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Ritratto dell’Abate Ignazio Bardea (1736-1815) conservato presso la canonica di Bormio
Tra quelli che si occuparono di piante in Valtellina tra il Seicento e l'Ottocento, oltre al già
citato G.B. Patirana, si possono ricordare: Pier Angelo Lavizzari (1679-1759) che, pur
interessandosi in particolare alla botanica farmaceutica, lasciò alcuni manoscritti con
interessanti annotazioni botaniche; Francesco Saverio Quadrio (1695-1756), che compilò un
erbario andato in seguito perduto; Ignazio Bardea (1736-1815), ricordato soprattutto per il
suo interesse per le piante agrarie e a cui si deve l'introduzione del grano siberiano
(Fagopyrum tataricum), che non ebbe tuttavia lo stesso successo del più noto grano saraceno
(Fagopyrum esculentum); Pietro Martire Ferrari (?-1825), medico di Sondrio, che raccolse
molto materiale e lo conservò in due erbari, andati poi perduti, ma i cui dati furono almeno in
parte recuperati da F. Massara; Giovanni Bergamaschi (1785-1867), medico pavese, che lasciò
un manoscritto delle piante osservate e raccolte in Valtellina.
Nella Credaro Porta, nell’articolo “Cucina di valle e di montagna” (contenuto nel volume di aa. vv.
“Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio”, Silvana Editoriale, 1995), ci offre
questo interessantissimo spaccato sul grano saraceno, ingrediente tipico dell'alimentazione nella
civiltà contadina dei secoli scorsi:
"Un discorso più dettagliato va fatto per il grano saraceno, in quanto in ambiente italiano è quasi
scomparso e costituisce invece per la Valtellina l'ingrediente forse più caratteristico e interessante.
Si tratta del Fagopyrum sagittatum, che già il Bauhin, nel 1623, nel suo Pinax teatri botanici,
indicava come Frumentum sarracenicum, Formentone e Fagopyro, seguendo i vari autori:
«Sarracenicum dicitur, quia ex Africa primum delatum credatur: nam veteribus vel non cognitum,
vel non usitatum, vel neglectum, Dodoneus asserit». Non tutti però erano d'accordo che il nome
«saraceno» ne indicasse l'origine. Era per alcuni il suo colore nero, come quello dei saraceni, ad
averne determinato il nome.
Anche «Formentone», con metatesi da frumento, è visto dagli uni come dispregiativo, frumento
vile, da altri come accrescitivo, in quanto i suoi grani sono molto più grandi di quelli del frumento.
Come in Francia era stato usato nel Cinquecento il nome blé de Turquie, troviamo a Mazzo in
Valtellina friimént türk. In realtà questo vegetale era arrivato in Europa dalla Siberia, dove cresceva
spontaneo nella zona attorno al lago Baikal, fin verso la Manciuria. Solo nel Medioevo cominciò il
suo cammino verso l'Occidente. Infatti è certo che Greci e Romani non conoscevano questo
prodotto. All'inizio del Cinquecento cominciano per il grano saraceno le citazioni da parte di
botanici italiani, che ne raccomandano l'impiego agricolo, in mancanza del frumento, per
scongiurare le carestie. Nel Settecento compare nei registri dellefamiglie valtellinesi e
nell'Ottocento la letteratura storica locale ne testimonia l'ampia diffusione.
Qual è l'importanza di questa pianta per le zone montagnose è evidente: ha un ciclo vegetativo
molto breve e, data la sua origine dalle regioni fredde dell'Asia, può essere coltivata in altitudine.
Naturalmente a quote più alte costituirà l'unico prodotto, nella breve estate alpina; a quote basse,
sarà il secondo prodotto dopo la raccolta delle patate. Si stabilisce così l'uso della rotazione su tre
prodotti in due anni: patate, grano saraceno e segale, con il vantaggio di utilizzare i vari componenti
del terreno, senza esaurirlo.
La sua fioritura era per il paesaggio valtellinese dí mezza montagna uno spettacolo straordinario,
coi suoi fiori rosati e bianchi, che facevano dire al botanico tedesco Haller, nel suo trattato del 1742,
«sub extremum autumnum eleganti florum spectaculo agros exilarat».
Accanto al Fagopyrum sagittatum, alla metà del Settecento, compare in Europa un altro tipo di
grano saraceno, il Fagopyrum tataricum, che fu introdotto in Valtellina molto precocemente, per
opera e interessamento di Ignazio Bardea (1736-1815), storico del Bormiese, che ha lasciato uno
scritto su questo grano che viene detto di Siberia o anche semplicemente Siberia.
Da un piccolo pugno di grani cominciarono le sperimentazioni che diedero ottimi risultati, tanto che
ne raccomandò la coltivazione a molti convalligiani, tentandone la semina anche a Livigno e a
Trepalle, anche se qui con un fallimento.
Una scritta che è andata perduta su un muro di Bormio segnava la storica data dell'introduzione del
grano di Siberia.
La meraviglia sottolineata dal Bardea non stava solo nel fatto che uno stesso terreno avrebbe potuto
dare fino a tre raccolti, ma che da una sola pianticella erano stati prodotti millesettecento grani e,
nella media di una semina, il prodotto era stato di trecentoquarantasei volte la quantità della
semente.
In un secondo tempo ci si rese conto che la stessa vitalità di questa pianta creava problemi a chi
volesse altri prodotti sullo stesso terreno, in quanto tendeva ad infestare le coltivazioni, rispuntando
spontaneamente in primavera. Non ultimo quel gusto un po' amarognolo che dava ai cibi.
Ora si può considerare come un relitto di una coltivazione decaduta, anche se è sempre riconoscibile
in un campo coltivato a grano saraceno, in quanto i suoi fiori sono verdastri e più piccoli. La
decadenza del grano saraceno in vaste zone dell'Italia, e negli ultimi decenni anche in Valtellina,
con l'avanzare di altri farinacei più nobili, ha fatto scomparire dal panorama, e anche dal dialetto, il
Siberia."
Informazioni ricercate da Giancarla Maestroni
Bibliografia:
Bardea I., Memorie per servire alla storia civile di Bormio, Biblioteca Pio istituto scolastico,
Bormio
Aa. Vv., “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio”, Silvana Editoriale, Monza
1995 pp.525-526

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  • 2. suo cammino verso l'Occidente. Infatti è certo che Greci e Romani non conoscevano questo prodotto. All'inizio del Cinquecento cominciano per il grano saraceno le citazioni da parte di botanici italiani, che ne raccomandano l'impiego agricolo, in mancanza del frumento, per scongiurare le carestie. Nel Settecento compare nei registri dellefamiglie valtellinesi e nell'Ottocento la letteratura storica locale ne testimonia l'ampia diffusione. Qual è l'importanza di questa pianta per le zone montagnose è evidente: ha un ciclo vegetativo molto breve e, data la sua origine dalle regioni fredde dell'Asia, può essere coltivata in altitudine. Naturalmente a quote più alte costituirà l'unico prodotto, nella breve estate alpina; a quote basse, sarà il secondo prodotto dopo la raccolta delle patate. Si stabilisce così l'uso della rotazione su tre prodotti in due anni: patate, grano saraceno e segale, con il vantaggio di utilizzare i vari componenti del terreno, senza esaurirlo. La sua fioritura era per il paesaggio valtellinese dí mezza montagna uno spettacolo straordinario, coi suoi fiori rosati e bianchi, che facevano dire al botanico tedesco Haller, nel suo trattato del 1742, «sub extremum autumnum eleganti florum spectaculo agros exilarat». Accanto al Fagopyrum sagittatum, alla metà del Settecento, compare in Europa un altro tipo di grano saraceno, il Fagopyrum tataricum, che fu introdotto in Valtellina molto precocemente, per opera e interessamento di Ignazio Bardea (1736-1815), storico del Bormiese, che ha lasciato uno scritto su questo grano che viene detto di Siberia o anche semplicemente Siberia. Da un piccolo pugno di grani cominciarono le sperimentazioni che diedero ottimi risultati, tanto che ne raccomandò la coltivazione a molti convalligiani, tentandone la semina anche a Livigno e a Trepalle, anche se qui con un fallimento. Una scritta che è andata perduta su un muro di Bormio segnava la storica data dell'introduzione del grano di Siberia. La meraviglia sottolineata dal Bardea non stava solo nel fatto che uno stesso terreno avrebbe potuto dare fino a tre raccolti, ma che da una sola pianticella erano stati prodotti millesettecento grani e, nella media di una semina, il prodotto era stato di trecentoquarantasei volte la quantità della semente. In un secondo tempo ci si rese conto che la stessa vitalità di questa pianta creava problemi a chi volesse altri prodotti sullo stesso terreno, in quanto tendeva ad infestare le coltivazioni, rispuntando spontaneamente in primavera. Non ultimo quel gusto un po' amarognolo che dava ai cibi. Ora si può considerare come un relitto di una coltivazione decaduta, anche se è sempre riconoscibile in un campo coltivato a grano saraceno, in quanto i suoi fiori sono verdastri e più piccoli. La decadenza del grano saraceno in vaste zone dell'Italia, e negli ultimi decenni anche in Valtellina, con l'avanzare di altri farinacei più nobili, ha fatto scomparire dal panorama, e anche dal dialetto, il Siberia." Informazioni ricercate da Giancarla Maestroni Bibliografia: Bardea I., Memorie per servire alla storia civile di Bormio, Biblioteca Pio istituto scolastico, Bormio Aa. Vv., “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio”, Silvana Editoriale, Monza 1995 pp.525-526