Il processo di creazione del sé prende sempre in considerazione gli effetti del potere. Proprio il tipo di progetto che un percorso professionale rappresenta dipende da come noi lo pensiamo. Se abbiamo una concezione narrativa di questo progetto, allora potremo sviluppare non solo un percorso effettivo, ma un resoconto di un percorso, un sostegno e una guida narrativa alle quali riferirci nei momenti di confusione e contraddizione. L’assunto è che la rappresentazione di un evento o oggetto, la sua storia, giocano un ruolo nella sua creazione. Le storie (la costruzione degli eventi) influenzano le vite, non sono solo storie. Quindi il counseling può lavorare direttamente sulla narrazione per incidere sul modo in cui la storia (trama) viene vissuta. Il compito del career counseling diventa, a questo punto, quello di rendere manifesto il racconto (tema) di una persona relativo alla propria significativa azione nel mondo. 45
  • 46. Il primo Foucault (1971) parte dal prendere in considerazione le relazioni di potere mettendo in luce come le relazioni di potere (discorsi dominanti di materia economica, apprendimento ed educazione, familiari) governino i percorsi professionali. Tuttavia la portata di questi discorsi dominanti, sempre secondo Foucault, non è poi così ampia, infatti evidenzia il fatto di come il potere produca, più o meno automaticamente, resistenza, ovunque venga applicato. La produzione di resistenza passa attraverso la scoperta del gap nei discorsi dominanti. La scoperta di questi gap nei discorsi dominati o principali porta all’apertura di storie alternative, vale a dire che la portata dei discorsi dominati, per promuovere identità da loro interiorizzate, non è poi così ampia. Ci sono sempre momenti, nobili intenzioni, contraddizioni (celare ambizioni private, sogni professionali “irrealistici”) che sono lasciati fuori dalle storie di identità personale perché essi non si adattano alla narrazione dominante. Sono proprio queste “contraddizioni” da ricercare perché sono la base per la crescita di una storia alternativa e possono portare ad aperture professionali privilegiate. Queste contraddizioni sono l’espressione di resistenza ai processi di potere della produzione sociale. Tale resistenza può essere intesa come l’espressione del desiderio di qualcosa di meglio. Nella resistenza spesso si trovano degli impliciti progetti di vita che un cliente tiene “cari”. La resistenza, in questo senso, diventa un’espressione di speranza. Nel career counseling può anche essere un’espressione di ambizione, spesso di coraggio di fronte alle forze della limitazione. Il secondo Foucault (1992, 1991, 1997, 2003) sostiene che la resistenza al potere è tuttavia una base limitata sulla quale costruire progetti professionali; il suo focus è negativo e la sua forza motivante dipende dalla continua esistenza della relazione di potere. Egli indaga da una base differente l’esercizio della gestione di sé (self- governance) reinserendo un antico principio relativo alla cura del Sé. Foucault (2003), sulla base della sua analisi del potere, sostiene che lo sviluppo personale è basato sull’etica della “cura del Sé”. Questa etica è differente dalla logica emancipatoria, e relativa alla liberazione del vero Sé dai limiti repressivi, portata avanti dagli assunti umanistici, che dominano la psicologia (specialmente nel campo del 46
  • 47. counseling), dove lo sviluppo personale riguarda l’aumento di consapevolezza o una migliore conoscenza di se stessi. Il valore umanistico è, riprendendo l’antico principio delfico, “Conosci te stesso!”. La psicologia umanistica, infatti postula l’esistenza di un nucleo centrale nella persona che emerge con la crescita personale. Il career development diventa così un modo di apprendere questa essenza interiore. Le decisioni professionali equivalgono a un processo di allineamento della propria “vera natura” con un percorso che realizzerà il massimo grado di soddisfazione personale. Per la psicologia umanistica, arrivare a conoscere se stessi è considerato emancipante il Sé più veritiero, dalle costrizioni repressive del contesto sociale; Foucault invece afferma che lo sviluppo personale è basato su un’etica differente dalla logica emancipatoria. Lo sviluppo personale secondo lui necessità di un processo di costruzione intenzionale (piuttosto che la scoperta) del Sé e trova espressione, per questa etica, nell’antica “cura del Sé”, attraverso le cui pratiche la persona agisce su di sé per generare una vita; sono sforzi deliberati per costruire un’esperienza interiore desiderata, sempre nel contesto delle forze disciplinari che operano intorno alla persona. Questa etica della “cura del Sé” propone un percorso professionale come un progetto estetico, più simile ad un’opera d’arte che a un progetto scientifico. Riportato il tutto nel career counseling, ci potrebbe essere meno enfasi sulla scoperta di propensioni naturali (o attitudini) e più sulla costruzione di una traiettoria narrativa che potrebbe dar vita al Sé. Foucault (2003) quando introduce l’etica della “cura del Sé” lo fa pensando all’ askesis termine greco che identifica l’antica pratica della cura del Sé come a un inseme di esercizi meditativi. In questa cornice di pensiero la cura del Sé è un esercizio ascetico di creazione di sé piuttosto che di scoperta di sé. Un colloquio di counseling è, può diventare, un contesto dove questa stessa opera (“cura del Sé”) può essere generata nel modo moderno. Winslade traduce questi esercizi ascetici in un insieme di quattro pratiche che potrebbero dar luogo alla pratica del career counseling: il ruolo del ricordo nella progettazione di una narrazione futura; immaginare il futuro; testare se stessi nel mondo dell’esperienza e valutare i propri 47
  • 48. progetti come se fossimo di fronte alla morte. Il riferimento è al corso che Foucault tenne al College de France: la serie di lezioni sull’Ermeneutica del soggetto, molte delle quali si concentrano sulla cura del Sé (Foucault, 2003). Il ruolo del ricordo nella progettazione di una narrazione futura Il ruolo della memoria nella cura del Sé si correla ai processi di apprendimento attraverso l’ascolto e la scrittura e la costruzione della conoscenza. Riferendoci ad essa come ad esempio all’educazione, mettendo insieme la conoscenza memorizzata del mondo e di se stessi, si crea ricchezza interiore; questa deve essere costantemente rivisitata per creare valore. Foucault descrive il processo come segue: “Si deve avere dentro di sé una sorta di libro da rileggere di volta in volta”. Questo libro interiore di esperienze e conoscenze viene riletto, e nella rilettura ci ci si impegna a fare il punto su noi stessi. E’ così che i ricordi permettono di fare il punto o l’inventario dei resoconti di ciò che si è diventati. Il career couseling potrebbe quindi enfatizzare domande che invitano a un processo di memorizzazione e di inventario. La stesura di un curriculum vitae è un’attività che potrebbe essere un esempio di tale memorizzazione e le questioni potrebbero centrarsi sul racconto di storie, di situazioni nelle quali una persona ha sperimentato attività significative che la sostengono e la rinforzano. Le persone dovrebbero essere invitate a rispondere a domande che le permettano di fare il punto su ciò che è “stato prodotto” in loro stessi in relazione ai ricordi positivi: quali qualità personali sono state sviluppate; quali valori sono stati espressi; quali progetti di vita sono stati suggeriti; quali impegni sono implicati. Immaginare il futuro Un altro esercizio che Foucault porta nella cura del Sé richiede di immaginare il futuro. In tempi antichi, gli stoici erano conosciuti per un esercizio controverso chiamato “praemeditation malorum, la meditazione sui mali futuri” (p. 501). Questo era un esercizio per immaginare i mali attuali e proiettarli nel futuro, contemplando il peggio che sarebbe potuto accadere. L’esercizio veniva svolto per capire che simili paure stanno solo nella nostra stessa costruzione e non necessariamente si realizzeranno. 48
  • 49. Lo scopo era di separare tali visioni del futuro dal potere che esse potrebbero esercitare sul presente. Come portare l’enfasi di questa antica meditazione nella pratica del career counseling? Innanzittutto, i mali degli stoici si riferiscono a quelli che oggi chiamiamo “problemi”. Questi sono gli ostacoli della vita, o i vincoli, o le fonti di sofferenza che incontriamo nel corso della nostra vita spesso prodotti fuori dalle relazioni di potere intorno a noi. Nel counseling, la costruzione di un futuro preferito è necessaria per affrontare il potere di simili problemi che indeboliscono i nostri progetti di vita. La pratica di costruzioni di conversazioni esteriorizzate (White & Epston, 1990) è perfettamente adatta a questo compito. In essa, i problemi (i mali) sono dati da una entità separata e vengono esplorati in profondità per gli effetti che producono. Le domande sono fatte frequentemente sul passato, presente e futuro di questi effetti. Le domande fatte sui possibili effetti futuri immaginati del disagio rappresentano l’antica meditazione sui mali futuri. Ad esempio: “Se questo problema continuasse a dominare la tua vita, che tipo di futuro vorresti per te? Quale tipo di percorso lavorativo potresti immaginare per te?” Queste tematiche non mirano a radicare le persone in storie problematiche anzi portano a creare una giusta distanza da loro, valutandole per la loro utilità, e il valore della verità. Esse stabiliscono la motivazione ad affermare un futuro alternativo che potrebbe rafforzare la motivazione a perseguire un particolare percorso lavorativo. Testare se stessi nel mondo dell’esperienza Un altro esercizio è l’esame del Sé nel mondo della prassi e dell’esperienza. Nell’antichità si trattava di esercizi di privazione e astinenza per provare ed analizzare la propria risolutezza interiore. Lo scopo spiega Foucault era di “stabilire e testare l’indipendenza degli individui in relazione al mondo esterno”. Nel contesto del moderno career counseling, questo è l’ambito in cui si lavora con le persone per sviluppare le identità preferite in azione. Ciò comporta la formazione 49
  • 50. e l’implementazione di decisioni, l’assunzione di rischi, la produzione del futuro immaginato nel mondo dell’esperienza. Il career counseling narrativo sottolinea il fatto di fare domande che muovano dal panorama dell’identità al panorama dell’azione (Bruner, 1986) e viceversa. Questo implica stimolare a raccontare storie di ciò che è successo e a riflettere sul dettaglio della vita vissuta; richiede di ricordare di nuovo i principi e i valori che una persona ritiene cari e le strategie per renderli praticabili. Comporta la creazione di uditori che apprezzino le storie e i progetti di identità che i clienti costruiscono, in base al principio che le storie esistono e diventano influenti nei contesti in cui sono state raccontate. Valutare i propri progetti come se fossimo di fronte alla morte Foucault (2005) delinea l’insieme finale delle pratiche ascetiche riferendosi a una meditazione famosa presso gli antichi stoici, chiamata melete thanatos, o preparazione alla morte. Questa pratica implicava la proiezione di se stessi fino al momento prima della morte e uno “sguardo indietro, in anticipo, per parlare della propria vita”. Da questo punto di vista ci si potrebbe porre la questione del giudizio morale finale, “se la virtù era solo nelle mie parole o realmente nel mio cuore” (Seneca, citato da Foucault, 2005 p. 505). Il momento della morte viene estrapolato dagli stoici nel rituale giornaliero di valutazione personale. Ogni giorno deve essere vissuto come se fosse l’ultimo così che, come disse Marco Aurelio: “Quando ci prepariamo ad andare a dormire, diciamo, con gioia ed espressione serena: ho vissuto” (citato in Foucault, 2005, p. 504). Foucault sostiene che questa pratica non era legata ad una preoccupazione della morte, quanto uno studio di autovalutazione dallo speciale punto di vista di immaginare l’approccio alla morte. La domanda, impegnativa, a cui rispondere è: “Sono convinto di essermi concentrato su ciò che è stato importante nella mia vita?”. Focalizzarsi sulla morte diventa il modo di intensificare il significato dei propri scopi e progetti di vita. Le domande fatte per stimolare una simile autovalutazione sono utili nel career counseling, anche se non sono accompagnate dalla menzione del momento finale. All’interno del focus narrativo, un counselor pone di frequente 50
  • 51. domande che sollecitano la presa di posizione in relazione al problema o alla preferenza per una storia alternativa. Un modo per fare questo, nel career counseling, potrebbe essere una domanda quale: “Quando guardi alla tua vita di cosa vorresti essere fiero?”. Inoltre riprendendo l’esempio di Marco Aurelio, la domanda che può essere fatta quotidianamente diventa: “Quando guardi alla tua vita alla fine del giorno (o settimana, mese, anno ecc.) di cosa vorresti essere orgoglioso?”. Le quattro pratiche che nell’etica antica sottolineano la meditazione individuale, nella moderna pratica del career counseling, come presentato da Winslade, possono essere pensate come conversazioni riflessive dove le domande del “counselor” formano ciò e costituiscono ciò su cui meditare. Tornado, in conclusione, alla persone immaginate all’inizio del paragrafo allora possiamo ipotizzare una conversazione sui ricordi o sulle speranze nutrite per la donna, che vive in povertà con quattro figli, per i bambini e per se stessa; o domande sui ricordi di sé per l’uomo che è senza casa ed è un bevitore abituale; o domande, al componente della gang del ghetto urbano sui peggiori effetti che si sarebbero potuti verificare se la cultura della gang avesse continuato a dominare la sua vita e se sarebbe felice di vivere con questi effetti oppure no. Ognuna di queste domande potrebbe rappresentare l’inizio di un colloquio. Ognuna potrebbe aprire un racconto. E ogni narrazione, adeguata al giusto tipo di pubblico, in modo da nutrire e dissetare la sua crescita, potrebbe maturare in un progetto. La parola “progetto” si riferisce letteralmente al proiettare qualcosa in avanti e proiettare un’identità in avanti nella vita potrebbe potenzialmente assumere la caratteristica di un percorso. Mi piace l’idea di chiudere questo capitolo con una poesia che secondo me sintetizza i concetti fin qui sviluppati e cioè che oggi, più che nel passato, emerge forte il bisogno di costruirsi una carriera professionale, un profilo professionale, una storia professionale all’interno dei quel racconto personale relativo alla propria significativa azione nel mondo, che il più delle volte rimane celato o si può manifestare nei momenti drammatici del proprio percorso professionale/personale. 51
  • 52. Il career counseling lo vedo come uno strumento per costruire una narrativa che può dar vita al Sé. Come strumento che coglie la linea trasversale che collega le brevi strorie in una macronarrazione tracciando un filone centrale di sviluppo. E’ ricercare lo schema implicito nei racconti, il filo che unisce le perle di una storia di vita. La poesia a cui ho pensato e che elicita questi concetti è quella di William Stafford (1999, p. 144) intitolata E’ così (The way is it): E’ Così The Way It Is 52
  • 53. C’è un filo che segui. Va tra le cose che cambiano. Ma il filo non cambia. Gli altri si chiedono dove vai. Devi dare spiegazioni del filo. Ma per gli altri è difficile capire. Se tieni il filo non puoi perderti. Le tragedie capitano; le persone vengono ferite o muoiono; e tu soffri e invecchi. Non puoi fermare il tempo. Non mollare mai il filo. There’s a thread you follow. It goes among things that change. But it doesn’t change. People wonder about what you are pursuing. You have to explain about the thread. But it is hard for others to see. While you hold it you can’t get lost. Tragedies happen; people get hurt or die; and you suffer and get old. Nothing you do can stop time’s unfolding. You don’t ever let go of the thread. Conslusioni Note su “ Il tempo della vita” nel relazione di sostegno, cura. 53
  • 54. Il bisogno emergente di costruirsi una storia professionale all’interno di quel racconto personale relativo alla propria significativa azione nel mondo il più delle volte rimane celato o si può manifestare in momenti drammatici del proprio percorso professionale/personale. In questi momenti “drammatici” il professionista non può trascurare la dimensione tempo o meglio il tempo e l'esperienza che la persona ne fa. Si potrebbe dire, riprendendo le parole di Borgna (2015) che lo scopo del professionista sta nell'aiutare la persona a non lasciarsi divorare dal presente, quando è possibile, ma che tenga sempre vive nella persona le fiaccole trepidanti del passato e del futuro, facendole recuperare fino in fondo la circolarità agostiniana del tempo. Il tempo per la comprensione della psicologia umana: circolarità agostiniana Per Borgna (2015) il concetto di tempo è il tema cruciale per la comprensione della psicologia umana, la cui natura sfaccettata, relativa e dalle infinite declinazioni, diventa fattore imprescindibile quando si considerino la natura e la psiche umane. La nostra vita nasce e muore nel tempo, si svolge in esso e per meglio comprenderla dobbiamo avere presenti le esperienze del tempo. C'è il tempo degli orologi, quello misurabile, che è uguale in ognuno di noi e il tempo interiore, il tempo del vissuto, che è diverso in ciascuno di noi, che cambia indipendentemente dalla scansione cronologica delle ore e che è influenzato dalle nostre emozioni, dai nostri vissuti. Il tempo interiore ci fa vivere in misura diversa, perché mediata dalle proprie emozioni, dai propri stati d'animo, una uguale estensione temporale. Quindi la percezione soggettiva del tempo ad esempio di quando ci si sente stanchi, o tristi, o annoiati è diversa da quando ci si sente lieti, o sereni, o si è interessati a qualcosa. Nel primo caso probabilmente un'ora di tempo diventa interminabile nel secondo, invece, sarà breve e fluida. Le nostre emozioni e i nostri stati d'animo si riflettono nella percezione che ognuno di noi ha del tempo. Il tempo geometrico, quello che scandisce le nostre ore, è influenzato dal tempo vissuto, e la persona non sarebbe tale in assenza della traiettoria temporale; é un elemento costitutivo dell'identità e permea la coscienza e l’esistenza di ciascuno. 54