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www.ilfuturomigliore.org
ECONOMIA FINANZIARIA
ovvero il ciclo D - D’ dal prestito alla scommessa
sergio benassai
1. La circolazione delle merci e del denaro
Secondo Marx, con l’avvento del capitalismo, si opera il passaggio dal ciclo pre-borghese M – D –
M’ (merce – denaro – merce), che costituisce la “circolazione semplice”, al ciclo capitalistico D –
M – D’ (denaro – merce – denaro), ove naturalmente D’ è maggiore di D e la differenza fra D’ e D
è ottenuta dallo sfruttamento della forza lavoro.
Tuttavia va tenuto presente che sono esistiti ed esistono anche i cicli “abbreviati”:
- il ciclo M – M’ (merce – merce), tipico del baratto, caratterizzato dallo scambio diretto di una
merce con un’altra
- il ciclo D – D’, (che Marx1
definiva come “capitale usuraio” rispetto al “capitale commerciale” D-
M – D’), che consente di ottenere un guadagno con un solo scambio di denaro, ma con tempi
diversificati e modalità articolate, senza la “intermediazione” di merci.
2. Il ciclo D – D’ nel prestito con interesse
Fino dall’antichità era consuetudine che il prestito di denaro comportasse la restituzione del denaro
prestato con l’aggiunta di un interesse (che è appunto una delle forme che assume il ciclo D – D’).
Se ne trovano espliciti riferimenti nei testi sacri dell’India antica, dai Veda (2000 – 1400 a.C.) ai
Sutra (600 – 400 a.C.).
Così come se ne fa menzione nel Vecchio Testamento:
… non gli presterai denaro con interesse …2
… ma … se darà in prestito ed esiga un’usura … morrà e il suo sangue ricadrà su di lui3
Ma in questo caso è esplicita la condanna del prestito con interesse.
1
Karl Marx - Il capitale, libro I, seconda sezione, capitolo IV
2
Levitico; 25, 37
3
Ezechiele; 18, 10-13
Nella Grecia classica Platone assume una chiara presa di posizione:
… e non si dovrà …. neppure prestar soldi ad interesse …4
nonostante questa pratica fosse abbastanza comune.
Più controversa appare la posizione di Aristotele. Anche perché la frase che gli è spesso attribuita
(nummus non parit nummos) è in realtà di Tommaso d’Aquino; e quanto affermato Aristotele
nellEtica Nicomachea:
… coloro, infatti, che traggono grossi guadagni di dove non si deve, e non fanno ciò che si deve,
non li chiamiamo avari … ma, piuttosto, malvagi, empi …5
non sembra immediatamente interpretabile come una condanna del prestito con interesse.
Il riferimento a Tommaso d’Aquino ci conduce a sottolineare come il prestito con interesse sia stato
spesso oggetto di condanna da parte del cristianesimo e dell’islam.
Per quanto riguarda il cristianesimo, vengono citate in proposito alcune parole pronunciate da Gesù
Cristo nel “Discorso della montagna”:
… date in prestito senza sperare in niente …6
Sicuramente nel Medioevo la posizione ufficiale del cristianesimo era contraria al prestito con
interesse, una posizione più volte ribadita, che però non veniva necessariamente seguita nella
pratica.
E una dei modi per sfuggire alla posizione ufficiale fu quello di assegnare la pratica dei prestiti con
interesse agli ebrei. La giustificazione di ciò fu rinvenuta nella convinzione che fosse lecito, per gli
ebrei, prestare con interesse a persone di diversa religione, ma non agli ebrei, sulla base di alcuni
passi del Vecchio Testamento, quali:
… se presti del denaro a qualcuno del mio popolo, al popolo che ti è vicino, non esser con lui un
usuraio, esigendone l’interesse … 7
… tu presterai a molte genti e non prenderai nulla in prestito8
Ma, naturalmente, la pratica non sempre seguiva queste prescrizioni.
Fin quando, con Calvino, non venne affermata, con estrema chiarezza, la liceità del prestito con
interesse (anche se il Concilio di Trento ribadì con forza la posizione contraria):
… quindi dobbiamo ritenere che l’interesse, a meno non sia in contrasto con la legge divina, non è
sempre da condannare …9
Quanto all’islam, l’ovvio riferimento è il Corano, ove si afferma, ad esempio:
… Dio permette il commercio e vieta l’usura … 10
E, anche per l’islam, naturalmente la pratica non sempre seguiva (e segue) questa che appare come
un’assoluta proibizione.
In realtà le variegate posizioni sopra appena accennate richiederebbero una approfondita
discussione sulla possibile distinzione fra interesse ed usura, una distinzione che, nella società
moderna, è ormai codificata con la definizione di un valore del tasso di interesse che segna appunto
il confine fra legittimo interesse ed usura.
4
Platone; Leggi, V, 742
5
Aristotele - Etica Nicomachea; libro IV, 1
6
Luca; 6, 35
7
Esodo; 22, 24
8
Deuteronomio; 28, 12
9
Giovanni Calvino; Commentario a Ezechiele 18: 5-9
10
Corano; Sura II della Vacca, 275
Resta comunque il fatto che, fin dall’antichità (quali che fossero i precetti morali o religiosi), il
prestito si è configurato nella forma di prestito con interesse.
E la giustificazione dell’interesse da corrispondere al momento della restituzione si ritrova in genere
nel considerare che sia giusto ricompensare il “sacrifico” del prestatore, consistente nel fatto che,
fino al momento della restituzione, il prestatore si priva della disponibilità della somma prestata,
mettendo a disposizione del debitore uno “strumento” necessario per lo svolgimento delle attività di
quest’ultimo, lo strumento “denaro”.
Va peraltro sottolineato come il ciclo D – D’, in questa sua forma di “capitale usuraio”, è
ovviamente appannaggio solo di chi dispone di un capitale monetario iniziale D del quale può
privarsi per un certo periodo al fine di ottenere, in un determinato futuro, un D’ maggiore di D.
3. Il ciclo D – D’ nelle società per azioni (1)
L’antesignana delle moderne società per azioni si può forse far risalire al 1250, quando un gruppo
di nobili insediati intorno al fiume Garonna, vicino a Tolosa, dette vita alla “Société des Moulins du
Bazacle”, prevedendo che i soci avrebbero suddiviso i profitti derivanti dal funzionamento dei
mulini installati sulla Garonna in relazione alla quota di finanziamento versata.
Ma lo sviluppo delle società per azioni è una caratteristica del XVII secolo, in conseguenza della
necessità di reperire ingenti capitali per le società coloniali operanti nelle Indie, in una forma che
permettesse di investire solo parte del capitale disponibile da parte degli investitori.
Senza entrare nel merito di tante caratteristiche delle società per azioni, quello che è rilevante è che
si tratta di una particolare forma del ciclo D – D’, che si manifesta nella forma di un dividendo (la
ripartizione cioè fra gli azionisti del guadagno derivante dall’attività della società), ma che prevede
una assunzione di rischio da parte degli azionisti (i prestatori di D).
Infatti, nel caso del prestito con interesse di cui al capitolo precedente, il valore di D’, ottenuto dal
prestatore, è prestabilito (dal tasso di interesse) ed in genere garantito. Invece, nel caso delle società
per azioni, l’ottenimento di un D’ maggiore di D è possibile solo nel caso che la società abbia un
bilancio positivo, vale a dire che abbia prodotto profitti.
Vi è quindi, da parte degli azionisti, una specie di “scommessa” sul fatto che la società ottenga
profitti.
A questo proposito può essere interessante notare la posizione di Marx che afferma11
:
… le imprese azionarie capitalistiche debbono essere ritenute, come le fabbriche cooperative, quali
forme di transizione dal modo di produzione capitalistico a quello sociale …
4. Il ciclo D – D’ nelle società per azioni (2)
I possessori di azioni di società per azioni hanno sempre potuto disporre della libertà di poter cedere
ad altri le proprie azioni.
Su tale base sono quindi sorte le Borse12
.
11
Karl Marx - Il capitale, libro III, quinta sezione, capitolo XXVII
Con le Borse il ciclo D – D’subisce una ulteriore modifica nel senso che la “scommessa” sul fatto
che la società ottenga profitti, di cui al paragrafo precedente, si sostanzia in un valore attribuito
all’azione (o titolo) che, a sua volta, è oggetto di “scommessa”.
Di qui il continuo oscillare del valore attribuito all’azione (o titolo) sulla base della “scommessa”
sull’effettivo realizzarsi o meno della sottostante “scommessa” originale relativa alla possibilità che
la società in oggetto ottenga profitti.
Tuttavia queste “scommesse” sulle “scommesse” sono ormai divenute un puro gioco.
Infatti basta guardare le oscillazioni del valore delle azioni delle società quotate in Borsa per capire
che ormai tali valori non sono più legati alla “scommessa” originaria sulla possibilità di ottenere un
dividendo, ma variano in base a fattori assolutamente non legati ad esse.
Ormai una dichiarazione di un governante, di un politico, di un amministratore, anche se slegata
dalla realtà fattuale, può produrre variazioni sul valore del titolo, senza che la realtà produttiva o
commerciale fornisca indicazioni in tal senso.
5. Il ciclo D – D’ dei derivati (1)
Con l’affermarsi di una economia sempre più centrata sugli aspetti puramente finanziari, il
guadagno inerente al ciclo D – D’ non deriva più dall’interesse connesso al prestito o
dall’ottenimento del dividendo di una società per azioni, ma deriva da una “scommessa”, che
prende ad esempio la forma di un contratto a termine (future), in base al quale ci si impegna a
scambiarsi un certo quantitativo di qualcosa (che siano merci, azioni, altri titoli finanziari, valute,
ecc.) ad un certo prezzo stabilito ad una certa scadenza.
Anche il contratto a termine (future) tuttavia ha una lunga storia.
Infatti già nell’antichità greco-romana si stipulavano contratti a termine, contratti che videro poi una
loro regolamentazione nel Medioevo, quando si verificò una loro espansione nella forma di contratti
in base ai quali gli agricoltori e i commercianti, al momento della semina del grano, si mettevano
d’accordo sul prezzo del grano che sarebbe stato pagato dai commercianti agli agricoltori al
momento del raccolto, ambedue quindi “scommettendo” sulla produzione di grano (che, se elevata,
avrebbe favorito l’agricoltore, e, se bassa, avrebbe favorito il commerciante).
Successivamente questi contratti furono sempre più oggetto di fini speculativi.
L’esempio più significativo a tal proposito è probabilmente quello dei tulipani olandesi.
Nel XVII secolo in Olanda si sviluppò un crescente interesse per la coltivazione dei tulipani (in
particolare dei tulipani di origine turca, che erano molto apprezzati per la loro resistenza alle
condizioni climatiche).
Analogamente a quanto abbiamo visto verificarsi nel Medioevo per il grano, fioristi e commercianti
stipulavano contratti a termine (futures) basati sulla vendita di bulbi che erano stati appena piantati
o, addirittura, che si aveva intenzione di piantare.
Il crescere di questi contratti e il continuo aumento dei prezzi dei tulipani indusse sempre più
persone a interessarsi a questi futures tanto che, nel 1636, si aprì un formale mercato ove non si
commerciavano più i bulbi di tulipano, ma gli stessi futures.
12
Secondo alcuni la prima compravendita di titoli (azioni) si tenne nel XVI secolo in un palazzo di Bruges (Belgio) di
proprietà della famiglia dei Van der Bourse, dal cui nome si farebbe derivare la denominazione di Borsa
Ciò comportò un sempre crescente valore dei prezzi dei tulipani13
fin quando, nel 1637, la bolla
speculativa scoppiò con la conseguenza che molti detentori di futures dovettero registrare perdite
enormi finendo in rovina.
Per questo molti dei commercianti finiti in rovina si rivolsero ai tribunali olandesi richiedendo di
dichiarare nulli quei contratti.
Ma (e questo è un fatto molto significativo) i giudici rifiutarono di intervenire ritenendo che quei
contratti fossero equiparabili al gioco d’azzardo (alle “scommesse”) e, quindi, non esigibili.
6. Il ciclo D – D’ dei derivati (2)
Negli ultimi decenni tuttavia si è affermata una ulteriore finanziarizzazione del ciclo D – D’.
Il contratto a termine (future) non riguarda più il valore di una tonnellata di grano o di un bulbo di
tulipano, e neppure il valore delle azioni di un’azienda: esso riguarda il valore di un “derivato”, vale
a dire di un paniere di futures, fino ad arrivare a un paniere di panieri di futures.
Non c’è più quindi alcun collegamento con la realtà, si tratta solo e semplicemente di “scommesse”
su quale potrà essere il valore di un qualcosa che è solo una astratta definizione finanziaria.
Ma il vero problema è che molte di queste “scommesse”14
sono prese sul serio, vale a dire che
queste “scommesse” sono ritenute, assunte, come “verità” che influenzano, addirittura determinano
la realtà.
Infatti con le speculazioni sui futures e sui “derivati”, si impone come “verità” quello che decidono
gli speculatori, sia che si tratti del prezzo del grano o di quello del petrolio, del valore dell’euro
rispetto al dollaro, dell’interesse da pagare sui debiti pubblici o del valore delle azioni delle aziende
pubbliche e private.
7. Economia delle “scommesse” e macroeconomia
E a queste “verità” si fa poi purtroppo riferimento nelle scelte macroeconomiche.
La subordinazione delle scelte macroeconomiche delle istituzioni pubbliche a queste “verità” è
addirittura quasi ufficializzata nel momento in cui, come succede, il riferimento per tali scelte è
costituito dalle valutazioni delle agenzie di rating.
Basti pensare a come i giudizi delle agenzie di rating determinino i tassi di interesse per i prestiti da
concedere, non solo alle imprese o alle banche, ma anche ai governi.
Vi sono poi altri tre aspetti preoccupanti in questa “santificazione” dei futures e dei derivati.
Il primo riguarda il fatto che le “scommesse” sui valori di futures e derivati sono, come sopra detto,
condizionati dalle valutazioni delle agenzie di rating, le quali agenzie sono di proprietà di banche
d’affari che operano direttamente sui mercati di futures e derivati. Si è quindi nella condizione in
13
Il bulbo di un tulipano particolarmente raro ed apprezzato ( il “semper augustus”) fu venduto ad un prezzo pari a 40
volte il salario medio annuo di un operaio.
14
Un tipico esempio è lo “spread” di cui si è tanto parlato negli ultimi anni, vale a dire la “scommessa” su quale sarà il
differenziale tra il tasso di interesse italiano e quello tedesco da pagare sul debito pubblico. A tale proposito è da
sottolineare (tanto per confermare il distacco dalla realtà) che questo parametro di riferimento (spread) è, appunto, un
differenziale rispetto al tasso di interesse tedesco, invece di essere il tasso di interesse che l’Italia deve pagare per il suo
debito; ai mercati interessa più un puro parametro finanziario come lo spread, invece che il tasso reale
cui le “scommesse” rischiano di essere falsate, dal momento che sono gli scommettitori a
determinare il valore sul quale scommettere.
Il secondo è legato alla constatazione che anche le pubbliche istituzioni si sono convertite
all’utilizzo dei derivati come strumento di finanziamento. Ed è quanto meno discutibile che, di
conseguenza, i bilanci di tali istituzioni (che incidono sulla vita quotidiana di tutte/i in relazione alle
spese e agli investimenti sul sociale di loro pertinenza) siano dipendenti da una “scommessa”.
Il terzo consiste nella situazione che si determina quando, a fronte degli inevitabili disastri provocati
da una crisi dei mercati finanziari, viene richiesto alle pubbliche istituzioni di farvi fronte (per
evitare un aggravamento generalizzato) con soldi pubblici. In tal caso dunque, (mentre, se le
“scommesse” sui valori di futures e derivati danno risultati positivi, i guadagni sono intascati dagli
scommettitori) gli scommettitori fanno pagare le loro perdite alla collettività.
La situazione è resa ancora più “surreale”, ma sarebbe meglio dire drammatica, dal fatto che, data la
disponibilità ed il continuo sviluppo delle nuove tecnologie e delle reti telematiche, queste
“scommesse” muovono miliardi di euro (o di dollari, o di yen, o di renmimbi, ecc.) in tempi che
ormai si possono assestare sull’ordine dei millisecondi.
Basti ricordare che le istituzioni finanziarie stanno finanziando e posando cavi sottomarini in fibra
ottica sul fondo dell’Oceano Atlantico e dell’Oceano Pacifico per poter guadagnare da 3 a 5
millisecondi sul tempo di trasmissione dei dati.
Ed è abbastanza evidente che le scelte economiche e gli interventi degli Stati non sono certo in
grado di intervenire con eguale tempestività.
Il fatto è che, come si usa dire, l’economia ha preso il sopravvento sulla politica. Una situazione
paradossale, tenendo conto, fra l’altro, che le varie teorie economiche, per dirla brutalmente, tutto
sono tranne che “teorie” nel senso scientifico del termine.
Direi anzi che l’economia, a differenza delle scienze (che progrediscono ogni qual volta si afferma
una nuova interpretazione della realtà, purché sia corroborata da un’evidenza sperimentale),
avanza ipotesi che spesso non reggono alla realtà dei fatti. Basti guardare il balletto delle stime
economiche, dal PIL al debito pubblico, che vengono modificate in continuo e, quasi sempre,
smentite dai fatti, ma sulla base delle quali si impostano i bilanci pubblici.
Basarsi quindi sull’economia delle “scommesse” non è come basarsi sulla famosa “Scommessa di
Pascal”.
Per Pascal infatti conveniva credere (scommettere) sull’esistenza di Dio perché, se Dio esiste, si può
ottenere la salvezza eterna, e, se Dio non esiste, si è comunque vissute/i contente/i, avendo la
speranza della salvezza eterna.
Per l’economia delle “scommesse” invece bisogna credere (scommettere) su quello che l’economia
afferma perché essa è la “verità” (che però si dimostra poi essere del tutto falsa).
8. Che fare ?
Al di là di una discussione sulla opportunità/liceità/accettabilità o meno del gioco e delle
scommesse, e al di là anche di una discussione sulla “ontologia” dell’economia, si potrebbe
comunque almeno provare a separare l’economia delle “scommesse” dall’economia reale (quella
delle istituzioni pubbliche e delle persone).
Come ?
Ci sono già tante proposte che vanno in tal senso: divieto per le istituzioni pubbliche di indebitarsi
con i derivati, separazione delle banche d’affari dalle banche commerciali, elevata tassazione delle
transazioni finanziarie, ecc., ecc.
E inoltre, ricordando le posizioni assunte dai tribunali olandesi nel XVII secolo in relazione alla
bolla dei tulipani, non consentire che le perdite delle istituzioni finanziarie siano ripianate a carico
della collettività.
E comunque, fin quando l’economia delle “scommesse” continuerà ad esistere, si dovrà trovare il
modo di relegarla almeno nella stessa categoria del Lotto, delle Lotterie, del Gratta&Vinci e simili.

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ECONOMIA FINANZIARIA ovvero il ciclo D - D’ dal prestito alla scommessa

  • 1. Estratto dal sito www.ilfuturomigliore.org ECONOMIA FINANZIARIA ovvero il ciclo D - D’ dal prestito alla scommessa sergio benassai 1. La circolazione delle merci e del denaro Secondo Marx, con l’avvento del capitalismo, si opera il passaggio dal ciclo pre-borghese M – D – M’ (merce – denaro – merce), che costituisce la “circolazione semplice”, al ciclo capitalistico D – M – D’ (denaro – merce – denaro), ove naturalmente D’ è maggiore di D e la differenza fra D’ e D è ottenuta dallo sfruttamento della forza lavoro. Tuttavia va tenuto presente che sono esistiti ed esistono anche i cicli “abbreviati”: - il ciclo M – M’ (merce – merce), tipico del baratto, caratterizzato dallo scambio diretto di una merce con un’altra - il ciclo D – D’, (che Marx1 definiva come “capitale usuraio” rispetto al “capitale commerciale” D- M – D’), che consente di ottenere un guadagno con un solo scambio di denaro, ma con tempi diversificati e modalità articolate, senza la “intermediazione” di merci. 2. Il ciclo D – D’ nel prestito con interesse Fino dall’antichità era consuetudine che il prestito di denaro comportasse la restituzione del denaro prestato con l’aggiunta di un interesse (che è appunto una delle forme che assume il ciclo D – D’). Se ne trovano espliciti riferimenti nei testi sacri dell’India antica, dai Veda (2000 – 1400 a.C.) ai Sutra (600 – 400 a.C.). Così come se ne fa menzione nel Vecchio Testamento: … non gli presterai denaro con interesse …2 … ma … se darà in prestito ed esiga un’usura … morrà e il suo sangue ricadrà su di lui3 Ma in questo caso è esplicita la condanna del prestito con interesse. 1 Karl Marx - Il capitale, libro I, seconda sezione, capitolo IV 2 Levitico; 25, 37 3 Ezechiele; 18, 10-13
  • 2. Nella Grecia classica Platone assume una chiara presa di posizione: … e non si dovrà …. neppure prestar soldi ad interesse …4 nonostante questa pratica fosse abbastanza comune. Più controversa appare la posizione di Aristotele. Anche perché la frase che gli è spesso attribuita (nummus non parit nummos) è in realtà di Tommaso d’Aquino; e quanto affermato Aristotele nellEtica Nicomachea: … coloro, infatti, che traggono grossi guadagni di dove non si deve, e non fanno ciò che si deve, non li chiamiamo avari … ma, piuttosto, malvagi, empi …5 non sembra immediatamente interpretabile come una condanna del prestito con interesse. Il riferimento a Tommaso d’Aquino ci conduce a sottolineare come il prestito con interesse sia stato spesso oggetto di condanna da parte del cristianesimo e dell’islam. Per quanto riguarda il cristianesimo, vengono citate in proposito alcune parole pronunciate da Gesù Cristo nel “Discorso della montagna”: … date in prestito senza sperare in niente …6 Sicuramente nel Medioevo la posizione ufficiale del cristianesimo era contraria al prestito con interesse, una posizione più volte ribadita, che però non veniva necessariamente seguita nella pratica. E una dei modi per sfuggire alla posizione ufficiale fu quello di assegnare la pratica dei prestiti con interesse agli ebrei. La giustificazione di ciò fu rinvenuta nella convinzione che fosse lecito, per gli ebrei, prestare con interesse a persone di diversa religione, ma non agli ebrei, sulla base di alcuni passi del Vecchio Testamento, quali: … se presti del denaro a qualcuno del mio popolo, al popolo che ti è vicino, non esser con lui un usuraio, esigendone l’interesse … 7 … tu presterai a molte genti e non prenderai nulla in prestito8 Ma, naturalmente, la pratica non sempre seguiva queste prescrizioni. Fin quando, con Calvino, non venne affermata, con estrema chiarezza, la liceità del prestito con interesse (anche se il Concilio di Trento ribadì con forza la posizione contraria): … quindi dobbiamo ritenere che l’interesse, a meno non sia in contrasto con la legge divina, non è sempre da condannare …9 Quanto all’islam, l’ovvio riferimento è il Corano, ove si afferma, ad esempio: … Dio permette il commercio e vieta l’usura … 10 E, anche per l’islam, naturalmente la pratica non sempre seguiva (e segue) questa che appare come un’assoluta proibizione. In realtà le variegate posizioni sopra appena accennate richiederebbero una approfondita discussione sulla possibile distinzione fra interesse ed usura, una distinzione che, nella società moderna, è ormai codificata con la definizione di un valore del tasso di interesse che segna appunto il confine fra legittimo interesse ed usura. 4 Platone; Leggi, V, 742 5 Aristotele - Etica Nicomachea; libro IV, 1 6 Luca; 6, 35 7 Esodo; 22, 24 8 Deuteronomio; 28, 12 9 Giovanni Calvino; Commentario a Ezechiele 18: 5-9 10 Corano; Sura II della Vacca, 275
  • 3. Resta comunque il fatto che, fin dall’antichità (quali che fossero i precetti morali o religiosi), il prestito si è configurato nella forma di prestito con interesse. E la giustificazione dell’interesse da corrispondere al momento della restituzione si ritrova in genere nel considerare che sia giusto ricompensare il “sacrifico” del prestatore, consistente nel fatto che, fino al momento della restituzione, il prestatore si priva della disponibilità della somma prestata, mettendo a disposizione del debitore uno “strumento” necessario per lo svolgimento delle attività di quest’ultimo, lo strumento “denaro”. Va peraltro sottolineato come il ciclo D – D’, in questa sua forma di “capitale usuraio”, è ovviamente appannaggio solo di chi dispone di un capitale monetario iniziale D del quale può privarsi per un certo periodo al fine di ottenere, in un determinato futuro, un D’ maggiore di D. 3. Il ciclo D – D’ nelle società per azioni (1) L’antesignana delle moderne società per azioni si può forse far risalire al 1250, quando un gruppo di nobili insediati intorno al fiume Garonna, vicino a Tolosa, dette vita alla “Société des Moulins du Bazacle”, prevedendo che i soci avrebbero suddiviso i profitti derivanti dal funzionamento dei mulini installati sulla Garonna in relazione alla quota di finanziamento versata. Ma lo sviluppo delle società per azioni è una caratteristica del XVII secolo, in conseguenza della necessità di reperire ingenti capitali per le società coloniali operanti nelle Indie, in una forma che permettesse di investire solo parte del capitale disponibile da parte degli investitori. Senza entrare nel merito di tante caratteristiche delle società per azioni, quello che è rilevante è che si tratta di una particolare forma del ciclo D – D’, che si manifesta nella forma di un dividendo (la ripartizione cioè fra gli azionisti del guadagno derivante dall’attività della società), ma che prevede una assunzione di rischio da parte degli azionisti (i prestatori di D). Infatti, nel caso del prestito con interesse di cui al capitolo precedente, il valore di D’, ottenuto dal prestatore, è prestabilito (dal tasso di interesse) ed in genere garantito. Invece, nel caso delle società per azioni, l’ottenimento di un D’ maggiore di D è possibile solo nel caso che la società abbia un bilancio positivo, vale a dire che abbia prodotto profitti. Vi è quindi, da parte degli azionisti, una specie di “scommessa” sul fatto che la società ottenga profitti. A questo proposito può essere interessante notare la posizione di Marx che afferma11 : … le imprese azionarie capitalistiche debbono essere ritenute, come le fabbriche cooperative, quali forme di transizione dal modo di produzione capitalistico a quello sociale … 4. Il ciclo D – D’ nelle società per azioni (2) I possessori di azioni di società per azioni hanno sempre potuto disporre della libertà di poter cedere ad altri le proprie azioni. Su tale base sono quindi sorte le Borse12 . 11 Karl Marx - Il capitale, libro III, quinta sezione, capitolo XXVII
  • 4. Con le Borse il ciclo D – D’subisce una ulteriore modifica nel senso che la “scommessa” sul fatto che la società ottenga profitti, di cui al paragrafo precedente, si sostanzia in un valore attribuito all’azione (o titolo) che, a sua volta, è oggetto di “scommessa”. Di qui il continuo oscillare del valore attribuito all’azione (o titolo) sulla base della “scommessa” sull’effettivo realizzarsi o meno della sottostante “scommessa” originale relativa alla possibilità che la società in oggetto ottenga profitti. Tuttavia queste “scommesse” sulle “scommesse” sono ormai divenute un puro gioco. Infatti basta guardare le oscillazioni del valore delle azioni delle società quotate in Borsa per capire che ormai tali valori non sono più legati alla “scommessa” originaria sulla possibilità di ottenere un dividendo, ma variano in base a fattori assolutamente non legati ad esse. Ormai una dichiarazione di un governante, di un politico, di un amministratore, anche se slegata dalla realtà fattuale, può produrre variazioni sul valore del titolo, senza che la realtà produttiva o commerciale fornisca indicazioni in tal senso. 5. Il ciclo D – D’ dei derivati (1) Con l’affermarsi di una economia sempre più centrata sugli aspetti puramente finanziari, il guadagno inerente al ciclo D – D’ non deriva più dall’interesse connesso al prestito o dall’ottenimento del dividendo di una società per azioni, ma deriva da una “scommessa”, che prende ad esempio la forma di un contratto a termine (future), in base al quale ci si impegna a scambiarsi un certo quantitativo di qualcosa (che siano merci, azioni, altri titoli finanziari, valute, ecc.) ad un certo prezzo stabilito ad una certa scadenza. Anche il contratto a termine (future) tuttavia ha una lunga storia. Infatti già nell’antichità greco-romana si stipulavano contratti a termine, contratti che videro poi una loro regolamentazione nel Medioevo, quando si verificò una loro espansione nella forma di contratti in base ai quali gli agricoltori e i commercianti, al momento della semina del grano, si mettevano d’accordo sul prezzo del grano che sarebbe stato pagato dai commercianti agli agricoltori al momento del raccolto, ambedue quindi “scommettendo” sulla produzione di grano (che, se elevata, avrebbe favorito l’agricoltore, e, se bassa, avrebbe favorito il commerciante). Successivamente questi contratti furono sempre più oggetto di fini speculativi. L’esempio più significativo a tal proposito è probabilmente quello dei tulipani olandesi. Nel XVII secolo in Olanda si sviluppò un crescente interesse per la coltivazione dei tulipani (in particolare dei tulipani di origine turca, che erano molto apprezzati per la loro resistenza alle condizioni climatiche). Analogamente a quanto abbiamo visto verificarsi nel Medioevo per il grano, fioristi e commercianti stipulavano contratti a termine (futures) basati sulla vendita di bulbi che erano stati appena piantati o, addirittura, che si aveva intenzione di piantare. Il crescere di questi contratti e il continuo aumento dei prezzi dei tulipani indusse sempre più persone a interessarsi a questi futures tanto che, nel 1636, si aprì un formale mercato ove non si commerciavano più i bulbi di tulipano, ma gli stessi futures. 12 Secondo alcuni la prima compravendita di titoli (azioni) si tenne nel XVI secolo in un palazzo di Bruges (Belgio) di proprietà della famiglia dei Van der Bourse, dal cui nome si farebbe derivare la denominazione di Borsa
  • 5. Ciò comportò un sempre crescente valore dei prezzi dei tulipani13 fin quando, nel 1637, la bolla speculativa scoppiò con la conseguenza che molti detentori di futures dovettero registrare perdite enormi finendo in rovina. Per questo molti dei commercianti finiti in rovina si rivolsero ai tribunali olandesi richiedendo di dichiarare nulli quei contratti. Ma (e questo è un fatto molto significativo) i giudici rifiutarono di intervenire ritenendo che quei contratti fossero equiparabili al gioco d’azzardo (alle “scommesse”) e, quindi, non esigibili. 6. Il ciclo D – D’ dei derivati (2) Negli ultimi decenni tuttavia si è affermata una ulteriore finanziarizzazione del ciclo D – D’. Il contratto a termine (future) non riguarda più il valore di una tonnellata di grano o di un bulbo di tulipano, e neppure il valore delle azioni di un’azienda: esso riguarda il valore di un “derivato”, vale a dire di un paniere di futures, fino ad arrivare a un paniere di panieri di futures. Non c’è più quindi alcun collegamento con la realtà, si tratta solo e semplicemente di “scommesse” su quale potrà essere il valore di un qualcosa che è solo una astratta definizione finanziaria. Ma il vero problema è che molte di queste “scommesse”14 sono prese sul serio, vale a dire che queste “scommesse” sono ritenute, assunte, come “verità” che influenzano, addirittura determinano la realtà. Infatti con le speculazioni sui futures e sui “derivati”, si impone come “verità” quello che decidono gli speculatori, sia che si tratti del prezzo del grano o di quello del petrolio, del valore dell’euro rispetto al dollaro, dell’interesse da pagare sui debiti pubblici o del valore delle azioni delle aziende pubbliche e private. 7. Economia delle “scommesse” e macroeconomia E a queste “verità” si fa poi purtroppo riferimento nelle scelte macroeconomiche. La subordinazione delle scelte macroeconomiche delle istituzioni pubbliche a queste “verità” è addirittura quasi ufficializzata nel momento in cui, come succede, il riferimento per tali scelte è costituito dalle valutazioni delle agenzie di rating. Basti pensare a come i giudizi delle agenzie di rating determinino i tassi di interesse per i prestiti da concedere, non solo alle imprese o alle banche, ma anche ai governi. Vi sono poi altri tre aspetti preoccupanti in questa “santificazione” dei futures e dei derivati. Il primo riguarda il fatto che le “scommesse” sui valori di futures e derivati sono, come sopra detto, condizionati dalle valutazioni delle agenzie di rating, le quali agenzie sono di proprietà di banche d’affari che operano direttamente sui mercati di futures e derivati. Si è quindi nella condizione in 13 Il bulbo di un tulipano particolarmente raro ed apprezzato ( il “semper augustus”) fu venduto ad un prezzo pari a 40 volte il salario medio annuo di un operaio. 14 Un tipico esempio è lo “spread” di cui si è tanto parlato negli ultimi anni, vale a dire la “scommessa” su quale sarà il differenziale tra il tasso di interesse italiano e quello tedesco da pagare sul debito pubblico. A tale proposito è da sottolineare (tanto per confermare il distacco dalla realtà) che questo parametro di riferimento (spread) è, appunto, un differenziale rispetto al tasso di interesse tedesco, invece di essere il tasso di interesse che l’Italia deve pagare per il suo debito; ai mercati interessa più un puro parametro finanziario come lo spread, invece che il tasso reale
  • 6. cui le “scommesse” rischiano di essere falsate, dal momento che sono gli scommettitori a determinare il valore sul quale scommettere. Il secondo è legato alla constatazione che anche le pubbliche istituzioni si sono convertite all’utilizzo dei derivati come strumento di finanziamento. Ed è quanto meno discutibile che, di conseguenza, i bilanci di tali istituzioni (che incidono sulla vita quotidiana di tutte/i in relazione alle spese e agli investimenti sul sociale di loro pertinenza) siano dipendenti da una “scommessa”. Il terzo consiste nella situazione che si determina quando, a fronte degli inevitabili disastri provocati da una crisi dei mercati finanziari, viene richiesto alle pubbliche istituzioni di farvi fronte (per evitare un aggravamento generalizzato) con soldi pubblici. In tal caso dunque, (mentre, se le “scommesse” sui valori di futures e derivati danno risultati positivi, i guadagni sono intascati dagli scommettitori) gli scommettitori fanno pagare le loro perdite alla collettività. La situazione è resa ancora più “surreale”, ma sarebbe meglio dire drammatica, dal fatto che, data la disponibilità ed il continuo sviluppo delle nuove tecnologie e delle reti telematiche, queste “scommesse” muovono miliardi di euro (o di dollari, o di yen, o di renmimbi, ecc.) in tempi che ormai si possono assestare sull’ordine dei millisecondi. Basti ricordare che le istituzioni finanziarie stanno finanziando e posando cavi sottomarini in fibra ottica sul fondo dell’Oceano Atlantico e dell’Oceano Pacifico per poter guadagnare da 3 a 5 millisecondi sul tempo di trasmissione dei dati. Ed è abbastanza evidente che le scelte economiche e gli interventi degli Stati non sono certo in grado di intervenire con eguale tempestività. Il fatto è che, come si usa dire, l’economia ha preso il sopravvento sulla politica. Una situazione paradossale, tenendo conto, fra l’altro, che le varie teorie economiche, per dirla brutalmente, tutto sono tranne che “teorie” nel senso scientifico del termine. Direi anzi che l’economia, a differenza delle scienze (che progrediscono ogni qual volta si afferma una nuova interpretazione della realtà, purché sia corroborata da un’evidenza sperimentale), avanza ipotesi che spesso non reggono alla realtà dei fatti. Basti guardare il balletto delle stime economiche, dal PIL al debito pubblico, che vengono modificate in continuo e, quasi sempre, smentite dai fatti, ma sulla base delle quali si impostano i bilanci pubblici. Basarsi quindi sull’economia delle “scommesse” non è come basarsi sulla famosa “Scommessa di Pascal”. Per Pascal infatti conveniva credere (scommettere) sull’esistenza di Dio perché, se Dio esiste, si può ottenere la salvezza eterna, e, se Dio non esiste, si è comunque vissute/i contente/i, avendo la speranza della salvezza eterna. Per l’economia delle “scommesse” invece bisogna credere (scommettere) su quello che l’economia afferma perché essa è la “verità” (che però si dimostra poi essere del tutto falsa). 8. Che fare ? Al di là di una discussione sulla opportunità/liceità/accettabilità o meno del gioco e delle scommesse, e al di là anche di una discussione sulla “ontologia” dell’economia, si potrebbe comunque almeno provare a separare l’economia delle “scommesse” dall’economia reale (quella delle istituzioni pubbliche e delle persone). Come ?
  • 7. Ci sono già tante proposte che vanno in tal senso: divieto per le istituzioni pubbliche di indebitarsi con i derivati, separazione delle banche d’affari dalle banche commerciali, elevata tassazione delle transazioni finanziarie, ecc., ecc. E inoltre, ricordando le posizioni assunte dai tribunali olandesi nel XVII secolo in relazione alla bolla dei tulipani, non consentire che le perdite delle istituzioni finanziarie siano ripianate a carico della collettività. E comunque, fin quando l’economia delle “scommesse” continuerà ad esistere, si dovrà trovare il modo di relegarla almeno nella stessa categoria del Lotto, delle Lotterie, del Gratta&Vinci e simili.