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Maurizio Matteo Dècina
GOODBYE TELECOM
LA BANDA DELLA BANDA LARGA
IL PIANO DI TELEFÓNICA
E IL NUOVO ORDINE MONDIALE
Prefazione di Giuseppe Oddo
Postfazione di Franco Lombardi
PREFAZIONE
L’impegno di Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo a cede-
re alla spagnola Telefónica le rispettive quote in Telco determina
il passaggio del controllo di Telecom Italia a una società estera.
Non occorreva essere degli indovini, per capire che il destino del
maggior gruppo di telecomunicazioni italiano era segnato. Per
stare al passo con l’evoluzione delle tecnologie, le telecomunica-
zioni necessitano di investimenti a rendimento molto differito nel
tempo e le banche, oberate da una massa di crediti inesigibili, so-
no i soggetti meno adatti a sostenere progetti strategici di lungo
termine che in tempo di recessione possono tradursi in pesanti
minusvalenze. D’altro canto, si era già visto nell’autunno 1997, al
momento della privatizzazione di Telecom, con quale e quanto
entusiasmo, con quale e quanta convinzione i principali istituti di
credito avessero accettato di far parte del «nocciolino duro» –
per usare la sprezzante definizione che ne aveva dato l’allora pre-
sidente esecutivo della società, Gian Mario Rossignolo, uomo de-
signato da Umberto Agnelli per conto dell’Ifil. Tutto ciò che è
successo dopo quella data, che porta il marchio indelebile del pri-
mo governo Prodi e di coloro che all’epoca erano i responsabili
del Tesoro, è la conseguenza di quel madornale errore di parten-
za. Il governo cedette Telecom in Borsa a una platea diffusa di
piccoli azionisti e di investitori istituzionali senza capire o facen-
do finta di non sapere che, in un Paese le cui principali aziende
sono sotto il controllo di grandi famiglie, una struttura azionaria
tena di errori. È cominciato in quel momento il processo di spo-
liazione e di indebitamento della compagnia, che – come spiega
Maurizio Matteo Dècina in questo bel saggio che si legge tutto
d’un fiato – ha determinato un drenaggio di risorse per 24 mi-
liardi che si sarebbero potuti spendere per dotare l’Italia di una
rete in fibra ottica di nuova generazione.
Non si possono nutrire rimpianti per l’era dei «boiardi» e del-
la lottizzazione delle partecipazioni statali, che è stata fonte di in-
quinamento della vita pubblica e di distorsione delle regole del-
la concorrenza, anche se è a manager di Stato del calibro di En-
rico Mattei e di Gugliemo Reiss Romoli che dobbiamo la crea-
zione di grandi gruppi come Eni e Stet (la holding dell’Iri poi fu-
sa con Telecom). Ma di questo capitalismo senza capitali che pri-
vatizza i profitti e socializza le perdite, che predica il liberismo e
patteggia con la politica per ottenere protezioni e rendite, non se
ne sente affatto il bisogno.
Altro errore fu il via libera concesso nel 1999 dal governo
D’Alema (ministro del Tesoro lo stesso Ciampi) alla scalata osti-
le dei «capitani coraggiosi» calati da Brescia e da Mantova, che
con la lussemburghese Bell acquisirono a debito dapprima il
controllo di Olivetti e subito dopo, tramite questa, il controllo di
Telecom; operazione che non sarebbe potuta avvenire senza il
sostegno tecnico-finanziario di Chase Manhattan, Lehman
Brothers e Mediobanca e senza la vendita di Omnitel (l’odierna
Vodafone Italia).
Le vicende aziendali di Telecom successive al 1997 – l’Opv del
Tesoro, due anni dopo l’Opa ostile di Colaninno, nel 2001 l’ac-
quisizione del gruppo da parte di Pirelli e Benetton e nel 2007 la
vendita a Telco – furono in sostanza la conseguenza di quella ca-
Dècina incrocia i fatti con i numeri per far emergere il lato
strumentale di alcuni degli affari che caratterizzarono le gestioni
del decennio 1999-2007. Per esempio, ancora oggi sfugge il si-
gnificato dell’Opa di Telecom sulla quota di minoranza di Tim
per la «modica» cifra di 15 miliardi di euro. Che se ne faceva la
Telecom di Marco Tronchetti Provera del 100% di Tim, quando
già ne possedeva la maggioranza? A cosa servì l’operazione, ol-
tre che ad accrescere il debito consolidato di Telecom e a paga-
re profumatamente le banche d’affari che curarono l’offerta in
Borsa? E che vantaggio ebbe Telecom dalla cessione degli im-
mobili ai fondi di Pirelli Re? Le risposte di Tronchetti a questi
interrogativi non sono mai state convincenti. Avrebbe potuto
chiedergliene conto il consiglio d’amministrazione di Telco, se
non fosse che Telco è partecipata (ancora per poco) da Medio-
banca e Generali, che Pirelli fa parte del patto di sindacato di
Mediobanca, che Mediobanca e Generali sono a loro volta soci
di Pirelli e che Tronchetti è vicepresidente di Mediobanca (at-
tualmente sospeso perché rinviato a giudizio). Classico caso di
capitalismo italico.
del genere avrebbe potuto durare solo con la presenza di un for-
te e coeso nucleo di soci stabili e con lo Stato determinato a far
valere la golden share. L’idea, sciagurata, che l’impalcatura del
«nocciolino» azionario di Telecom potesse reggersi unicamente
sulla presenza dell’Ifil, l’allora società finanziaria della famiglia
Agnelli, fu una trovata disastrosa. Non solo perché la famiglia
Agnelli non ebbe alcuna percezione del ruolo trainante che rive-
stivano i servizi di telecomunicazione (peraltro proprio in un pe-
riodo in cui la crisi di Fiat era già in fase di gestazione), ma anche
perché in quegli anni in cima ai pensieri del gruppo Ifil c’erano le
banche, e in particolare l’Istituto San Paolo di Torino, dove le so-
cietà della famiglia Agnelli avevano acquisito una quota. Nono-
stante gli sbarramenti posti dal governo, Telecom fu resa conten-
dibile sul nascere anche grazie al fatto che aveva un modesto ca-
rico debitorio, circostanza che la rendeva una preda alla mercé
delle grandi banche d’affari internazionali. È vero che il Tesoro
agì sotto la pressione del patto Andreatta-Van Miert, che obbli-
gava lo Stato italiano ad abbattere i debiti dell’Iri, cui Telecom fa-
ceva capo, e che fu costretto ad accelerare la privatizzazione per
non mettere a rischio l’ingresso dell’Italia nell’euro, ma avrebbe
potuto agire soppesando meglio quello che avrebbe dovuto esse-
re l’interesse nazionale.
Secondo Dècina, sarebbe auspicabile per una nuova fase di
sviluppo delle telecomunicazioni un ritorno dello Stato nella gov-
ernance di Telecom. Con 8 miliardi investiti in una moderna rete
ottica si potrebbero creare, scrive l’autore, 40mila posti di lavoro
e «ritorni economici, in termini di gettito fiscale, ben superiori al-
l’esborso iniziale». Non so se questa sia la strada per rilanciare il
settore. Constato però che in Germania e in Francia gli ex mo-
nopoli, ancorché quotati in Borsa, sono rimasti a maggioranza o
a forte controllo pubblico e che in Italia da tre lustri la Telecom
privatizzata continua a cambiare padrone e management, a rifare
piani industriali e a vivere in una condizione di destabilizzazione
permanente che rischia di disperdere un patrimonio industriale
strategico per il futuro del Paese e dell’economia.
GIUSEPPE ODDO
GOODBYE TELECOM
ENTUSIASMO E DISINCANTO
UNA NOTA PERSONALE
Dal boom al crollo
All’inizio del 2000, dopo alcuni anni di «apprendistato» in una
grande società di consulenza internazionale, pieno di entusiasmo
mi «imbarcai» per la Spagna. Non avevo ancora trent’anni. Anda-
vo a lavorare in una delle tante aziende legate al gruppo Telecom
che all’epoca contava una trentina di società in altrettanti Paesi del
mondo. L’atmosfera che si respirava in quel periodo era veramen-
te straordinaria. C’erano entusiasmo, aspettativa di crescita, ecci-
tazione. La fiducia nelle capacità manageriali e nel know-how tec-
nologico andavano ben oltre l’illusione speculativa della new eco-
nomy. Con i miei colleghi guardavamo la mappa delle partecipa-
zioni internazionali come quando si gioca a RisiKo! e si piazzano
i carri armati nei punti strategici. Più la guardavamo e più ci con-
vincevamo di far parte di una squadra vincente. C’era chi ipotiz-
zava una futura espansione sui territori asiatici e chi, più pruden-
temente, puntava sulla difesa dei già consolidati mercati europei.
Per i giovani che come me avevano scelto il lavoro all’estero, nel-
le varie società del gruppo, il leitmotiv perfetto era la bellissima
Con te partirò cantata da Andrea Bocelli, colonna sonora e inno
spot dell’allora nascente e già stellare Tim.
In quegli anni la Telecom era decisamente un’azienda vincente.
Tutto il mondo invidiava le sue competenze e i successi maturati
in anni di ricerche: dalle origini della telefonia fino alle ultime in-
«Qui c’è aria da funerale», mi disse un caro collega salutando il
mio ritorno in Italia, «oramai i giochi sono fatti… l’azienda se la
sono bevuta…». E lo confermavano le parole dell’avvocato Gui-
do Rossi, che il 6 aprile 2007, dimettendosi dalla carica di presi-
dente, sentenziò: «Un Paese che soffre di una così grave man-
canza di regole naturalmente è il terreno ideale per chi vuole ap-
profittarne, per chi pensa a portar via più soldi che può. Invece
del fare, c’è l’arraffare. Questa sembra la Chicago degli anni
Venti, sembra il capitalismo selvaggio dei baroni ladri nell’Ame-
rica del primo Novecento»1
.
Dopo aver vanamente tentato di porre rimedio a una «situa-
zione irrecuperabile», Rossi si era dovuto ricredere. «Far pulizia
nel conflitto di interessi tra Tronchetti e Telecom» era impossi-
bile. Essersi fatto carico di quella responsabilità «nell’interesse
dell’ultima grande impresa tecnologica italiana», oltre che del
mercato e del Paese, era stata un’illusione.
Mi sforzai di ritrovare la fiducia, ma il vero problema era che
i miei amati fogli Excel erano oramai uno strumento in disuso.
In una rete capillare di imbrogli e favoreggiamenti che valore
professionale potevano avere delle analisi basate su parametri
matematici?
Le attività di consulenza si erano oramai ridotte per buona
parte a pubbliche relazioni con finalità lobbistiche e il destino
dell’azienda appariva segnato da un orientamento che bene ha
spiegato Eugenio Scalfari:
[…] I guai di Telecom cominciano da quando è stata privatiz-
zata e ha avuto la sventura di diventare la preda di un capitali-
smo straccione, più attento a spolpare il grasso che a investire
in prodotti e tecnologie. Non tutto il capitalismo italiano navi-
ga a questo infimo livello, ma buona parte purtroppo sì. La re-
gola prevalente è quella di arricchire i «predatori» a danno del-
l’azionariato diffuso e non organizzato, una maggioranza pol-
verizzata e quindi priva di qualunque potere. Gli strumenti per
tenerla al guinzaglio sono vari ma con identiche finalità: scato-
novazioni della Tim, prima azienda del mondo a lanciare sul mer-
cato la carta prepagata. La sensazione di giocare in una delle squa-
dre più forti era davvero inebriante, soprattutto per un giovane
consulente che, a furia di corsi manageriali, aveva maturato una fe-
de assoluta per i risultati aziendali e per la vittoria di squadra.
Quell’anno ricordo che in prossimità delle feste natalizie Tele-
com aveva distribuito a tutti i dipendenti oltrefrontiera delle cra-
vatte con il logo e i colori dell’azienda. Per noi italiani all’estero
era motivo di orgoglio. La ostentavamo ad ogni riunione, fieri e
sicuri del marchio che rappresentava. Era il segno di un’apparte-
nenza aziendale che, al di là del vestito sempre impeccabile e del-
la cravatta firmata, indicava un benessere economico generale.
Gli esiti hanno però deluso le aspettative. È successo infatti
qualcosa che noi giovani, dediti ore e ore a contemplare e a ri-
flettere su quel mappamondo, non avremmo mai creduto: ven-
dita quasi totale delle partecipazioni, licenziamenti di massa,
evasioni fiscali, attività di spionaggio illecite, suicidi, riciclaggio
di denaro, svendita delle centrali telefoniche.
Se dieci anni fa qualcuno ci avesse raccontato che quel map-
pamondo pieno di bandierine sarebbe stato spremuto come un
pompelmo e che l’azienda sarebbe caduta sotto il dominio di Te-
lefónica, noi ridendo avremmo esclamato: «Ma che dite? Siamo
noi che stiamo andando alla conquista della Spagna!».
Numeri imbarazzanti
Dopo sette anni di lavoro all’estero, ritornai in Italia e fui su-
bito colto da un senso di sconforto. Troppe chiacchiere, troppa
aggressività, troppi scandali. Non riuscivo neanche più a vedere
la televisione. Tornai a lavorare in una società di consulenza, il
cui maggiore cliente era Telecom. Ma l’ambiente non sembrava
più lo stesso, aleggiavano la sfiducia e lo sconforto. Passeggian-
do per i corridoi avevo la sensazione che nel giro di poco tempo
quella apparente quiete sarebbe stata investita da una bufera.
2007, rispettivamente l’anno dell’Opa e la fine dell’era Tron-
chetti, ci accorgiamo che i vasi comunicanti hanno funzionato
perfettamente senza problemi di capillarità. Il monte salari si è
dimezzato. Gli interessi bancari sono quintuplicati ed è aumen-
tato spaventosamente il peso degli sprechi attraverso operazioni
inefficienti, poco trasparenti o semplicemente troppo generose,
rimanendo pressoché invariato il totale dei tre flussi analizzati.
In sintesi: i tagli occupazionali sarebbero stati funzionali agli
sprechi e al pagamento degli interessi bancari.
Non si tratta di un caso isolato. Sarebbe interessante calcolare
le perdite di altre grandi aziende (Alitalia, Parmalat, Trenitalia,
Cirio, Enel) e valutare l’ammontare del danno globale procura-
to dalle varie lobby industriali e politiche al reddito nazionale e
in particolare all’occupazione. Il sospetto è che la somma sia
enorme. Se solo in Telecom lo spreco di risorse è stato equiva-
lente all’1,8% del Pil, a che risultati si arriverebbe prendendo in
considerazione il resto delle grandi aziende? 20%? 30%? Di
più? Di certo la cifra sarebbe sorprendente.
Ma anche quando la barca affonda c’è sempre qualcuno che ci
guadagna. Chi? «Ci sono due modi per conquistare e sottomet-
tere una nazione», scrive John Adams (1735-1826, secondo Pre-
sidente degli Stati Uniti), «uno è con la spada, l’altro è control-
lando il suo debito». Affermazione che rende il caso Telecom
sintomatico della deriva del sistema Paese: 130% il rapporto del
debito pubblico sul Pil e 130% il rapporto del debito aziendale3
sul fatturato di Telecom. Analogie?
La logica dello «spolpamento» è infatti sempre la stessa: i
gruppi di interesse, dopo aver comprato pacchetti azionari ri-
correndo interamente al debito, posizionano nei posti chiave
gruppi di manager ben organizzati e molto affiatati, dediti prin-
cipalmente al conseguimento degli obiettivi degli azionisti di
controllo e all’inevitabile drenaggio di risorse dalla malcapitata
azienda verso le casse delle società amiche. Attraverso abili gio-
chi finanziari di continue fusioni e acquisizioni, talvolta del tut-
to ingiustificate, i gruppi di controllo si cimentano nella magia di
le cinesi, patti di sindacato, contratti di borsa speciali, rappor-
ti privilegiati con gruppi bancari. Il fine è sempre quello: spol-
pare l’osso, lesinare sugli investimenti, privilegiare i dividendi,
i compensi ai dirigenti, le stock-option agli amministratori e
utilizzare la società-preda come fonte di potere politico e me-
diatico. Questo è uno dei connotati del capitalismo italiano2
.
Da parte mia provai allora con alcuni colleghi a dare un volto
numerico a queste frasi. Cominciato come un gioco, quel calco-
lo successivamente si trasformò in una vera e propria simulazio-
ne, con risultati a dir poco imbarazzanti. La sintesi di questo stu-
dio è riportata nella Figura 2 (p. 25) dove vengono considerati
sia gli sprechi dovuti alle incapacità manageriali, sia le perdite le-
gate al perseguimento degli obiettivi individuali. In seguito a ge-
stioni a dir poco azzardate, l’azienda ha subìto uno spreco di ri-
sorse pari a 23,6 miliardi di euro; una cifra astronomica che am-
monta a circa l’1,8% del Pil italiano e all’equivalente di 500mila
retribuzioni annuali di un impiegato medio. Con tali risorse si sa-
rebbe potuto dare lavoro a 50mila persone per 10 anni, evitando
esuberi, tagli e scivoli; oppure si sarebbe potuto cablare in fibra
non uno ma due Paesi, creando altrettanti posti di lavoro.
Questi sprechi si riferiscono soltanto alla gestione operativa.
Al vertice, esiste un’altra gestione, ben più importante per i for-
tunati che ne detengono il controllo: una gestione finanziaria che
ha caricato di debiti l’azienda fin dall’inizio della privatizzazio-
ne. Questa doppia morsa ha di fatto strozzato gli investimenti
annichilendo l’azienda. Se sommiamo gli sprechi della gestione
operativa all’inutile indebitamento delle varie fusioni, si arriva a
cifre stratosferiche che raggiungono diversi punti percentuali sul
Pil, con un enorme danno per l’azienda e soprattutto per il Pae-
se. Dal 1999 ad oggi Telecom ha perso 70mila posti di lavoro,
una perdita che, al di là della concorrenza e della disoccupazio-
ne tecnologica, può essere interpretata con il fenomeno dei vasi
comunicanti. In poche parole: ciò che si perde da una parte si
guadagna dall’altra. Prendendo due anni significativi, il 1999 e il
Il recente piano di scalata da parte di Telefónica per arrivare ad
essere il socio di maggioranza del pacchetto di controllo Telco4
,
sancirebbe l’inesorabile sconfitta del capitalismo italiano. L’unico
piano possibile dell’operatore spagnolo è quello di mirare a una
vendita delle partecipate estere in Brasile e Argentina con un suc-
cessivo smembramento della componente italiana, che divente-
rebbe preda di qualsiasi gruppo internazionale, una volta crolla-
to il valore delle azioni in borsa. Oggi, ci troviamo nella stessa
condizione di 15 anni fa, epoca in cui alcuni disinibiti gruppi in-
dustriali e finanziari iniziarono a danneggiare l’azienda. «Invito a
sentire il discorso che fece Bernabè in videoconferenza nazionale
alla fine degli anni ’90 a tutti i dipendenti del gruppo, su quello
che sarebbe successo, se fosse passata l’Opa del secolo»5
, com-
menta Franco Lombardi, presidente dei piccoli azionisti di Tele-
com Italia. «Lo stesso discorso andrebbe risentito mettendo la
parola “Telefónica” al posto della parola “Colaninno”. Gli even-
ti si ripetono, la storia è ferma».
addebitare sulle aziende stesse i debiti con i quali sono state ac-
quistate. E qualsiasi operazione che abbia come oggetto i tagli
occupazionali o la vendita del patrimonio immobiliare troverà la
sua giustificazione nel contenimento dell’onere finanziario con
cui sono stati acquistati i pacchetti di controllo. Questi gruppi
assomigliano molto a una «banda» di suonatori che passando
impunemente da azienda in azienda dopo la marcia trionfale, la-
sciando agli altri quella da requiem.
Il problema è che in questa particolare fase del nostro sistema
politico ed economico, alcuni eventi un tempo clamorosi sono
oramai routine. Non fa più scandalo neanche sapere che UniCre-
dit, dopo aver annunciato quattromila esuberi, abbia liquidato il
già milionario direttore generale Alessandro Profumo con 40 mi-
lioni di euro (cifra pari allo stipendio di duemila lavoratori). O sa-
pere che lo stipendio annuale di Marchionne ammonta a 48 mi-
lioni di euro quando gli stabilimenti della Fiat si ritrovano in cas-
sa integrazione. Da una parte si mandano a casa dipendenti che
percepiscono mille euro al mese facilitando una miriade di tipolo-
gie contrattuali sotto il falso mito dell’efficienza e dall’altra si elar-
giscono bonus di svariati milioni di euro in favore di manager e
banchieri, con danni irreparabili sul sistema Paese. Questo è il ca-
pitalismo? No, è «peggiocrazia», come direbbe il professor Luigi
Zingales, ovvero Il governo dei peggiori e non dei mediocri. Ma a
lungo andare gli effetti di questi processi degenerativi è abbastan-
za evidente. Le statistiche dell’Eurostat evidenziano che negli ulti-
mi 15 anni c’è stato un netto crollo del Pil pro capite italiano non
solo rispetto alla media europea ma anche nei confronti dei Paesi
più sviluppati quali Germania, Francia, Inghilterra e Spagna. E i
risultati del rapporto del Censis (L’Italia nel 2030) sono ancor più
inquietanti: «Il Sud si spopolerà a favore del Centro-Nord, i gio-
vani saranno un milione in meno mentre gli anziani diventeranno
un quarto abbondante della popolazione italiana. Se i posti di la-
voro non aumenteranno al ritmo di 480mila l’anno il nostro teno-
re di vita si ridurrà notevolmente…». E di fronte a queste pro-
spettive così scoraggianti cosa fanno le istituzioni?
Figura 1. Telecom Italia nel mondo (anno 2000). In colore più scuro, i Paesi in
cui era presente la compagnia italiana.
Figura 2. Simulazione sugli sprechi della gestione operativa dopo 10 anni di
privatizzazione (fonte: Asati).
Figura 3. Inefficienza della gestione finanziaria (fonte: bilanci consolidati). Figura 4. Dipendenti (fonte: bilanci consolidati).
Lettera dell’Associazione
degli azionisti Telecom Italia al governo
Al Governo (Presidente del Consiglio, Ministro Infrastrutture, Ministro
Sviluppo Economico, Ministro Lavoro),
Al Sottosegretario Presidenza del Consiglio,
All’Agcom,
All’Antitrust,
Alla CDP (Presidente e Amministratore Delegato),
Ad Assogestioni,
Alla commissione Industria del Senato,
Alla commissione Trasporti della Camera,
Al consiglio di amministrazione di Telecom Italia,
Apprendiamo con stupore le dichiarazioni del Presidente di Telecom
Italia Franco Bernabè: «Ho appreso dell’operazione Telco dai comunicati
stampa e dai mass media» in quanto ciò che ne è emerso è che l’opera-
zione di Telefónica in Telco è un’operazione ostile a Telecom Italia che va
contro gli interessi del restante 78% dell’azionariato di Telecom, dei
600.000 piccoli azionisti e degli 82.000 dipendenti6
.
Le dichiarazioni della classe politica italiana, tranne eccezioni, chiarisco-
no che la stessa non ha ancora capito la portata negativa dell’operazione e
quando il Presidente del Consiglio Enrico Letta, intervistato a New York, ha
dichiarato «bene all’ingresso dei capitali europei in Italia» non si compren-
de a quali capitali si riferisca dato che nemmeno un euro entrerà in Tele-
com Italia. Infatti Telefónica non porta alcun capitale, per cui non si com-
prende su quali presupposti si possa presumere un beneficio. Ancora il Pre-
sidente del Consiglio ha dichiarato che il Governo sta vigilando ma di fron-
Figura 5. Azionisti Telecom (ottobre 2013).
1. la variazione dello statuto attuale che lascia 4/5 dei consiglieri all’a-
zionista di riferimento con una elezione proporzionale avuti in assemblea;
2. aumento di capitale di almeno 3 miliardi, per scongiurare il declas-
samento sul debito da parte delle agenzie di rating;
• tutti i principali azionisti, fondi italiani ed esteri, a partecipare alla
prossima assemblea per superare il blocco previsto di Telco (ovvero Te-
lefónica) sul cambio statuto (Telecom deve diventare una vera Public
Company) e sull’aumento di capitale.
• la Consob e la Sec affinché si vigili su due aspetti fondamentali:
1. gli accordi tra i soci Telco aggirano l’obbligo di OPA e falsano quin-
di la contendibilità dell’azienda scoraggiando l’ingresso di altri soci qua-
lora questi si presentino direttamente al mercato;
• l’Antitrust nella difesa degli investimenti dei piccoli risparmiatori
che sono stati assolutamente calpestati.
Qualora queste azioni non venissero adottate Asati si attiverà presso
tutte le Autorità Nazionali e Internazionali, non ultima la Magistratura
e il Tribunale Europeo di Strasburgo per i diritti dell’uomo, per denun-
ciare tutti quei Consiglieri che nel corso del prossimo Cda del 3 ottobre
possano ledere con le loro decisioni, supportando Telco, gli interessi di
tutte le minorities, dei livelli occupazionali, compresi tutti i dipendenti
azionisti in servizio e in pensione.
Per Asati,
Il Presidente,
Ing. Franco Lombardi
Roma 25 settembre 2013
te all’imminente prospettiva del declassamento di Telecom Italia da parte
delle agenzie di rating, il Governo continua ad attuare una politica atten-
dista e di non decisione, senza guardare ai problemi reali del paese. Forse
l’on. Letta intende assistere alla tragica fine di una privatizzazione, che a
detta dello stesso, non è stata una delle migliori, oggi Letta fa il canto del
cigno «affermando di difendere la rete di TI». Ma dove era il Presidente del
Consiglio quando nella conferenza stampa di agosto scorso, lo stesso Bas-
sanini, che era con lui, sorridendo diceva che nel piano triennale della cas-
sa non c’era la parola TI! Una tale dichiarazione dovrebbe spingere un Ca-
po del Governo all’intervento e non allo stare a guardare dalla finestra o di-
re cose prive di alcun senso industriale nell’interesse dell’intero Paese.
Asati, nell’interesse del Paese, e quindi non solo dei 600.000 piccoli
azionisti risparmiatori e di Telecom, e soprattutto degli 82.000 dipen-
denti oggi occupati, richiama l’attenzione sui seguenti punti e invita:
• il Governo ad approvare celermente i regolamenti attuativi per la
«golden power» (ex «golden share» affinché il vuoto normativo non di-
venti un alibi);
• il Parlamento a nominare al più presto i componenti della Commis-
sione di Vigilanza sulla CDP con l’obiettivo di inserire nel piano trienna-
le della Cassa (dove oggi la parola Telecom nemmeno risulta) un inter-
vento su Telecom Italia, in quanto azienda strategica. Senza banda larga
lo sviluppo del Paese è compromesso;
• i vertici esecutivi di Telcom Italia, il Cda, il Consiglio Sindacale e so-
prattutto i consiglieri indipendenti l’inserimento in odg del prossimo Cda
di Telecom del 3 ottobre p.v., la convocazione di una assemblea straor-
dinaria sui seguenti punti:
È da miopi ignorare che per la risoluzione dei problemi antitrust, in cui
incorre Telefónica per le proprietà di Telecom Italia in Brasile ed Argen-
tina, la scelta cadrà ovviamente su dismissioni e spezzatino della società,
mettendo a rischio fino a 100.000 posti di lavori in Italia. È questo quel-
lo che auspicano il Capo del Governo e la maggioranza che lo sostiene?
Oggi Anatel ha dichiarato che se Telefónica prende tutte le quote di Tel-
co dovrà essere venduto in blocco Tim Brasil e ancora bene il comunica-
to dei Consiglieri indipendenti di operazione in netto conflitto di inte-
ressi come Asati dal 2008 sta denunciando di fronte a Istituzioni sorde
lo stesso tema. Il mercato come era previsto ha già bocciato l’operazio-
ne TI ora a -4.5% rispetto al djstock tlc.
2. l’attuazione dell’articolo 2497 del codice societario che prevede in
riferimento all’esercizio di direzione e controllo che il debito di Telecom
Italia sia consolidato in Telefónica;
1997-2007
COME ROVINARE UN’AZIENDA SANA
Primi nel mondo
Poco prima che partissi per la Spagna nel 2000, il gruppo Te-
lecom contava in Italia 120.345 dipendenti. Aveva un debito di
appena 8,1 miliardi di euro, una trentina di partecipazioni inter-
nazionali e un patrimonio immobiliare di 10 miliardi di euro7
. Al
mio ritorno, a fine 2006, l’azienda si ritrovava con un debito di
37,3 miliardi, 39.453 dipendenti in meno, una manciata di par-
tecipazioni estere e un patrimonio immobiliare azzerato. Come
si spiega?
Tutto è cominciato con la privatizzazione dell’azienda. «[…]
Noi italiani siamo come sempre campioni di primati: la Seconda
Repubblica è stata un colpo di Stato non registrato dalla storia e
la privatizzazione di Telecom è stata un colpo di Stato economi-
co per opera di imprenditori improvvisati». Sono le parole del-
l’ingegner Vito Gamberale, ex ad e fondatore di Tim, da sempre
uno dei maggiori esperti di telecomunicazioni del Paese.
Forse non tutti ricordano che Telecom Italia (Sip fino al 1994)
era un grande gruppo industriale con più di 120mila dipenden-
ti. Il primo nel mondo a lanciare la carta prepagata, uno stru-
mento innovativo che permise la rapida diffusione della telefonia
mobile a livello planetario. La ragione del successo della Tele-
com risiedeva nei suoi uomini, nella loro formazione etica e nel-
la loro conoscenza tecnologica del settore. Negli anni ’90 l’a-
stampa sembravano infatti convinti che un operatore privato
avrebbe garantito una migliore efficienza e una maggiore equità.
A ciò si aggiunse la favola che il governo doveva far cassa per mi-
gliorare i conti economici poiché lo esigeva la Comunità econo-
mica europea per l’entrata nella zona euro. E solo all’ombra di
tutte queste argomentazioni si celava indisturbata la smania di
potere della nuova classe dirigente.
Il processo di privatizzazione iniziò nell’ottobre del 1997, du-
rante il governo Prodi, che si era preoccupato però di risolvere un
problema politico di particolare interesse: poiché non era oppor-
tuno lasciare tutte le scelte in mano ai privati, venne adottato il
meccanismo della «golden share», strumento che, almeno sulla
carta, assicurava al governo di mantenere il controllo dell’azienda
nelle scelte fondamentali per il suo destino. Il grosso delle azioni
venne venduto a investitori istituzionali stranieri, e il gruppo ita-
liano di controllo (il così detto «nocciolo duro»), sul quale con-
tava Prodi, con il suo misero 6% diventò il nocciolino. All’inter-
no di questa accozzaglia di soci spiccava il ruolo dell’Ifil della fa-
miglia Agnelli, che, detenendo una quota pari al 10% del noc-
ciolo, era il gruppo di maggior peso. L’azienda venne offerta così
su un piatto d’argento alla Fiat, che con lo 0,6%8
delle azioni con-
trollava tutte le operazioni. «Prima della privatizzazione», com-
menta Alessandro Fogliati, presidente della prima associazione di
dipendenti azionisti, «Adas9
chiese al Tesoro di far parte del
gruppo di controllo che si sarebbe creato in virtù del 3,3% delle
azioni già sottoscritte da 97mila dipendenti e da acquistare attra-
verso un piano già stabilito. La risposta del governo fu la seguen-
te: “Pagate subito le azioni? Altrimenti restate fuori”. L’escamo-
tage fu tanto furbo quanto micidiale poiché l’assemblea, cioè il
“Tesoro”, nominò tempestivamente il cda “post-privatizzazione”
consegnando l’azienda nelle mani della Fiat». Secondo Gambe-
rale, «l’Ifil ha gestito l’azienda con molta disinvoltura, mettendo
ai posti di comando persone senza competenze in materia. Si
crearono così le premesse per l’arrivo dei successivi predatori…».
Come presidente venne nominato l’avvocato Guido Rossi, che
zienda era guidata dalla illuminata visione di Ernesto Pascale,
uomo che apparteneva a quella tanto odiata specie che alcuni de-
finivano dei «boiardi di Stato». Durante la direzione di Pascale,
oltre alle partecipazioni estere, fu avviato il «progetto Socrate»,
sul quale io feci la mia tesi di laurea, progetto bloccato imme-
diatamente dopo la privatizzazione perché troppo costoso e po-
co consono alle ambizioni di guadagno degli azionisti di con-
trollo. Socrate, mai nome fu più azzeccato, avrebbe dovuto por-
tare la fibra ottica in venti milioni di abitazioni con dieci anni di
anticipo rispetto agli altri Paesi europei. E pensare che oggi, con
un ritardo di 20 anni, non è ancora chiaro come realizzare un
progetto simile. «Ernesto Pascale può essere definito come l’En-
rico Mattei delle telecomunicazioni […]», aggiunge nella sua in-
tervista l’ingegner Gamberale, «era contornato da manager pro-
fessionalmente molto validi che appartenevano a una grande tra-
dizione di ingegneri elettronici, figli di quell’italianissimo Meuc-
ci che guarda caso inventò il telefono». Negli anni Novanta lo
stato di salute dell’azienda era così florido che c’era addirittura
un piano per l’acquisto di una quota maggioritaria di Telefónica.
«All’epoca Telefónica era molto indietro», ricorda Umberto De
Julio, ex ad di Tim nel 1998, «noi eravamo all’avanguardia mon-
diale e con risorse sufficienti per permetterci di comprare parte-
cipazioni di qualsiasi azienda».
Cosa direbbero quei «boiardi di Stato» se sapessero che dieci
anni dopo gli spagnoli di Telefónica sarebbero entrati nel grup-
po di controllo di Telecom Italia?
Dopo la privatizzazione si registrò un vero e proprio esodo
delle competenze. Venne smantellata tutta quella fascia di diri-
genti pubblici di vecchia scuola che oggi si potrebbe chiamare
dei «Pascale boys», per essere rimpiazzata da una nuova schiera
di «intelligenze» finanziarie al soldo dei nuovi padroni. Secondo
Gamberale una grandissima responsabilità l’avrebbero avuta an-
che i giornalisti economici. A parte pochi, quasi nessuno si in-
tendeva di economia, e tantomeno di telecomunicazioni, ma il
loro bersaglio erano i cosiddetti «boiardi di Stato». Gli organi di
20 febbraio 1999, quando il manager mantovano, anticipando
tempestivamente di un giorno il cda di Telecom, annuncia un’of-
ferta pubblica di acquisto (Opa)11
, sul 100% delle azioni Tele-
com attraverso la Tecnost, società controllata dalla Olivetti. A
questo punto la velocità delle operazioni diventa fondamentale.
Nelle offerte pubbliche di acquisto chi fa la prima mossa ha un
vantaggio enorme poiché scatta la clausola denominata «passi-
vity rule», regola che impone al management della società sotto-
posta a Opa di non mettere in atto delibere societarie pregiudi-
ziali al buon esito della stessa.
La sera del 20 febbraio arriva puntuale la risposta di Telecom,
preparata da Bernabè con l’aiuto dell’avvocato Guido Rossi. La
maggiore società telefonica italiana giudica non valida l’offerta
lanciata da Olivetti, sostenendo che l’Opa sarebbe condizionata
alla vendita di Omnitel e Infostrada e che le obbligazioni Tecno-
st non avrebbero potuto essere impiegate in un’Opa perché non
quotate in Borsa. La Consob, il lunedì successivo, al termine di
una lunga riunione, accoglie le riserve avanzate da Telecom di-
chiarando l’invalidità dell’offerta di acquisto. Ma Telecom com-
mette la leggerezza di sottovalutare il progetto di Colaninno. «In
pratica Telecom ebbe a disposizione due giorni pieni, lunedì e
martedì, per attuare una manovra difensiva che avrebbe potuto
impedire o almeno ostacolare la nostra offerta», scriverà poi Co-
laninno ricordando quell’episodio nel libro Primo tempo. «Tele-
com riunì il suo consiglio solo il giovedì, ma non prese nessuna
delle decisioni che noi temevamo […]. Il giorno successivo, ve-
nerdì 26 febbraio, la Consob accolse le nostre rettifiche: l’Opa
era valida. Da quel momento Telecom era bloccata, non poteva
far più niente per difendersi». Singolare è il tempo di risposta
della Consob, che dà il suo benestare definitivo ad appena quat-
tro giorni dalla prima bocciatura, nonostante Colaninno abbia
poi ammesso che «il testo dell’Opa, è vero, presentava alcune
debolezze, ma fummo costretti ad accelerare i tempi a causa del-
le voci crescenti sul mercato e per timore che Telecom antici-
passe eventuali azioni di difesa». In sintesi, il piano di acquisto
però dopo qualche mese si dimise. Venne sostituito da Gian Ma-
ria Rossignolo, con una stagione tanto breve (dieci mesi), quanto
discussa. A lui, salutato con una liquidazione di 10 miliardi di li-
re (in pratica un miliardo al mese), nel novembre 1998 subentrò
Franco Bernabè. Il nuovo manager non ebbe neanche il tempo di
rendersi conto della situazione, che in capo a due mesi comincia-
rono a circolare voci sulla scalata da parte di un gruppo privato
di imprenditori capeggiati da Roberto Colaninno.
La scalata di Colaninno: «Ma lei ce li ha i soldi?»
La carriera del ragionier Colaninno, un mantovano cinquanta-
cinquenne di origine pugliese, inizia negli anni ’60 nella Fiaam
Filter Spa, azienda di Mantova produttrice di filtri per auto che
in vent’anni riesce a imporsi come una delle principali aziende
del settore. Il successo ottenuto suscita l’interesse della Olivetti,
che nel 1996 lo nomina amministratore delegato, con il compito
di traghettare l’azienda nel mondo della telefonia con Omnitel e
Infostrada. Lo scaltro ragioniere è molto pratico di affari perché
riesce a potenziare la rete di Infostrada comprando la rete te-
lefonica delle Ferrovie dello Stato per 750 miliardi di lire per poi
rivendere Infostrada e Omnitel un anno dopo a 15mila miliardi
di lire. Quale genio fece il calcolo della rete pubblica delle Fer-
rovie? A chiederselo, ancora oggi, sono in molti.
Con il sostegno delle banche d’affari Chase Manhattan e Leh-
man Brothers e con la presenza di un gruppo affiatato di im-
prenditori bresciani guidati da Emilio Gnutti, Colaninno piani-
fica la scalata Telecom fin dal 1998. A fine gennaio 1999 inizia-
no infatti i primi movimenti speculativi sul titolo Telecom, che
hanno il loro culmine la mattina del 19 febbraio, quando il con-
trovalore dei titoli scambiati in borsa ammonta a 1.700 miliardi.
La cifra è così alta da destare il sospetto di operazioni di aggio-
taggio e tale da suscitare l’interesse della Consob10
sulle reali in-
tenzioni del gruppo di Ivrea. La scalata diventa ufficiale sabato
100mila miliardi di lire così finanziato: il 15% dalla vendita dei
gioielli di famiglia Omnitel e Infostrada, il 5% da un aumento di
capitale della Olivetti, il 40% dai prestiti dei banchieri della
Chase, e il rimanente 40% da un abile gioco finanziario di con-
versione delle azioni in obbligazioni e azioni della Tecnost, la
scatola vuota attraverso il quale la Olivetti contrae il debito per
acquistare la Telecom. Praticamente, l’idea è far pagare l’Opa
agli stessi azionisti Telecom. Infatti, solo il 20% delle azioni ver-
rebbe comprato con denaro fresco, mentre il restante 80% del-
l’Opa ricadrebbe indirettamente sull’azienda a causa dei debiti
contratti dagli acquirenti. Dello stesso avviso è Il «Financial Ti-
mes», che definirà l’operazione di conversione delle azioni «una
rapina in pieno giorno»13
. Il piano di Colaninno è infatti chiaris-
simo fin dall’inizio: una sorta di leveraged buyout mascherato,
un’arma di distruzione del mercato che impedisce lo sviluppo e
la crescita. Attraverso questa operazione di origine anglosassone,
tradotta in italiano con «fusione a seguito di acquisizione con in-
debitamento», una società che si indebita per comprarne un’al-
tra ha la possibilità di fondersi con la controllata utilizzando il
patrimonio di quest’ultima a garanzia del pagamento dei debiti.
In sostanza: una scatola vuota creata dal nulla può acquistare a
debito una vera società, definita «target» o «bersaglio», scari-
cando su quest’ultima il debito. E il buon esito dell’operazione
dipende dalla capacità di ripagare il debito, non con i mezzi del
debitore principale, ma attraverso il flusso di cassa e il patrimo-
nio della società bersaglio.
Fino al 2003 sulla legittimità di tale tecnica la disciplina giuri-
dica afferma chiaramente che la fattispecie costituirebbe un ag-
giramento dell’art. 2358 del Codice civile che vieta la concessio-
ne di garanzie sull’acquisto delle proprie azioni. Ma per i «capi-
tani coraggiosi» il problema non è così determinante, perché an-
che senza fusione il peso dell’Opa sarebbe ricaduto in ogni caso
su Telecom. Tutte le gestioni industriali avrebbero risentito in-
fatti della riduzione degli investimenti in favore dei dividendi,
per mezzo dei quali gli azionisti di controllo avrebbero pagato le
della più grande azienda italiana, nel quale – come ammette lo
stesso Colaninno – mancava persino la data di inizio, viene li-
quidato dalla Consob con il tempo record di una manciata di
giorni. Un tempo incredibilmente breve, se paragonato alla len-
tezza del nostro sistema politico e burocratico. Inoltre, rimango-
no ancora molti dubbi sulla validità legale dell’Opa, che avreb-
be eluso senza problemi l’articolo 2358 del Codice civile: «Una
società non può fornire garanzie (patrimoniali, economiche e fi-
nanziarie) per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni proprie».
Quando nel nostro caso il ricco patrimonio di Telecom (immo-
bili, partecipazioni, infrastrutture…) avrebbe costituito proprio
la garanzia per la buona riuscita di un’Opa vincolata da un enor-
me prestito bancario.
Poco dopo il 20 febbraio 1999, ora zero per il lancio dell’Opa,
Colaninno viene ricevuto a Palazzo Chigi dal premier Massimo
D’Alema e dal ministro dell’Industria Pierluigi Bersani. Incassa
reazioni soddisfatte e un rassicurante «ci rimettiamo al merca-
to». Appoggio che D’Alema confermerà dichiarando di apprez-
zare l’audacia dei «capitani coraggiosi». «Consentitemi, allo sta-
to delle cose, di apprezzare il coraggio di persone che vogliono
gestire l’impresa», avrebbe esclamato in proposito l’allora capo
del governo, aggiungendo: «Abbiamo offerto un gioiello pubbli-
co e non sono stati capaci di comprarlo. È stato un evento scon-
certante, si è dovuti andare a chiedere per piacere che qualcuno
si comprasse lo 0,6%. Spaventa che in questo Paese non ci sia
qualcuno che abbia la voglia o il coraggio di affrontare questo ti-
po di sfide»12
. Qualche giorno dopo, il manager mantovano in-
contra Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca ministro del Tesoro, il
quale si mostra meravigliato della possibilità che l’Olivetti possa
essere in grado di sopportare da sola il peso della scalata: «Ma lei
ce li ha i soldi?», chiede appunto il futuro Presidente della Re-
pubblica. Il problema dei soldi è l’aspetto più critico. Non pos-
sono essere certo sufficienti le risorse del gruppo di azionisti bre-
sciani per comprare un colosso che vale più di cinque volte l’a-
zienda di Ivrea. Il piano prevede infatti un’Opa del costo di
dove non si parla l’inglese», commenta Guido Rossi. «Siamo in
democrazia, non siamo qui a prendere schiaffi. Il governo si è ca-
strato della possibilità di avere diritto di voto: è un fatto grave,
gravissimo»15
.
La notte prima dell’assemblea passa alla storia come «la notte
dei lunghi coltelli di Telecom Italia», notte che Alessandro Fo-
gliati, dirigente Stet e presidente della prima associazione di di-
pendenti azionisti, ricorda ancora con molta amarezza: «Dopo
che venne convocata l’assemblea dei soci per le misure antisca-
lata iniziò la moral suasion del governo. La sera precedente l’as-
semblea ero in riunione con Bernabè a Roma (aveva convocato i
rappresentanti delle otto associazioni di dipendenti azionisti al-
lora in attività): abbiamo chiaramente percepito lo sgomento di
Bernabè, e quindi il nostro, che veniva via via chiamato al te-
lefono da personaggi importanti che preannunciavano la loro as-
senza in assemblea. Ad ogni chiamata Bernabè impallidiva e riat-
taccando mormorava con voce dismessa “Anche questo mi ha
dato una pugnalata alle spalle”».
Negli affannati giorni dell’Opa, Gad Lerner scrive su «la Re-
pubblica» un articolo citando un presunto sfogo, mai smentito, di
Franco Bernabè nei confronti del premier. «Saranno centinaia di
migliaia, domani, gli italiani che correranno a comprare in Borsa
i titoli del grande affare che tu, D’Alema, hai magnificato. Un er-
rore catastrofico. Dopo il boom, puntuale, verrà il crollo. La con-
quista di Telecom da parte di Olivetti si rivelerà per quello che è,
una bolla di sapone. Le banche d’affari ci avranno guadagnato un
mucchio di soldi, ma sul terreno resteranno migliaia di cadaveri.
Tutti sul conto del governo di Sinistra, colpevole di aver sponso-
rizzato un’operazione inconsistente, senza uguali dai tempi di
Sindona. Sì, di Sindona. Perché almeno Gardini quando scalava
la Montedison ci metteva 2-3mila miliardi di tasca sua»16
.
E i leader dell’opposizione? Silvio Berlusconi in una riunione
della Camera di commercio italo-britannica a Londra si pronun-
cia in termini positivi sull’iniziativa di Olivetti. Tra gli altri, an-
che Umberto Bossi plaude alla «cordata padana».
rate del debito. In sintesi: rinunciare allo sviluppo e all’innova-
zione per arricchire le banche. Possibile che le istituzioni non
avessero capito quello che stava succedendo nel nostro Paese? O
è più probabile che fossero le banche a governare le istituzioni?
L’offerta dell’Opa è molto alta, perché nel momento della bol-
la speculativa della new economy il valore delle azioni è al mas-
simo. Molti gruppi azionari, attratti dalle plusvalenze, sembrano
gradire l’offerta della Olivetti a 11,5 euro ad azione (6,9 in con-
tanti e il resto in obbligazioni e azioni della scatola Tecnost). Me-
glio scappar via subito e incassare, pensano in tanti. In casa Te-
lecom intanto continuano le contromosse e il 10 marzo Bernabè
annuncia la tanto attesa strategia difensiva. Il piano prevede
un’offerta pubblica di scambio di azioni ordinarie Telecom Ita-
lia di nuova emissione contro azioni Tim e la conversione delle
azioni di risparmio Telecom in ordinarie. La fusione con Tim è
una mossa che manderebbe alle stelle il prezzo delle azioni Tele-
com, poiché i flussi di cassa del mobile sono ingenti. Ma la deli-
bera deve essere approvata nell’assemblea degli azionisti fissata
per il 10 aprile a Torino, un appuntamento in cui Bernabè avreb-
be assoluto bisogno del 30% del capitale. Ma, nonostante la
grande campagna mediatica che chiama a raccolta tutti gli azio-
nisti, l’assemblea si trasforma per Telecom in una grande disfat-
ta. A Torino si presenta solamente il 23% del capitale. Chi man-
ca all’appello? Il Tesoro con il 3,5% delle azioni e il Fondo pen-
sioni con il 2,4%, seguiti da altri investitori istituzionali. Ovvero
mancano gli azionisti pubblici che avrebbero potuto avvalersi
della golden share per bocciare L’Opa. «Il direttore generale del
Tesoro è Mario Draghi, futuro governatore di Bankitalia», scrive
Peter Gomez. «Vorrebbe partecipare all’assemblea. Ma D’Ale-
ma gli ordina di astenersi. Il ministro Ciampi si allinea. Draghi
allora chiede al premier di mettere il suo ordine nero su bianco.
D’Alema prende carta e penna e invia al Tesoro una lettera d’in-
dirizzo attorno alla quale nasce un giallo: il documento scompa-
re in seguito dagli uffici del ministero»14
. Un comportamento che
non passa inosservato. «Palazzo Chigi è l’unica merchant bank
poca poco più di un sito Internet con alcuni mesi di vita, viene
acquistato per la cifra record di 650 milioni di euro. Nel 2002 il
suo valore in bilancio viene azzerato.
L’operazione Seat Pagine Gialle è una delle vicende più singo-
lari della gestione Colaninno. Nel 1996 le Pagine Gialle appar-
tengono alla Stet, la holding pubblica che controlla Telecom. Sa-
rebbe logico integrare gli elenchi telefonici con la Telecom, ma
nel 1997 il ministero del Tesoro rileva le Pagine Gialle dalla Stet
e decide di metterle in vendita. Nel novembre 1997 si presenta
una cordata di imprenditori denominata Ottobi, «i magnifici ot-
to», che rileva il 61% della società per 860 milioni di euro, poi-
ché Il Tesoro, sotto la guida della Lehman Brothers, valuta l’in-
tera società un miliardo e mezzo di euro. La Ottobi è un’entità
partecipata a sua volta da un intricato sistema di scatole, di cui
alcune locate in paradisi fiscali come la Investitori Associati II,
con sede a Madeira, che detiene il 4% della Ottobi. Questa sca-
tola a sua volta è posseduta al 40% dalla Hopa di Colaninno e
Gnutti. Alla cordata Ottobi partecipa anche Telecom Italia con
il 21% delle azioni (pari a circa il 13% di Seat Pagine Gialle).
Ma la magia si realizza nel 2000, quando i «capitani coraggio-
si», alla guida di Telecom da un anno, per avere il controllo del
50% delle Pagine Gialle decidono di rilevare dalla Ottobi il
37% alla cifra record di 6,7 miliardi di euro. In pratica, dopo 30
mesi, l’azienda viene valutata 18,6 miliardi di euro (13 volte di
più di quanto l’aveva valutata il Tesoro nel 1997). La plusvalen-
za di questo «affare colossale»17
è tale da beneficiare una cerchia
di fortunatissimi imprenditori tra i quali l’ad Lorenzo Pellicioli
con 85 milioni di euro e la Hopa di Colaninno e Gnutti con 125
milioni di euro confluiti nel paradiso fiscale di Madeira. «È tut-
to assolutamente regolare e trasparente», commentano gli azio-
nisti, poiché la partecipazione di Hopa in Ottobi era anteceden-
te all’Opa. Sì, ma la valutazione stratosferica di Seat Pagine Gial-
le chi la fece?
Nel bilancio del 2000 gli utili lordi di Seat Pagine Gialle am-
montano a 140 milioni di euro, ai quali vanno sottratti interessi
Alla fine dell’Opa, il gruppo Olivetti riesce a comprare il 51%
delle azioni per 61mila miliardi di lire, una cifra finanziata per un
terzo da capitale proprio e per due terzi attraverso debito (circa
29mila miliardi di lire, equivalenti a 15 miliardi di euro) e con-
versione delle azioni Telecom in obbligazioni e azioni della Tec-
nost (la società che ha contratto il debito per l’Opa).
Da questo momento inizia una nuova storia per l’azienda. Il
concetto di impresa capace di perseguire obiettivi di servizio e
innovazione viene progressivamente soffocato e condizionato
dagli obiettivi individuali del gruppo di controllo. il debito che
ricade sugli azionisti di controllo per l’acquisto dell’azienda si ri-
versa sull’azienda stessa inducendo a delle gestioni rivolte essen-
zialmente al taglio dei costi e alla rinuncia degli investimenti. «È
un po’ come comprare a debito un ospedale tagliando la corren-
te elettrica per pagare le rate del mutuo», commenta Gambera-
le. Contemporaneamente inizia il carosello delle scatole finan-
ziarie: Colaninno controlla al 51% una società fantasma, la Ho-
pa, che controlla il 56% di un’altra entità chiamata Bell, la qua-
le controlla il 13,9% di Olivetti, la quale a sua volta controlla il
70% di Tecnost, che controlla il 51% di Telecom. In pratica, Co-
laninno e i suoi controllano Telecom detenendo l’1,5%.
Gli azionisti di controllo qualche buon risultato lo mettono a
segno, soprattutto grazie al potenziamento delle attività interna-
zionali. A lasciare perplessi sono però alcune operazioni a dir
poco inefficienti, quali l’acquisto di Seat Pagine Gialle, l’acqui-
sto del portale brasiliano Globo e la svendita della prima metà
del patrimonio immobiliare.
L’intera operazione Pagine Gialle è costata nel 2000 circa 9
miliardi di euro. Nel 2003 Telecom esce da Seat ricavando dalla
vendita 3 miliardi con una perdita netta di 6 miliardi di euro. A
questi andrebbero aggiunti altri 3 miliardi di euro di mancati ri-
cavi derivanti dalla vendita di una parte del patrimonio immobi-
liare dell’azienda. Secondo una simulazione effettuata con la
Asati, gli immobili dismessi sarebbero stati ceduti a meno della
metà del loro valore di mercato. Mentre il portale Globo, all’e-
qualsiasi ipotesi di azionariato diffuso. La soluzione più efficien-
te sarebbe stata quella di cedere quote agli oltre 100mila dipen-
denti per mezzo di piani azionari a medio e lungo termine. Gli
errori che sono stati fatti in seguito sono, in parte, anche una
conseguenza di quello sbaglio inziale. In un clima di ottimismo
generale che precedeva la bolla della new economy, a mio avvi-
so, è mancata la capacità critica di analizzare le conseguenze del-
l’Opa. Chi sperava che D’Alema avesse beneficiato economica-
mente o politicamente di quella scalata è stato sempre smentito
dai fatti; credo piuttosto che il premier non si rendesse realmen-
te conto della situazione. L’ottimismo, l’incompetenza tecnica e
la presunzione di non interferire in un mercato liberalizzato da
pochi anni, hanno portato i Ds a commettere l’errore di non
prendere posizione contro gli imprenditori bresciani. Colaninno
era visto dalla Sinistra come l’uomo nuovo del capitalismo italia-
no, quel «capitano coraggioso» che dopo i successi di Omnitel e
Infostrada avrebbe rilevato dalla Fiat il timone di Telecom. D’al-
tronde bisogna riconoscere che aveva effettuato un’offerta pub-
blica alla luce del sole, mentre i successivi gruppi di controllo,
Telefónica compresa, scaleranno l’azienda attraverso accordi pri-
vati e segreti.
All’epoca c’era la speranza e l’illusione che qualsiasi forma di
governance privata fosse comunque migliore di quella pubblica.
L’errore grave, a mio avviso, è stato questo. Ma non è certamen-
te l’unico, dato che prima dell’avvento del governo Berlusconi
nel 2001 Telecom era ancora un’azienda viva. Cinque anni dopo
si ritroverà definitivamente spremuta, divorata e spolpata.
Sopra la banca la casta campa, sotto la banca l’azienda crepa
Dopo due anni, i «capitani coraggiosi», non potendo più sop-
portare il peso del debito e le numerose pressioni politiche, so-
no costretti a passare la mano. Nel 2001 arrivano Pirelli e Be-
netton che, comprando il 23% della Olivetti, assumono il con-
passivi, tasse e ammortamenti. Nella migliore delle ipotesi, anche
prendendo come riferimento un utile netto di 100 milioni di eu-
ro, non basterebbero neanche 180 anni per recuperare l’investi-
mento iniziale di chi ha acquistato l’azienda valutandola in tota-
le 18,6 miliardi di euro (100 milioni per 180 anni equivalgono a
18 miliardi). Numeri da new economy o da fantascienza?
Anche in seguito a questa operazione il debito aziendale – da
non confondere con quello degli azionisti per l’Opa – sale da 8
a 22 miliardi di euro. Ai quali si aggiungono i 15 miliardi del-
l’Opa che, seppure indirettamente, gravano sull’azienda.
Per coprire gli interessi passivi, i «capitani coraggiosi» avreb-
bero pensato persino di vendere delle quote azionarie della con-
trollata Tim. Più discutibili sembrerebbero invece alcune voci
che li vedrebbero minacciare D’Alema prospettando il licenzia-
mento di migliaia di dipendenti per far quadrare i conti.
A questo punto è d’obbligo una domanda che aspetta una ri-
sposta da circa quindici anni: perché un governo di Sinistra non
si oppose alla vendita della più importante azienda del Paese,
che finì nelle mani di un gruppo di imprenditori privati, mossi
principalmente da ambizioni di guadagno? Qualcuno parlò di
salotti buoni della finanza. «I Ds volevano scrollarsi di dosso l’e-
tichetta di partito operaio», mi ha detto l’onorevole Silvio Sirca-
na, all’epoca consigliere di Prodi. «Era come se avessero un
complesso nei confronti di tutti gli altri partiti che avevano sem-
pre governato. Volevano allargare i consensi e trovare nuove al-
leanze. In quegli anni ragionavano alla stessa maniera dei parve-
nu che volevano scalare le aziende: ovvero dando fiducia al pri-
mo imprenditore arrivato dal nulla con una Maserati…».
Al riguardo vorrei però precisare alcune cose, per sfatare quel-
le voci che sono andate ad alimentare la categoria dei falsi miti.
Il più grande errore fu commesso all’inizio del processo di pri-
vatizzazione, perché prima dell’Opa l’azienda era gestita da un
agglomerato di soci che poco o nulla sapevano di telecomunica-
zioni. Il peccato originario fu compiuto dal governo Prodi, nel
privatizzare l’azienda in quel modo, facendo in pratica decadere
Questo processo di riduzione del debito continua anche nei due
anni successivi portando l’onere a 25 miliardi, ma svuotando di
fatto l’azienda di tutto il patrimonio immobiliare e della maggior
parte delle partecipate estere.
Arrivati a questo punto, tutto avrebbe fatto pensare che con
questo ennesimo sacrificio l’azienda fosse stata finalmente pron-
ta per una nuova fase di rilancio industriale. Il peccato originale
di una privatizzazione nefasta sarebbe stato espiato e la fase di
purgatorio sarebbe finita. Non è andata così. Alla fine del 2005,
quasi per ironia della sorte, avviene l’ennesima schizofrenia fi-
nanziaria. Attraverso un’Opa da 15 miliardi di euro Telecom ac-
quista le azioni minoritarie della già controllata Tim, facendo lie-
vitare il debito netto oltre i 40 miliardi (circa il 133% del fattu-
rato). L’operazione lascia ancora molti dubbi. Perché indebitar-
si ulteriormente per comprare azioni di una società controllata?
Una cosa è certa: chi ci avrebbe guadagnato se non le banche e
gli speculatori? L’operazione mi fa venire in mente il mitico
Maxistecco/Maxibon della Motta, il gelato al doppio gusto di
crema e cacao che andava tanto di moda nelle spiagge italiane
degli anni ’90, quello con la pubblicità di Stefano Accorsi che di-
ceva «Du gusti is mejo che one…». E con questa nuova ed en-
nesima alchimia finanziaria il debito diventa talmente grande da
segnare il destino dell’azienda.
L’inefficienza assoluta di tutte queste operazioni finanziarie
(Figura 3, p. 26) è dimostrata dal fatto che dal 1999 al 2005 il fat-
turato rimane pressoché costante mentre il debito aumenta del
650%. Secondo la logica economica, un’azienda si indebita per
effettuare nuovi investimenti, per comprare nuove partecipate
estere, per realizzare nuove infrastrutture o per incrementare il
suo organico. Nel nostro caso si assiste invece a uno spaventoso
aumento del debito con un contemporaneo depauperamento di
risorse e beni strumentali.
Allora il lettore si chiederà: ma se gli azionisti di controllo
compiono operazioni inefficienti e sprecano risorse, prima o poi
non ne risentiranno pure loro? Certamente sì, secondo logica,
trollo dell’ex monopolista telefonico. I nuovi proprietari guidati
dal presidente Marco Tronchetti Provera pagano 4,17 euro per
azione, una cifra enorme, considerando che le Olivetti quotava-
no poco più della metà. L’operazione risulta indispensabile per
avere il controllo dell’azienda, perché se la Pirelli avesse effet-
tuato un’Opa diretta su Telecom avrebbe speso molto di più. E
forte di questa straordinaria plusvalenza la squadra padana si ri-
tira appagata dalla bella esperienza. Nei cinque anni che seguo-
no si assiste però a un progressivo declino dell’azienda. A carat-
terizzarlo sono nuove alchimie finanziarie e una singolare gestio-
ne caratterizzata da scandali e indagini giudiziarie.
Nel 2003, la normativa che regola i processi di acquisizione si
muove nella stessa direzione degli «scalatori». Sarà un caso? Con
la riforma del diritto societario, la disciplina giuridica si ammor-
bidisce nei confronti del leveraged buyout, che grazie all’articolo
2501 del Codice civile diventa pienamente consentito, a condi-
zione di un piano approvato da esperti «indipendenti». La Pi-
relli ne approfitta per accorciare la catena di controllo fondendo
Telecom con la Olivetti, già fusa con la Tecnost nel 2000. Lo sco-
po è accedere direttamente agli utili, grazie anche all’aumento
dello sgravio fiscale del debito. Maggiori interessi passivi diretti
equivalgono a meno imposte da pagare, ma così facendo Tele-
com si accolla direttamente il debito dell’Opa. La fusione ha
inoltre un costo addizionale: altri 9 miliardi presi in prestito dal-
le banche per realizzare tutta l’operazione. In poche parole, la
fusione del 2003 indebita l’azienda di altri 9 miliardi oltre ai 15
dell’Opa. A questi si sommano i 22 (poi scesi a 18) lasciati in ere-
dità dalla gestione Colaninno. Per un totale di 42 miliardi.
In seguito a operazioni di vendita di immobili, cessione di par-
tecipazioni estere e tagli di personale, alla fine del 2003 il debito
dell’azienda ammonta a 33 miliardi. Un risultato che gli analisti
di Pirelli definiscono eccellente se confrontato con i 37 lasciati in
eredità dalla gestione Colaninno (22 dalla gestione industriale e
15 dell’Opa). Peccato che per contenerli l’unica strategia sia sta-
ta il taglio del personale e la dismissione degli asset strategici.
facesse, danneggerebbe di fatto se stesso. Se invece l’imprendi-
tore avesse una piccola quota del capitale, ad esempio il 10%,
potrebbe trovare vantaggioso farsi gli affari propri e spolpare in
qualche modo l’azienda; i benefici sarebbero suoi e l’onere rica-
drebbe per il 90% a carico degli altri soci.
Il risultato di questi intricati giochi finanziari è la confisca del-
la funzione imprenditoriale da parte di signori che hanno ri-
schiato poco o nulla, ma che hanno lo stesso potere di un pa-
drone che avendo investito il 90% del capitale possiede la fa-
coltà di controllare indisturbato l’azienda realizzando i propri
interessi personali.
Ma se un capitalista compie azioni inefficienti avendo investi-
to, ad esempio, lo 0,02% del valore dell’azienda, come si com-
porterà il restante 99,98%?
Per rispondere alla domanda occorre fare una distinzione tra
azionisti di controllo, azionisti istituzionali e piccoli azionisti. I
primi detengono il controllo dell’azienda con una quota di azio-
ni che a volte può essere molto piccola. Gli azionisti di control-
lo, generalmente appartenenti a gruppi industriali o banche, in-
vestono anche con mezzi propri, sostenendo il rischio dell’atti-
vità imprenditoriale, ma questi mezzi sono ridicoli se confronta-
ti con i benefici derivanti dalla gestione di una grande azienda.
La perdita di valore del titolo può essere compensata da opera-
zioni vantaggiose quali: il riconoscimento di stipendi, bonus e li-
quidazioni milionarie; l’acquisto o la vendita di asset strategici a
prezzi di favore o semplicemente il potere politico e mediatico
che si guadagna all’interno del «capitalismo relazionale».
Gli azionisti istituzionali sono prevalentemente costituiti da
banche e fondi di investimento esteri. Per questo tipo di investi-
tori che non detengono il controllo dell’azienda, lo scopo prin-
cipale è quello di far circolare il denaro, concedere prestiti e in-
tascare gli interessi. Per una banca non è così trascendentale il
buon esito dell’attività industriale poiché in qualsiasi caso il mag-
gior guadagno è costituito dal movimento finanziario stesso. L’a-
zionista istituzionale, la banca per eccellenza, può anche per-
ma la vera risposta dipende dalle modalità con le quali i gruppi
industriali acquistano le partecipazioni azionarie. L’oramai noto
gioco delle «scatole cinesi» consente a un gruppo ristretto di
azionisti, con una piccola quota, di controllare la gestione del-
l’intera impresa senza rischiare nulla di proprio. Se aggiungiamo
che tali quote vengono acquistate facendo ricorso al debito, è fa-
cile capire che il capitale investito dai controllori è ben poca co-
sa rispetto al valore complessivo delle aziende.
Marco Tronchetti Provera è un particolare tipo di capitalista che
riesce a essere tale senza aver comprato nemmeno un’azione di Te-
lecom. A investire è stata Pirelli, attraverso Olimpia, una società al
cui capitale partecipano i Benetton e le grandi banche Intesa e Uni-
Credit. Tronchetti in società con i figli è semplicemente il padrone
della Marco Tronchetti Provera & C., una accomandita per azioni
non quotata in Borsa il cui capitale sociale è di 16 milioni di euro.
Questa società possiede una scatola, anch’essa non quotata, la Gpi,
alla quale fa capo la Camfin, una piccola società quotata in Borsa,
la quale ha in portafoglio il 29,9% della Pirelli & C., che a sua vol-
ta controlla il 38% di Pirelli Spa, anch’essa quotata in Borsa e chia-
mata «Pirellona». La Pirellona detiene il 60% di una scatola non
quotata, la citata Olimpia che possiede il 23% della Olivetti, che
con il 51% controlla Telecom. Una struttura societaria complessa?
Con la modica somma di 16 milioni di euro, l’accomandita tron-
chettiana riesce a controllare un gigante telefonico che nel 2001 ha
un valore di mercato di 90 miliardi di euro. Tronchetti con un eu-
ro di suo ne muove oltre 5mila di capitale altrui. Se un maremoto
cancellasse l’ex monopolio telefonico dalla faccia della Terra, la fa-
miglia Tronchetti parteciperebbe alla perdita nella misura dello
0,02%, pari a un cinquemillesimo del totale. Ne possiamo dedur-
re che la responsabilità patrimoniale del capitalista Tronchetti ver-
so l’azienda è vicina allo zero a fronte di benefici enormi.
Questo sistema di governance non può certo giovare alla gran-
de impresa perché un imprenditore che detiene direttamente
una larga quota del capitale sociale, poniamo il 70%, non avreb-
be grande convenienza a compiere operazioni inefficienti: se lo
Per non essere da meno rispetto agli altri grandi del capitali-
smo italiano, insieme a Moratti si lancia nel progetto di far rina-
scere una «grande» Inter, per molti anni oscurata dai fasti del
Milan di Berlusconi e della Juve dell’avvocato Agnelli. A suggel-
lo di tale vincolo di sangue con i colori nerazzurri, sponsorizza
da anni la squadra attraverso la Pirelli e siede dal 2001 al 2006
nel cda di Telecom insieme al suo amico Massimo Moratti, pre-
sidente dell’Inter; mentre l’ex ad e vicepresidente di Telecom
Carlo Buora occupa la poltrona di vicepresidente del club ne-
razzurro. Una singolare combinazione in concomitanza del cam-
pionato 2005-2006, in cui viene assegnato a tavolino lo scudetto
all’Inter in seguito al coinvolgimento di arbitri e dirigenti juven-
tini in operazioni poco trasparenti, come emerso dalla pubblica-
zione di alcuni atti, compresi colloqui telefonici.
La sua entrata in Telecom è preceduta dall’acquisto di un aereo
privato, battezzato «Telecom One». Forse per emulare l’Air For-
ce One del Presidente degli Stati Uniti? «Nell’agosto 2001», rac-
conta Vittorio Nola, ex segretario generale del cda di Telecom,
«l’ad Enrico Bondi affida a me e ad altri due colleghi una procu-
ra speciale per acquisire in leasing un Falcon 900 con la livrea
bianca e rossa, cioè i colori della società. Guardi, ancora conser-
vo la foto come una reliquia. Nel 2002, con l’avvento della piena
gestione Pirelli in Telecom, al comandante della Servizi Aerei (so-
cietà di gestione del leasing aeronautico) fu richiesto di ridipin-
gere la livrea con i colori nero-azzurri…». Passioni sportive a par-
te, il presidente si mostra sempre sicuro di sé, mai un dubbio,
un’esitazione o un timore, anche quando rilascia interviste. Stori-
ca resta nel 2008 una sua presenza al Tg1 delle 20, in qualità di
esperto di problemi economici, dove alla domanda: «Cosa biso-
gna fare per uscire dalla crisi?», risponde: «Bisogna aumentare i
salari e avere più ore lavorate e più gente che lavori, soprattutto
donne… e abbiamo bisogno di investire in ricerca e formazio-
ne…». A confermare che tra i buoni propositi e la realtà c’è una
bella differenza, si deve notare che durante la sua presidenza in
Telecom l’organico italiano è stato ridotto di 22.396 unità e non
mettersi delle perdite poiché il denaro che muove non è quello
dei suoi direttori ma quello dei piccoli risparmiatori. Poco im-
porta dunque se il titolo sale o scende, l’importante è a fine se-
rata sedere alla stessa mensa degli azionisti di controllo.
Ci sono infine i piccoli azionisti: una miriade polverizzata di
piccoli risparmiatori, troppo piccoli, scomodi e disorganizzati.
Per loro non ci sono benefici speciali. L’unica conseguenza alle
politiche inefficienti è la perdita di ricchezza derivante dal crol-
lo del titolo in Borsa.
Alla luce di questa analisi non stupirà più di tanto sapere che
il debito di un’azienda sana sia cresciuto in pochi anni del 650%,
contemporaneamente alla espoliazione di gran parte dei suoi as-
set strategici. E, come se non bastasse, a questa ardita gestione
finanziaria si è accompagnata una gestione operativa che, duran-
te la presidenza di Marco Tronchetti Provera, è diventata a dir
poco grottesca.
Il Tronchetto dell’infelicità
Prima ancora di preparare l’assalto a Telecom, il bel tenebro-
so del capitalismo italiano viene definito dal «Financial Times»
«il nuovo Agnelli». Negli anni ’90 i mass media hanno confezio-
nato per lui l’immagine dell’imprenditore gentiluomo, affasci-
nante ed elegante, il classico italiano invidiato da tutti, persino
dai salotti buoni della finanza mondiale. A beneficio dei poten-
ziali imitatori, il settimanale «Panorama» ha elencato persino i
particolari del suo stile: camicie Loro Piana, abito Caraceni, cra-
vatta Marinella, orologi Piguet Royal Oak o Millennium, scarpe
Tod’s e persino il taglio del barbiere Colla a Milano. Un tipo
sportivo e amante del calcio. La domenica, puntualmente sugli
spalti, viene infatti inquadrato e si fa intervistare. Diventa l’ico-
na del tifoso aristocratico, sempre composto e signorile. Mai un
gesto o un improperio contro l’arbitro e mai un’esultanza trop-
po emotiva: quelle sono da provinciali.
Solo con il videotelefono, secondo fonti interne, sarebbero sta-
ti persi 400 milioni di euro (300 milioni di apparati non funzio-
nanti, più 100 milioni tra spese di commercializzazione e assi-
stenza). Spesso, dietro alcune semplici operazioni commerciali si
sono celati fenomeni molto più complessi, tanto da rievocare la
teoria dei vasi comunicanti secondo cui ciò che un’azienda per-
de qualche altra inevitabilmente lo guadagna. Il caso del video-
telefono è quello più eclatante, ma non l’unico, e vale la pena di
ricordarlo.
Già a metà degli anni ’90 la controllata Italtel aveva presentato
il Nexus 2000, un videotelefono di hardware e software non trop-
po distanti da quelli riproposti da Telecom Italia nel 2004. Il lan-
cio fu un vero e proprio fallimento a causa del prezzo e della scar-
sa qualità. La pubblicità dell’epoca aveva cercato invano di allet-
tare la clientela con le formule: «Il telefono si accende di nuove
emozioni», «il telefono che annulla le distanze e vi dona il calo-
re». Anche il nuovo videotelefono commercializzato da Telecom
donava calore ma, ironia della sorte, solo perché presentava una
notevole tendenza al surriscaldamento velatamente confermata
nel manuale di utilizzo della casa produttrice al punto 2.1 e spe-
rimentata da un notaio che ha intentato causa a Telecom dopo
che il videotelefono gli ha mandato in fumo la scrivania del ’700.
Per anni l’idea di offrire la videotelefonata su rete fissa fu ac-
cantonata, fino a quando nel 2004 venne presentato come «nuo-
vo» il vecchio videotelefono. Il Nexus 2000 costava l’equivalen-
te di 400 euro, poi sceso a 250. Mentre il «nuovo» videotelefono
costerà ben 299 euro con una qualità ancor più scadente. Come
mai a dieci anni di distanza dal lancio del Nexus 2000 è stato
commesso lo stesso errore? Sempre che di errore si tratti. Signi-
ficativa rimane la domanda che ha posto un dipendente nel buio
della sala durante le presentazioni del nuovo videotelefono: «A
cosa serve il videotelefono se già oggi con Internet si può fare
una videocall gratuita?». Nonostante la richiesta di videotelefo-
ni fosse inesistente, nel 2004 il geometra Patrick Scarlata, attra-
verso la società HiTel, stipula un sostanzioso accordo con Tele-
c’è stata alcuna innovazione tecnologica e nessun lancio di nuovi
prodotti se non alcuni flop commerciali che passeranno alla sto-
ria come esempio di scelleratezza e spreco. Anche quando è sot-
to pressing per la questione di 1.600 immobili passati da Telecom
Italia ai fondi partecipati da Pirelli Real Estate lui rimane calmo
e impassibile, sostenendo che «tutto è avvenuto nella normalità»
e che «quando siamo entrati abbiamo trovato un’azienda in si-
tuazione molto critica, e quando l’abbiamo lasciata era in ottime
condizioni»18
. Ottime condizioni?
A caratterizzare il nuovo corso dell’era Tronchetti è anche il
nuovo management. In particolare, il quarantenne Riccardo
Ruggiero, proveniente da Infostrada, appena nominato ammini-
stratore delegato, si porta dietro tutta la schiera di prodi e fede-
lissimi giovani che per un lustro formeranno l’affiatata banda dei
«Ruggiero boys». Memorabili anche i compensi che lievitano
verso cifre da capogiro. Nel 2007 Ruggiero e Buora, rispettiva-
mente ad e vicepresidente, grazie alle loro «brillanti» prestazio-
ni vengono salutati con 17 e 12 milioni di euro. Mentre Tron-
chetti come presidente ha guadagnato «soltanto» 5 milioni.
Su Riccardo Ruggiero si narrano varie leggende metropolitane,
come quella che lo vede sfrecciare in autostrada a 311 km orari con
la sua nuova Porsche. «Volevo vedere se la lancetta del contachilo-
metri arrivava fino in fondo», risponde ai carabinieri che lo hanno
inchiodato al casello. La notizia fu riportata a suo tempo anche dal
settimanale «Quattroruote». Più dubbi sembrerebbero invece al-
cuni racconti sul suo stile direzionale o sulle sue gesta in alcune
convention poi passate alla storia per grandezza e magnificenza.
Figlio di Renato, ex ambasciatore Usa, giovanissimo si lancia
nel mondo delle telecomunicazioni con Infostrada. Grazie ai
buoni risultati entra nelle grazie di Tronchetti in qualità di ammi-
nistratore delegato. Ma in Telecom i «Ruggiero boys» non ripete-
ranno le stesse performance compiute in Infostrada. La nuova ge-
stione si cimenta fin dall’inizio in operazioni commerciali che ri-
sulteranno a dir poco azzardate. Un esempio? La vicenda del vi-
deotelefono, invano rilanciato dopo il fallimento degli anni ’90.
filone d’indagine avviato dalla Procura di Vicenza scopre che era
abitudine diffusa attivare sim con nomi di fantasia, al fine di ac-
crescere il numero di clienti per incassare i lauti premi. In chiu-
sura di anno alcuni rivenditori (principalmente negozi), per rag-
giungere o addirittura superare gli obiettivi del 100% e incassa-
re i premi, gonfiavano il numero dei clienti con il benestare di al-
cuni dirigenti. Naturalmente ciò giovava anche ai vertici azien-
dali per ostentare gli eccellenti risultati di vendita di fronte alle
comunità finanziarie, soprattutto quando si è in presenza di
grandi operazioni di vendita o acquisto dei pacchetti azionari co-
me quella avvenuta alla fine del 2005 per l’acquisto delle azioni
minoritarie di Tim (altri 15 miliardi di debiti).
La possibilità di realizzare questo tipo di truffe è determinata
dal fatto che in una grande azienda i processi di fatturazione e
pagamento sono automatizzati, e in teoria, facilmente eludibili in
caso di non controllo. «Nelle fatture a nostro carico abbiamo
trovato anche frigoriferi e lavatrici», mi ha detto confidenzial-
mente un dipendente. «Alcuni negozi avevano negli armadi dei
sacchi di plastica pieni di sim. A loro completo piacimento in-
viavano una falsa registrazione alla Tim, che in moltissimi casi
provvedeva, ignara, all’attivazione».
Inizialmente, si parla di poche centinaia di migliaia di carte,
ma da fonti interne fin dall’inizio emerge che il numero reale è
nell’ordine di milioni. Per tale «leggerezza» viene licenziato Lu-
cio Golinelli, responsabile dell’area Sales Consumer, seguito da
altri impiegati. Molte procure d’Italia danno il via alle indagini
mentre, a metà del 2008, Luca Luciani, allora direttore generale
di Tim, viene mandato in Sud America come ad di Tim Brasil.
Inizia il valzer dei numeri: in sede di relazione trimestrale, nel
settembre 2009, l’azienda dichiara che il numero delle sim ac-
certate come false è di 1,9 milioni, e tale valore viene riportato
nel bilancio. Voci interne dicono invece che il numero reale
oscilli intorno agli 8 milioni. Per avere dati più certi bisogna
aspettare gennaio del 2010, quando Franco Bernabè, tornato al-
la guida di Telecom a fine 2007, dichiara in un’intervista a «La
«Cosmesi contabile» e «tarocco»
A partire dagli anni 2000 si sono diffuse gradualmente delle
pratiche poco trasparenti, passate agli annali con le espressioni
«cosmesi contabile» e «tarocco» (quest’ultimo, qualora il nume-
ro da addomesticare in bilancio fosse stato così ribelle da richie-
dere più di un semplice maquillage. Tanti sono gli accorgimenti
per effettuare una buona «cosmesi contabile» e bisogna proce-
dere senza creare sospetti e farsi scoprire. Anche se nessun testo
di contabilità e di economia aziendale parla di tali pratiche, il fe-
nomeno è variamente diffuso in tutte le grandi aziende e la pri-
ma regola è quella di non esagerare. Alcuni esempi consentiti di
«cosmesi contabile» per far quadrare i numeri e incassare i pre-
mi sono il rinvio dei costi o l’anticipo dei ricavi o anche la riven-
dita di prodotti di terzi con margini negativi o uguali a zero (co-
me nel caso del videotelefono) con il solo fine di gonfiare i rica-
vi. Ma durante la gestione Tronchetti queste pratiche hanno ol-
trepassato i limiti, spingendosi fino al «taroccamento» dei bilan-
ci. Il caso più grave è stato sicuramente quello delle sim false.
Benché il problema fosse noto alla stampa già dal 2006, lo
scandalo scoppia ufficialmente nella seconda metà del 2007. Un
com Italia per la fornitura di un milione di videotelefoni a un
prezzo unitario di 125 euro. La stranezza è che il prezzo Telecom
per i rivenditori si aggirava intorno ai 100 euro ad apparecchio,
con una perdita netta di 25 euro al pezzo. In chiusura d’anno
contabile i rivenditori venivano perciò obbligati a forti ordinati-
vi per raggiungere gli obiettivi di vendita. Con un particolare: nei
primi mesi dell’anno successivo i prodotti rientravano in Tele-
com per malfunzionamento (quasi il 100%) e Telecom restituiva
l’importo con una perdita del 125% in pochi mesi. Un’opera-
zione di marketing davvero esemplare, da inserire nei program-
mi degli attuali Mba per mettere in guardia gli studenti da quel-
lo che non bisogna fare.
a caso, inserendole a turno dentro il mio telefonino, e provando
a chiamare: funzionavano»19
. Quale sarebbe il danno per un Pae-
se, nel caso in cui centinaia di migliaia di sim false fossero cadu-
te in mani sbagliate?
A ciò si aggiungono le perdite effettive che ha dovuto subire
l’azienda. L’emissione di una sim falsa comporta tre tipologie di
costi: una spesa di produzione, trasporto, registrazione e attiva-
zione, un premio, ingiustificato, per i canali commerciali e pro-
babilmente anche una falsata politica di investimenti pubblicita-
ri. I primi due elementi sono abbastanza tangibili. Da una prima
analisi effettuata con Asati, l’Associazione azionisti Telecom Ita-
lia, si stima un costo unitario di produzione, trasporto, registra-
zione e attivazione pari a 17,5 euro per singola sim, che molti-
plicato per 8 milioni darebbe 140 milioni di euro di costi. Leg-
germente più complesso sarebbe il costo dei premi commerciali,
anche se poi, con una semplice simulazione, si arriva a un nu-
mero ugualmente elevato. Secondo fonti interne, nel periodo
2001-2007 la direzione commerciale avrebbe elargito bonus e
premi commerciali pari a un miliardo di euro. Una parte di que-
sta cifra sarebbe attribuibile al numero gonfiato di clienti. A que-
sti numeri si aggiungerebbe un ulteriore danno: il fatto che tut-
te le politiche di marketing e pubblicità siano state falsate dagli
obiettivi di vendita. Spendere 100 o 200 milioni l’anno in pub-
blicità è giustificato se si raggiungono veramente gli obiettivi, ma
la cifra diventa folle se i risultati sono fittizi.
E i responsabili? Lucio Golinelli, responsabile dell’area Sales
Consumer, nel verbale del 26 febbraio 2009 ammette che il fe-
nomeno «era noto in azienda fin dal 2000, si tratta di una cono-
scenza che definirei storica. […] Vi era l’interesse ad avere il
maggior numero di clienti che generassero un minimo di traffi-
co, da cui una forte spinta su volumi acquisitivi ingenti». Così
come testimonia anche Gabriele Della Vedova, responsabile Sa-
les support and process, che nell’interrogatorio del 10 febbraio
2009 afferma, ancor più chiaramente: «La struttura centrale era
perfettamente a conoscenza di fittizie intestazioni di schede a
Stampa» che le sim accertate come false potrebbero essere in-
torno ai 5 milioni e mezzo.
Nel febbraio 2011 la Guardia di Finanza, facendo irruzione
negli uffici Telecom di Milano per ulteriori accertamenti, com-
prova l’esistenza di 2,4 milioni di sim dormienti rivitalizzate, ma
che in realtà sono false, attribuite a clienti che non generano traf-
fico e che sono state riattivate con l’accredito di un centesimo di
euro. A queste, secondo le fonti ufficiali finora emerse, si ag-
giungerebbero altri 4 milioni di sim: alcune rivitalizzate, altre in-
testate a persone inesistenti e altre ancora intestate più volte allo
stesso proprietario, per un totale di circa 6,4 milioni di carte fal-
se (in pratica una su quattro). I numeri sono ingenti e la «truffa»
ai danni del mercato è tanto più grave se si considera che il de-
creto Pisanu stabilisce che per poter attivare una sim è necessa-
rio disporre del codice fiscale e del documento dell’intestatario.
Si arriva così alla conclusione che la vicenda ha avuto effetti an-
che sul mondo della criminalità organizzata, per la possibilità di
usufruire di chiamate non identificabili.
Oltre alle Procure di Vicenza, Milano e Roma, anche quella di
Napoli si interessa al caso, aprendo nel 2008 un fascicolo dal ti-
tolo «Sim ’e Napule» con oggetto i rapporti tra i clan della ca-
morra e la pratica di falsificazione delle carte ai danni di Tele-
com. Indipendentemente da tutte queste indagini, il giornalista
di «Panorama» Carmelo Abbate, fingendosi interessato all’ac-
quisto di 500 sim false, ha provato a indagare sul caso nel Nord
Italia: «Il primo contatto è avvenuto su Internet con una perso-
na che si è sempre nascosta dietro un nickname», scrive. «Non è
stato semplice, ogni volta che l’affare sembrava vicino alla con-
clusione il prezzo delle schede improvvisamente saliva da 1 a 5 e
10 euro. E le persone che dovevano materialmente consegnarle
sparivano di colpo e non erano più rintracciabili. Alla fine il pac-
chetto mi è stato consegnato in un parcheggio buio di una stra-
da statale alle 11 di sera, senza che sapessi chi fosse la contro-
parte. Prendere o lasciare. Le 500 sim card erano ammucchiate
dentro un sacchetto della spazzatura. Ne ho provate una decina
Clamoroso, durante la gestione Tronchetti, è anche lo scanda-
lo legato a Sparkle, società del gruppo Telecom che gestisce il
mercato del traffico internazionale. Servendosi di sofisticati mec-
canismi finanziari, alcuni dirigenti delle «società cartiere» hanno
realizzato tra il 2003 e il 2007 delle operazioni illecite cui è stato
assegnato il nome di «frodi carosello» per un giro di fatturazioni
false pari a due miliardi di euro (circa il 35% del fatturato). Le
fatture false, oltre a gonfiare i bilanci, servivano a evadere l’Iva
con la conseguente creazione di fondi neri da distribuire e utiliz-
zare per l’acquisto di beni di lusso quali macchine da corsa e
gioielli. Il gip di Roma che ha ricostruito la vicenda parla aperta-
mente di «legami con la delinquenza organizzata», la cui attività
era proprio quella di riciclare i fondi neri che uscivano da Tele-
com a titolo di fatture emesse. «Le modalità operative di Telecom
Italia Sparkle», commenta il gip, «pongono con solare evidenza il
problema delle responsabilità degli amministratori e dirigenti
della società capogruppo alla quale appartiene Sparkle […]. È
evidente che o si è in presenza di una totale omissione di controlli
all’interno del gruppo Telecom sulle gigantesche attività di frode
e riciclaggio, o vi è stata una piena consapevolezza delle stesse»21
.
Un ultimo interrogativo sorge circa la gravità del reato di fal-
so in bilancio. In alcuni Paesi, come ad esempio gli Stati Uniti, le
pene sono severissime. L’ex amministratore delegato della En-
ron, Jeffrey Skilling, è stato condannato nel 2006 a 24 anni e 4
mesi di reclusione per frodi contabili. E in Italia? Esiste ancora
il reato di falso in bilancio?
«Noi della security siamo peggio della Gestapo…»
Oltre allo scandalo delle sim false, quello che tutti i lettori ri-
corderanno è il caso dello spionaggio telefonico. Vicenda che
torna ogni tanto agli onori della cronaca perché a Milano è an-
data in onda una specie di «commedia giudiziaria» con al centro
gli spioni che lavoravano per Telecom e l’ex presidente Tron-
nomi di fantasia, come Pippo, Pluto, Paperino, per struttura
centrale intendo l’azienda stessa, a partire dal top manage-
ment»20
. Sorge allora una domanda: se la conoscenza del feno-
meno era «storica», perché premiare i rivenditori in base al nu-
mero dei clienti e non in base al fatturato? Tutti i libri di marke-
ting insegnano che il numero di clienti non è un indicatore veri-
tiero. Un’impresa può avere pochi clienti ma buoni, mentre
un’altra, a fronte di un numero enorme di clienti, può avere un
fatturato ridotto. Dunque, perché perseverare in queste politi-
che remunerative? I rivenditori non avrebbero mai potuto falsi-
ficare in modo consistente i dati di traffico per conseguire i pre-
mi commerciali.
Quanto a Luca Luciani, responsabile vendite dal 2005 al 2008
e poi ad di Tim, nel verbale d’inchiesta della Procura di Milano
del 13 maggio 2009 dichiara: «[Sapevano delle sim] certamente
oltre a me e alla struttura da me dipendente anche i miei supe-
riori, inclusi gli amministratori delegati succedutisi nel tempo».
Ma chi è Luca Luciani? Golden boy del nuovo corso di Tele-
com, spicca per bellezza ed eleganza. Laureato alla Bocconi, e
per un anno assistente di Tronchetti, da manager balza all’onore
delle cronache per le sue doti di «storico». In una convention ge-
nerale del 2008 è riuscito ad affermare in pubblico che Napo-
leone a Waterloo realizzò il suo capolavoro. Quell’intervento,
esemplare per arroganza e turpiloquio, è andato più volte in on-
da anche su Striscia la notizia: «Perché ho la faccia incazzata?»,
esordisce il top manager, «perché la gente legge i giornali, vede
il titolo, si rimbalza e si crea dei grandi film che sono tutte caz-
zate. Oggi non vi parlo di Alessandro, vi parlo di Napoleone.
Napoleone a Waterloo, una pianura in Belgio, fece il suo capo-
lavoro…». Chissà cosa avrebbe detto su Alessandro! L’interven-
to è stato così straordinario che qualcuno ha anche pensato che
il prode e incompreso Luciani volesse solamente sperimentare il
controllo sulla mente, dopo aver seguito magari qualche nuovo
corso aziendale per convincere i dipendenti a guardare il mondo
alla maniera del Candido di Voltaire.
con Telecom, che dichiara subito di non sapere nulla di quelle at-
tività illecite. Sta di fatto che solo nel giugno 2010, dopo che la vi-
cenda era già nota da qualche anno, Tronchetti e Buora entrano
nel registro degli indagati presso la Procura di Milano. Le inda-
gini prendono una netta direzione solo in seguito alle dichiara-
zioni di uno degli alfieri di punta del Tiger team, Emanuele Ci-
priani, che nel febbraio 2010 afferma davanti ai magistrati che
tutti i dossier sulle persone spiate venivano consegnati a Tavaro-
li, il quale avrebbe informato Tronchetti ogni volta che fossero
emersi elementi interessanti. Queste dichiarazioni sarebbero sta-
te però smentite da Tronchetti, che avrebbe seguitato a ribadire
di non essere a conoscenza delle attività svolte dalla security.
Dopo circa tre anni di udienze, la magistratura ha dato ragio-
ne a Tronchetti circa la sua estraneità ai fatti con eccezione per
la vicenda Kroll, dove l’ex presidente è stato condannato in pri-
mo grado a un anno e otto mesi per ricettazione. «La vicenda al
centro del processo risale al 2004», scrive «Il Sole 24 Ore», «an-
no in cui Tronchetti era presidente di Telecom Italia e il colosso
telefonico combatteva con alcuni fondi per il controllo di Tim
Brasil. La ricettazione riguarda un cd di dati raccolti dall’agen-
zia di investigazione Kroll e poi hackerati dagli uomini dell’ex
manager della security Telecom, Giuliano Tavaroli. Secondo Ro-
bledo, Tronchetti Provera era consapevole della provenienza il-
lecita di quei dati»23
.
Oltre agli intrecci industriali, ancora più preoccupanti sareb-
bero quelli politici, così come riferiscono alcune fonti interne
non ufficiali. Lo scenario più probabile riguardava l’interesse
per l’«affare Telekom Serbia» da parte del governo Berlusconi,
appena insediato. In particolare, si pensava di smascherare pre-
sunte tangenti24
che alcuni esponenti del governo Prodi avreb-
bero preso da Miloševic´ in seguito all’acquisto a peso d’oro, nel
1997, di una partecipazione in Telekom Serbia. Quelle stesse
quote furono infatti rivendute alcuni anni dopo a meno della
metà, con una perdita netta di circa 400 milioni di euro. Tutta la
vicenda sarebbe stata un’occasione magnifica per screditare il
chetti che si è trovato periodicamente a deporre. Il dilemma giu-
diziario da otto anni a questa parte è stato esattamente lo stesso
che si conosceva dall’inizio: agivano per conto proprio o in fa-
vore dei vertici aziendali? Domanda talmente oziosa che, se fos-
se rivolta seriamente, rasenterebbe l’offesa.
Lo scandalo ha coinvolto cinquemila persone spiate, per un
bacino potenziale di spiati pari a circa 1 milione di persone22
.
L’attività illecita di spionaggio aveva come unico scopo quello di
controllare gli ambienti della finanza, dell’economia, della poli-
tica e persino dello sport. Organizzato da alcuni uomini della Pi-
relli prima ancora dell’arrembaggio alla nave Telecom, questo in-
tricato sistema di spionaggio aveva lo scopo di «screditare la ge-
stione operativa esistente e consentire una più rapida presa di
potere senza trattative o controlli». In poche parole: «entrata,
conquista e resa incondizionata dell’azienda», come commenta
Vittorio Nola, prima vittima dell’operazione «New Entry» in
qualità di segretario del cda durante la gestione Colaninno.
Principale attore delle operazioni di spionaggio telefonico è
Giuliano Tavaroli. «Noi della security siamo peggio della Gesta-
po», annuncia in tono scherzoso l’ex maresciallo dei Carabinieri
in una riunione di lavoro in Telecom. Fisico possente, barba cu-
rata e occhio azzurro gelido, dopo aver prestato servizio presso
la sezione Anticrimine dei Carabinieri di Milano, è stato respon-
sabile della sicurezza di Pirelli per arrivare poi ai vertici di quel-
la del gruppo Telecom nel 2001. Quattro anni dopo nascono i
primi problemi. Nell’ambito dell’operazione «Amanda», Tava-
roli viene sorpreso a effettuare ascolti telefonici senza autorizza-
zione nella sede Telecom di piazza Affari a Milano. Ma anziché
essere licenziato viene trasferito in Romania con una responsa-
bilità non ben definita, mantenendo ovviamente la qualifica di
dirigente con stipendio e benefit vari. Se operava per conto suo,
come sostenuto fin dall’inizio dai vertici Telecom, perché non al-
lontanarlo immediatamente dopo una simile azione criminosa?
Arrestato il 20 settembre 2007, Tavaroli è rimasto sei mesi in
carcere, interrompendo ovviamente il rapporto di collaborazione
gersi dai servizi di spionaggio interni, infiltrati nell’azienda da
sempre per conto di ambienti americani. Un po’ come quando
un bambino è alle prese con un giocattolo complesso e vuole a
tutti costi capire come funziona. In proposito, un articolo ap-
parso su «Il Sole 24 Ore» a firma di Giuseppe Oddo25
può chia-
rire alcuni retroscena di tutta la vicenda Telecom: «I servizi se-
greti italiani sono sempre all’opera, soprattutto quando c’è di
mezzo la Telecom. Il loro zampino è evidente non solo nella vi-
cenda Tavaroli, ma anche in altre meno note. Ricordo una con-
fidenza di Ernesto Pascale al termine di un’intervista che mi ri-
lasciò qualche tempo dopo la sua nomina ad amministratore de-
legato della Sip (qualche anno dopo avrebbe assunto lo stesso in-
carico alla Stet). Gli avevo chiesto se la struttura segreta Gladio
fosse ramificata nelle telecomunicazioni. “No – mi rispose – ma
sono certo che i servizi dispongano di propri uomini alle dipen-
denze della Sip, di cui noi non siamo a conoscenza”. E ricordo
anche le parole di Gian Mario Rossignolo. Eravamo andati a tro-
varlo a Torino, io e Giovanni Pons, mentre lavoravamo all’“Af-
fare Telecom”. Stava raccontandoci le sue peripezie da presi-
dente della Telecom, le raccomandazioni che gli arrivavano gior-
nalmente da tutto il sistema politico. A un certo punto si lasciò
scappare di pressioni ricevute attraverso i servizi che agivano per
conto di ambienti americani. “Si fece vivo il Sismi. Mi fu chiesto
di mettere sotto ascolto il nodo telefonico di Palermo per il qua-
le transitano le telefonate per il Medio Oriente. Mi rifiutai”».
Per quanto pericolosa e ancora oscura, la storia degli spioni
Telecom non rimane dunque un unicum spazio-temporale, ma è
l’anello di una catena che parte da molto lontano. Una catena
sulla quale il settimanale «Panorama» aveva già svelato qualche
retroscena quarant’anni fa.
«Nell’autunno 1973, sotto la copertura della rete di comuni-
cazioni della Nato, i servizi segreti americani, evidentemente
senza che il Sid frapponesse ostacoli e verosimilmente con la sua
collaborazione, ultimarono la preparazione di un sistema di con-
trollo totale della rete telefonica di Roma […]. La cosa finì in
più grande rivale, Romano Prodi, spazzandolo via dall’orizzonte
politico. In cambio, ci sarebbe stato il via libera al definitivo sac-
co di Telecom. Una sorta di do ut des attraverso il quale il Cen-
trodestra avrebbe potuto eclissare in particolare altri due acerri-
mi rivali. Quali? Lo spionaggio ha riguardato, oltre alle tangenti
serbe, anche il misterioso Oak Fund, il «fondo Quercia» con se-
de alle isole Cayman che compare tra gli azionisti che hanno ac-
compagnato i «capitani coraggiosi» nella realizzazione dell’Opa.
Al di là del nome, che richiama il simbolo del Partito democra-
tico della Sinistra, quali furono i legami tra il fondo e gli espo-
nenti del governo? Cosa doveva svelare il fantomatico «dossier
Baffino» di cui parla Cipriani nelle sue deposizioni? Non biso-
gna essere degli investigatori per capire chi fosse l’obiettivo del
dossier. Voci di corridoio, mai accertate, sembrano propendere
per una pista che attribuisce la firma di alcuni importanti espo-
nenti dei Ds sul fondo Quercia. I due dirigenti sarebbero stati
Rossi e Fassino, che in seguito all’Opa di Colaninno avrebbero
intascato tangenti alle isole Cayman. Chiacchiere che non hanno
mai trovato alcun riscontro e che sarebbero state una colossale
montatura, come confermato dagli atti giudiziari emersi nelle
udienze del processo per lo spionaggio illecito. Comunque, il 28
marzo 2007 anche sul «dossier Baffino» Cipriani ha dichiarato
davanti ai pm della Procura di Milano che Tronchetti era al cor-
rente di tutto: «Tavaroli mi disse che sia le notizie relative al rap-
porto conclusivo, sia quelle dei vari summary, le riferiva al dot-
tor Tronchetti Provera».
La vicenda dello spionaggio illecito non è certo una novità de-
gli ultimi anni. La convinzione è che tutti i governi, non solo
quello di Berlusconi, siano stati attratti dalla tentazione di ma-
novrare Telecom al fine di trarre il più grande numero di infor-
mazioni possibili. Non solo per fini politici, economici e specu-
lativi, ma anche in termini strategico-militari. Il voler entrare nei
salotti buoni della finanza può essere un motivo valido per ap-
poggiare l’uno o l’altro gruppo azionario, ma non certo l’unico.
È molto probabile che la nuova classe dirigente volesse proteg-
mattone e la contemporanea entrata dell’euro. Se a ciò si aggiun-
ge l’acquisto a credito, e a prezzi stracciati, si arriva alla conclu-
sione che chi ha condotto massicce operazioni immobiliari sotto
il segno delle privatizzazioni ha realizzato enormi plusvalenze.
Nel 1999 il patrimonio immobiliare che appare in bilancio a
prezzi storici ammonta a cinque miliardi di euro. Nel corso di
pochi anni questo capitale viene azzerato. Scompaiono uffici di
prestigio e centrali telefoniche (generalmente edifici in aree me-
tropolitane) vendute a società partecipate da Pirelli Real Estate
e, come ha ironizzato Beppe Grillo, «Tronchetti non si è nean-
che dovuto chiamare al telefono per realizzare l’accordo». In
realtà, la vendita del patrimonio immobiliare inizia con l’era Co-
laninno. Fresca di privatizzazione, mamma Telecom viene spre-
muta per rifocillare gli sforzi dei «capitani coraggiosi». Nel 2000
vengono ceduti 580 immobili (la maggior parte sono grandi cen-
trali retrolocate a Telecom)27
per un incasso di 2,9 miliardi di eu-
ro. Gli immobili vengono ceduti a fondi partecipati dalla società
Beni Stabili, controllata dal gruppo Sanpaolo Imi e Lehman
Brothers. Successivamente una parte di questi immobili viene
ceduta a fondi controllati da Goldman Sachs.
Tra il 2002 e il 2005 vengono ceduti 329 immobili (centrali e edi-
fici di prestigio nelle maggiori città d’Italia) con un doppio passag-
gio attraverso Tiglio I e Tiglio II Srl, partecipate da Morgan Stan-
ley e Pirelli Real Estate. Nell’assemblea di aprile 2008 il presidente
del cda Telecom, Gabriele Galateri di Genola ha dichiarato che la
liquidità generata dalla vendita di questi 329 immobili è stata di cir-
ca 500 milioni, mentre in una relazione di Pirelli del 2007, reperi-
bile sul sito dell’azienda stessa, si legge «immobili per un valore di
1,6 miliardi di euro». E non si capisce perché i conti non tornino.
Nel 2006 vengono ceduti gli ultimi immobili al fondo Raissa con-
trollato da Morgan Stanley e Pirelli Real Estate, per un totale di
1.279 cespiti (quasi tutte centrali di piccole dimensioni retrolocate
a Telecom), per un incasso di circa un miliardo di euro. Alla fine,
dunque, il patrimonio immobiliare sarebbe stato equamente di-
smesso tra la gestione Colaninno e la gestione Tronchetti.
26
.
Un sistema di spionaggio interno avrebbe potuto essere fun-
zionale a un possibile golpe politico o militare? «Non credo che
la questione sia così semplice», risponde Vittorio Nola. «Il siste-
ma di potere che con la Pirelli si è impossessato di Telecom era
molto complesso e a mio avviso ci sono stati più livelli di inte-
resse, probabilmente anche quello politico-militare. Dato che le
attività di dossieraggio e di spionaggio illegali sono andate avan-
ti anche per molto tempo dopo la conquista del potere in Tele-
com, a quel punto ogni soggetto ha ritenuto di crearsi il suo ha-
bitat naturale: chi guardava al proprio portafoglio, chi desidera-
va vendette, chi potere, nomine e incarichi, chi semplicemente
sfruttare la grande liquidità aziendale…».
Centrali telefoniche in vendita su eBay
La cessione del cospicuo patrimonio immobiliare è una vicen-
da davvero esemplare per capire il significato dell’espressione
«spolpare fino all’osso». Più che di numeri, qui si tratta di lingui-
stica, perché trovare la parola adatta a un tale tipo di operazioni
non è cosa banale. Dopo la privatizzazione, a tutti i gruppi di in-
teresse era ben noto che Telecom disponesse di un ingente patri-
monio di immobili, creato in anni e anni di attività, costituito da
centrali, terreni e edifici di prestigio nelle maggiori città italiane.
Una preda molto ghiotta, vista la concomitanza del boom del
Parlamento con un nugolo di interrogazioni che non ebbero mai
risposta. Ci sono state soltanto smentite generiche che non han-
no convinto nessuno». Questo vecchio articolo ci spiega inoltre
altri aspetti preoccupanti: «Il cuore dell’impianto Nato per il
controllo telefonico (consente ogni intercettazione e il blocco to-
tale delle comunicazioni) si trova in viale Cristoforo Colombo
153, nei locali della direzione centrale Impianti e Cavi del mini-
stero delle Poste. Le sale riservate alla sezione Nato sono sorve-
gliate da uomini armati e godono del privilegio della extraterri-
torialità, come le ambasciate»
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  • 1. Maurizio Matteo Dècina GOODBYE TELECOM LA BANDA DELLA BANDA LARGA IL PIANO DI TELEFÓNICA E IL NUOVO ORDINE MONDIALE Prefazione di Giuseppe Oddo Postfazione di Franco Lombardi
  • 3. L’impegno di Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo a cede- re alla spagnola Telefónica le rispettive quote in Telco determina il passaggio del controllo di Telecom Italia a una società estera. Non occorreva essere degli indovini, per capire che il destino del maggior gruppo di telecomunicazioni italiano era segnato. Per stare al passo con l’evoluzione delle tecnologie, le telecomunica- zioni necessitano di investimenti a rendimento molto differito nel tempo e le banche, oberate da una massa di crediti inesigibili, so- no i soggetti meno adatti a sostenere progetti strategici di lungo termine che in tempo di recessione possono tradursi in pesanti minusvalenze. D’altro canto, si era già visto nell’autunno 1997, al momento della privatizzazione di Telecom, con quale e quanto entusiasmo, con quale e quanta convinzione i principali istituti di credito avessero accettato di far parte del «nocciolino duro» – per usare la sprezzante definizione che ne aveva dato l’allora pre- sidente esecutivo della società, Gian Mario Rossignolo, uomo de- signato da Umberto Agnelli per conto dell’Ifil. Tutto ciò che è successo dopo quella data, che porta il marchio indelebile del pri- mo governo Prodi e di coloro che all’epoca erano i responsabili del Tesoro, è la conseguenza di quel madornale errore di parten- za. Il governo cedette Telecom in Borsa a una platea diffusa di piccoli azionisti e di investitori istituzionali senza capire o facen- do finta di non sapere che, in un Paese le cui principali aziende sono sotto il controllo di grandi famiglie, una struttura azionaria
  • 4. tena di errori. È cominciato in quel momento il processo di spo- liazione e di indebitamento della compagnia, che – come spiega Maurizio Matteo Dècina in questo bel saggio che si legge tutto d’un fiato – ha determinato un drenaggio di risorse per 24 mi- liardi che si sarebbero potuti spendere per dotare l’Italia di una rete in fibra ottica di nuova generazione. Non si possono nutrire rimpianti per l’era dei «boiardi» e del- la lottizzazione delle partecipazioni statali, che è stata fonte di in- quinamento della vita pubblica e di distorsione delle regole del- la concorrenza, anche se è a manager di Stato del calibro di En- rico Mattei e di Gugliemo Reiss Romoli che dobbiamo la crea- zione di grandi gruppi come Eni e Stet (la holding dell’Iri poi fu- sa con Telecom). Ma di questo capitalismo senza capitali che pri- vatizza i profitti e socializza le perdite, che predica il liberismo e patteggia con la politica per ottenere protezioni e rendite, non se ne sente affatto il bisogno. Altro errore fu il via libera concesso nel 1999 dal governo D’Alema (ministro del Tesoro lo stesso Ciampi) alla scalata osti- le dei «capitani coraggiosi» calati da Brescia e da Mantova, che con la lussemburghese Bell acquisirono a debito dapprima il controllo di Olivetti e subito dopo, tramite questa, il controllo di Telecom; operazione che non sarebbe potuta avvenire senza il sostegno tecnico-finanziario di Chase Manhattan, Lehman Brothers e Mediobanca e senza la vendita di Omnitel (l’odierna Vodafone Italia). Le vicende aziendali di Telecom successive al 1997 – l’Opv del Tesoro, due anni dopo l’Opa ostile di Colaninno, nel 2001 l’ac- quisizione del gruppo da parte di Pirelli e Benetton e nel 2007 la vendita a Telco – furono in sostanza la conseguenza di quella ca- Dècina incrocia i fatti con i numeri per far emergere il lato strumentale di alcuni degli affari che caratterizzarono le gestioni del decennio 1999-2007. Per esempio, ancora oggi sfugge il si- gnificato dell’Opa di Telecom sulla quota di minoranza di Tim per la «modica» cifra di 15 miliardi di euro. Che se ne faceva la Telecom di Marco Tronchetti Provera del 100% di Tim, quando già ne possedeva la maggioranza? A cosa servì l’operazione, ol- tre che ad accrescere il debito consolidato di Telecom e a paga- re profumatamente le banche d’affari che curarono l’offerta in Borsa? E che vantaggio ebbe Telecom dalla cessione degli im- mobili ai fondi di Pirelli Re? Le risposte di Tronchetti a questi interrogativi non sono mai state convincenti. Avrebbe potuto chiedergliene conto il consiglio d’amministrazione di Telco, se non fosse che Telco è partecipata (ancora per poco) da Medio- banca e Generali, che Pirelli fa parte del patto di sindacato di Mediobanca, che Mediobanca e Generali sono a loro volta soci di Pirelli e che Tronchetti è vicepresidente di Mediobanca (at- tualmente sospeso perché rinviato a giudizio). Classico caso di capitalismo italico. del genere avrebbe potuto durare solo con la presenza di un for- te e coeso nucleo di soci stabili e con lo Stato determinato a far valere la golden share. L’idea, sciagurata, che l’impalcatura del «nocciolino» azionario di Telecom potesse reggersi unicamente sulla presenza dell’Ifil, l’allora società finanziaria della famiglia Agnelli, fu una trovata disastrosa. Non solo perché la famiglia Agnelli non ebbe alcuna percezione del ruolo trainante che rive- stivano i servizi di telecomunicazione (peraltro proprio in un pe- riodo in cui la crisi di Fiat era già in fase di gestazione), ma anche perché in quegli anni in cima ai pensieri del gruppo Ifil c’erano le banche, e in particolare l’Istituto San Paolo di Torino, dove le so- cietà della famiglia Agnelli avevano acquisito una quota. Nono- stante gli sbarramenti posti dal governo, Telecom fu resa conten- dibile sul nascere anche grazie al fatto che aveva un modesto ca- rico debitorio, circostanza che la rendeva una preda alla mercé delle grandi banche d’affari internazionali. È vero che il Tesoro agì sotto la pressione del patto Andreatta-Van Miert, che obbli- gava lo Stato italiano ad abbattere i debiti dell’Iri, cui Telecom fa- ceva capo, e che fu costretto ad accelerare la privatizzazione per non mettere a rischio l’ingresso dell’Italia nell’euro, ma avrebbe potuto agire soppesando meglio quello che avrebbe dovuto esse- re l’interesse nazionale.
  • 5. Secondo Dècina, sarebbe auspicabile per una nuova fase di sviluppo delle telecomunicazioni un ritorno dello Stato nella gov- ernance di Telecom. Con 8 miliardi investiti in una moderna rete ottica si potrebbero creare, scrive l’autore, 40mila posti di lavoro e «ritorni economici, in termini di gettito fiscale, ben superiori al- l’esborso iniziale». Non so se questa sia la strada per rilanciare il settore. Constato però che in Germania e in Francia gli ex mo- nopoli, ancorché quotati in Borsa, sono rimasti a maggioranza o a forte controllo pubblico e che in Italia da tre lustri la Telecom privatizzata continua a cambiare padrone e management, a rifare piani industriali e a vivere in una condizione di destabilizzazione permanente che rischia di disperdere un patrimonio industriale strategico per il futuro del Paese e dell’economia. GIUSEPPE ODDO GOODBYE TELECOM
  • 7. Dal boom al crollo All’inizio del 2000, dopo alcuni anni di «apprendistato» in una grande società di consulenza internazionale, pieno di entusiasmo mi «imbarcai» per la Spagna. Non avevo ancora trent’anni. Anda- vo a lavorare in una delle tante aziende legate al gruppo Telecom che all’epoca contava una trentina di società in altrettanti Paesi del mondo. L’atmosfera che si respirava in quel periodo era veramen- te straordinaria. C’erano entusiasmo, aspettativa di crescita, ecci- tazione. La fiducia nelle capacità manageriali e nel know-how tec- nologico andavano ben oltre l’illusione speculativa della new eco- nomy. Con i miei colleghi guardavamo la mappa delle partecipa- zioni internazionali come quando si gioca a RisiKo! e si piazzano i carri armati nei punti strategici. Più la guardavamo e più ci con- vincevamo di far parte di una squadra vincente. C’era chi ipotiz- zava una futura espansione sui territori asiatici e chi, più pruden- temente, puntava sulla difesa dei già consolidati mercati europei. Per i giovani che come me avevano scelto il lavoro all’estero, nel- le varie società del gruppo, il leitmotiv perfetto era la bellissima Con te partirò cantata da Andrea Bocelli, colonna sonora e inno spot dell’allora nascente e già stellare Tim. In quegli anni la Telecom era decisamente un’azienda vincente. Tutto il mondo invidiava le sue competenze e i successi maturati in anni di ricerche: dalle origini della telefonia fino alle ultime in-
  • 8. «Qui c’è aria da funerale», mi disse un caro collega salutando il mio ritorno in Italia, «oramai i giochi sono fatti… l’azienda se la sono bevuta…». E lo confermavano le parole dell’avvocato Gui- do Rossi, che il 6 aprile 2007, dimettendosi dalla carica di presi- dente, sentenziò: «Un Paese che soffre di una così grave man- canza di regole naturalmente è il terreno ideale per chi vuole ap- profittarne, per chi pensa a portar via più soldi che può. Invece del fare, c’è l’arraffare. Questa sembra la Chicago degli anni Venti, sembra il capitalismo selvaggio dei baroni ladri nell’Ame- rica del primo Novecento»1 . Dopo aver vanamente tentato di porre rimedio a una «situa- zione irrecuperabile», Rossi si era dovuto ricredere. «Far pulizia nel conflitto di interessi tra Tronchetti e Telecom» era impossi- bile. Essersi fatto carico di quella responsabilità «nell’interesse dell’ultima grande impresa tecnologica italiana», oltre che del mercato e del Paese, era stata un’illusione. Mi sforzai di ritrovare la fiducia, ma il vero problema era che i miei amati fogli Excel erano oramai uno strumento in disuso. In una rete capillare di imbrogli e favoreggiamenti che valore professionale potevano avere delle analisi basate su parametri matematici? Le attività di consulenza si erano oramai ridotte per buona parte a pubbliche relazioni con finalità lobbistiche e il destino dell’azienda appariva segnato da un orientamento che bene ha spiegato Eugenio Scalfari: […] I guai di Telecom cominciano da quando è stata privatiz- zata e ha avuto la sventura di diventare la preda di un capitali- smo straccione, più attento a spolpare il grasso che a investire in prodotti e tecnologie. Non tutto il capitalismo italiano navi- ga a questo infimo livello, ma buona parte purtroppo sì. La re- gola prevalente è quella di arricchire i «predatori» a danno del- l’azionariato diffuso e non organizzato, una maggioranza pol- verizzata e quindi priva di qualunque potere. Gli strumenti per tenerla al guinzaglio sono vari ma con identiche finalità: scato- novazioni della Tim, prima azienda del mondo a lanciare sul mer- cato la carta prepagata. La sensazione di giocare in una delle squa- dre più forti era davvero inebriante, soprattutto per un giovane consulente che, a furia di corsi manageriali, aveva maturato una fe- de assoluta per i risultati aziendali e per la vittoria di squadra. Quell’anno ricordo che in prossimità delle feste natalizie Tele- com aveva distribuito a tutti i dipendenti oltrefrontiera delle cra- vatte con il logo e i colori dell’azienda. Per noi italiani all’estero era motivo di orgoglio. La ostentavamo ad ogni riunione, fieri e sicuri del marchio che rappresentava. Era il segno di un’apparte- nenza aziendale che, al di là del vestito sempre impeccabile e del- la cravatta firmata, indicava un benessere economico generale. Gli esiti hanno però deluso le aspettative. È successo infatti qualcosa che noi giovani, dediti ore e ore a contemplare e a ri- flettere su quel mappamondo, non avremmo mai creduto: ven- dita quasi totale delle partecipazioni, licenziamenti di massa, evasioni fiscali, attività di spionaggio illecite, suicidi, riciclaggio di denaro, svendita delle centrali telefoniche. Se dieci anni fa qualcuno ci avesse raccontato che quel map- pamondo pieno di bandierine sarebbe stato spremuto come un pompelmo e che l’azienda sarebbe caduta sotto il dominio di Te- lefónica, noi ridendo avremmo esclamato: «Ma che dite? Siamo noi che stiamo andando alla conquista della Spagna!». Numeri imbarazzanti Dopo sette anni di lavoro all’estero, ritornai in Italia e fui su- bito colto da un senso di sconforto. Troppe chiacchiere, troppa aggressività, troppi scandali. Non riuscivo neanche più a vedere la televisione. Tornai a lavorare in una società di consulenza, il cui maggiore cliente era Telecom. Ma l’ambiente non sembrava più lo stesso, aleggiavano la sfiducia e lo sconforto. Passeggian- do per i corridoi avevo la sensazione che nel giro di poco tempo quella apparente quiete sarebbe stata investita da una bufera.
  • 9. 2007, rispettivamente l’anno dell’Opa e la fine dell’era Tron- chetti, ci accorgiamo che i vasi comunicanti hanno funzionato perfettamente senza problemi di capillarità. Il monte salari si è dimezzato. Gli interessi bancari sono quintuplicati ed è aumen- tato spaventosamente il peso degli sprechi attraverso operazioni inefficienti, poco trasparenti o semplicemente troppo generose, rimanendo pressoché invariato il totale dei tre flussi analizzati. In sintesi: i tagli occupazionali sarebbero stati funzionali agli sprechi e al pagamento degli interessi bancari. Non si tratta di un caso isolato. Sarebbe interessante calcolare le perdite di altre grandi aziende (Alitalia, Parmalat, Trenitalia, Cirio, Enel) e valutare l’ammontare del danno globale procura- to dalle varie lobby industriali e politiche al reddito nazionale e in particolare all’occupazione. Il sospetto è che la somma sia enorme. Se solo in Telecom lo spreco di risorse è stato equiva- lente all’1,8% del Pil, a che risultati si arriverebbe prendendo in considerazione il resto delle grandi aziende? 20%? 30%? Di più? Di certo la cifra sarebbe sorprendente. Ma anche quando la barca affonda c’è sempre qualcuno che ci guadagna. Chi? «Ci sono due modi per conquistare e sottomet- tere una nazione», scrive John Adams (1735-1826, secondo Pre- sidente degli Stati Uniti), «uno è con la spada, l’altro è control- lando il suo debito». Affermazione che rende il caso Telecom sintomatico della deriva del sistema Paese: 130% il rapporto del debito pubblico sul Pil e 130% il rapporto del debito aziendale3 sul fatturato di Telecom. Analogie? La logica dello «spolpamento» è infatti sempre la stessa: i gruppi di interesse, dopo aver comprato pacchetti azionari ri- correndo interamente al debito, posizionano nei posti chiave gruppi di manager ben organizzati e molto affiatati, dediti prin- cipalmente al conseguimento degli obiettivi degli azionisti di controllo e all’inevitabile drenaggio di risorse dalla malcapitata azienda verso le casse delle società amiche. Attraverso abili gio- chi finanziari di continue fusioni e acquisizioni, talvolta del tut- to ingiustificate, i gruppi di controllo si cimentano nella magia di le cinesi, patti di sindacato, contratti di borsa speciali, rappor- ti privilegiati con gruppi bancari. Il fine è sempre quello: spol- pare l’osso, lesinare sugli investimenti, privilegiare i dividendi, i compensi ai dirigenti, le stock-option agli amministratori e utilizzare la società-preda come fonte di potere politico e me- diatico. Questo è uno dei connotati del capitalismo italiano2 . Da parte mia provai allora con alcuni colleghi a dare un volto numerico a queste frasi. Cominciato come un gioco, quel calco- lo successivamente si trasformò in una vera e propria simulazio- ne, con risultati a dir poco imbarazzanti. La sintesi di questo stu- dio è riportata nella Figura 2 (p. 25) dove vengono considerati sia gli sprechi dovuti alle incapacità manageriali, sia le perdite le- gate al perseguimento degli obiettivi individuali. In seguito a ge- stioni a dir poco azzardate, l’azienda ha subìto uno spreco di ri- sorse pari a 23,6 miliardi di euro; una cifra astronomica che am- monta a circa l’1,8% del Pil italiano e all’equivalente di 500mila retribuzioni annuali di un impiegato medio. Con tali risorse si sa- rebbe potuto dare lavoro a 50mila persone per 10 anni, evitando esuberi, tagli e scivoli; oppure si sarebbe potuto cablare in fibra non uno ma due Paesi, creando altrettanti posti di lavoro. Questi sprechi si riferiscono soltanto alla gestione operativa. Al vertice, esiste un’altra gestione, ben più importante per i for- tunati che ne detengono il controllo: una gestione finanziaria che ha caricato di debiti l’azienda fin dall’inizio della privatizzazio- ne. Questa doppia morsa ha di fatto strozzato gli investimenti annichilendo l’azienda. Se sommiamo gli sprechi della gestione operativa all’inutile indebitamento delle varie fusioni, si arriva a cifre stratosferiche che raggiungono diversi punti percentuali sul Pil, con un enorme danno per l’azienda e soprattutto per il Pae- se. Dal 1999 ad oggi Telecom ha perso 70mila posti di lavoro, una perdita che, al di là della concorrenza e della disoccupazio- ne tecnologica, può essere interpretata con il fenomeno dei vasi comunicanti. In poche parole: ciò che si perde da una parte si guadagna dall’altra. Prendendo due anni significativi, il 1999 e il
  • 10. Il recente piano di scalata da parte di Telefónica per arrivare ad essere il socio di maggioranza del pacchetto di controllo Telco4 , sancirebbe l’inesorabile sconfitta del capitalismo italiano. L’unico piano possibile dell’operatore spagnolo è quello di mirare a una vendita delle partecipate estere in Brasile e Argentina con un suc- cessivo smembramento della componente italiana, che divente- rebbe preda di qualsiasi gruppo internazionale, una volta crolla- to il valore delle azioni in borsa. Oggi, ci troviamo nella stessa condizione di 15 anni fa, epoca in cui alcuni disinibiti gruppi in- dustriali e finanziari iniziarono a danneggiare l’azienda. «Invito a sentire il discorso che fece Bernabè in videoconferenza nazionale alla fine degli anni ’90 a tutti i dipendenti del gruppo, su quello che sarebbe successo, se fosse passata l’Opa del secolo»5 , com- menta Franco Lombardi, presidente dei piccoli azionisti di Tele- com Italia. «Lo stesso discorso andrebbe risentito mettendo la parola “Telefónica” al posto della parola “Colaninno”. Gli even- ti si ripetono, la storia è ferma». addebitare sulle aziende stesse i debiti con i quali sono state ac- quistate. E qualsiasi operazione che abbia come oggetto i tagli occupazionali o la vendita del patrimonio immobiliare troverà la sua giustificazione nel contenimento dell’onere finanziario con cui sono stati acquistati i pacchetti di controllo. Questi gruppi assomigliano molto a una «banda» di suonatori che passando impunemente da azienda in azienda dopo la marcia trionfale, la- sciando agli altri quella da requiem. Il problema è che in questa particolare fase del nostro sistema politico ed economico, alcuni eventi un tempo clamorosi sono oramai routine. Non fa più scandalo neanche sapere che UniCre- dit, dopo aver annunciato quattromila esuberi, abbia liquidato il già milionario direttore generale Alessandro Profumo con 40 mi- lioni di euro (cifra pari allo stipendio di duemila lavoratori). O sa- pere che lo stipendio annuale di Marchionne ammonta a 48 mi- lioni di euro quando gli stabilimenti della Fiat si ritrovano in cas- sa integrazione. Da una parte si mandano a casa dipendenti che percepiscono mille euro al mese facilitando una miriade di tipolo- gie contrattuali sotto il falso mito dell’efficienza e dall’altra si elar- giscono bonus di svariati milioni di euro in favore di manager e banchieri, con danni irreparabili sul sistema Paese. Questo è il ca- pitalismo? No, è «peggiocrazia», come direbbe il professor Luigi Zingales, ovvero Il governo dei peggiori e non dei mediocri. Ma a lungo andare gli effetti di questi processi degenerativi è abbastan- za evidente. Le statistiche dell’Eurostat evidenziano che negli ulti- mi 15 anni c’è stato un netto crollo del Pil pro capite italiano non solo rispetto alla media europea ma anche nei confronti dei Paesi più sviluppati quali Germania, Francia, Inghilterra e Spagna. E i risultati del rapporto del Censis (L’Italia nel 2030) sono ancor più inquietanti: «Il Sud si spopolerà a favore del Centro-Nord, i gio- vani saranno un milione in meno mentre gli anziani diventeranno un quarto abbondante della popolazione italiana. Se i posti di la- voro non aumenteranno al ritmo di 480mila l’anno il nostro teno- re di vita si ridurrà notevolmente…». E di fronte a queste pro- spettive così scoraggianti cosa fanno le istituzioni?
  • 11. Figura 1. Telecom Italia nel mondo (anno 2000). In colore più scuro, i Paesi in cui era presente la compagnia italiana. Figura 2. Simulazione sugli sprechi della gestione operativa dopo 10 anni di privatizzazione (fonte: Asati).
  • 12. Figura 3. Inefficienza della gestione finanziaria (fonte: bilanci consolidati). Figura 4. Dipendenti (fonte: bilanci consolidati).
  • 13. Lettera dell’Associazione degli azionisti Telecom Italia al governo Al Governo (Presidente del Consiglio, Ministro Infrastrutture, Ministro Sviluppo Economico, Ministro Lavoro), Al Sottosegretario Presidenza del Consiglio, All’Agcom, All’Antitrust, Alla CDP (Presidente e Amministratore Delegato), Ad Assogestioni, Alla commissione Industria del Senato, Alla commissione Trasporti della Camera, Al consiglio di amministrazione di Telecom Italia, Apprendiamo con stupore le dichiarazioni del Presidente di Telecom Italia Franco Bernabè: «Ho appreso dell’operazione Telco dai comunicati stampa e dai mass media» in quanto ciò che ne è emerso è che l’opera- zione di Telefónica in Telco è un’operazione ostile a Telecom Italia che va contro gli interessi del restante 78% dell’azionariato di Telecom, dei 600.000 piccoli azionisti e degli 82.000 dipendenti6 . Le dichiarazioni della classe politica italiana, tranne eccezioni, chiarisco- no che la stessa non ha ancora capito la portata negativa dell’operazione e quando il Presidente del Consiglio Enrico Letta, intervistato a New York, ha dichiarato «bene all’ingresso dei capitali europei in Italia» non si compren- de a quali capitali si riferisca dato che nemmeno un euro entrerà in Tele- com Italia. Infatti Telefónica non porta alcun capitale, per cui non si com- prende su quali presupposti si possa presumere un beneficio. Ancora il Pre- sidente del Consiglio ha dichiarato che il Governo sta vigilando ma di fron- Figura 5. Azionisti Telecom (ottobre 2013).
  • 14. 1. la variazione dello statuto attuale che lascia 4/5 dei consiglieri all’a- zionista di riferimento con una elezione proporzionale avuti in assemblea; 2. aumento di capitale di almeno 3 miliardi, per scongiurare il declas- samento sul debito da parte delle agenzie di rating; • tutti i principali azionisti, fondi italiani ed esteri, a partecipare alla prossima assemblea per superare il blocco previsto di Telco (ovvero Te- lefónica) sul cambio statuto (Telecom deve diventare una vera Public Company) e sull’aumento di capitale. • la Consob e la Sec affinché si vigili su due aspetti fondamentali: 1. gli accordi tra i soci Telco aggirano l’obbligo di OPA e falsano quin- di la contendibilità dell’azienda scoraggiando l’ingresso di altri soci qua- lora questi si presentino direttamente al mercato; • l’Antitrust nella difesa degli investimenti dei piccoli risparmiatori che sono stati assolutamente calpestati. Qualora queste azioni non venissero adottate Asati si attiverà presso tutte le Autorità Nazionali e Internazionali, non ultima la Magistratura e il Tribunale Europeo di Strasburgo per i diritti dell’uomo, per denun- ciare tutti quei Consiglieri che nel corso del prossimo Cda del 3 ottobre possano ledere con le loro decisioni, supportando Telco, gli interessi di tutte le minorities, dei livelli occupazionali, compresi tutti i dipendenti azionisti in servizio e in pensione. Per Asati, Il Presidente, Ing. Franco Lombardi Roma 25 settembre 2013 te all’imminente prospettiva del declassamento di Telecom Italia da parte delle agenzie di rating, il Governo continua ad attuare una politica atten- dista e di non decisione, senza guardare ai problemi reali del paese. Forse l’on. Letta intende assistere alla tragica fine di una privatizzazione, che a detta dello stesso, non è stata una delle migliori, oggi Letta fa il canto del cigno «affermando di difendere la rete di TI». Ma dove era il Presidente del Consiglio quando nella conferenza stampa di agosto scorso, lo stesso Bas- sanini, che era con lui, sorridendo diceva che nel piano triennale della cas- sa non c’era la parola TI! Una tale dichiarazione dovrebbe spingere un Ca- po del Governo all’intervento e non allo stare a guardare dalla finestra o di- re cose prive di alcun senso industriale nell’interesse dell’intero Paese. Asati, nell’interesse del Paese, e quindi non solo dei 600.000 piccoli azionisti risparmiatori e di Telecom, e soprattutto degli 82.000 dipen- denti oggi occupati, richiama l’attenzione sui seguenti punti e invita: • il Governo ad approvare celermente i regolamenti attuativi per la «golden power» (ex «golden share» affinché il vuoto normativo non di- venti un alibi); • il Parlamento a nominare al più presto i componenti della Commis- sione di Vigilanza sulla CDP con l’obiettivo di inserire nel piano trienna- le della Cassa (dove oggi la parola Telecom nemmeno risulta) un inter- vento su Telecom Italia, in quanto azienda strategica. Senza banda larga lo sviluppo del Paese è compromesso; • i vertici esecutivi di Telcom Italia, il Cda, il Consiglio Sindacale e so- prattutto i consiglieri indipendenti l’inserimento in odg del prossimo Cda di Telecom del 3 ottobre p.v., la convocazione di una assemblea straor- dinaria sui seguenti punti: È da miopi ignorare che per la risoluzione dei problemi antitrust, in cui incorre Telefónica per le proprietà di Telecom Italia in Brasile ed Argen- tina, la scelta cadrà ovviamente su dismissioni e spezzatino della società, mettendo a rischio fino a 100.000 posti di lavori in Italia. È questo quel- lo che auspicano il Capo del Governo e la maggioranza che lo sostiene? Oggi Anatel ha dichiarato che se Telefónica prende tutte le quote di Tel- co dovrà essere venduto in blocco Tim Brasil e ancora bene il comunica- to dei Consiglieri indipendenti di operazione in netto conflitto di inte- ressi come Asati dal 2008 sta denunciando di fronte a Istituzioni sorde lo stesso tema. Il mercato come era previsto ha già bocciato l’operazio- ne TI ora a -4.5% rispetto al djstock tlc. 2. l’attuazione dell’articolo 2497 del codice societario che prevede in riferimento all’esercizio di direzione e controllo che il debito di Telecom Italia sia consolidato in Telefónica;
  • 16. Primi nel mondo Poco prima che partissi per la Spagna nel 2000, il gruppo Te- lecom contava in Italia 120.345 dipendenti. Aveva un debito di appena 8,1 miliardi di euro, una trentina di partecipazioni inter- nazionali e un patrimonio immobiliare di 10 miliardi di euro7 . Al mio ritorno, a fine 2006, l’azienda si ritrovava con un debito di 37,3 miliardi, 39.453 dipendenti in meno, una manciata di par- tecipazioni estere e un patrimonio immobiliare azzerato. Come si spiega? Tutto è cominciato con la privatizzazione dell’azienda. «[…] Noi italiani siamo come sempre campioni di primati: la Seconda Repubblica è stata un colpo di Stato non registrato dalla storia e la privatizzazione di Telecom è stata un colpo di Stato economi- co per opera di imprenditori improvvisati». Sono le parole del- l’ingegner Vito Gamberale, ex ad e fondatore di Tim, da sempre uno dei maggiori esperti di telecomunicazioni del Paese. Forse non tutti ricordano che Telecom Italia (Sip fino al 1994) era un grande gruppo industriale con più di 120mila dipenden- ti. Il primo nel mondo a lanciare la carta prepagata, uno stru- mento innovativo che permise la rapida diffusione della telefonia mobile a livello planetario. La ragione del successo della Tele- com risiedeva nei suoi uomini, nella loro formazione etica e nel- la loro conoscenza tecnologica del settore. Negli anni ’90 l’a-
  • 17. stampa sembravano infatti convinti che un operatore privato avrebbe garantito una migliore efficienza e una maggiore equità. A ciò si aggiunse la favola che il governo doveva far cassa per mi- gliorare i conti economici poiché lo esigeva la Comunità econo- mica europea per l’entrata nella zona euro. E solo all’ombra di tutte queste argomentazioni si celava indisturbata la smania di potere della nuova classe dirigente. Il processo di privatizzazione iniziò nell’ottobre del 1997, du- rante il governo Prodi, che si era preoccupato però di risolvere un problema politico di particolare interesse: poiché non era oppor- tuno lasciare tutte le scelte in mano ai privati, venne adottato il meccanismo della «golden share», strumento che, almeno sulla carta, assicurava al governo di mantenere il controllo dell’azienda nelle scelte fondamentali per il suo destino. Il grosso delle azioni venne venduto a investitori istituzionali stranieri, e il gruppo ita- liano di controllo (il così detto «nocciolo duro»), sul quale con- tava Prodi, con il suo misero 6% diventò il nocciolino. All’inter- no di questa accozzaglia di soci spiccava il ruolo dell’Ifil della fa- miglia Agnelli, che, detenendo una quota pari al 10% del noc- ciolo, era il gruppo di maggior peso. L’azienda venne offerta così su un piatto d’argento alla Fiat, che con lo 0,6%8 delle azioni con- trollava tutte le operazioni. «Prima della privatizzazione», com- menta Alessandro Fogliati, presidente della prima associazione di dipendenti azionisti, «Adas9 chiese al Tesoro di far parte del gruppo di controllo che si sarebbe creato in virtù del 3,3% delle azioni già sottoscritte da 97mila dipendenti e da acquistare attra- verso un piano già stabilito. La risposta del governo fu la seguen- te: “Pagate subito le azioni? Altrimenti restate fuori”. L’escamo- tage fu tanto furbo quanto micidiale poiché l’assemblea, cioè il “Tesoro”, nominò tempestivamente il cda “post-privatizzazione” consegnando l’azienda nelle mani della Fiat». Secondo Gambe- rale, «l’Ifil ha gestito l’azienda con molta disinvoltura, mettendo ai posti di comando persone senza competenze in materia. Si crearono così le premesse per l’arrivo dei successivi predatori…». Come presidente venne nominato l’avvocato Guido Rossi, che zienda era guidata dalla illuminata visione di Ernesto Pascale, uomo che apparteneva a quella tanto odiata specie che alcuni de- finivano dei «boiardi di Stato». Durante la direzione di Pascale, oltre alle partecipazioni estere, fu avviato il «progetto Socrate», sul quale io feci la mia tesi di laurea, progetto bloccato imme- diatamente dopo la privatizzazione perché troppo costoso e po- co consono alle ambizioni di guadagno degli azionisti di con- trollo. Socrate, mai nome fu più azzeccato, avrebbe dovuto por- tare la fibra ottica in venti milioni di abitazioni con dieci anni di anticipo rispetto agli altri Paesi europei. E pensare che oggi, con un ritardo di 20 anni, non è ancora chiaro come realizzare un progetto simile. «Ernesto Pascale può essere definito come l’En- rico Mattei delle telecomunicazioni […]», aggiunge nella sua in- tervista l’ingegner Gamberale, «era contornato da manager pro- fessionalmente molto validi che appartenevano a una grande tra- dizione di ingegneri elettronici, figli di quell’italianissimo Meuc- ci che guarda caso inventò il telefono». Negli anni Novanta lo stato di salute dell’azienda era così florido che c’era addirittura un piano per l’acquisto di una quota maggioritaria di Telefónica. «All’epoca Telefónica era molto indietro», ricorda Umberto De Julio, ex ad di Tim nel 1998, «noi eravamo all’avanguardia mon- diale e con risorse sufficienti per permetterci di comprare parte- cipazioni di qualsiasi azienda». Cosa direbbero quei «boiardi di Stato» se sapessero che dieci anni dopo gli spagnoli di Telefónica sarebbero entrati nel grup- po di controllo di Telecom Italia? Dopo la privatizzazione si registrò un vero e proprio esodo delle competenze. Venne smantellata tutta quella fascia di diri- genti pubblici di vecchia scuola che oggi si potrebbe chiamare dei «Pascale boys», per essere rimpiazzata da una nuova schiera di «intelligenze» finanziarie al soldo dei nuovi padroni. Secondo Gamberale una grandissima responsabilità l’avrebbero avuta an- che i giornalisti economici. A parte pochi, quasi nessuno si in- tendeva di economia, e tantomeno di telecomunicazioni, ma il loro bersaglio erano i cosiddetti «boiardi di Stato». Gli organi di
  • 18. 20 febbraio 1999, quando il manager mantovano, anticipando tempestivamente di un giorno il cda di Telecom, annuncia un’of- ferta pubblica di acquisto (Opa)11 , sul 100% delle azioni Tele- com attraverso la Tecnost, società controllata dalla Olivetti. A questo punto la velocità delle operazioni diventa fondamentale. Nelle offerte pubbliche di acquisto chi fa la prima mossa ha un vantaggio enorme poiché scatta la clausola denominata «passi- vity rule», regola che impone al management della società sotto- posta a Opa di non mettere in atto delibere societarie pregiudi- ziali al buon esito della stessa. La sera del 20 febbraio arriva puntuale la risposta di Telecom, preparata da Bernabè con l’aiuto dell’avvocato Guido Rossi. La maggiore società telefonica italiana giudica non valida l’offerta lanciata da Olivetti, sostenendo che l’Opa sarebbe condizionata alla vendita di Omnitel e Infostrada e che le obbligazioni Tecno- st non avrebbero potuto essere impiegate in un’Opa perché non quotate in Borsa. La Consob, il lunedì successivo, al termine di una lunga riunione, accoglie le riserve avanzate da Telecom di- chiarando l’invalidità dell’offerta di acquisto. Ma Telecom com- mette la leggerezza di sottovalutare il progetto di Colaninno. «In pratica Telecom ebbe a disposizione due giorni pieni, lunedì e martedì, per attuare una manovra difensiva che avrebbe potuto impedire o almeno ostacolare la nostra offerta», scriverà poi Co- laninno ricordando quell’episodio nel libro Primo tempo. «Tele- com riunì il suo consiglio solo il giovedì, ma non prese nessuna delle decisioni che noi temevamo […]. Il giorno successivo, ve- nerdì 26 febbraio, la Consob accolse le nostre rettifiche: l’Opa era valida. Da quel momento Telecom era bloccata, non poteva far più niente per difendersi». Singolare è il tempo di risposta della Consob, che dà il suo benestare definitivo ad appena quat- tro giorni dalla prima bocciatura, nonostante Colaninno abbia poi ammesso che «il testo dell’Opa, è vero, presentava alcune debolezze, ma fummo costretti ad accelerare i tempi a causa del- le voci crescenti sul mercato e per timore che Telecom antici- passe eventuali azioni di difesa». In sintesi, il piano di acquisto però dopo qualche mese si dimise. Venne sostituito da Gian Ma- ria Rossignolo, con una stagione tanto breve (dieci mesi), quanto discussa. A lui, salutato con una liquidazione di 10 miliardi di li- re (in pratica un miliardo al mese), nel novembre 1998 subentrò Franco Bernabè. Il nuovo manager non ebbe neanche il tempo di rendersi conto della situazione, che in capo a due mesi comincia- rono a circolare voci sulla scalata da parte di un gruppo privato di imprenditori capeggiati da Roberto Colaninno. La scalata di Colaninno: «Ma lei ce li ha i soldi?» La carriera del ragionier Colaninno, un mantovano cinquanta- cinquenne di origine pugliese, inizia negli anni ’60 nella Fiaam Filter Spa, azienda di Mantova produttrice di filtri per auto che in vent’anni riesce a imporsi come una delle principali aziende del settore. Il successo ottenuto suscita l’interesse della Olivetti, che nel 1996 lo nomina amministratore delegato, con il compito di traghettare l’azienda nel mondo della telefonia con Omnitel e Infostrada. Lo scaltro ragioniere è molto pratico di affari perché riesce a potenziare la rete di Infostrada comprando la rete te- lefonica delle Ferrovie dello Stato per 750 miliardi di lire per poi rivendere Infostrada e Omnitel un anno dopo a 15mila miliardi di lire. Quale genio fece il calcolo della rete pubblica delle Fer- rovie? A chiederselo, ancora oggi, sono in molti. Con il sostegno delle banche d’affari Chase Manhattan e Leh- man Brothers e con la presenza di un gruppo affiatato di im- prenditori bresciani guidati da Emilio Gnutti, Colaninno piani- fica la scalata Telecom fin dal 1998. A fine gennaio 1999 inizia- no infatti i primi movimenti speculativi sul titolo Telecom, che hanno il loro culmine la mattina del 19 febbraio, quando il con- trovalore dei titoli scambiati in borsa ammonta a 1.700 miliardi. La cifra è così alta da destare il sospetto di operazioni di aggio- taggio e tale da suscitare l’interesse della Consob10 sulle reali in- tenzioni del gruppo di Ivrea. La scalata diventa ufficiale sabato
  • 19. 100mila miliardi di lire così finanziato: il 15% dalla vendita dei gioielli di famiglia Omnitel e Infostrada, il 5% da un aumento di capitale della Olivetti, il 40% dai prestiti dei banchieri della Chase, e il rimanente 40% da un abile gioco finanziario di con- versione delle azioni in obbligazioni e azioni della Tecnost, la scatola vuota attraverso il quale la Olivetti contrae il debito per acquistare la Telecom. Praticamente, l’idea è far pagare l’Opa agli stessi azionisti Telecom. Infatti, solo il 20% delle azioni ver- rebbe comprato con denaro fresco, mentre il restante 80% del- l’Opa ricadrebbe indirettamente sull’azienda a causa dei debiti contratti dagli acquirenti. Dello stesso avviso è Il «Financial Ti- mes», che definirà l’operazione di conversione delle azioni «una rapina in pieno giorno»13 . Il piano di Colaninno è infatti chiaris- simo fin dall’inizio: una sorta di leveraged buyout mascherato, un’arma di distruzione del mercato che impedisce lo sviluppo e la crescita. Attraverso questa operazione di origine anglosassone, tradotta in italiano con «fusione a seguito di acquisizione con in- debitamento», una società che si indebita per comprarne un’al- tra ha la possibilità di fondersi con la controllata utilizzando il patrimonio di quest’ultima a garanzia del pagamento dei debiti. In sostanza: una scatola vuota creata dal nulla può acquistare a debito una vera società, definita «target» o «bersaglio», scari- cando su quest’ultima il debito. E il buon esito dell’operazione dipende dalla capacità di ripagare il debito, non con i mezzi del debitore principale, ma attraverso il flusso di cassa e il patrimo- nio della società bersaglio. Fino al 2003 sulla legittimità di tale tecnica la disciplina giuri- dica afferma chiaramente che la fattispecie costituirebbe un ag- giramento dell’art. 2358 del Codice civile che vieta la concessio- ne di garanzie sull’acquisto delle proprie azioni. Ma per i «capi- tani coraggiosi» il problema non è così determinante, perché an- che senza fusione il peso dell’Opa sarebbe ricaduto in ogni caso su Telecom. Tutte le gestioni industriali avrebbero risentito in- fatti della riduzione degli investimenti in favore dei dividendi, per mezzo dei quali gli azionisti di controllo avrebbero pagato le della più grande azienda italiana, nel quale – come ammette lo stesso Colaninno – mancava persino la data di inizio, viene li- quidato dalla Consob con il tempo record di una manciata di giorni. Un tempo incredibilmente breve, se paragonato alla len- tezza del nostro sistema politico e burocratico. Inoltre, rimango- no ancora molti dubbi sulla validità legale dell’Opa, che avreb- be eluso senza problemi l’articolo 2358 del Codice civile: «Una società non può fornire garanzie (patrimoniali, economiche e fi- nanziarie) per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni proprie». Quando nel nostro caso il ricco patrimonio di Telecom (immo- bili, partecipazioni, infrastrutture…) avrebbe costituito proprio la garanzia per la buona riuscita di un’Opa vincolata da un enor- me prestito bancario. Poco dopo il 20 febbraio 1999, ora zero per il lancio dell’Opa, Colaninno viene ricevuto a Palazzo Chigi dal premier Massimo D’Alema e dal ministro dell’Industria Pierluigi Bersani. Incassa reazioni soddisfatte e un rassicurante «ci rimettiamo al merca- to». Appoggio che D’Alema confermerà dichiarando di apprez- zare l’audacia dei «capitani coraggiosi». «Consentitemi, allo sta- to delle cose, di apprezzare il coraggio di persone che vogliono gestire l’impresa», avrebbe esclamato in proposito l’allora capo del governo, aggiungendo: «Abbiamo offerto un gioiello pubbli- co e non sono stati capaci di comprarlo. È stato un evento scon- certante, si è dovuti andare a chiedere per piacere che qualcuno si comprasse lo 0,6%. Spaventa che in questo Paese non ci sia qualcuno che abbia la voglia o il coraggio di affrontare questo ti- po di sfide»12 . Qualche giorno dopo, il manager mantovano in- contra Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca ministro del Tesoro, il quale si mostra meravigliato della possibilità che l’Olivetti possa essere in grado di sopportare da sola il peso della scalata: «Ma lei ce li ha i soldi?», chiede appunto il futuro Presidente della Re- pubblica. Il problema dei soldi è l’aspetto più critico. Non pos- sono essere certo sufficienti le risorse del gruppo di azionisti bre- sciani per comprare un colosso che vale più di cinque volte l’a- zienda di Ivrea. Il piano prevede infatti un’Opa del costo di
  • 20. dove non si parla l’inglese», commenta Guido Rossi. «Siamo in democrazia, non siamo qui a prendere schiaffi. Il governo si è ca- strato della possibilità di avere diritto di voto: è un fatto grave, gravissimo»15 . La notte prima dell’assemblea passa alla storia come «la notte dei lunghi coltelli di Telecom Italia», notte che Alessandro Fo- gliati, dirigente Stet e presidente della prima associazione di di- pendenti azionisti, ricorda ancora con molta amarezza: «Dopo che venne convocata l’assemblea dei soci per le misure antisca- lata iniziò la moral suasion del governo. La sera precedente l’as- semblea ero in riunione con Bernabè a Roma (aveva convocato i rappresentanti delle otto associazioni di dipendenti azionisti al- lora in attività): abbiamo chiaramente percepito lo sgomento di Bernabè, e quindi il nostro, che veniva via via chiamato al te- lefono da personaggi importanti che preannunciavano la loro as- senza in assemblea. Ad ogni chiamata Bernabè impallidiva e riat- taccando mormorava con voce dismessa “Anche questo mi ha dato una pugnalata alle spalle”». Negli affannati giorni dell’Opa, Gad Lerner scrive su «la Re- pubblica» un articolo citando un presunto sfogo, mai smentito, di Franco Bernabè nei confronti del premier. «Saranno centinaia di migliaia, domani, gli italiani che correranno a comprare in Borsa i titoli del grande affare che tu, D’Alema, hai magnificato. Un er- rore catastrofico. Dopo il boom, puntuale, verrà il crollo. La con- quista di Telecom da parte di Olivetti si rivelerà per quello che è, una bolla di sapone. Le banche d’affari ci avranno guadagnato un mucchio di soldi, ma sul terreno resteranno migliaia di cadaveri. Tutti sul conto del governo di Sinistra, colpevole di aver sponso- rizzato un’operazione inconsistente, senza uguali dai tempi di Sindona. Sì, di Sindona. Perché almeno Gardini quando scalava la Montedison ci metteva 2-3mila miliardi di tasca sua»16 . E i leader dell’opposizione? Silvio Berlusconi in una riunione della Camera di commercio italo-britannica a Londra si pronun- cia in termini positivi sull’iniziativa di Olivetti. Tra gli altri, an- che Umberto Bossi plaude alla «cordata padana». rate del debito. In sintesi: rinunciare allo sviluppo e all’innova- zione per arricchire le banche. Possibile che le istituzioni non avessero capito quello che stava succedendo nel nostro Paese? O è più probabile che fossero le banche a governare le istituzioni? L’offerta dell’Opa è molto alta, perché nel momento della bol- la speculativa della new economy il valore delle azioni è al mas- simo. Molti gruppi azionari, attratti dalle plusvalenze, sembrano gradire l’offerta della Olivetti a 11,5 euro ad azione (6,9 in con- tanti e il resto in obbligazioni e azioni della scatola Tecnost). Me- glio scappar via subito e incassare, pensano in tanti. In casa Te- lecom intanto continuano le contromosse e il 10 marzo Bernabè annuncia la tanto attesa strategia difensiva. Il piano prevede un’offerta pubblica di scambio di azioni ordinarie Telecom Ita- lia di nuova emissione contro azioni Tim e la conversione delle azioni di risparmio Telecom in ordinarie. La fusione con Tim è una mossa che manderebbe alle stelle il prezzo delle azioni Tele- com, poiché i flussi di cassa del mobile sono ingenti. Ma la deli- bera deve essere approvata nell’assemblea degli azionisti fissata per il 10 aprile a Torino, un appuntamento in cui Bernabè avreb- be assoluto bisogno del 30% del capitale. Ma, nonostante la grande campagna mediatica che chiama a raccolta tutti gli azio- nisti, l’assemblea si trasforma per Telecom in una grande disfat- ta. A Torino si presenta solamente il 23% del capitale. Chi man- ca all’appello? Il Tesoro con il 3,5% delle azioni e il Fondo pen- sioni con il 2,4%, seguiti da altri investitori istituzionali. Ovvero mancano gli azionisti pubblici che avrebbero potuto avvalersi della golden share per bocciare L’Opa. «Il direttore generale del Tesoro è Mario Draghi, futuro governatore di Bankitalia», scrive Peter Gomez. «Vorrebbe partecipare all’assemblea. Ma D’Ale- ma gli ordina di astenersi. Il ministro Ciampi si allinea. Draghi allora chiede al premier di mettere il suo ordine nero su bianco. D’Alema prende carta e penna e invia al Tesoro una lettera d’in- dirizzo attorno alla quale nasce un giallo: il documento scompa- re in seguito dagli uffici del ministero»14 . Un comportamento che non passa inosservato. «Palazzo Chigi è l’unica merchant bank
  • 21. poca poco più di un sito Internet con alcuni mesi di vita, viene acquistato per la cifra record di 650 milioni di euro. Nel 2002 il suo valore in bilancio viene azzerato. L’operazione Seat Pagine Gialle è una delle vicende più singo- lari della gestione Colaninno. Nel 1996 le Pagine Gialle appar- tengono alla Stet, la holding pubblica che controlla Telecom. Sa- rebbe logico integrare gli elenchi telefonici con la Telecom, ma nel 1997 il ministero del Tesoro rileva le Pagine Gialle dalla Stet e decide di metterle in vendita. Nel novembre 1997 si presenta una cordata di imprenditori denominata Ottobi, «i magnifici ot- to», che rileva il 61% della società per 860 milioni di euro, poi- ché Il Tesoro, sotto la guida della Lehman Brothers, valuta l’in- tera società un miliardo e mezzo di euro. La Ottobi è un’entità partecipata a sua volta da un intricato sistema di scatole, di cui alcune locate in paradisi fiscali come la Investitori Associati II, con sede a Madeira, che detiene il 4% della Ottobi. Questa sca- tola a sua volta è posseduta al 40% dalla Hopa di Colaninno e Gnutti. Alla cordata Ottobi partecipa anche Telecom Italia con il 21% delle azioni (pari a circa il 13% di Seat Pagine Gialle). Ma la magia si realizza nel 2000, quando i «capitani coraggio- si», alla guida di Telecom da un anno, per avere il controllo del 50% delle Pagine Gialle decidono di rilevare dalla Ottobi il 37% alla cifra record di 6,7 miliardi di euro. In pratica, dopo 30 mesi, l’azienda viene valutata 18,6 miliardi di euro (13 volte di più di quanto l’aveva valutata il Tesoro nel 1997). La plusvalen- za di questo «affare colossale»17 è tale da beneficiare una cerchia di fortunatissimi imprenditori tra i quali l’ad Lorenzo Pellicioli con 85 milioni di euro e la Hopa di Colaninno e Gnutti con 125 milioni di euro confluiti nel paradiso fiscale di Madeira. «È tut- to assolutamente regolare e trasparente», commentano gli azio- nisti, poiché la partecipazione di Hopa in Ottobi era anteceden- te all’Opa. Sì, ma la valutazione stratosferica di Seat Pagine Gial- le chi la fece? Nel bilancio del 2000 gli utili lordi di Seat Pagine Gialle am- montano a 140 milioni di euro, ai quali vanno sottratti interessi Alla fine dell’Opa, il gruppo Olivetti riesce a comprare il 51% delle azioni per 61mila miliardi di lire, una cifra finanziata per un terzo da capitale proprio e per due terzi attraverso debito (circa 29mila miliardi di lire, equivalenti a 15 miliardi di euro) e con- versione delle azioni Telecom in obbligazioni e azioni della Tec- nost (la società che ha contratto il debito per l’Opa). Da questo momento inizia una nuova storia per l’azienda. Il concetto di impresa capace di perseguire obiettivi di servizio e innovazione viene progressivamente soffocato e condizionato dagli obiettivi individuali del gruppo di controllo. il debito che ricade sugli azionisti di controllo per l’acquisto dell’azienda si ri- versa sull’azienda stessa inducendo a delle gestioni rivolte essen- zialmente al taglio dei costi e alla rinuncia degli investimenti. «È un po’ come comprare a debito un ospedale tagliando la corren- te elettrica per pagare le rate del mutuo», commenta Gambera- le. Contemporaneamente inizia il carosello delle scatole finan- ziarie: Colaninno controlla al 51% una società fantasma, la Ho- pa, che controlla il 56% di un’altra entità chiamata Bell, la qua- le controlla il 13,9% di Olivetti, la quale a sua volta controlla il 70% di Tecnost, che controlla il 51% di Telecom. In pratica, Co- laninno e i suoi controllano Telecom detenendo l’1,5%. Gli azionisti di controllo qualche buon risultato lo mettono a segno, soprattutto grazie al potenziamento delle attività interna- zionali. A lasciare perplessi sono però alcune operazioni a dir poco inefficienti, quali l’acquisto di Seat Pagine Gialle, l’acqui- sto del portale brasiliano Globo e la svendita della prima metà del patrimonio immobiliare. L’intera operazione Pagine Gialle è costata nel 2000 circa 9 miliardi di euro. Nel 2003 Telecom esce da Seat ricavando dalla vendita 3 miliardi con una perdita netta di 6 miliardi di euro. A questi andrebbero aggiunti altri 3 miliardi di euro di mancati ri- cavi derivanti dalla vendita di una parte del patrimonio immobi- liare dell’azienda. Secondo una simulazione effettuata con la Asati, gli immobili dismessi sarebbero stati ceduti a meno della metà del loro valore di mercato. Mentre il portale Globo, all’e-
  • 22. qualsiasi ipotesi di azionariato diffuso. La soluzione più efficien- te sarebbe stata quella di cedere quote agli oltre 100mila dipen- denti per mezzo di piani azionari a medio e lungo termine. Gli errori che sono stati fatti in seguito sono, in parte, anche una conseguenza di quello sbaglio inziale. In un clima di ottimismo generale che precedeva la bolla della new economy, a mio avvi- so, è mancata la capacità critica di analizzare le conseguenze del- l’Opa. Chi sperava che D’Alema avesse beneficiato economica- mente o politicamente di quella scalata è stato sempre smentito dai fatti; credo piuttosto che il premier non si rendesse realmen- te conto della situazione. L’ottimismo, l’incompetenza tecnica e la presunzione di non interferire in un mercato liberalizzato da pochi anni, hanno portato i Ds a commettere l’errore di non prendere posizione contro gli imprenditori bresciani. Colaninno era visto dalla Sinistra come l’uomo nuovo del capitalismo italia- no, quel «capitano coraggioso» che dopo i successi di Omnitel e Infostrada avrebbe rilevato dalla Fiat il timone di Telecom. D’al- tronde bisogna riconoscere che aveva effettuato un’offerta pub- blica alla luce del sole, mentre i successivi gruppi di controllo, Telefónica compresa, scaleranno l’azienda attraverso accordi pri- vati e segreti. All’epoca c’era la speranza e l’illusione che qualsiasi forma di governance privata fosse comunque migliore di quella pubblica. L’errore grave, a mio avviso, è stato questo. Ma non è certamen- te l’unico, dato che prima dell’avvento del governo Berlusconi nel 2001 Telecom era ancora un’azienda viva. Cinque anni dopo si ritroverà definitivamente spremuta, divorata e spolpata. Sopra la banca la casta campa, sotto la banca l’azienda crepa Dopo due anni, i «capitani coraggiosi», non potendo più sop- portare il peso del debito e le numerose pressioni politiche, so- no costretti a passare la mano. Nel 2001 arrivano Pirelli e Be- netton che, comprando il 23% della Olivetti, assumono il con- passivi, tasse e ammortamenti. Nella migliore delle ipotesi, anche prendendo come riferimento un utile netto di 100 milioni di eu- ro, non basterebbero neanche 180 anni per recuperare l’investi- mento iniziale di chi ha acquistato l’azienda valutandola in tota- le 18,6 miliardi di euro (100 milioni per 180 anni equivalgono a 18 miliardi). Numeri da new economy o da fantascienza? Anche in seguito a questa operazione il debito aziendale – da non confondere con quello degli azionisti per l’Opa – sale da 8 a 22 miliardi di euro. Ai quali si aggiungono i 15 miliardi del- l’Opa che, seppure indirettamente, gravano sull’azienda. Per coprire gli interessi passivi, i «capitani coraggiosi» avreb- bero pensato persino di vendere delle quote azionarie della con- trollata Tim. Più discutibili sembrerebbero invece alcune voci che li vedrebbero minacciare D’Alema prospettando il licenzia- mento di migliaia di dipendenti per far quadrare i conti. A questo punto è d’obbligo una domanda che aspetta una ri- sposta da circa quindici anni: perché un governo di Sinistra non si oppose alla vendita della più importante azienda del Paese, che finì nelle mani di un gruppo di imprenditori privati, mossi principalmente da ambizioni di guadagno? Qualcuno parlò di salotti buoni della finanza. «I Ds volevano scrollarsi di dosso l’e- tichetta di partito operaio», mi ha detto l’onorevole Silvio Sirca- na, all’epoca consigliere di Prodi. «Era come se avessero un complesso nei confronti di tutti gli altri partiti che avevano sem- pre governato. Volevano allargare i consensi e trovare nuove al- leanze. In quegli anni ragionavano alla stessa maniera dei parve- nu che volevano scalare le aziende: ovvero dando fiducia al pri- mo imprenditore arrivato dal nulla con una Maserati…». Al riguardo vorrei però precisare alcune cose, per sfatare quel- le voci che sono andate ad alimentare la categoria dei falsi miti. Il più grande errore fu commesso all’inizio del processo di pri- vatizzazione, perché prima dell’Opa l’azienda era gestita da un agglomerato di soci che poco o nulla sapevano di telecomunica- zioni. Il peccato originario fu compiuto dal governo Prodi, nel privatizzare l’azienda in quel modo, facendo in pratica decadere
  • 23. Questo processo di riduzione del debito continua anche nei due anni successivi portando l’onere a 25 miliardi, ma svuotando di fatto l’azienda di tutto il patrimonio immobiliare e della maggior parte delle partecipate estere. Arrivati a questo punto, tutto avrebbe fatto pensare che con questo ennesimo sacrificio l’azienda fosse stata finalmente pron- ta per una nuova fase di rilancio industriale. Il peccato originale di una privatizzazione nefasta sarebbe stato espiato e la fase di purgatorio sarebbe finita. Non è andata così. Alla fine del 2005, quasi per ironia della sorte, avviene l’ennesima schizofrenia fi- nanziaria. Attraverso un’Opa da 15 miliardi di euro Telecom ac- quista le azioni minoritarie della già controllata Tim, facendo lie- vitare il debito netto oltre i 40 miliardi (circa il 133% del fattu- rato). L’operazione lascia ancora molti dubbi. Perché indebitar- si ulteriormente per comprare azioni di una società controllata? Una cosa è certa: chi ci avrebbe guadagnato se non le banche e gli speculatori? L’operazione mi fa venire in mente il mitico Maxistecco/Maxibon della Motta, il gelato al doppio gusto di crema e cacao che andava tanto di moda nelle spiagge italiane degli anni ’90, quello con la pubblicità di Stefano Accorsi che di- ceva «Du gusti is mejo che one…». E con questa nuova ed en- nesima alchimia finanziaria il debito diventa talmente grande da segnare il destino dell’azienda. L’inefficienza assoluta di tutte queste operazioni finanziarie (Figura 3, p. 26) è dimostrata dal fatto che dal 1999 al 2005 il fat- turato rimane pressoché costante mentre il debito aumenta del 650%. Secondo la logica economica, un’azienda si indebita per effettuare nuovi investimenti, per comprare nuove partecipate estere, per realizzare nuove infrastrutture o per incrementare il suo organico. Nel nostro caso si assiste invece a uno spaventoso aumento del debito con un contemporaneo depauperamento di risorse e beni strumentali. Allora il lettore si chiederà: ma se gli azionisti di controllo compiono operazioni inefficienti e sprecano risorse, prima o poi non ne risentiranno pure loro? Certamente sì, secondo logica, trollo dell’ex monopolista telefonico. I nuovi proprietari guidati dal presidente Marco Tronchetti Provera pagano 4,17 euro per azione, una cifra enorme, considerando che le Olivetti quotava- no poco più della metà. L’operazione risulta indispensabile per avere il controllo dell’azienda, perché se la Pirelli avesse effet- tuato un’Opa diretta su Telecom avrebbe speso molto di più. E forte di questa straordinaria plusvalenza la squadra padana si ri- tira appagata dalla bella esperienza. Nei cinque anni che seguo- no si assiste però a un progressivo declino dell’azienda. A carat- terizzarlo sono nuove alchimie finanziarie e una singolare gestio- ne caratterizzata da scandali e indagini giudiziarie. Nel 2003, la normativa che regola i processi di acquisizione si muove nella stessa direzione degli «scalatori». Sarà un caso? Con la riforma del diritto societario, la disciplina giuridica si ammor- bidisce nei confronti del leveraged buyout, che grazie all’articolo 2501 del Codice civile diventa pienamente consentito, a condi- zione di un piano approvato da esperti «indipendenti». La Pi- relli ne approfitta per accorciare la catena di controllo fondendo Telecom con la Olivetti, già fusa con la Tecnost nel 2000. Lo sco- po è accedere direttamente agli utili, grazie anche all’aumento dello sgravio fiscale del debito. Maggiori interessi passivi diretti equivalgono a meno imposte da pagare, ma così facendo Tele- com si accolla direttamente il debito dell’Opa. La fusione ha inoltre un costo addizionale: altri 9 miliardi presi in prestito dal- le banche per realizzare tutta l’operazione. In poche parole, la fusione del 2003 indebita l’azienda di altri 9 miliardi oltre ai 15 dell’Opa. A questi si sommano i 22 (poi scesi a 18) lasciati in ere- dità dalla gestione Colaninno. Per un totale di 42 miliardi. In seguito a operazioni di vendita di immobili, cessione di par- tecipazioni estere e tagli di personale, alla fine del 2003 il debito dell’azienda ammonta a 33 miliardi. Un risultato che gli analisti di Pirelli definiscono eccellente se confrontato con i 37 lasciati in eredità dalla gestione Colaninno (22 dalla gestione industriale e 15 dell’Opa). Peccato che per contenerli l’unica strategia sia sta- ta il taglio del personale e la dismissione degli asset strategici.
  • 24. facesse, danneggerebbe di fatto se stesso. Se invece l’imprendi- tore avesse una piccola quota del capitale, ad esempio il 10%, potrebbe trovare vantaggioso farsi gli affari propri e spolpare in qualche modo l’azienda; i benefici sarebbero suoi e l’onere rica- drebbe per il 90% a carico degli altri soci. Il risultato di questi intricati giochi finanziari è la confisca del- la funzione imprenditoriale da parte di signori che hanno ri- schiato poco o nulla, ma che hanno lo stesso potere di un pa- drone che avendo investito il 90% del capitale possiede la fa- coltà di controllare indisturbato l’azienda realizzando i propri interessi personali. Ma se un capitalista compie azioni inefficienti avendo investi- to, ad esempio, lo 0,02% del valore dell’azienda, come si com- porterà il restante 99,98%? Per rispondere alla domanda occorre fare una distinzione tra azionisti di controllo, azionisti istituzionali e piccoli azionisti. I primi detengono il controllo dell’azienda con una quota di azio- ni che a volte può essere molto piccola. Gli azionisti di control- lo, generalmente appartenenti a gruppi industriali o banche, in- vestono anche con mezzi propri, sostenendo il rischio dell’atti- vità imprenditoriale, ma questi mezzi sono ridicoli se confronta- ti con i benefici derivanti dalla gestione di una grande azienda. La perdita di valore del titolo può essere compensata da opera- zioni vantaggiose quali: il riconoscimento di stipendi, bonus e li- quidazioni milionarie; l’acquisto o la vendita di asset strategici a prezzi di favore o semplicemente il potere politico e mediatico che si guadagna all’interno del «capitalismo relazionale». Gli azionisti istituzionali sono prevalentemente costituiti da banche e fondi di investimento esteri. Per questo tipo di investi- tori che non detengono il controllo dell’azienda, lo scopo prin- cipale è quello di far circolare il denaro, concedere prestiti e in- tascare gli interessi. Per una banca non è così trascendentale il buon esito dell’attività industriale poiché in qualsiasi caso il mag- gior guadagno è costituito dal movimento finanziario stesso. L’a- zionista istituzionale, la banca per eccellenza, può anche per- ma la vera risposta dipende dalle modalità con le quali i gruppi industriali acquistano le partecipazioni azionarie. L’oramai noto gioco delle «scatole cinesi» consente a un gruppo ristretto di azionisti, con una piccola quota, di controllare la gestione del- l’intera impresa senza rischiare nulla di proprio. Se aggiungiamo che tali quote vengono acquistate facendo ricorso al debito, è fa- cile capire che il capitale investito dai controllori è ben poca co- sa rispetto al valore complessivo delle aziende. Marco Tronchetti Provera è un particolare tipo di capitalista che riesce a essere tale senza aver comprato nemmeno un’azione di Te- lecom. A investire è stata Pirelli, attraverso Olimpia, una società al cui capitale partecipano i Benetton e le grandi banche Intesa e Uni- Credit. Tronchetti in società con i figli è semplicemente il padrone della Marco Tronchetti Provera & C., una accomandita per azioni non quotata in Borsa il cui capitale sociale è di 16 milioni di euro. Questa società possiede una scatola, anch’essa non quotata, la Gpi, alla quale fa capo la Camfin, una piccola società quotata in Borsa, la quale ha in portafoglio il 29,9% della Pirelli & C., che a sua vol- ta controlla il 38% di Pirelli Spa, anch’essa quotata in Borsa e chia- mata «Pirellona». La Pirellona detiene il 60% di una scatola non quotata, la citata Olimpia che possiede il 23% della Olivetti, che con il 51% controlla Telecom. Una struttura societaria complessa? Con la modica somma di 16 milioni di euro, l’accomandita tron- chettiana riesce a controllare un gigante telefonico che nel 2001 ha un valore di mercato di 90 miliardi di euro. Tronchetti con un eu- ro di suo ne muove oltre 5mila di capitale altrui. Se un maremoto cancellasse l’ex monopolio telefonico dalla faccia della Terra, la fa- miglia Tronchetti parteciperebbe alla perdita nella misura dello 0,02%, pari a un cinquemillesimo del totale. Ne possiamo dedur- re che la responsabilità patrimoniale del capitalista Tronchetti ver- so l’azienda è vicina allo zero a fronte di benefici enormi. Questo sistema di governance non può certo giovare alla gran- de impresa perché un imprenditore che detiene direttamente una larga quota del capitale sociale, poniamo il 70%, non avreb- be grande convenienza a compiere operazioni inefficienti: se lo
  • 25. Per non essere da meno rispetto agli altri grandi del capitali- smo italiano, insieme a Moratti si lancia nel progetto di far rina- scere una «grande» Inter, per molti anni oscurata dai fasti del Milan di Berlusconi e della Juve dell’avvocato Agnelli. A suggel- lo di tale vincolo di sangue con i colori nerazzurri, sponsorizza da anni la squadra attraverso la Pirelli e siede dal 2001 al 2006 nel cda di Telecom insieme al suo amico Massimo Moratti, pre- sidente dell’Inter; mentre l’ex ad e vicepresidente di Telecom Carlo Buora occupa la poltrona di vicepresidente del club ne- razzurro. Una singolare combinazione in concomitanza del cam- pionato 2005-2006, in cui viene assegnato a tavolino lo scudetto all’Inter in seguito al coinvolgimento di arbitri e dirigenti juven- tini in operazioni poco trasparenti, come emerso dalla pubblica- zione di alcuni atti, compresi colloqui telefonici. La sua entrata in Telecom è preceduta dall’acquisto di un aereo privato, battezzato «Telecom One». Forse per emulare l’Air For- ce One del Presidente degli Stati Uniti? «Nell’agosto 2001», rac- conta Vittorio Nola, ex segretario generale del cda di Telecom, «l’ad Enrico Bondi affida a me e ad altri due colleghi una procu- ra speciale per acquisire in leasing un Falcon 900 con la livrea bianca e rossa, cioè i colori della società. Guardi, ancora conser- vo la foto come una reliquia. Nel 2002, con l’avvento della piena gestione Pirelli in Telecom, al comandante della Servizi Aerei (so- cietà di gestione del leasing aeronautico) fu richiesto di ridipin- gere la livrea con i colori nero-azzurri…». Passioni sportive a par- te, il presidente si mostra sempre sicuro di sé, mai un dubbio, un’esitazione o un timore, anche quando rilascia interviste. Stori- ca resta nel 2008 una sua presenza al Tg1 delle 20, in qualità di esperto di problemi economici, dove alla domanda: «Cosa biso- gna fare per uscire dalla crisi?», risponde: «Bisogna aumentare i salari e avere più ore lavorate e più gente che lavori, soprattutto donne… e abbiamo bisogno di investire in ricerca e formazio- ne…». A confermare che tra i buoni propositi e la realtà c’è una bella differenza, si deve notare che durante la sua presidenza in Telecom l’organico italiano è stato ridotto di 22.396 unità e non mettersi delle perdite poiché il denaro che muove non è quello dei suoi direttori ma quello dei piccoli risparmiatori. Poco im- porta dunque se il titolo sale o scende, l’importante è a fine se- rata sedere alla stessa mensa degli azionisti di controllo. Ci sono infine i piccoli azionisti: una miriade polverizzata di piccoli risparmiatori, troppo piccoli, scomodi e disorganizzati. Per loro non ci sono benefici speciali. L’unica conseguenza alle politiche inefficienti è la perdita di ricchezza derivante dal crol- lo del titolo in Borsa. Alla luce di questa analisi non stupirà più di tanto sapere che il debito di un’azienda sana sia cresciuto in pochi anni del 650%, contemporaneamente alla espoliazione di gran parte dei suoi as- set strategici. E, come se non bastasse, a questa ardita gestione finanziaria si è accompagnata una gestione operativa che, duran- te la presidenza di Marco Tronchetti Provera, è diventata a dir poco grottesca. Il Tronchetto dell’infelicità Prima ancora di preparare l’assalto a Telecom, il bel tenebro- so del capitalismo italiano viene definito dal «Financial Times» «il nuovo Agnelli». Negli anni ’90 i mass media hanno confezio- nato per lui l’immagine dell’imprenditore gentiluomo, affasci- nante ed elegante, il classico italiano invidiato da tutti, persino dai salotti buoni della finanza mondiale. A beneficio dei poten- ziali imitatori, il settimanale «Panorama» ha elencato persino i particolari del suo stile: camicie Loro Piana, abito Caraceni, cra- vatta Marinella, orologi Piguet Royal Oak o Millennium, scarpe Tod’s e persino il taglio del barbiere Colla a Milano. Un tipo sportivo e amante del calcio. La domenica, puntualmente sugli spalti, viene infatti inquadrato e si fa intervistare. Diventa l’ico- na del tifoso aristocratico, sempre composto e signorile. Mai un gesto o un improperio contro l’arbitro e mai un’esultanza trop- po emotiva: quelle sono da provinciali.
  • 26. Solo con il videotelefono, secondo fonti interne, sarebbero sta- ti persi 400 milioni di euro (300 milioni di apparati non funzio- nanti, più 100 milioni tra spese di commercializzazione e assi- stenza). Spesso, dietro alcune semplici operazioni commerciali si sono celati fenomeni molto più complessi, tanto da rievocare la teoria dei vasi comunicanti secondo cui ciò che un’azienda per- de qualche altra inevitabilmente lo guadagna. Il caso del video- telefono è quello più eclatante, ma non l’unico, e vale la pena di ricordarlo. Già a metà degli anni ’90 la controllata Italtel aveva presentato il Nexus 2000, un videotelefono di hardware e software non trop- po distanti da quelli riproposti da Telecom Italia nel 2004. Il lan- cio fu un vero e proprio fallimento a causa del prezzo e della scar- sa qualità. La pubblicità dell’epoca aveva cercato invano di allet- tare la clientela con le formule: «Il telefono si accende di nuove emozioni», «il telefono che annulla le distanze e vi dona il calo- re». Anche il nuovo videotelefono commercializzato da Telecom donava calore ma, ironia della sorte, solo perché presentava una notevole tendenza al surriscaldamento velatamente confermata nel manuale di utilizzo della casa produttrice al punto 2.1 e spe- rimentata da un notaio che ha intentato causa a Telecom dopo che il videotelefono gli ha mandato in fumo la scrivania del ’700. Per anni l’idea di offrire la videotelefonata su rete fissa fu ac- cantonata, fino a quando nel 2004 venne presentato come «nuo- vo» il vecchio videotelefono. Il Nexus 2000 costava l’equivalen- te di 400 euro, poi sceso a 250. Mentre il «nuovo» videotelefono costerà ben 299 euro con una qualità ancor più scadente. Come mai a dieci anni di distanza dal lancio del Nexus 2000 è stato commesso lo stesso errore? Sempre che di errore si tratti. Signi- ficativa rimane la domanda che ha posto un dipendente nel buio della sala durante le presentazioni del nuovo videotelefono: «A cosa serve il videotelefono se già oggi con Internet si può fare una videocall gratuita?». Nonostante la richiesta di videotelefo- ni fosse inesistente, nel 2004 il geometra Patrick Scarlata, attra- verso la società HiTel, stipula un sostanzioso accordo con Tele- c’è stata alcuna innovazione tecnologica e nessun lancio di nuovi prodotti se non alcuni flop commerciali che passeranno alla sto- ria come esempio di scelleratezza e spreco. Anche quando è sot- to pressing per la questione di 1.600 immobili passati da Telecom Italia ai fondi partecipati da Pirelli Real Estate lui rimane calmo e impassibile, sostenendo che «tutto è avvenuto nella normalità» e che «quando siamo entrati abbiamo trovato un’azienda in si- tuazione molto critica, e quando l’abbiamo lasciata era in ottime condizioni»18 . Ottime condizioni? A caratterizzare il nuovo corso dell’era Tronchetti è anche il nuovo management. In particolare, il quarantenne Riccardo Ruggiero, proveniente da Infostrada, appena nominato ammini- stratore delegato, si porta dietro tutta la schiera di prodi e fede- lissimi giovani che per un lustro formeranno l’affiatata banda dei «Ruggiero boys». Memorabili anche i compensi che lievitano verso cifre da capogiro. Nel 2007 Ruggiero e Buora, rispettiva- mente ad e vicepresidente, grazie alle loro «brillanti» prestazio- ni vengono salutati con 17 e 12 milioni di euro. Mentre Tron- chetti come presidente ha guadagnato «soltanto» 5 milioni. Su Riccardo Ruggiero si narrano varie leggende metropolitane, come quella che lo vede sfrecciare in autostrada a 311 km orari con la sua nuova Porsche. «Volevo vedere se la lancetta del contachilo- metri arrivava fino in fondo», risponde ai carabinieri che lo hanno inchiodato al casello. La notizia fu riportata a suo tempo anche dal settimanale «Quattroruote». Più dubbi sembrerebbero invece al- cuni racconti sul suo stile direzionale o sulle sue gesta in alcune convention poi passate alla storia per grandezza e magnificenza. Figlio di Renato, ex ambasciatore Usa, giovanissimo si lancia nel mondo delle telecomunicazioni con Infostrada. Grazie ai buoni risultati entra nelle grazie di Tronchetti in qualità di ammi- nistratore delegato. Ma in Telecom i «Ruggiero boys» non ripete- ranno le stesse performance compiute in Infostrada. La nuova ge- stione si cimenta fin dall’inizio in operazioni commerciali che ri- sulteranno a dir poco azzardate. Un esempio? La vicenda del vi- deotelefono, invano rilanciato dopo il fallimento degli anni ’90.
  • 27. filone d’indagine avviato dalla Procura di Vicenza scopre che era abitudine diffusa attivare sim con nomi di fantasia, al fine di ac- crescere il numero di clienti per incassare i lauti premi. In chiu- sura di anno alcuni rivenditori (principalmente negozi), per rag- giungere o addirittura superare gli obiettivi del 100% e incassa- re i premi, gonfiavano il numero dei clienti con il benestare di al- cuni dirigenti. Naturalmente ciò giovava anche ai vertici azien- dali per ostentare gli eccellenti risultati di vendita di fronte alle comunità finanziarie, soprattutto quando si è in presenza di grandi operazioni di vendita o acquisto dei pacchetti azionari co- me quella avvenuta alla fine del 2005 per l’acquisto delle azioni minoritarie di Tim (altri 15 miliardi di debiti). La possibilità di realizzare questo tipo di truffe è determinata dal fatto che in una grande azienda i processi di fatturazione e pagamento sono automatizzati, e in teoria, facilmente eludibili in caso di non controllo. «Nelle fatture a nostro carico abbiamo trovato anche frigoriferi e lavatrici», mi ha detto confidenzial- mente un dipendente. «Alcuni negozi avevano negli armadi dei sacchi di plastica pieni di sim. A loro completo piacimento in- viavano una falsa registrazione alla Tim, che in moltissimi casi provvedeva, ignara, all’attivazione». Inizialmente, si parla di poche centinaia di migliaia di carte, ma da fonti interne fin dall’inizio emerge che il numero reale è nell’ordine di milioni. Per tale «leggerezza» viene licenziato Lu- cio Golinelli, responsabile dell’area Sales Consumer, seguito da altri impiegati. Molte procure d’Italia danno il via alle indagini mentre, a metà del 2008, Luca Luciani, allora direttore generale di Tim, viene mandato in Sud America come ad di Tim Brasil. Inizia il valzer dei numeri: in sede di relazione trimestrale, nel settembre 2009, l’azienda dichiara che il numero delle sim ac- certate come false è di 1,9 milioni, e tale valore viene riportato nel bilancio. Voci interne dicono invece che il numero reale oscilli intorno agli 8 milioni. Per avere dati più certi bisogna aspettare gennaio del 2010, quando Franco Bernabè, tornato al- la guida di Telecom a fine 2007, dichiara in un’intervista a «La «Cosmesi contabile» e «tarocco» A partire dagli anni 2000 si sono diffuse gradualmente delle pratiche poco trasparenti, passate agli annali con le espressioni «cosmesi contabile» e «tarocco» (quest’ultimo, qualora il nume- ro da addomesticare in bilancio fosse stato così ribelle da richie- dere più di un semplice maquillage. Tanti sono gli accorgimenti per effettuare una buona «cosmesi contabile» e bisogna proce- dere senza creare sospetti e farsi scoprire. Anche se nessun testo di contabilità e di economia aziendale parla di tali pratiche, il fe- nomeno è variamente diffuso in tutte le grandi aziende e la pri- ma regola è quella di non esagerare. Alcuni esempi consentiti di «cosmesi contabile» per far quadrare i numeri e incassare i pre- mi sono il rinvio dei costi o l’anticipo dei ricavi o anche la riven- dita di prodotti di terzi con margini negativi o uguali a zero (co- me nel caso del videotelefono) con il solo fine di gonfiare i rica- vi. Ma durante la gestione Tronchetti queste pratiche hanno ol- trepassato i limiti, spingendosi fino al «taroccamento» dei bilan- ci. Il caso più grave è stato sicuramente quello delle sim false. Benché il problema fosse noto alla stampa già dal 2006, lo scandalo scoppia ufficialmente nella seconda metà del 2007. Un com Italia per la fornitura di un milione di videotelefoni a un prezzo unitario di 125 euro. La stranezza è che il prezzo Telecom per i rivenditori si aggirava intorno ai 100 euro ad apparecchio, con una perdita netta di 25 euro al pezzo. In chiusura d’anno contabile i rivenditori venivano perciò obbligati a forti ordinati- vi per raggiungere gli obiettivi di vendita. Con un particolare: nei primi mesi dell’anno successivo i prodotti rientravano in Tele- com per malfunzionamento (quasi il 100%) e Telecom restituiva l’importo con una perdita del 125% in pochi mesi. Un’opera- zione di marketing davvero esemplare, da inserire nei program- mi degli attuali Mba per mettere in guardia gli studenti da quel- lo che non bisogna fare.
  • 28. a caso, inserendole a turno dentro il mio telefonino, e provando a chiamare: funzionavano»19 . Quale sarebbe il danno per un Pae- se, nel caso in cui centinaia di migliaia di sim false fossero cadu- te in mani sbagliate? A ciò si aggiungono le perdite effettive che ha dovuto subire l’azienda. L’emissione di una sim falsa comporta tre tipologie di costi: una spesa di produzione, trasporto, registrazione e attiva- zione, un premio, ingiustificato, per i canali commerciali e pro- babilmente anche una falsata politica di investimenti pubblicita- ri. I primi due elementi sono abbastanza tangibili. Da una prima analisi effettuata con Asati, l’Associazione azionisti Telecom Ita- lia, si stima un costo unitario di produzione, trasporto, registra- zione e attivazione pari a 17,5 euro per singola sim, che molti- plicato per 8 milioni darebbe 140 milioni di euro di costi. Leg- germente più complesso sarebbe il costo dei premi commerciali, anche se poi, con una semplice simulazione, si arriva a un nu- mero ugualmente elevato. Secondo fonti interne, nel periodo 2001-2007 la direzione commerciale avrebbe elargito bonus e premi commerciali pari a un miliardo di euro. Una parte di que- sta cifra sarebbe attribuibile al numero gonfiato di clienti. A que- sti numeri si aggiungerebbe un ulteriore danno: il fatto che tut- te le politiche di marketing e pubblicità siano state falsate dagli obiettivi di vendita. Spendere 100 o 200 milioni l’anno in pub- blicità è giustificato se si raggiungono veramente gli obiettivi, ma la cifra diventa folle se i risultati sono fittizi. E i responsabili? Lucio Golinelli, responsabile dell’area Sales Consumer, nel verbale del 26 febbraio 2009 ammette che il fe- nomeno «era noto in azienda fin dal 2000, si tratta di una cono- scenza che definirei storica. […] Vi era l’interesse ad avere il maggior numero di clienti che generassero un minimo di traffi- co, da cui una forte spinta su volumi acquisitivi ingenti». Così come testimonia anche Gabriele Della Vedova, responsabile Sa- les support and process, che nell’interrogatorio del 10 febbraio 2009 afferma, ancor più chiaramente: «La struttura centrale era perfettamente a conoscenza di fittizie intestazioni di schede a Stampa» che le sim accertate come false potrebbero essere in- torno ai 5 milioni e mezzo. Nel febbraio 2011 la Guardia di Finanza, facendo irruzione negli uffici Telecom di Milano per ulteriori accertamenti, com- prova l’esistenza di 2,4 milioni di sim dormienti rivitalizzate, ma che in realtà sono false, attribuite a clienti che non generano traf- fico e che sono state riattivate con l’accredito di un centesimo di euro. A queste, secondo le fonti ufficiali finora emerse, si ag- giungerebbero altri 4 milioni di sim: alcune rivitalizzate, altre in- testate a persone inesistenti e altre ancora intestate più volte allo stesso proprietario, per un totale di circa 6,4 milioni di carte fal- se (in pratica una su quattro). I numeri sono ingenti e la «truffa» ai danni del mercato è tanto più grave se si considera che il de- creto Pisanu stabilisce che per poter attivare una sim è necessa- rio disporre del codice fiscale e del documento dell’intestatario. Si arriva così alla conclusione che la vicenda ha avuto effetti an- che sul mondo della criminalità organizzata, per la possibilità di usufruire di chiamate non identificabili. Oltre alle Procure di Vicenza, Milano e Roma, anche quella di Napoli si interessa al caso, aprendo nel 2008 un fascicolo dal ti- tolo «Sim ’e Napule» con oggetto i rapporti tra i clan della ca- morra e la pratica di falsificazione delle carte ai danni di Tele- com. Indipendentemente da tutte queste indagini, il giornalista di «Panorama» Carmelo Abbate, fingendosi interessato all’ac- quisto di 500 sim false, ha provato a indagare sul caso nel Nord Italia: «Il primo contatto è avvenuto su Internet con una perso- na che si è sempre nascosta dietro un nickname», scrive. «Non è stato semplice, ogni volta che l’affare sembrava vicino alla con- clusione il prezzo delle schede improvvisamente saliva da 1 a 5 e 10 euro. E le persone che dovevano materialmente consegnarle sparivano di colpo e non erano più rintracciabili. Alla fine il pac- chetto mi è stato consegnato in un parcheggio buio di una stra- da statale alle 11 di sera, senza che sapessi chi fosse la contro- parte. Prendere o lasciare. Le 500 sim card erano ammucchiate dentro un sacchetto della spazzatura. Ne ho provate una decina
  • 29. Clamoroso, durante la gestione Tronchetti, è anche lo scanda- lo legato a Sparkle, società del gruppo Telecom che gestisce il mercato del traffico internazionale. Servendosi di sofisticati mec- canismi finanziari, alcuni dirigenti delle «società cartiere» hanno realizzato tra il 2003 e il 2007 delle operazioni illecite cui è stato assegnato il nome di «frodi carosello» per un giro di fatturazioni false pari a due miliardi di euro (circa il 35% del fatturato). Le fatture false, oltre a gonfiare i bilanci, servivano a evadere l’Iva con la conseguente creazione di fondi neri da distribuire e utiliz- zare per l’acquisto di beni di lusso quali macchine da corsa e gioielli. Il gip di Roma che ha ricostruito la vicenda parla aperta- mente di «legami con la delinquenza organizzata», la cui attività era proprio quella di riciclare i fondi neri che uscivano da Tele- com a titolo di fatture emesse. «Le modalità operative di Telecom Italia Sparkle», commenta il gip, «pongono con solare evidenza il problema delle responsabilità degli amministratori e dirigenti della società capogruppo alla quale appartiene Sparkle […]. È evidente che o si è in presenza di una totale omissione di controlli all’interno del gruppo Telecom sulle gigantesche attività di frode e riciclaggio, o vi è stata una piena consapevolezza delle stesse»21 . Un ultimo interrogativo sorge circa la gravità del reato di fal- so in bilancio. In alcuni Paesi, come ad esempio gli Stati Uniti, le pene sono severissime. L’ex amministratore delegato della En- ron, Jeffrey Skilling, è stato condannato nel 2006 a 24 anni e 4 mesi di reclusione per frodi contabili. E in Italia? Esiste ancora il reato di falso in bilancio? «Noi della security siamo peggio della Gestapo…» Oltre allo scandalo delle sim false, quello che tutti i lettori ri- corderanno è il caso dello spionaggio telefonico. Vicenda che torna ogni tanto agli onori della cronaca perché a Milano è an- data in onda una specie di «commedia giudiziaria» con al centro gli spioni che lavoravano per Telecom e l’ex presidente Tron- nomi di fantasia, come Pippo, Pluto, Paperino, per struttura centrale intendo l’azienda stessa, a partire dal top manage- ment»20 . Sorge allora una domanda: se la conoscenza del feno- meno era «storica», perché premiare i rivenditori in base al nu- mero dei clienti e non in base al fatturato? Tutti i libri di marke- ting insegnano che il numero di clienti non è un indicatore veri- tiero. Un’impresa può avere pochi clienti ma buoni, mentre un’altra, a fronte di un numero enorme di clienti, può avere un fatturato ridotto. Dunque, perché perseverare in queste politi- che remunerative? I rivenditori non avrebbero mai potuto falsi- ficare in modo consistente i dati di traffico per conseguire i pre- mi commerciali. Quanto a Luca Luciani, responsabile vendite dal 2005 al 2008 e poi ad di Tim, nel verbale d’inchiesta della Procura di Milano del 13 maggio 2009 dichiara: «[Sapevano delle sim] certamente oltre a me e alla struttura da me dipendente anche i miei supe- riori, inclusi gli amministratori delegati succedutisi nel tempo». Ma chi è Luca Luciani? Golden boy del nuovo corso di Tele- com, spicca per bellezza ed eleganza. Laureato alla Bocconi, e per un anno assistente di Tronchetti, da manager balza all’onore delle cronache per le sue doti di «storico». In una convention ge- nerale del 2008 è riuscito ad affermare in pubblico che Napo- leone a Waterloo realizzò il suo capolavoro. Quell’intervento, esemplare per arroganza e turpiloquio, è andato più volte in on- da anche su Striscia la notizia: «Perché ho la faccia incazzata?», esordisce il top manager, «perché la gente legge i giornali, vede il titolo, si rimbalza e si crea dei grandi film che sono tutte caz- zate. Oggi non vi parlo di Alessandro, vi parlo di Napoleone. Napoleone a Waterloo, una pianura in Belgio, fece il suo capo- lavoro…». Chissà cosa avrebbe detto su Alessandro! L’interven- to è stato così straordinario che qualcuno ha anche pensato che il prode e incompreso Luciani volesse solamente sperimentare il controllo sulla mente, dopo aver seguito magari qualche nuovo corso aziendale per convincere i dipendenti a guardare il mondo alla maniera del Candido di Voltaire.
  • 30. con Telecom, che dichiara subito di non sapere nulla di quelle at- tività illecite. Sta di fatto che solo nel giugno 2010, dopo che la vi- cenda era già nota da qualche anno, Tronchetti e Buora entrano nel registro degli indagati presso la Procura di Milano. Le inda- gini prendono una netta direzione solo in seguito alle dichiara- zioni di uno degli alfieri di punta del Tiger team, Emanuele Ci- priani, che nel febbraio 2010 afferma davanti ai magistrati che tutti i dossier sulle persone spiate venivano consegnati a Tavaro- li, il quale avrebbe informato Tronchetti ogni volta che fossero emersi elementi interessanti. Queste dichiarazioni sarebbero sta- te però smentite da Tronchetti, che avrebbe seguitato a ribadire di non essere a conoscenza delle attività svolte dalla security. Dopo circa tre anni di udienze, la magistratura ha dato ragio- ne a Tronchetti circa la sua estraneità ai fatti con eccezione per la vicenda Kroll, dove l’ex presidente è stato condannato in pri- mo grado a un anno e otto mesi per ricettazione. «La vicenda al centro del processo risale al 2004», scrive «Il Sole 24 Ore», «an- no in cui Tronchetti era presidente di Telecom Italia e il colosso telefonico combatteva con alcuni fondi per il controllo di Tim Brasil. La ricettazione riguarda un cd di dati raccolti dall’agen- zia di investigazione Kroll e poi hackerati dagli uomini dell’ex manager della security Telecom, Giuliano Tavaroli. Secondo Ro- bledo, Tronchetti Provera era consapevole della provenienza il- lecita di quei dati»23 . Oltre agli intrecci industriali, ancora più preoccupanti sareb- bero quelli politici, così come riferiscono alcune fonti interne non ufficiali. Lo scenario più probabile riguardava l’interesse per l’«affare Telekom Serbia» da parte del governo Berlusconi, appena insediato. In particolare, si pensava di smascherare pre- sunte tangenti24 che alcuni esponenti del governo Prodi avreb- bero preso da Miloševic´ in seguito all’acquisto a peso d’oro, nel 1997, di una partecipazione in Telekom Serbia. Quelle stesse quote furono infatti rivendute alcuni anni dopo a meno della metà, con una perdita netta di circa 400 milioni di euro. Tutta la vicenda sarebbe stata un’occasione magnifica per screditare il chetti che si è trovato periodicamente a deporre. Il dilemma giu- diziario da otto anni a questa parte è stato esattamente lo stesso che si conosceva dall’inizio: agivano per conto proprio o in fa- vore dei vertici aziendali? Domanda talmente oziosa che, se fos- se rivolta seriamente, rasenterebbe l’offesa. Lo scandalo ha coinvolto cinquemila persone spiate, per un bacino potenziale di spiati pari a circa 1 milione di persone22 . L’attività illecita di spionaggio aveva come unico scopo quello di controllare gli ambienti della finanza, dell’economia, della poli- tica e persino dello sport. Organizzato da alcuni uomini della Pi- relli prima ancora dell’arrembaggio alla nave Telecom, questo in- tricato sistema di spionaggio aveva lo scopo di «screditare la ge- stione operativa esistente e consentire una più rapida presa di potere senza trattative o controlli». In poche parole: «entrata, conquista e resa incondizionata dell’azienda», come commenta Vittorio Nola, prima vittima dell’operazione «New Entry» in qualità di segretario del cda durante la gestione Colaninno. Principale attore delle operazioni di spionaggio telefonico è Giuliano Tavaroli. «Noi della security siamo peggio della Gesta- po», annuncia in tono scherzoso l’ex maresciallo dei Carabinieri in una riunione di lavoro in Telecom. Fisico possente, barba cu- rata e occhio azzurro gelido, dopo aver prestato servizio presso la sezione Anticrimine dei Carabinieri di Milano, è stato respon- sabile della sicurezza di Pirelli per arrivare poi ai vertici di quel- la del gruppo Telecom nel 2001. Quattro anni dopo nascono i primi problemi. Nell’ambito dell’operazione «Amanda», Tava- roli viene sorpreso a effettuare ascolti telefonici senza autorizza- zione nella sede Telecom di piazza Affari a Milano. Ma anziché essere licenziato viene trasferito in Romania con una responsa- bilità non ben definita, mantenendo ovviamente la qualifica di dirigente con stipendio e benefit vari. Se operava per conto suo, come sostenuto fin dall’inizio dai vertici Telecom, perché non al- lontanarlo immediatamente dopo una simile azione criminosa? Arrestato il 20 settembre 2007, Tavaroli è rimasto sei mesi in carcere, interrompendo ovviamente il rapporto di collaborazione
  • 31. gersi dai servizi di spionaggio interni, infiltrati nell’azienda da sempre per conto di ambienti americani. Un po’ come quando un bambino è alle prese con un giocattolo complesso e vuole a tutti costi capire come funziona. In proposito, un articolo ap- parso su «Il Sole 24 Ore» a firma di Giuseppe Oddo25 può chia- rire alcuni retroscena di tutta la vicenda Telecom: «I servizi se- greti italiani sono sempre all’opera, soprattutto quando c’è di mezzo la Telecom. Il loro zampino è evidente non solo nella vi- cenda Tavaroli, ma anche in altre meno note. Ricordo una con- fidenza di Ernesto Pascale al termine di un’intervista che mi ri- lasciò qualche tempo dopo la sua nomina ad amministratore de- legato della Sip (qualche anno dopo avrebbe assunto lo stesso in- carico alla Stet). Gli avevo chiesto se la struttura segreta Gladio fosse ramificata nelle telecomunicazioni. “No – mi rispose – ma sono certo che i servizi dispongano di propri uomini alle dipen- denze della Sip, di cui noi non siamo a conoscenza”. E ricordo anche le parole di Gian Mario Rossignolo. Eravamo andati a tro- varlo a Torino, io e Giovanni Pons, mentre lavoravamo all’“Af- fare Telecom”. Stava raccontandoci le sue peripezie da presi- dente della Telecom, le raccomandazioni che gli arrivavano gior- nalmente da tutto il sistema politico. A un certo punto si lasciò scappare di pressioni ricevute attraverso i servizi che agivano per conto di ambienti americani. “Si fece vivo il Sismi. Mi fu chiesto di mettere sotto ascolto il nodo telefonico di Palermo per il qua- le transitano le telefonate per il Medio Oriente. Mi rifiutai”». Per quanto pericolosa e ancora oscura, la storia degli spioni Telecom non rimane dunque un unicum spazio-temporale, ma è l’anello di una catena che parte da molto lontano. Una catena sulla quale il settimanale «Panorama» aveva già svelato qualche retroscena quarant’anni fa. «Nell’autunno 1973, sotto la copertura della rete di comuni- cazioni della Nato, i servizi segreti americani, evidentemente senza che il Sid frapponesse ostacoli e verosimilmente con la sua collaborazione, ultimarono la preparazione di un sistema di con- trollo totale della rete telefonica di Roma […]. La cosa finì in più grande rivale, Romano Prodi, spazzandolo via dall’orizzonte politico. In cambio, ci sarebbe stato il via libera al definitivo sac- co di Telecom. Una sorta di do ut des attraverso il quale il Cen- trodestra avrebbe potuto eclissare in particolare altri due acerri- mi rivali. Quali? Lo spionaggio ha riguardato, oltre alle tangenti serbe, anche il misterioso Oak Fund, il «fondo Quercia» con se- de alle isole Cayman che compare tra gli azionisti che hanno ac- compagnato i «capitani coraggiosi» nella realizzazione dell’Opa. Al di là del nome, che richiama il simbolo del Partito democra- tico della Sinistra, quali furono i legami tra il fondo e gli espo- nenti del governo? Cosa doveva svelare il fantomatico «dossier Baffino» di cui parla Cipriani nelle sue deposizioni? Non biso- gna essere degli investigatori per capire chi fosse l’obiettivo del dossier. Voci di corridoio, mai accertate, sembrano propendere per una pista che attribuisce la firma di alcuni importanti espo- nenti dei Ds sul fondo Quercia. I due dirigenti sarebbero stati Rossi e Fassino, che in seguito all’Opa di Colaninno avrebbero intascato tangenti alle isole Cayman. Chiacchiere che non hanno mai trovato alcun riscontro e che sarebbero state una colossale montatura, come confermato dagli atti giudiziari emersi nelle udienze del processo per lo spionaggio illecito. Comunque, il 28 marzo 2007 anche sul «dossier Baffino» Cipriani ha dichiarato davanti ai pm della Procura di Milano che Tronchetti era al cor- rente di tutto: «Tavaroli mi disse che sia le notizie relative al rap- porto conclusivo, sia quelle dei vari summary, le riferiva al dot- tor Tronchetti Provera». La vicenda dello spionaggio illecito non è certo una novità de- gli ultimi anni. La convinzione è che tutti i governi, non solo quello di Berlusconi, siano stati attratti dalla tentazione di ma- novrare Telecom al fine di trarre il più grande numero di infor- mazioni possibili. Non solo per fini politici, economici e specu- lativi, ma anche in termini strategico-militari. Il voler entrare nei salotti buoni della finanza può essere un motivo valido per ap- poggiare l’uno o l’altro gruppo azionario, ma non certo l’unico. È molto probabile che la nuova classe dirigente volesse proteg-
  • 32. mattone e la contemporanea entrata dell’euro. Se a ciò si aggiun- ge l’acquisto a credito, e a prezzi stracciati, si arriva alla conclu- sione che chi ha condotto massicce operazioni immobiliari sotto il segno delle privatizzazioni ha realizzato enormi plusvalenze. Nel 1999 il patrimonio immobiliare che appare in bilancio a prezzi storici ammonta a cinque miliardi di euro. Nel corso di pochi anni questo capitale viene azzerato. Scompaiono uffici di prestigio e centrali telefoniche (generalmente edifici in aree me- tropolitane) vendute a società partecipate da Pirelli Real Estate e, come ha ironizzato Beppe Grillo, «Tronchetti non si è nean- che dovuto chiamare al telefono per realizzare l’accordo». In realtà, la vendita del patrimonio immobiliare inizia con l’era Co- laninno. Fresca di privatizzazione, mamma Telecom viene spre- muta per rifocillare gli sforzi dei «capitani coraggiosi». Nel 2000 vengono ceduti 580 immobili (la maggior parte sono grandi cen- trali retrolocate a Telecom)27 per un incasso di 2,9 miliardi di eu- ro. Gli immobili vengono ceduti a fondi partecipati dalla società Beni Stabili, controllata dal gruppo Sanpaolo Imi e Lehman Brothers. Successivamente una parte di questi immobili viene ceduta a fondi controllati da Goldman Sachs. Tra il 2002 e il 2005 vengono ceduti 329 immobili (centrali e edi- fici di prestigio nelle maggiori città d’Italia) con un doppio passag- gio attraverso Tiglio I e Tiglio II Srl, partecipate da Morgan Stan- ley e Pirelli Real Estate. Nell’assemblea di aprile 2008 il presidente del cda Telecom, Gabriele Galateri di Genola ha dichiarato che la liquidità generata dalla vendita di questi 329 immobili è stata di cir- ca 500 milioni, mentre in una relazione di Pirelli del 2007, reperi- bile sul sito dell’azienda stessa, si legge «immobili per un valore di 1,6 miliardi di euro». E non si capisce perché i conti non tornino. Nel 2006 vengono ceduti gli ultimi immobili al fondo Raissa con- trollato da Morgan Stanley e Pirelli Real Estate, per un totale di 1.279 cespiti (quasi tutte centrali di piccole dimensioni retrolocate a Telecom), per un incasso di circa un miliardo di euro. Alla fine, dunque, il patrimonio immobiliare sarebbe stato equamente di- smesso tra la gestione Colaninno e la gestione Tronchetti. 26 . Un sistema di spionaggio interno avrebbe potuto essere fun- zionale a un possibile golpe politico o militare? «Non credo che la questione sia così semplice», risponde Vittorio Nola. «Il siste- ma di potere che con la Pirelli si è impossessato di Telecom era molto complesso e a mio avviso ci sono stati più livelli di inte- resse, probabilmente anche quello politico-militare. Dato che le attività di dossieraggio e di spionaggio illegali sono andate avan- ti anche per molto tempo dopo la conquista del potere in Tele- com, a quel punto ogni soggetto ha ritenuto di crearsi il suo ha- bitat naturale: chi guardava al proprio portafoglio, chi desidera- va vendette, chi potere, nomine e incarichi, chi semplicemente sfruttare la grande liquidità aziendale…». Centrali telefoniche in vendita su eBay La cessione del cospicuo patrimonio immobiliare è una vicen- da davvero esemplare per capire il significato dell’espressione «spolpare fino all’osso». Più che di numeri, qui si tratta di lingui- stica, perché trovare la parola adatta a un tale tipo di operazioni non è cosa banale. Dopo la privatizzazione, a tutti i gruppi di in- teresse era ben noto che Telecom disponesse di un ingente patri- monio di immobili, creato in anni e anni di attività, costituito da centrali, terreni e edifici di prestigio nelle maggiori città italiane. Una preda molto ghiotta, vista la concomitanza del boom del Parlamento con un nugolo di interrogazioni che non ebbero mai risposta. Ci sono state soltanto smentite generiche che non han- no convinto nessuno». Questo vecchio articolo ci spiega inoltre altri aspetti preoccupanti: «Il cuore dell’impianto Nato per il controllo telefonico (consente ogni intercettazione e il blocco to- tale delle comunicazioni) si trova in viale Cristoforo Colombo 153, nei locali della direzione centrale Impianti e Cavi del mini- stero delle Poste. Le sale riservate alla sezione Nato sono sorve- gliate da uomini armati e godono del privilegio della extraterri- torialità, come le ambasciate»