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Belgrado all’alba ci appare come un improvviso miraggio dopo infiniti chilometri di campi e
alberi. Intravvediamo una distesa di palazzi alla nostra sinistra punteggiata di svettanti
campanili e numerose guglie che danno un po’ di movimento alla compattezza del
cemento cittadino. Gli edifici cominciano a brillare al sole ancora forte di una splendida
domenica mattina di fine estate, quando la corriera su cui ci troviamo impegna il Ponte
Gazela sulla Sava. Sono le 5 e 40. La città sta ancora dormendo, ma iniziano a muoversi
coloro che sono obbligati a farlo, per motivi di lavoro, compresi i tassisti, regolari o abusivi,
che ci circondano nella speranza di guadagnarsi una corsa mentre recuperiamo i bagagli.
Niente da fare: non abbiamo soldi da spendere, raggiungeremo il posto a piedi. A pochi
passi scorgiamo un albergo. Si chiama Bristol. Decido di entrare da solo in una hall in
perfetto stile anni ’70. Il portiere, nella sua ultima ora di lavoro prima di smontare dal turno
di notte è un uomo prossimo ai sessant’anni. Un proletario rassegnato che tuttavia non
esita ad aiutarmi, dandomi le indicazioni di cui necessito per raggiungere l’albergo, senza
aspettarsi nulla in cambio se non un grazie, secondo il tipico stile socialista a cui è stato
educato.
Ci incamminiamo lungo la Karadjordjieva. Poche le automobili e i passanti, tuttavia
nonostante la quiete dell’ora siamo colpiti da una certa trascuratezza della città, dal suo
aspetto polveroso, incompleto ed incoerente. Non ci sono segnali di insofferenza o rabbia
negli sguardi delle persone che incontriamo al nostro passaggio. Sono piuttosto sguardi
che testimoniano la fatica della quotidianità e la preoccupazione per il futuro. I giovani
esprimono una spensieratezza che non è sinonimo di superficialità, come spesso avviene
nelle città occidentali, ma di vigile e matura allegria. I più anziani, col linguaggio dei loro
corpi, esprimono uno stato di sublime rassegnazione. Svoltiamo lungo la Nemanjina
seguendo alla lettera le indicazioni del portiere d’albergo. Qualche centinaio di metri dopo,
all’incrocio con la Milosa, vediamo ciò che finora avevamo visto solo nelle foto: i resti del
bombardamento di Belgrado del 1999. Due edifici pesantemente danneggiati, pericolanti
ma ancora in piedi dopo 14 anni grazie alla struttura d’acciaio portante. Una visione
straniante che ci lascia interdetti, introducendoci alla faccia perturbante della città.
Belgrado non è una città turistica e nemmeno un parco dei divertimenti. Lungo la strada,
tuttavia, ci accorgiamo che la città è dinamica e vitale, abitata da più giovani rispetto alla
media italiana, una città dove il cambiamento si vede e si sente, seppure non assuma mai
le caratteristiche del tumulto. Abbiamo deciso di visitare Belgrado, una delle città più
importanti della penisola balcanica, già l’anno scorso, un po’ per questioni di lavoro, un po’
per curiosità. Eravamo ben consapevoli della “stranezza” della meta rispetto ai canoni
italiani ed occidentali in generale. Molti italiani ed altrettanti europei ancor oggi sono poco
consapevoli della storia della ex-Jugoslavia e degli stati eredi della sua dissoluzione con
cui l’Italia confina, sanno poco di una città come Belgrado, ex-capitale federale ed
importante centro politico per i Paesi Non-Allineati che, in quanto organizzazione,
continuano ad esistere. Di Belgrado, attualmente, non si parla affatto se non per la
questione del Kosovo e comunque sempre in termini esotici. È invece una città dietro
l’angolo, distante da Trieste meno di quanto la stessa non lo sia da Napoli. Ed è con
questo spirito, con questa consapevolezza che ci incamminiamo attraverso le sue strade
semi-deserte in una domenica mattina di fine agosto. Incrociamo finalmente la
Beogradska mentre dalla rotonda Slavia ammiriamo sullo sfondo il tempio di San Sava.
Dopo 10 minuti di strada arriviamo al Parco Tasmajdan e pochi metri dopo all’albergo
mentre alla nostra destra inizia la città universitaria.
Il nostro secondo giorno a Belgrado parte bene, con tanta energia e voglia di visitare una
tra le più importanti città balcaniche. La buona colazione all’albergo ci dà lo sprint
necessario a partire. Decidiamo di recarci verso la Knez Mihailova, una via centrale della
città, inclusa nel salotto buono della stessa, piena di negozi, consumismo, frizzi e lazzi.
Giovani e meno giovani passano il loro tempo camminando in questa zona a prescindere
dalla necessità di fare shopping. Tanto per fare una passeggiata, vedere un pò di
movimento, stare in compagnia della famiglia o degli amici; come da noi.
L’offerta di merci, ristoranti, bar e servizi è più o meno uguale alla nostra, invasione delle
solite multinazionali dell’abbigliamento inclusa. Osserviamo che, nonostante i
bombardamenti e l’isolamento internazionale, la città, tutto sommato pulsa, è rinata e
dimostra una differenza anche marcata rispetto alle aree rurali che la circondano.
Proseguendo lungo la Mihailova si arriva alla fortezza di Belgrado, circondata da un
grande e ben curato parco, con museo militare annesso. Molto interessante, nel parco, il
Mausoleo ottomano.
Girando per le strade di Belgrado si notano subito alcune differenze rispetto all’Europa
occidentale. Innanzitutto il panorama etnico è molto più omogeneo del nostro: pochissimi
immigrati e stranieri. I Rom appaiono l’unica nota di colore in un panorama omogeneo.
Sembrano, peraltro, godere di un trattamento diverso da quello solitamente ricevuto in
Occidente. Le nostre impressioni sono positive nei confronti del popolo serbo, che appare
essere disponibile con gli stranieri. È un popolo tranquillo, diverso da come viene dipinto
dai nostri media, un popolo dai ritmi abbastanza lenti, non frenetici come i nostri. È gente
religiosa, nel profondo della propria storia, al netto di tutti i regimi politici passati, che forse
sono stati accettati o contrastati proprio in base alla loro prossimità con l’ideale religioso
più puro.
L’idea che ci stiamo facendo è quella di una città in sviluppo, in movimento, che
nonostante le difficoltà passate e presenti e l’isolamento politico subito per troppi anni, ha
un tenore di vita tutto sommato migliore di altre città, diciamolo pure occidentali.
Il terzo giorno vogliamo andare a visitare il di Museo d’arte contemporanea, a Novi
Beograd. Dobbiamo passare perciò la Sava ed inoltrarci nel parco che contiene il Museo.
Dopo una lunga passeggiata scopriamo che il Museo è in ristrutturazione ed è quindi
inagibile. Poco male, abbiamo visto Novi Beograd con i suoi palazzoni popolari, i suoi
centri commerciali e i grattacieli di Hypo Bank e Gazprom, la prova che la Serbia è nella
direzione di interesse del grande capitale mondiale. Riprendiamo l’autobus e decidiamo di
andare al Museo di Storia della Jugoslavia, chiamato anche Museo 25 maggio, al cui
interno c’è anche il Mausoleo di Tito. È un balzo nel passato glorioso di una federazione,
quella jugoslava, che contava veramente a livello internazionale, basta ricordarsi del
movimento dei non-allineati. È un’esperienza che colpisce soprattutto coloro che, come
me, hanno vissuto per decenni a contatto con quella realtà, socialista, multietnica,
federale.
Si fa sera e decidiamo allora di ritornare verso il centro, con l’autobus prima (il trasporto
pubblico di Belgrado è efficiente e funzionale) e a piedi poi tra la Namenjina e la
Balkanska, prima di deciderci a ritornare verso il Tasmajdan Park, dove alloggiamo.
Belgrado è uno dei pilastri d’Europa. Se questo è pericolante, è l’Europa ad esserlo, a non
essere al sicuro, a rischiare il crollo. Cammino lungo le strade di questa città e molte cose
mi vengono alla mente. Belgrado è la nostra falsa coscienza, è tutto il nostro rimosso.
Durante la guerra, un quindicennio fa, per razzismo o per disperazione, abbiamo
abbandonato la Jugoslavia al suo destino. Non abbiamo creduto a ciò che aveva
realizzato, alla necessità di preservare il suo lato migliore, quello dell’unità nella
fratellanza. Poche voci, nemmeno accomunate dall’ideologia, hanno osato dissentire.
Ivo Andric, è stato uno dei fautori della Jugoslavia, convinto che l’accettazione delle
reciproche differenze fosse un modesto prezzo da pagare al progresso di tutta la nazione,
oppressa per secoli. Con questa coscienza visitiamo, nel nostro 4° giorno di permanenza
nella capitale balcanica, il Museo a lui titolato, nel centro di Belgrado.I due custodi del
Museo entrano immediatament in confidenza con noi, secondo i tipici canoni emotivi dei
Balcani, parlandoci di Andric, della Jugoslavia, di Belgrado e della loro vita privata. Ci
confermano che Andric era uno jugoslavista di fermissime convinzioni. Usciamo dal Museo
e, combinazione, c’è il cambio della guardia al Palazzo del Governo a 200 metri da noi.
Procediamo in direzione Mihailova e ci deliziamo di una mostra iconografica.
L’approssimazione e la mancanza di coerenza che regnano nell’architettura di ampie zone
del centro città, sono il segno di una mancanza di cura ed interesse per le proprie cose,
forse da parte di chi si è stufato di costruire ciò che altri si impegnano a distruggere o a
rubare, godendo delle fatiche di chi ha costruito.
Vista da un’angolazione storica, Belgrado è la spiegazione razionale del perché abbiamo
fallito come europei, come occidentali, come uomini. Come europei perché non ci siamo
veramente impegnati a costruire una socialità diversa da quella in auge da secoli, che
fosse basata sull’equità, sull’autocoscienza e l’altruismo; come occidentali perché razzisti
verso coloro che non lo sono; come uomini perché non siamo intervenuti quando
divampava la guerra nell’ex-Jugoslavia. Dovevamo esserci, intervenire. Invece non ci
siamo stati. Solo una esigua minoranza di occidentali si è riversata nelle strade per
esprimere il proprio disappunto per la guerra e per i bombardamenti della NATO, peraltro
legittimati proprio da quelle forze di centro-sinistra ingorde di stabilizzare la propria
posizione a Washington. L’Italia in questo senso ha una responsabilità particolare: ha
partecipato politicamente e militarmente al bombardamento della Jugoslavia. La
questione, dopotutto, concerne l’Occidente e il suo approccio alla vita. È un problema
culturale. Abbiamo costruito soltanto protesi, abbandonando noi stessi e la nostra
coscienza.
La storia parla chiaro: la Jugoslavia esce dalla seconda guerra mondiale prostrata e senza
una base industriale. Sarà il regime comunista unitario e federale della Jugoslavia a
costruirla anche se lo sforzo ha come contropartita un ingente debito ed uno sforzo
immane da parte della popolazione. Il periodo d’oro è quello del dopoguerra fino agli anni
’70; poi le mancate ristrutturazioni del sistema economico portano al declino.
Il quinto giorno, decidiamo di visitare meglio Novi Beograd e Zemun. Come già detto, Novi
Beograd si presenta come una distesa di palazzoni popolari dall’aria real-socialista
intervallata da strutture avveniristiche quartieri generali di aziende internazionali. Zemun,
tuttavia, è la periferia della periferia, un quartiere ultra-periferico della città, il famoso
quartiere ungherese, con un’aria un pò dimessa e assai poco tipica o folcloristica. Sembra,
anzi, una zona dove regna una certa povertà, differentemente da ciò che si nota nelle
zone più al centro di Belgrado.
Visto lo scarso appeal che Zemun esercita su di noi, decidiamo di ritornare verso il centro
città. Ci dirigiamo al Museo Zepter sulla Mihajlova. Il museo è stato fondato dagli Zepter,
magnati serbi in esilio, ed è gestito dagli stessi in maniera assolutamente splendida anche
per quanto concerne il lato professionale. Vi sono esposte opere di grandi artisti legati alla
città di Belgrado, per lo più jugoslavi, per un arco di tempo che va dalla fine dell’ottocento
ai giorni nostri. Il livello artistico di gente di cui non avete mai sentito parlare è altissimo e
può ben competere con l’arte meglio conosciuta come occidentale. E’ sintomatico il fatto
che di costoro non abbiamo mai sentito parlare, visto che nel sistema socialista l’arte non
faceva mercato ma serviva come illustrazione sociale, ricerca del bello e dell’agibile dalle
persone. Inoltre, anche dopo la fine del socialismo, il muro eretto decenni fa è stato
mantenuto in piedi senza remore di alcun tipo. Per avvantaggiare gli autori occidentali,
ovviamente.
Tuttavia, credo, sia opportuno rivedere questa strategia, poiché è impensabile che l’arte
europea di cui è parte integrante rimanga così divisa da se stessa, tanto da non
riconoscere una parte così importante della propria storia e coscienza di sè.

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  • 1. Belgrado all’alba ci appare come un improvviso miraggio dopo infiniti chilometri di campi e alberi. Intravvediamo una distesa di palazzi alla nostra sinistra punteggiata di svettanti campanili e numerose guglie che danno un po’ di movimento alla compattezza del cemento cittadino. Gli edifici cominciano a brillare al sole ancora forte di una splendida domenica mattina di fine estate, quando la corriera su cui ci troviamo impegna il Ponte Gazela sulla Sava. Sono le 5 e 40. La città sta ancora dormendo, ma iniziano a muoversi coloro che sono obbligati a farlo, per motivi di lavoro, compresi i tassisti, regolari o abusivi, che ci circondano nella speranza di guadagnarsi una corsa mentre recuperiamo i bagagli. Niente da fare: non abbiamo soldi da spendere, raggiungeremo il posto a piedi. A pochi passi scorgiamo un albergo. Si chiama Bristol. Decido di entrare da solo in una hall in perfetto stile anni ’70. Il portiere, nella sua ultima ora di lavoro prima di smontare dal turno di notte è un uomo prossimo ai sessant’anni. Un proletario rassegnato che tuttavia non esita ad aiutarmi, dandomi le indicazioni di cui necessito per raggiungere l’albergo, senza aspettarsi nulla in cambio se non un grazie, secondo il tipico stile socialista a cui è stato educato. Ci incamminiamo lungo la Karadjordjieva. Poche le automobili e i passanti, tuttavia nonostante la quiete dell’ora siamo colpiti da una certa trascuratezza della città, dal suo aspetto polveroso, incompleto ed incoerente. Non ci sono segnali di insofferenza o rabbia negli sguardi delle persone che incontriamo al nostro passaggio. Sono piuttosto sguardi che testimoniano la fatica della quotidianità e la preoccupazione per il futuro. I giovani esprimono una spensieratezza che non è sinonimo di superficialità, come spesso avviene nelle città occidentali, ma di vigile e matura allegria. I più anziani, col linguaggio dei loro corpi, esprimono uno stato di sublime rassegnazione. Svoltiamo lungo la Nemanjina seguendo alla lettera le indicazioni del portiere d’albergo. Qualche centinaio di metri dopo, all’incrocio con la Milosa, vediamo ciò che finora avevamo visto solo nelle foto: i resti del bombardamento di Belgrado del 1999. Due edifici pesantemente danneggiati, pericolanti ma ancora in piedi dopo 14 anni grazie alla struttura d’acciaio portante. Una visione straniante che ci lascia interdetti, introducendoci alla faccia perturbante della città. Belgrado non è una città turistica e nemmeno un parco dei divertimenti. Lungo la strada, tuttavia, ci accorgiamo che la città è dinamica e vitale, abitata da più giovani rispetto alla media italiana, una città dove il cambiamento si vede e si sente, seppure non assuma mai le caratteristiche del tumulto. Abbiamo deciso di visitare Belgrado, una delle città più importanti della penisola balcanica, già l’anno scorso, un po’ per questioni di lavoro, un po’ per curiosità. Eravamo ben consapevoli della “stranezza” della meta rispetto ai canoni italiani ed occidentali in generale. Molti italiani ed altrettanti europei ancor oggi sono poco consapevoli della storia della ex-Jugoslavia e degli stati eredi della sua dissoluzione con cui l’Italia confina, sanno poco di una città come Belgrado, ex-capitale federale ed importante centro politico per i Paesi Non-Allineati che, in quanto organizzazione, continuano ad esistere. Di Belgrado, attualmente, non si parla affatto se non per la questione del Kosovo e comunque sempre in termini esotici. È invece una città dietro l’angolo, distante da Trieste meno di quanto la stessa non lo sia da Napoli. Ed è con questo spirito, con questa consapevolezza che ci incamminiamo attraverso le sue strade semi-deserte in una domenica mattina di fine agosto. Incrociamo finalmente la Beogradska mentre dalla rotonda Slavia ammiriamo sullo sfondo il tempio di San Sava. Dopo 10 minuti di strada arriviamo al Parco Tasmajdan e pochi metri dopo all’albergo mentre alla nostra destra inizia la città universitaria. Il nostro secondo giorno a Belgrado parte bene, con tanta energia e voglia di visitare una tra le più importanti città balcaniche. La buona colazione all’albergo ci dà lo sprint necessario a partire. Decidiamo di recarci verso la Knez Mihailova, una via centrale della città, inclusa nel salotto buono della stessa, piena di negozi, consumismo, frizzi e lazzi. Giovani e meno giovani passano il loro tempo camminando in questa zona a prescindere
  • 2. dalla necessità di fare shopping. Tanto per fare una passeggiata, vedere un pò di movimento, stare in compagnia della famiglia o degli amici; come da noi. L’offerta di merci, ristoranti, bar e servizi è più o meno uguale alla nostra, invasione delle solite multinazionali dell’abbigliamento inclusa. Osserviamo che, nonostante i bombardamenti e l’isolamento internazionale, la città, tutto sommato pulsa, è rinata e dimostra una differenza anche marcata rispetto alle aree rurali che la circondano. Proseguendo lungo la Mihailova si arriva alla fortezza di Belgrado, circondata da un grande e ben curato parco, con museo militare annesso. Molto interessante, nel parco, il Mausoleo ottomano. Girando per le strade di Belgrado si notano subito alcune differenze rispetto all’Europa occidentale. Innanzitutto il panorama etnico è molto più omogeneo del nostro: pochissimi immigrati e stranieri. I Rom appaiono l’unica nota di colore in un panorama omogeneo. Sembrano, peraltro, godere di un trattamento diverso da quello solitamente ricevuto in Occidente. Le nostre impressioni sono positive nei confronti del popolo serbo, che appare essere disponibile con gli stranieri. È un popolo tranquillo, diverso da come viene dipinto dai nostri media, un popolo dai ritmi abbastanza lenti, non frenetici come i nostri. È gente religiosa, nel profondo della propria storia, al netto di tutti i regimi politici passati, che forse sono stati accettati o contrastati proprio in base alla loro prossimità con l’ideale religioso più puro. L’idea che ci stiamo facendo è quella di una città in sviluppo, in movimento, che nonostante le difficoltà passate e presenti e l’isolamento politico subito per troppi anni, ha un tenore di vita tutto sommato migliore di altre città, diciamolo pure occidentali. Il terzo giorno vogliamo andare a visitare il di Museo d’arte contemporanea, a Novi Beograd. Dobbiamo passare perciò la Sava ed inoltrarci nel parco che contiene il Museo. Dopo una lunga passeggiata scopriamo che il Museo è in ristrutturazione ed è quindi inagibile. Poco male, abbiamo visto Novi Beograd con i suoi palazzoni popolari, i suoi centri commerciali e i grattacieli di Hypo Bank e Gazprom, la prova che la Serbia è nella direzione di interesse del grande capitale mondiale. Riprendiamo l’autobus e decidiamo di andare al Museo di Storia della Jugoslavia, chiamato anche Museo 25 maggio, al cui interno c’è anche il Mausoleo di Tito. È un balzo nel passato glorioso di una federazione, quella jugoslava, che contava veramente a livello internazionale, basta ricordarsi del movimento dei non-allineati. È un’esperienza che colpisce soprattutto coloro che, come me, hanno vissuto per decenni a contatto con quella realtà, socialista, multietnica, federale. Si fa sera e decidiamo allora di ritornare verso il centro, con l’autobus prima (il trasporto pubblico di Belgrado è efficiente e funzionale) e a piedi poi tra la Namenjina e la Balkanska, prima di deciderci a ritornare verso il Tasmajdan Park, dove alloggiamo. Belgrado è uno dei pilastri d’Europa. Se questo è pericolante, è l’Europa ad esserlo, a non essere al sicuro, a rischiare il crollo. Cammino lungo le strade di questa città e molte cose mi vengono alla mente. Belgrado è la nostra falsa coscienza, è tutto il nostro rimosso. Durante la guerra, un quindicennio fa, per razzismo o per disperazione, abbiamo abbandonato la Jugoslavia al suo destino. Non abbiamo creduto a ciò che aveva realizzato, alla necessità di preservare il suo lato migliore, quello dell’unità nella fratellanza. Poche voci, nemmeno accomunate dall’ideologia, hanno osato dissentire. Ivo Andric, è stato uno dei fautori della Jugoslavia, convinto che l’accettazione delle reciproche differenze fosse un modesto prezzo da pagare al progresso di tutta la nazione, oppressa per secoli. Con questa coscienza visitiamo, nel nostro 4° giorno di permanenza nella capitale balcanica, il Museo a lui titolato, nel centro di Belgrado.I due custodi del Museo entrano immediatament in confidenza con noi, secondo i tipici canoni emotivi dei
  • 3. Balcani, parlandoci di Andric, della Jugoslavia, di Belgrado e della loro vita privata. Ci confermano che Andric era uno jugoslavista di fermissime convinzioni. Usciamo dal Museo e, combinazione, c’è il cambio della guardia al Palazzo del Governo a 200 metri da noi. Procediamo in direzione Mihailova e ci deliziamo di una mostra iconografica. L’approssimazione e la mancanza di coerenza che regnano nell’architettura di ampie zone del centro città, sono il segno di una mancanza di cura ed interesse per le proprie cose, forse da parte di chi si è stufato di costruire ciò che altri si impegnano a distruggere o a rubare, godendo delle fatiche di chi ha costruito. Vista da un’angolazione storica, Belgrado è la spiegazione razionale del perché abbiamo fallito come europei, come occidentali, come uomini. Come europei perché non ci siamo veramente impegnati a costruire una socialità diversa da quella in auge da secoli, che fosse basata sull’equità, sull’autocoscienza e l’altruismo; come occidentali perché razzisti verso coloro che non lo sono; come uomini perché non siamo intervenuti quando divampava la guerra nell’ex-Jugoslavia. Dovevamo esserci, intervenire. Invece non ci siamo stati. Solo una esigua minoranza di occidentali si è riversata nelle strade per esprimere il proprio disappunto per la guerra e per i bombardamenti della NATO, peraltro legittimati proprio da quelle forze di centro-sinistra ingorde di stabilizzare la propria posizione a Washington. L’Italia in questo senso ha una responsabilità particolare: ha partecipato politicamente e militarmente al bombardamento della Jugoslavia. La questione, dopotutto, concerne l’Occidente e il suo approccio alla vita. È un problema culturale. Abbiamo costruito soltanto protesi, abbandonando noi stessi e la nostra coscienza. La storia parla chiaro: la Jugoslavia esce dalla seconda guerra mondiale prostrata e senza una base industriale. Sarà il regime comunista unitario e federale della Jugoslavia a costruirla anche se lo sforzo ha come contropartita un ingente debito ed uno sforzo immane da parte della popolazione. Il periodo d’oro è quello del dopoguerra fino agli anni ’70; poi le mancate ristrutturazioni del sistema economico portano al declino. Il quinto giorno, decidiamo di visitare meglio Novi Beograd e Zemun. Come già detto, Novi Beograd si presenta come una distesa di palazzoni popolari dall’aria real-socialista intervallata da strutture avveniristiche quartieri generali di aziende internazionali. Zemun, tuttavia, è la periferia della periferia, un quartiere ultra-periferico della città, il famoso quartiere ungherese, con un’aria un pò dimessa e assai poco tipica o folcloristica. Sembra, anzi, una zona dove regna una certa povertà, differentemente da ciò che si nota nelle zone più al centro di Belgrado. Visto lo scarso appeal che Zemun esercita su di noi, decidiamo di ritornare verso il centro città. Ci dirigiamo al Museo Zepter sulla Mihajlova. Il museo è stato fondato dagli Zepter, magnati serbi in esilio, ed è gestito dagli stessi in maniera assolutamente splendida anche per quanto concerne il lato professionale. Vi sono esposte opere di grandi artisti legati alla città di Belgrado, per lo più jugoslavi, per un arco di tempo che va dalla fine dell’ottocento ai giorni nostri. Il livello artistico di gente di cui non avete mai sentito parlare è altissimo e può ben competere con l’arte meglio conosciuta come occidentale. E’ sintomatico il fatto che di costoro non abbiamo mai sentito parlare, visto che nel sistema socialista l’arte non faceva mercato ma serviva come illustrazione sociale, ricerca del bello e dell’agibile dalle persone. Inoltre, anche dopo la fine del socialismo, il muro eretto decenni fa è stato mantenuto in piedi senza remore di alcun tipo. Per avvantaggiare gli autori occidentali, ovviamente. Tuttavia, credo, sia opportuno rivedere questa strategia, poiché è impensabile che l’arte europea di cui è parte integrante rimanga così divisa da se stessa, tanto da non riconoscere una parte così importante della propria storia e coscienza di sè.