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gli aneddoti di

          GIUSTINO
                               “La flebo”
Da quando era stato ricoverato alla clinica Pierangeli, non avevo più visto
Giustino in piedi.
Io andavo a trovarlo appena potevo, in bermuda e t-shirt, ma lui era
allettato e col caldo di quest’ultima estate non doveva trovarsi in una
situazione molto piacevole.
Certo per lui c’erano tanti motivi di sofferenza e il caldo era, forse, l’ultimo
dei suoi problemi.
Era stanco e debilitato, dolente e preoccupato, ma per me il suo più grande
guaio era la sfiducia. Era normale essere sfiduciato quando le cure
massacranti alle quali si sottoponeva sembravano dare lumi di speranza
eppure il fisico non suffragava il risultato delle analisi e le sensazioni che
aveva contrastavano con quanto asserito dai medici.
Giustino non era stupido; esigeva sapere come stavano realmente le cose e
parlava, quando poteva, direttamente coi medici e leggeva da solo le
cartelle cliniche, i risultati degli esami. Era comprensibile il suo stato
d’animo ed era normale la sua non buona condizione fisica, ma io, fin
dall’inizio della brutta storia, lo pregai di reagire a quanto gli era
accaduto, di combattere una dura guerra, battaglia dopo battaglia.
Così, quando avevo la fortuna di stare da solo con lui, lo strigliavo un po’.
Giustino stava al gioco (il carattere di Giustino è esattamente l’opposto del
mio, lui forte, caparbio, deciso, un po’ “caca cazzo” ma, in fondo, un buono,
mentre io ho di lui solo i crismi di “caca cazzo” e di buono); stava al gioco
ascoltandomi e accampando tutte le scuse per giustificare la sua resa che
sembrava quasi definitiva.
Un pomeriggio di quest’ultima estate mi recai a fargli visita. Attesi di
rimanere da solo con lui e l’aiutai a cenare. Aiutai è un eufemismo:
Giustino voleva fare tutto da sé ed io lo osservavo, pronto ad intervenire
qualora me lo avesse chiesto.
Quella sera mi sentivo più “caca cazzo” che mai e mentre lui mangiava lo
incalzai con le mie solite torture psicologiche basate sull’amor proprio o, in
alternativa, sull’amore per la famiglia o, in subordine, per l’amore di Dio,
insomma lo cazziai più del solito: “Alzati una buona volta! Adesso basta
col piangerti addosso! Che esempio vuoi essere per i tuoi figli?”
Quella sera ero molto ispirato e, forse, usai qualche argomento più
convincente del solito (cose che non si possono riferire …) ma erano frasi
buttate lì, che sapevo sarebbero state inascoltate.
Dopo un sonoro rutto, quella sera, una novità strabiliante: “Prendimi le
ciabatte!” ordinò Giustino all’improvviso. Io non gli riservai nemmeno un
attimo di attenzione, certo che lui mi stesse prendendo in giro. “Ti ho
detto: prendimi le ciabatte!” mi disse di nuovo.
Allora lo guardai dritto negli occhi e gli risposi “Giustì, che ti credi? Mica
lo fai a me il dispetto! Continua a stare a letto e fatti venire pure le piaghe,
co ‘sto caldo!”
Ma Giustino era serio e agguerrito: “Mi hai talmente rotto le palle co ‘sto
alzati, alzati, che mo mi alzo … e tu mi aiuti!” minacciò dal letto! (forse era
il pasto che era andato in circolo, ma sembrava pericoloso!)
Mi affrettai a cercare le ciabatte. Una era sotto il letto, l’altra poco
distante. Gliele avvicinai entrambe mentre pensavo ancora: “mi starà
prendendo in giro?”
Giustino si sforzò non poco alla ricerca della giusta concentrazione, poi con
un piccolo aiuto si sedette sul fianco del letto, pensò e mi disse: “Non lì,
mettile più avanti” (sempre il solito perfezionista, riferendosi alle
ciabatte!), “Dai, dammi una mano ad alzarmi” e si alzò in piedi infilandosi
le ciabatte.
Contemporaneamente a me, si alzarono i pochi peli che mi ricoprono e
pensai: “E adesso che faccio?”
Il dubbio mi assalì solo per un fugace momento; ci pensò Giustino a
chiarirmi le idee: “Hai voluto che mi alzassi e adesso mi sorreggi!
Camminiamo fino alla finestra!”
Tre, forse quattro lunghissimi metri separavano il letto dalla finestra; e
non era finita. Giustino stava facendo una fleboclisi e aveva la bottiglia di
vetro appesa al trespolo deputato a tale scopo. L’ago della flebo era nel suo
braccio sinistro, il trespolo era quindi alla sua sinistra, ma io era alla sua
destra e non riuscivo a sostenere Giustino (che pure dimagrito appoggiava
tutto il suo peso sulla mia spalla) e a trascinare contemporaneamente il
trespolo. Allora ecco l’idea: staccare la bottiglia dal trespolo!
In quel modo potei accompagnare Giustino fino alla finestra tenendo più in
alto che potevo con il mio braccio destro la bottiglia di vetro. Ma a
Giustino non sfuggì un particolare: la medicina non scendeva poiché
l’altezza alla quale tenevo la bottiglia era inadeguata e, così, mi disse: “Vai
a prendere quel coso e rimettici la flebo!”
Obbedii senza fiatare (gli ordini di Giustino lasciavano pochi spazi alla
ribellione) e misi la bottiglia in mano a Giustino giusto il tempo di prendere
il trespolo. Ora, avete mai visto la gabbietta di plastica in cui si infila
rovesciata la bottiglia che contiene la soluzione fisiologica ed i farmaci?
Essa è appesa a un gancio per mezzo di un occhiello di plastica ed io non
sapevo, fino a quel giorno, che per infilare una bottiglia nella gabbietta è
buona norma smontare la gabbietta dal suo sostegno per poi riagganciarla
col suo contenuto.
No! Io non lo sapevo e cercai di infilarci dentro la bottiglia senza staccarla
dal trespolo. Spingi a destra, spingi a sinistra, ma la bottiglia non entrava;
sposta in alto, sposta in basso, ma la bottiglia non entrava; solleva il tubo,
abbassa la spalla, sostieni Giustino, sposta il trespolo, attento a non pestare
i piedi, mamma che caldo, la tensione sale … la bottiglia cadde! E si ruppe.
Centinaia di pezzettini, schegge impazzite affogate nella soluzione salina.
Sentivo su di me una coppia di occhi sgranati. Evitai di incrociarli, per un
po’. Ma dovetti cedere e seguirono attimi di sgomento!
“Chiama l’infermiera, svelto! Guarda che disastro hai combinato … mi sono
anche tagliato” disse Giustino un po’ innervosito. Infatti si era anche
tagliato il pollice destro, mentre cercava di raccogliere un pezzo di vetro.
Ma quando si dice la sfortuna! … non si vedeva nessuno lungo tutto il
corridoio, nessuno nella sala medica, nessuno in infermeria: panico!
Entrai in uno sgabuzzino ed ebbi la buona sorte di trovare una specie di
ramazza; mi precipitai in camera da Giustino, che nel frattempo, aveva
chiamato assistenza suonando il campanello e mi disse: “forza, dai,
comincia a raccogliere i vetri; guarda che casino hai combinato!”.
Per farla breve raccolsi i vetri più grandi, ramazzai il pavimento due
volte e, finalmente, arrivò un’infermiera. Giustino le chiese, con garbo ma
con altrettanta voglia di uccidermi, di provvedere alla pulizia della
camera. Quando l’infermiera ebbe terminato, mi ordinò un ultimo
sopralluogo. Al termine, rassicurato sulla perfetta riuscita delle
operazioni di bonifica, mi disse: “Certo che se mi serviva un motivo in più
per crederti sbadato come Fabiola, ora ce l’ho”.
E sedendosi sul bordo del letto, stancamente (come se avesse ramazzato
lui!), si lasciò andare in un tenero sorriso.


Scritto a Pescara, in ricordo di Giustino, il 13/11/2011 da Paolo

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  • 1. gli aneddoti di GIUSTINO “La flebo” Da quando era stato ricoverato alla clinica Pierangeli, non avevo più visto Giustino in piedi. Io andavo a trovarlo appena potevo, in bermuda e t-shirt, ma lui era allettato e col caldo di quest’ultima estate non doveva trovarsi in una situazione molto piacevole. Certo per lui c’erano tanti motivi di sofferenza e il caldo era, forse, l’ultimo dei suoi problemi. Era stanco e debilitato, dolente e preoccupato, ma per me il suo più grande guaio era la sfiducia. Era normale essere sfiduciato quando le cure massacranti alle quali si sottoponeva sembravano dare lumi di speranza eppure il fisico non suffragava il risultato delle analisi e le sensazioni che aveva contrastavano con quanto asserito dai medici. Giustino non era stupido; esigeva sapere come stavano realmente le cose e parlava, quando poteva, direttamente coi medici e leggeva da solo le cartelle cliniche, i risultati degli esami. Era comprensibile il suo stato d’animo ed era normale la sua non buona condizione fisica, ma io, fin dall’inizio della brutta storia, lo pregai di reagire a quanto gli era accaduto, di combattere una dura guerra, battaglia dopo battaglia. Così, quando avevo la fortuna di stare da solo con lui, lo strigliavo un po’. Giustino stava al gioco (il carattere di Giustino è esattamente l’opposto del mio, lui forte, caparbio, deciso, un po’ “caca cazzo” ma, in fondo, un buono, mentre io ho di lui solo i crismi di “caca cazzo” e di buono); stava al gioco ascoltandomi e accampando tutte le scuse per giustificare la sua resa che sembrava quasi definitiva. Un pomeriggio di quest’ultima estate mi recai a fargli visita. Attesi di rimanere da solo con lui e l’aiutai a cenare. Aiutai è un eufemismo: Giustino voleva fare tutto da sé ed io lo osservavo, pronto ad intervenire qualora me lo avesse chiesto. Quella sera mi sentivo più “caca cazzo” che mai e mentre lui mangiava lo incalzai con le mie solite torture psicologiche basate sull’amor proprio o, in alternativa, sull’amore per la famiglia o, in subordine, per l’amore di Dio, insomma lo cazziai più del solito: “Alzati una buona volta! Adesso basta col piangerti addosso! Che esempio vuoi essere per i tuoi figli?” Quella sera ero molto ispirato e, forse, usai qualche argomento più convincente del solito (cose che non si possono riferire …) ma erano frasi buttate lì, che sapevo sarebbero state inascoltate. Dopo un sonoro rutto, quella sera, una novità strabiliante: “Prendimi le ciabatte!” ordinò Giustino all’improvviso. Io non gli riservai nemmeno un
  • 2. attimo di attenzione, certo che lui mi stesse prendendo in giro. “Ti ho detto: prendimi le ciabatte!” mi disse di nuovo. Allora lo guardai dritto negli occhi e gli risposi “Giustì, che ti credi? Mica lo fai a me il dispetto! Continua a stare a letto e fatti venire pure le piaghe, co ‘sto caldo!” Ma Giustino era serio e agguerrito: “Mi hai talmente rotto le palle co ‘sto alzati, alzati, che mo mi alzo … e tu mi aiuti!” minacciò dal letto! (forse era il pasto che era andato in circolo, ma sembrava pericoloso!) Mi affrettai a cercare le ciabatte. Una era sotto il letto, l’altra poco distante. Gliele avvicinai entrambe mentre pensavo ancora: “mi starà prendendo in giro?” Giustino si sforzò non poco alla ricerca della giusta concentrazione, poi con un piccolo aiuto si sedette sul fianco del letto, pensò e mi disse: “Non lì, mettile più avanti” (sempre il solito perfezionista, riferendosi alle ciabatte!), “Dai, dammi una mano ad alzarmi” e si alzò in piedi infilandosi le ciabatte. Contemporaneamente a me, si alzarono i pochi peli che mi ricoprono e pensai: “E adesso che faccio?” Il dubbio mi assalì solo per un fugace momento; ci pensò Giustino a chiarirmi le idee: “Hai voluto che mi alzassi e adesso mi sorreggi! Camminiamo fino alla finestra!” Tre, forse quattro lunghissimi metri separavano il letto dalla finestra; e non era finita. Giustino stava facendo una fleboclisi e aveva la bottiglia di vetro appesa al trespolo deputato a tale scopo. L’ago della flebo era nel suo braccio sinistro, il trespolo era quindi alla sua sinistra, ma io era alla sua destra e non riuscivo a sostenere Giustino (che pure dimagrito appoggiava tutto il suo peso sulla mia spalla) e a trascinare contemporaneamente il trespolo. Allora ecco l’idea: staccare la bottiglia dal trespolo! In quel modo potei accompagnare Giustino fino alla finestra tenendo più in alto che potevo con il mio braccio destro la bottiglia di vetro. Ma a Giustino non sfuggì un particolare: la medicina non scendeva poiché l’altezza alla quale tenevo la bottiglia era inadeguata e, così, mi disse: “Vai a prendere quel coso e rimettici la flebo!” Obbedii senza fiatare (gli ordini di Giustino lasciavano pochi spazi alla ribellione) e misi la bottiglia in mano a Giustino giusto il tempo di prendere il trespolo. Ora, avete mai visto la gabbietta di plastica in cui si infila rovesciata la bottiglia che contiene la soluzione fisiologica ed i farmaci? Essa è appesa a un gancio per mezzo di un occhiello di plastica ed io non sapevo, fino a quel giorno, che per infilare una bottiglia nella gabbietta è buona norma smontare la gabbietta dal suo sostegno per poi riagganciarla col suo contenuto. No! Io non lo sapevo e cercai di infilarci dentro la bottiglia senza staccarla dal trespolo. Spingi a destra, spingi a sinistra, ma la bottiglia non entrava; sposta in alto, sposta in basso, ma la bottiglia non entrava; solleva il tubo, abbassa la spalla, sostieni Giustino, sposta il trespolo, attento a non pestare i piedi, mamma che caldo, la tensione sale … la bottiglia cadde! E si ruppe. Centinaia di pezzettini, schegge impazzite affogate nella soluzione salina.
  • 3. Sentivo su di me una coppia di occhi sgranati. Evitai di incrociarli, per un po’. Ma dovetti cedere e seguirono attimi di sgomento! “Chiama l’infermiera, svelto! Guarda che disastro hai combinato … mi sono anche tagliato” disse Giustino un po’ innervosito. Infatti si era anche tagliato il pollice destro, mentre cercava di raccogliere un pezzo di vetro. Ma quando si dice la sfortuna! … non si vedeva nessuno lungo tutto il corridoio, nessuno nella sala medica, nessuno in infermeria: panico! Entrai in uno sgabuzzino ed ebbi la buona sorte di trovare una specie di ramazza; mi precipitai in camera da Giustino, che nel frattempo, aveva chiamato assistenza suonando il campanello e mi disse: “forza, dai, comincia a raccogliere i vetri; guarda che casino hai combinato!”. Per farla breve raccolsi i vetri più grandi, ramazzai il pavimento due volte e, finalmente, arrivò un’infermiera. Giustino le chiese, con garbo ma con altrettanta voglia di uccidermi, di provvedere alla pulizia della camera. Quando l’infermiera ebbe terminato, mi ordinò un ultimo sopralluogo. Al termine, rassicurato sulla perfetta riuscita delle operazioni di bonifica, mi disse: “Certo che se mi serviva un motivo in più per crederti sbadato come Fabiola, ora ce l’ho”. E sedendosi sul bordo del letto, stancamente (come se avesse ramazzato lui!), si lasciò andare in un tenero sorriso. Scritto a Pescara, in ricordo di Giustino, il 13/11/2011 da Paolo