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Francesca Salis
“Delle usanze maritali” nel Campidano
di Cagliari
               Dal che voi vedete quanto degli antichissimi riti abbiano custodito i Sardi nella
               solennità de' maritaggi: riti che contengono la storia non solo della divina
               istituzione, ma degli esordi altresì della prima civiltà delle genti occidentali.
               Tradizioni importantissime, che i Sardi senza punto conoscerlo, ci
               conservarono inviolate. [Bresciani, Dei costumi dell’Isola di Sardegna]

1.1 Premessa
                                                                       L’area           denominata
                                                                       Campidano di Cagliari
                                                                                        corrisponde
                                                                            approssimativamente
                                                                       ai       territori    dell’area
                                                                       cagliaritana,         cioè    di
                                                                       quell’area           che     può
                                                                       essere identificata “nel
                                                                       territorio compreso nei
0.1 Comuni del Campidano di Cagliari
                                                                       limiti           di          una
                                                                       circonferenza che, con
centro in Cagliari, si stenda per un raggio di una ventina di chilometri” [Alziator,
1984:15].

È un’estensione che si presta facilmente ad essere delimitata come unità di ricerca, in
quanto relativamente omogenea dal punto di vista geografico, storico, linguistico,
economico e delle tradizioni culturali. Fin dalle origini tale estensione è stata sottoposta
alle medesime influenze culturali, derivanti dalla sudditanza a uno stesso centro
politico e ecclesiastico e favorite dalla presenza di una vasta area pianeggiante che ha
consentito scambi relativamente facili e frequenti tra i vari paesi della zona, come pure
una medesima lingua, la variante campidanese della lingua sarda. Alziator propone
alcuni esempi a dimostrazione di questa uniformità:

   il tipo della casa a pianta rettangolare che gravita sul cortile interno, il tipo del
   vestiario, sia maschile che femminile, i motivi dell‟oreficeria popolare, i motivi
   del patrimonio leggendario tradizionale, la diffusione e la persistenza della



                                                       Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 1
launedda nella musica popolare, una sostanziale unità nella paremiologia, nella
    religiosità popolare, nella gastronomia ed in non poche manifestazioni del ciclo
    dell‟uomo e dell‟anno [Alziator, 1984:32]

Non esistono al momento studi che si occupino in modo specifico delle usanze
matrimoniali nell’isola. Affrontarne lo studio significa dunque fare i conti con una
documentazione scarsa e lacunosa, per di più prodotta con fini e metodologie
eterogenei. Inoltre, la scelta di circoscrivere l’ambito di approfondimento a una
specifica zona complica ulteriormente la ricerca. Gli studi concernenti l’area
campidanese sono senza dubbio pochi, specialmente se si prendono in considerazione
i lavori dedicati alla raccolta e all’analisi delle tradizioni popolari, fatto tra l’altro
costantemente evidenziato dagli autori presi in esame.

È opinione diffusa che la “vera” Sardegna sia altrove, la “sardità” viene presentata - nei
dépliant turistici, alla televisione, nei discorsi quotidiani - come una qualità localizzata
per lo più nel nuorese e specie tra i pastori (cfr. Satta 2003). Tendenza che coinvolge
anche gli studiosi; basterebbe una rapida occhiata nelle biblioteche sarde per
accorgersi della netta predilezione per lo studio delle zone più interne dell’isola, più
“tradizionali”1. Il Campidano appare, al confronto, un’area poco conservativa, da
sempre soggetta alle mode “continentali” del momento, per cui l’attenzione a esso
rivolta è di natura per lo più storica e sociologica, mentre l’elemento folklorico è
trascurato.

Nel tentare una ricostruzione il materiale utilizzabile è essenzialmente di tre tipi
differenti: i resoconti dei viaggiatori dell’Ottocento in Sardegna, il diritto ecclesiastico
locale, i saggi storici e antropologici pubblicati a partire dagli anni ’70.

Il primo tipo di fonti ha il vantaggio di fornire una testimonianza diretta, di prima mano,
su realtà culturali ormai scomparse, la cui descrizione è spesso molto dettagliata. Tale
materiale ha però tutti i limiti della tradizione della letteratura esotica e di viaggio a cui
appartiene di diritto: è costituito da resoconti di politici, uomini di chiesa, esploratori,
geografi, che non possiedono un’adeguata preparazione di tipo antropologico e non
sono guidati da un progetto scientifico esplicito e coerente. L’attenzione tende a


1
  Angioni è stato uno dei primi antropologi a riequilibrare il quadro degli studi sulla Sardegna,
pubblicando diversi importanti lavori sul lavoro contadino, per di più su aree sarde sino a quel momento
poco studiate, tra cui ad esempio Rapporti di produzione e culture subalterne. Contadini in Sardegna,
Edes, Cagliari, 1974 e Sa Laurera. Il lavoro contadino in Sardegna, Edes, Cagliari, 1975.




2 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
concentrarsi sulla diversità, sulla raccolta di curiosità folkloriche di tipo aneddotico,
espressione di una realtà selvaggia nei cui confronti l’atteggiamento varia dalla
condanna morale, alla spiegazione tramite pregiudizi, allo stupore divertito. La cautela
nell’utilizzo di questo materiale è quindi d’obbligo: si rischia di attribuire ai più il
comportamento di una minoranza, di estendere a tutte le classi sociali il
comportamento di una sola, a tutta un’area un’usanza di paese. Da questo punto di
vista tale letteratura offre un’immagine omogenea di cultura che non soddisfa la ricerca
di una verosimiglianza storica: è un’impresa riuscire a determinare l’estensione di
un’attività o di un’usanza in termini di spazio, di tempo, di classe sociale. Inoltre,
spesso le osservazioni contenute in questi lavori non derivano da osservazione diretta,
bensì dal plagio, dal riassunto spesso erroneo, e altrettanto spesso non dichiarato, di
passaggi di opere di viaggiatori precedenti2.

Una grande quantità di notizie sulle usanze relative al matrimonio si ricava in maniera
indiretta dalle fonti ecclesiastiche: documenti di diritto ecclesiastico locale, annotazioni
nei Quinque Libri3, atti matrimoniali, manuali di catechismo. I divieti, le prescrizioni e le
punizioni con cui la Chiesa tendeva a regolamentare la condotta dei fedeli svelano
quale fosse il reale comportamento delle persone registrando con estrema precisione
le circostanze dell’evento da sanzionare e i dati delle persone coinvolte. Sempre a
differenza dei resoconti di viaggio, l’analisi dei documenti della Chiesa richiede una
discreta preparazione, che consenta di attivare la giusta chiave di lettura del testo,
eliminare le considerazioni negative espresse da parte dei redattori, capire il significato
nascosto dietro le circonlocuzioni e le formule utilizzate. Da tale documentazione
possiamo ricavare ciò che si dovrebbe fare (e con quali modalità) e ciò che non si
dovrebbe fare ma si fa lo stesso (con quali sanzioni), ma ben poco possiamo
conoscere a proposito di quei comportamenti ritenuti talmente normali, ovvi, tali da non
aver bisogno di essere prescritti esplicitamente, o al contrario di essere vietati in
quanto accettati anche dalla Chiesa.




2
 A questo riguardo si veda Delitala, 1981
3
  Sono così chiamati i registri parrocchiali che in seguito alle normative emanate dal Concilio di Trento
ogni parroco era tenuto a compilare e aggiornare costantemente. I registri parrocchiali erano composti da
cinque libri (da cui il nome): il libro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni, dei defunti, dei confessati
e comunicati (il quale era suddiviso in stati d‟anime, elenchi nominativi, dichiarazioni generiche del
parroco). Fonte: Anatra, Puggioni, 1983




                                                                Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 3
È solo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, che la ricerca storica e antropologica
si mostra più attenta nei confronti di questioni quali il matrimonio e la famiglia nella
Sardegna “tradizionale”. Rispetto ai lavori precedenti, di carattere prevalentemente
descrittivo e documentario, questi cercano di stabilire il senso delle regolarità
statistiche: le strategie matrimoniali, la struttura delle famiglie, il ruolo della parentela, in
contesti ben delimitati in termini di spazio e di tempo. Il più utile in questo caso è
sicuramente Famiglia e matrimonio nella società sarda tradizionale a cura di Anna
Oppo, raccolta di saggi scaturiti da un convegno dallo stesso titolo tenutosi a Cagliari
nel 1988. Purtroppo, però, per ovvie ragioni, le testimonianze degli informatori sono
limitate temporalmente al XX, o, al massimo, alla seconda metà del XIX secolo.

Per limitare i possibili errori di fraintendimento del testo, legati alla natura e
all’eterogeneità del materiale di ricerca, si è privilegiato un approccio di tipo selettivo
nella lettura dei documenti. Partendo dalle informazioni ricavate dal lavoro di ricerca sul
campo, su ciò che sanno o ricordano le generazioni viventi a proposito delle
consuetudini relative a nozze e fidanzamento, si è proceduto all’analisi della letteratura
di viaggio, dando la precedenza al materiale che facesse esplicito riferimento a paesi
del Campidano di Cagliari, ma utilizzando anche quanto riferito alla Sardegna in
generale, in cui fosse possibile riconoscere elementi della tradizione campidanese. Per
quanto riguarda il resto delle fonti, la cui contestualizzazione è stata meno
problematica, mi sono limitata a una selezione sulla base del criterio geografico.

Ciò premesso, si può ora passare ad esaminare il contenuto delle opere che si
occupano di fidanzamento e matrimonio in area cagliaritana.




4 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
1.2 Su fastigiu - Il corteggiamento
Come è noto, la letteratura antropologica sul matrimonio è vastissima. A seconda della
prospettiva con la quale si è affrontato il tema, l’istituzione matrimoniale risulta essere
uno dei mezzi privilegiati per sanare conflitti diversamente non sanabili tra famiglie
rivali, un modo per spartirsi il potere con un accordo anziché con una lotta aperta, un
espediente per non frammentare il patrimonio economico familiare. La scelta del
coniuge non appare mai totalmente libera, in quanto ampiamente condizionata da
elementi quali la difesa di posizioni sociali, le norme morali vigenti, la salvaguardia del
patrimonio economico4. Nella Sardegna tradizionale la questione coinvolgeva
solitamente il parentado, impegnato al fine di conseguire il risultato più soddisfacente
dal punto di vista della posizione sociale e del vantaggio economico, ma coinvolgeva
anche la comunità che poteva stigmatizzare la scelta con più o meno pesanti sanzioni
sociali5. Lascerei dunque da parte le questioni relative al grado di libertà individuale
nella scelta dei pretendenti, poiché difficilmente le questioni relative al fidanzamento e
al matrimonio erano decise unicamente dai diretti interessati. Va comunque precisato
che vere e proprie forme di strategie matrimoniali erano per lo più limitate ai “ceti
proprietari”.

“Calidadi cun calidadi”6, come si sente ripetere ancora, ossia l’endogamia sociale prima
di tutto. Anche quando si diffonde la moda del corteggiamento - una pratica sociale che
si afferma in Sardegna, come nel resto d’Europa, a partire dal XVIII secolo - questo è
rigidamente sottoposto al rispetto della separazione tra le classi. Gli incontri tra i
giovani dei due sessi sono sottoposti a un severo controllo affinché avvengano



4
  Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda a Zonabend, 1988.
5
   Un esempio concreto di come le questioni relative alla fondazione di una nuova famiglia non
riguardassero solo i diretti interessati e le loro famiglie, ma l‟intera comunità, deriva dalla disamina di
Gallini (1977, secondo capitolo) delle forme di charivari in Sardegna. L‟infrazione della norma che
prevedeva che la famiglia fosse monogamica oltre la stessa morte di uno dei partner e che la sessualità
fosse finalizzata alla procreazione legittima, era oggetto di una plateale disapprovazione pubblica che
prendeva il nome di sa coredda (o suo equivalente linguistico). Nei casi di seconde nozze di un vedovo o
una vedova, nozze di un anziano con una giovane, cambiamento di fidanzato di una ragazza, gravidanza
illegittima, cioè nei casi di famiglia “rotta” (per morte di uno dei due membri o per abbandono di uno dei
due fidanzati) ricomposta su altre alleanze, e nei casi di famiglia incompleta (perchè formata solo di
madre e di figlio), veniva organizzata una chiassata satirico-ingiuriosa davanti alla casa dei colpevoli di
infrazione delle norme morali, della durata di alcuni giorni.
6
  Nel vocabolario del Canonico Giovani Spano il termine sardo calidadi è tradotto come “qualità, stato,
condizione”.




                                                             Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 5
nell’ambito di famiglie dello stesso ceto7. Pillai [1991:44] rileva forme di endogamia
tecnica, per cui i vignaioli sposano figlie di vignaioli, i muratori figlie di muratori, mentre
Alziator [1963:65], accenna a una forma di endogamia non di paese, ma di rione,
diffusa a Cagliari “a tal punto da stabilizzare, anche fisiognomicamente, il tipo di ogni
quartiere”.

Purché sia rispettata questa condizione, si può far posto anche all’amore romantico:
    Già nel XVIII secolo, similmente a quanto accadeva in altre parti d‟Europa
    “anche tra il popolo si diffonde il linguaggio dell‟amore-passione” e sempre più
    spazio si riserva agli slanci del cuore, alle passioni travolgenti, il tutto unito alla
    superstizione che i figli dell‟amore nascano più belli degli altri. [Pillai, 1991:46-
    47]

La lunga dominazione spagnola in Sardegna ha fatto sì che soprattutto nell’area
cagliaritana l’amore sia stato concepito alla maniera del galanteo spagnolo. Il carattere
tipicamente spagnolo dell’amoreggiare in area cagliaritana sarebbe testimoniato da
molteplici termini e espressioni: primo fra tutti il termine fastigiu (da cui il verbo
fastigiai). Il sostantivo fastigiu deriva dallo spagnolo fasteig o dal catalano festej, che
indica il “far festa, rendere omaggio, fare la corte, galanteggiare” [Alziator, 1963:65;
Caredda, 1993:33].

Sino alla metà del secolo scorso, il termine fastigiu è servito a indicare le forme
attraverso cui poteva esprimersi il corteggiamento cagliaritano: solitamente tra strada e
balcone, poteva essere del tutto muto, fatto di soli sguardi, oppure per cenni e
attraverso il linguaggio dei gesti, i più intraprendenti si servivano di un rudimentale
telefono, costruito con dei barattoli uniti da spaghi tesi. Alziator sottolinea come la
distanza tra i due giovani sia una discriminante di classe: a classe più elevata
corrisponde una maggiore e più rigida distanza. Il fastigiu si esprime anche attraverso
le serenate che il giovane, accompagnato da chitarra, mandolino o mandola, dedica
alla sua bella. Alcune di queste serenate di corteggiamento sono giunte sino a noi,
raccolte da scrittori italiani e stranieri.

Saper gestire i propri spasimanti è una questione di abilità e intelligenza. Le donne che
si espongono troppo rischiano di essere occasione di critiche e di scherzi da parte della


7
  A questo proposito ci si potrebbe chiedere, con Angioni (1990:18) se l‟endogamia di ceto vada intesa
come una “una forma di dominanza delle esigenze della famiglia, della parentela” o invece come “una
forma di dominanza, di ingerenza, dei rapporti di produzione, di proprietà, anche all‟interno dei rapporti
di parentela”.




6 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
comunità, fatto che può pregiudicare l’onore di una donna e quindi ogni sua possibilità
di accasarsi. In ogni modo, dal XVIII secolo, la diffusione di alcuni modi di dire mostra
che le donne non sono più disposte ad accettare passivamente le imposizioni dei
genitori o le pretese degli spasimanti, come nei secoli precedenti; la donna si appropria
della libertà di donai crocoriga8, donai ciascus9, donai su pagliettu10, tutte espressioni
per indicare che la ragazza respinge il corteggiamento. Si dice che le forbicine appese
nella cintola di ogni donna, oltre alla funzione di tagliare i fili del cucito, avessero anche
un significato simbolico: ai corteggiatori non graditi venivano mostrate nell’atto di
tagliare11. I pretendenti respinti si vendicavano con canzoni infamatorie (cantai de
malas), imbrattando le porte, sparando schioppettate in direzione della casa della
donna.

All’irrompere di una maggiore libertà nei rapporti tra i due sessi, una lunga serie di
disposizioni normative tenta di ristabilire la sottomissione all’autorità familiare. Si
rafforza la consuetudine per la quale è consentito al padre rinchiudere in convento i figli
che si fossero messi a corteggiare donne di condizione sociale diversa dalla propria,
oppure che volessero sposarsi senza il loro permesso. Si aggrava la condanna per le
canzoni infamatorie, punite con mesi di carcere. Baci e abbracci in pubblico continuano
a non essere permessi né dal costume, né dalle leggi [Pillai, 1991:47].


1.3 La figura del paralimpu
    Quando un giovane proprietario del Campidano vuole sposare una ragazza d‟un
    paese vicino e di condizione pari alla sua, cerca prima di tutto di avere il consenso
    del proprio padre12


8
   Dal greco korkoros, crocoriga o corcoriga è il termine campidanese con il quale si indica la zucca;
donai, pigai c. significa “dare (o prendere) un rifiuto” (in amore), calco sullo spagnolo dar calabazag.
Vedi Spano, 1972:171 e Wagner, 1989:380.
9
   Il termine ciàscu è tradotto sia da Spano [1972:157] sia da Wagner [1989:445] come “scherzo, burla,
dispetto”. Secondo Alziator [1963:65] l‟espressione donai ciascus deriva dall‟espressione spagnola dar
chasque, “disingannare”.
10
    Wagner [1989:208] assegna un senso dispregiativo all‟espressione campidanese donai su paliéttu che
traduce con “mandar via, dar la gambata (specialmente in fatto di amore)”.
11
    Puxeddu in Camboni (a cura di), 2000:154
12
    Della Marmora 1826, ediz. 1995:105. Alberto Ferrero conte di La Marmora (Torino 1789- ivi 1863).
Generale piemontese, il La Marmora trascorse lunghi periodi della sua vita in Sardegna come comandane
militare. Alle sue eccelenti capacità di studioso si devono il Voyage e l‟Itinéraire, e inoltre la costruzione
di una carta della Sardegna (1845) che è stata per oltre mezzo secolo la più perfetta rappresentazione
cartografica della Sardegna. Il nome di Alberto Ferrero conte di La Marmora si trova citato a volte come
La Marmora, altre come Lamarmora oppure Della Marmora; in questo lavoro si è scelto di usare l‟ultimo
tipo di trascrizione.




                                                               Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 7
Questi, se ritiene che la ragazza sia degna dell’attenzione del ragazzo, chiama una
persona di fiducia che si presti a saggiare il parere della famiglia di lei. Alziator [1963]
sostiene che sia il padre o il tutore di lui a recarsi direttamente a casa della famiglia di
lei, ma probabilmente questo avveniva solo quando si era già sicuri dell’esito positivo
della richiesta; il rischio di subire un rifiuto fungeva da deterrente nei casi incerti. Un
rifiuto esplicito e diretto sarebbe stato un affronto imperdonabile, cui ovviava la figura
dell’intermediario (di cui si poteva disconoscere l’operato).

Tutta la letteratura in materia tende a soffermarsi sulla figura degli intermediari. Alziator
scrive di “comari compiacenti, vere professioniste in materia, precisa edizione
cagliaritana delle casamenteras spagnole” cui si ricorreva in contesti urbani, mentre
nell’area non urbana “esisteva il paralimpu, che a nozze concluse riceveva in dono un
paio di scarpe” [Alziator, 1963:67]. Lai Roggero [1995:63] ne descrive le caratteristiche:
     la paraninfa doveva possedere la parlantina facile ed essere dotata di una certa
     dose di diplomazia e di molta discrezione.

Nonostante le proibizioni ecclesiastiche, su cui ci soffermeremo più avanti, questa
funzione era spesso assegnata ai sacerdoti: come esempio si può citare quanto
affermato nel sinodo celebrato nel 1576-77 a Cagliari in cui si impone tassativamente
ai curati
     sotto pena di dieci denari a non immischiarsi in nessun modo nella trattazione dei
     matrimoni come intermediari […], a non intromettersi in alcuna maniera e a non
     portare dall‟una all‟altra parte nessun segno d‟oro o d‟argento o qualunque altro
     dono13

Uomo o donna, si trattava comunque di una figura che doveva aver facile accesso alla
casa della donna, per non destare sospetti sul vero oggetto della sua visita. Questi,
ricevuto l’incarico, si recava a casa della giovane prescelta, di preferenza a sera
inoltrata, per dare meno nell’occhio. Dopo i “necessari” convenevoli,
     entrava subito in argomento, e con molta abilità metteva in evidenza le doti del
     richiedente, sottolineando in particolare i suoi pregi e le sue qualità [Lai Roggero,
     1995:63]

La risposta alla richiesta era solitamente differita nel tempo (Lai Ruggero precisa: non
prima di “due settimane”) anche in caso di risposta affermativa, affinché il parentado




13
  Synodus Diocesana Calaritana, (D.F.Perez, 1576-77), Decretum II (De requisitis ad matrimonium certe
contrahendum), cap.V, citato in Pala, 1985:67




8 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
potesse accertare l’assenza di impedimenti di alcuna sorta all’unione dei due giovani.
Una frase è rivelatrice della posizione della donna in tutta la vicenda:
     alla giovane interessata non era consentito mostrare un eccessivo compiacimento
     [Lai Roggero, 1995:63]

1.4 Sa pregunta - La domanda della sposa
Se la famiglia di lei si mostrava favorevole all’unione dei due ragazzi, il passo
successivo era la visita ufficiale da parte dei genitori di lui in casa della ragazza, per
regolare le questioni relative a eredità e proprietà destinate ai futuri sposi. Giunti a un
accordo, si stabiliva il giorno per la richiesta ufficiale di matrimonio, chiamata sa
pregunta (o precunta), dal verbo spagnolo “preguntar”, cioè chiedere.

Il giorno fissato, parenti e amici dello sposo si recano in abito di festa a casa della
futura sposa. Giunti sulla soglia della casa, ci si accorge che il portone è sbarrato e
nessuno risponde al ripetuto bussare,
     da dentro la casa s‟inizia a dare una qualche risposta ai pretendenti solo quando
     questi, dopo aver bussato ripetutamente, fanno finta di spazientirsi. Gli si chiede
     che cosa vogliano e che cosa portino e la risposta è: “Onore e virtù”. A questo
     punto la porta viene aperta e il padrone di casa, facendo credere di non sapere di
     averli fatti attendere, li accoglie nella stanza degli ospiti dove è riunita tutta la
     famiglia in abito da festa [Della Marmora 1826, ediz. 1995:105]

Nel resoconto di Smyth, questo momento è seguito da
     un profondo silenzio finché uno dei più anziani, di provata onestà, invitato
     espressamente, chiede la ragione per la quale c‟è tanta buona gente in casa
     dell‟amico [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92]

La persona incaricata, che può essere il padre dello sposo, lo sposo stesso o un altro
uomo, risponde affermando di avere bisogno di aiuto per ritrovare un animale perduto
(o rubato? 14) che ritengono si sia nascosto nella casa.

La richiesta ufficiale di matrimonio collega la tradizione popolare sarda alla tradizione di
buona parte dell’Europa. Il rito della fidanzata nascosta è conosciuto in Francia come
fiancée cachée o substituée, in Inghilterra come mock bride, nel mondo germanico con
la falsche braut; si tratta in sostanza di un dialogo nel quale la richiesta di matrimonio è


14
   In Animali perduti. Abigeato e scambio sociale in Barbagia (1989:129 e sgg.) Caltagirone mette in
evidenza come questa fase della cerimonia del fidanzamento possa essere descritta come una vera e
propria azione di abigeato. Tra le diverse similitudini si nota ad esempio che la dichiarazione riguardante
l‟aver perduto del bestiame è la stessa che si usa per la ricerca del bestiame rubato (“in circa „e
perdimentu” nel dialetto barbaricino)




                                                             Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 9
trasfigurata nella scusa della ricerca di un animale smarrito [Alziator, 2005:41]. In
alcuni casi, l’animale che simboleggia metaforicamente la donna è un’agnella, altre
volte una colombella, una pecora o una giovenca; ciò che accomuna questi animali è il
fatto di essere di sesso femminile e di essere solitamente bianchi, per evidenti ragioni
simboliche legate all’idea di purezza, castità, ecc..

Un esempio del discorso dell’uomo è il seguente:
     Siamo venuti per chiedere il vostro aiuto, affinché possiamo ritrovare la
     colombella smarrita che cerchiamo da lungo tempo. Essa è così bella, così
     modesta, così dolce ed unica, che la vita senza di lei non ha più senso. Siamo
     sicuri che si trova in questa casa, perciò non andremo via se prima non la
     consegnerete a noi [Lai Roggero, 1995:64]

Il padrone di casa può far finta di non capire, e presentare uno alla volta i propri figli
maschi e poi le figlie femmine dicendo “Cercate questo?” finché nella stanza viene
portata la futura sposa, tenuta nascosta fino a quel momento, accolta dalle
esclamazioni di gioia di amici e parenti del fidanzato.


1.5 Fidanzamento o matrimonio?
Secondo i resoconti di alcuni viaggiatori dell’800, la domanda della sposa ha luogo in
un giorno diverso da quello del fidanzamento ufficiale, mentre per altri ne costituirebbe
parte integrante. Nel primo caso, il cerimoniale prevede che si fissi il valore dei
rispettivi doni e il giorno in cui si farà lo scambio, nell’altro si procede direttamente al
reciproco scambio.

Tali doni sono chiamati segnali, dal latino “signa”, “senyals” in catalano. La ragazza,
invitata dal padre, consegnava al futuro suocero il dono destinato al fidanzato; il
suocero ricambiava con un altro dono. Il dono per la ragazza consisteva generalmente
in elementi del vestiario oppure gioielli.

Un tipo di anello di fidanzamento molto diffuso era il maninfide, di origine bizantina, il
cui nome significherebbe “le mani (strette) in (atto di) fede”, dal fatto che sulla lamina
sono incise due mani che si stringono; la stretta di mano simboleggia il patto d’amore
suggellato15. Pare che nella Sardegna tradizionale gli uomini non usassero anelli, per
cui, all’atto di ufficializzazione del fidanzamento, la promessa sposa donava non un


15
  Gometz, 1995:61. Nella stessa pagina aggiunge che “un tempo, in quasi tutti i paesi dell‟isola, non era
consentito alle donne non maritate o non fidanzate portare l‟anello, che era il simbolo esteriore della
donna che aveva contratto un patto di fede o il vincolo matrimoniale”.




10 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
anello, bensì oggetti quali elementi del vestiario, gioielli o anche un coltello finemente
lavorato. Secondo Gometz [1995:63] la donna metteva nella mani dell’uomo il coltello,
cioè un’arma di difesa (oltre che strumento di lavoro quotidiano), “quasi a pretendere
dal futuro sposo protezione e difesa”.

Ciò che segue è di grande interesse perché è stato frainteso dalla stragrande
maggioranza degli studiosi. Viene detto che
     durante il pranzo che segue, i due giovani mangiano nello stesso piatto e, da
     questo momento, si considerano come uniti da un vincolo indissolubile
     [Bottiglioni, 2001:29],
     mutavano di abito, mettendo alcuni capi di abbigliamento propri degli sposati [Loi
     S., 1988:133],
      il fidanzamento ha luogo generalmente in presenza del rettore o di un altro
     sacerdote, per conferirgli maggiore validità [Smyth in Boscolo (a cura di),
     2003:92],
     il fidanzamento veniva festeggiato quasi al pari di un matrimonio [Lai Roggero,
     1995:65],

inoltre viene riferito che al fidanzamento segue
     spesso una lunga convivenza dei fidanzati more uxorio avanti il matrimonio,
     senza che la coscienza comune trovi alcunché da riprovare […] Quello che
     avviene durante questo periodo non è più fatto della comunità, ma rientra negli
     affari personali dei due [Alziator 2005:38 e sgg.]
     la donna iurata era già considerata come appartenente allo sposo. Dada sa
     paraula, questi poteva anche possederla senza riprovazione salvo a subire le
     conseguenze della vendetta se fosse venuto al suo impegno: la violenza usata da
     altri sulla sposa fu pareggiata a quella usata sulla donna maritata.16

Detto questo, viene da chiedersi: non sarà che quello che gli studiosi chiamano
fidanzamento o “sponsali” sia piuttosto da intendere come un vero e proprio
matrimonio?

Di Tucci [1922:13-17] si interroga sulla questione, avanzando delle ipotesi che però
non lo convincono del tutto. Gli sponsali sardi sarebbero costituiti da una combinazione
di elementi: su di un fondo romano si innesterebbero consuetudini germaniche con
altre di incerta provenienza, nel dubbio attribuite all’inventiva dei sardi. Come gli
sponsalia romani, si tratterebbe di una promessa di matrimonio, ma diversamente dalla


16
  Citazione di Besta, La Sardegna medievale, Palermo, Reber, 1908:171, in Murru Corriga [in Oppo (a
cura di), 1990:237]




                                                         Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 11
tradizione romana, richiede una forma speciale e un tipo di contratto particolare. Il
contratto stabilisce il periodo approssimativo delle nozze, ma non prevede un limite
massimo di tempo, a differenza dei due anni contemplati sia dal diritto romano, sia dal
diritto longobardo; fissa il regime economico dei coniugi: “la dote”, per il sistema dotale,
la comunione generale per i matrimoni a ladus a pare, quella degli utili per i matrimoni
assa sardisca”; impone una sanzione in caso di scioglimento della promessa, per cui, a
differenza del fidanzamento romano, ma similmente alle usanze longobarde, ha
carattere di obbligazione. Non è stipulato direttamente dalle parti, ma dai genitori, che
assumono la posizione di fideiussori rispetto alle future nozze dei figli; la figura dei
genitori è quindi equiparata a quella dei “mundualdi” del diritto germanico, piuttosto che
a quella di “paterfamilias” romani, anche se poi è difficile spiegare come mai, a
differenza degli sponsali “barbarici”, è completamente sconosciuto il prezzo del
mundio, vero o simbolico, termine col quale, nell’antico diritto germanico, si definiva la
signoria esercitata dal capofamiglia su tutte le persone e cose componenti il gruppo
familiare.

Alziator, nel 1957, accenna al problema, ammettendo la difficoltà di individuare le
origini di tale situazione. Non trovando di meglio, si appella a quella che
tradizionalmente è considerata la causa prima di ogni problema sardo, cioè
l’isolamento, il quale avrebbe reso lenta e difficoltosa l’assimilazione delle istituzioni
cristiane, favorendo il persistere di antiche usanze. Gli effetti determinati dagli sponsali,
prima di tutto la coabitazione all’infuori del matrimonio, potrebbero essere la traccia di
un periodo precristiano in cui
   l‟istituto del matrimonio era considerato nella coniunctio maris et foeminae e
   nulla più, all‟infuori di ogni diritto positivo o di ogni norma morale o religiosa
   [Alziator, 2005:38]

La realtà sembra molto diversa. Nel rituale bizantino la celebrazione del matrimonio
prevede due momenti distinti: nel primo i fidanzati, interrogati dal sacerdote, esprimono
il loro consenso con decisione irrevocabile, nel secondo si celebra il sacramento in
chiesa in modo solenne, senza replicare il consenso [Pala, 1985:102]. A seguito della
totale affermazione degli usi bizantini da parte della Chiesa sarda [Pala, 1985:61], la
celebrazione tradizionale in casa, preceduta, come abbiamo visto, dal contratto
familiare, era considerata un vero e proprio matrimonio, mentre la celebrazione in
chiesa una semplice formalità.

Si noti che nella lingua sarda mancano i termini “fidanzamento” e “fidanzata/o” così
come li intendiamo attualmente, mentre sono presenti i termini mulleri (dallo spagnolo



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“mujer”) e sposa. È plausibile avanzare l’ipotesi del mutamento semantico dei termini in
seguito al Concilio di Trento? La mia ipotesi (tutta da verificare) è che in seguito al
Concilio il primo termine - mulleri - prese a significare che quest’ultima era riconosciuta
come tale anche dalla Chiesa e dallo Stato (in quanto la cerimonia nuziale si era
celebrata seguendo le prescrizioni canoniche), mentre il secondo termine - sposa -
cominciò ad essere utilizzato per la donna sposata agli occhi della comunità, ma che
Chiesa e Stato consideravano solo come ufficialmente fidanzata.

1.5.1 La risposta della Chiesa romana
La Chiesa Romana interviene in Sardegna per disciplinare le usanze matrimoniali sin
dal sec. IX; ma è con il Concilio Lateranense IV del 1235 che vengono sancite nello
specifico le formalità per il matrimonio: accertamento della mancanza di impedimenti,
obbligo delle tre pubblicazioni, scambio del consenso di fronte al sacerdote,
benedizione nuziale. Celebrare il matrimonio senza osservare tali norme comportava il
rischio di sanzioni molto severe, tuttavia, sebbene la celebrazione nuziale familiare non
fosse ritenuta “lecita”, era comunque considerata “valida” [vedi Loi 1988 e Pala 1985].

Le cose cambiano radicalmente con il Concilio di Trento, durante il quale, nella VII
Sessione del 3 marzo 1547 e nella XXIV Sessione dell’11 novembre 1563, si riformula
la dottrina sul matrimonio. Viene stabilito che il matrimonio, per essere valido (non più
solo per essere lecito), deve essere celebrato di fronte al parroco o a un suo delegato,
alla presenza di almeno due testimoni. Contemporaneamente si vieta ai parroci di
prendere parte alle celebrazioni in famiglia. La Chiesa romana tende dunque a limitare
l’ambito di partecipazione del sacerdote - prima indispensabile sia nella formulazione
degli sponsali che nella celebrazione del matrimonio - soprattutto per non avallare
l’equivoco che la conclusione degli sponsali, presente il parroco, dovesse ritenersi vero
matrimonio. Nonostante queste prescrizioni, il basso clero continua a intervenire alla
celebrazione familiare del rito nuziale, creando in tal modo una divaricazione tra base e
vertice che confonde i fedeli. A Selargius, ancora nel 1849, Angius scrive nel dizionario
del Casalis che “quando si contraggono gli sponsali, il prete assiste alle consuete
cerimonie ed è testimone della parola di uno all’altra” [Angius, Casalis 1849:794, voce
Selargius]

Con il Concilio di Trento, il tradizionale rito familiare assume per la Chiesa il valore di
promessa matrimoniale, ma tra il basso clero e la popolazione la confusione è tale che
ancora nel sinodo del Cariñena - tenutosi a Cagliari circa due secoli dopo il Concilio - si




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ritiene necessario precisare in modo esplicito e chiaro la differenza tra sponsali e
matrimonio:
     Gli sponsali consistono in una promessa legittima e mutua di accasarsi, fatta tra i
     contraenti e anteriore al matrimonio che intendono contrarre, ma non sono il
     matrimonio, poiché questo si contrae solo con parole al presente e con
     l‟immediata consegna e accettazione17

La differenza tra sponsali e matrimonio è dunque che nel primo si parla al futuro,
mentre nel secondo i verbi sono al presente e il proposito espresso ha validità
immediata.

Da questo momento la celebrazione domestica assume valore di matrimonio solo se:
1) viene consentita dal vescovo tramite dispensa, 2) si svolge alla presenza di
sacerdote e testimoni, 3) si segue scrupolosamente il rituale ecclesiastico, evitando
ogni intromissione legata ai riti tradizionali.

La frequenza con la quale si concede la dispensa è inizialmente molto alta, ma scema
progressivamente nei secoli, sino ad arrestarsi: il matrimonio deve essere celebrato
interamente in chiesa per evidenziare che è questa a detenere il potere sulla
giurisdizione matrimoniale, in contrapposizione coi principi illuministici tendenti a
trasferire tale giurisdizione allo Stato. La cerimonia domestica non è comunque
completa senza la ricezione della benedizione nuziale, questa volta obbligatoriamente
e senza eccezioni in chiesa. In caso contrario, agli sposi non è consentita la
coabitazione.

Non concludere tutte le formalità ecclesiastiche e vivere comunque come marito e
moglie, è una pratica comune a molte parti d’Italia prima del Concilio, ed è un
comportamento che persiste in Sardegna addirittura sino al XX secolo, nonostante le
pesanti multe e le pubbliche pene comminate ai trasgressori. La Chiesa, come
apprendiamo dai sinodi, continua per secoli a non comprendere le tradizioni locali e le
motivazioni che portano all’inosservanza delle norme, attribuendo gli abusi a lussuria e
superstizione. Secondo studiosi come Turtas, Loi e Pala, la tradizione culturale sarda
sul matrimonio resistette per secoli rifiutando quegli elementi imposti “per legge”, ma
mancanti di un radicamento nella realtà locale.




17
  Constituciones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, pp. 74 -75, traduzione di
Pala, 1985:68, nota 8.




14 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
1.5.2 Le coabitazioni
In particolare, la condanna della Chiesa si rivolge contro la coabitazione - sia dei
fidanzati, sia degli sposi che non abbiano ricevuto la benedizione nuziale - terminologia
ecclesiastica colla quale non si indica necessariamente che i due abitino insieme,
quanto il sospetto che siano colpevoli di avere rapporti carnali [Loi S., 1988:133, nota
83].

La pratica delle coabitazioni è un fenomeno diffuso che persiste non solo nelle zone
più interne e isolate, ma anche nel Campidano di Cagliari, come rileva Pillai
analizzando le fonti archivistiche e segnalando casi a Selargius nel 1808, a Sinnai nel
1817, a Quartu Sant’Elena nel 1844, a Settimo San Pietro nel 1851. A Maracalagonis,
nel 1828, si arriva addirittura a ritenere lo “scandalo delle coabitazioni” causa di siccità,
castigo inviato da Dio per punire tali peccatori [Pillai, 1992:443]. Angius annota per
Selargius una media di 20 matrimoni l’anno, con punte che sorpassano i 30
   quando per ordine superiore furono obbligati a contrarlo quelli che erano fidanzati
   da qualche anno e anche evatitavano [abitavano?!] [Angius, Casalis 1849:793,
   voce Selargius]

Simile offesa a Dio veniva punita tramite multa e penitenza pubblica. Le multe
dovevano essere pagate più o meno da tutti, perché il significato della coabitazione
poteva essere esteso sino a includervi qualunque frequentazione dei due fidanzati.
Così, denuncia l’arcivescovo de la Cabra nel 1647, i più ritenevano, avendo pagato la
pena imposta, di aver provveduto all’espiazione della propria colpa e continuavano a
coabitare. Le sanzioni erano estese a tutti quelli che sapevano, ma non denunciavano
immediatamente la situazione, compreso il prete.

Se la multa poteva essere evitata a causa delle misere condizioni economiche, la
penitenza era d’obbligo. Il sinodo del Cariñena (1715) è estremamente chiaro al
riguardo:
   Quando lo stato di povertà sia tale, da costringere la nostra pietà a condonare la
   multa pecuniaria, in nessun caso verrà perdonata la penitenza pubblica da
   compiersi in un giorno di precetto nel corso della Messa Maggiore stando in piedi,
   tenendo ciascuno in mano una candela accesa scalzo l‟uomo, e la donna unita a
   lui, scarmigliata con i capelli sciolti, e tale penitenza vogliamo sia compiuta prima




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di sposarsi da tutti i colpevoli di coabitazione, qualunque sia il grado e la
     condizione cui appartengono18

Più avanti nello stesso testo si legge che tutta la comunità parrocchiale è tenuta a
vigilare sui comportamenti dei promessi sposi e a denunciarne la coabitazione al
parroco, che, da parte sua, sotto pena di scomunica, è obbligato a tentare di separare i
due fidanzati; se al terzo tentativo non ottiene risultati può vietarne l’ingresso in chiesa.

Come è possibile spiegare questa contrapposizione tra Chiesa e popolazione? Quali
sono le motivazioni che spingevano le persone a incorrere nelle pesanti sanzioni della
Chiesa piuttosto che rinunciare alle pratiche tradizionali?

Una prima risposta attribuisce l’inosservanza delle leggi a ignoranza e superstizione.
L’ignoranza, l’abbiamo visto, è dovuta al repentino cambiamento della legislazione
matrimoniale, che lo stesso clero fatica ad accettare. Per quanto riguarda la
superstizione, il sinodo cagliaritano del 1651 riporta quanto già affermato nel sinodo del
1586, la credenza secondo cui gli sposi dovevano avere rapporti sessuali prima del
matrimonio ecclesiastico, altrimenti sarebbero morti entro l’anno. La chiesa sarda, nello
stesso sinodo, si oppone a questa superstizione accrescendo, sulla base di alcuni
racconti biblici, le considerazioni negative sulla sessualità e consigliando l’astensione
dai rapporti sessuali ancora per tre giorni dopo aver ricevuto la benedizione nuziale
[Loi S., 1988:125].

Ma la motivazione più importante, probabilmente, è un’altra, legata alle spese
necessarie per pagare le pratiche della celebrazione ecclesiastica. Loi Salvatore riporta
la situazione del XVI secolo in cui la sola lletra de sposar, la licenza di matrimonio,
costava 12 lire; poiché la paga di un lavoratore dipendente di basso livello era di circa
25 lire l’anno, si può ben capire la difficoltà di affrontare simili spese [Loi S., 1988:135,
nota 90]. Alle spese si aggiunga il tempo necessario a ottenere le dispense, specie
quelle per cui era necessario il ricorso alla Santa Sede, come nel caso dei matrimoni
tra consanguinei. La dispensa poteva essere concessa gratuitamente solo se i
contraenti non possedevano beni di alcun tipo, dietro richiesta della curia;
diversamente, erano costretti a vendere tutti i loro beni al fine di racimolare il
quantitativo richiesto.



18
   Constitutiones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 180, citazione e
traduzione in Pala, 1985:69 nota 12




16 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
Nel Campidano, a queste motivazioni, si deve aggiungere la consuetudine (talmente
radicata da essere valida tutt’oggi), che vuole che il matrimonio sia celebrato solo dopo
che l’uomo abbia procurato la casa e la donna il necessario per viverci: “non ci si sposa
se non ci sono le condizioni dell’autonomia” [Ortu in Oppo (a cura di), 1990:39]. Nella
stragrande maggioranza dei casi, la struttura familiare era ed è caratterizzata dalla
mononuclearità, rafforzata dalla regola della neolocalità: questo significa che la coppia
si trasferisce in una nuova casa, in cui risiede coi propri figli. A conferma di quanto
affermato, riporto i risultati della ricerca condotta da Anna Oppo [in id. (a cura di),
1990:101] sulla struttura delle famiglie in alcuni paesi del Campidano di Cagliari fra
Ottocento e Novecento. Soddisfare questa esigenza comportava lunghi anni di
sacrifici, lunghi anni di fidanzamento che le famiglie tendevano ad alleviare
concedendo ai futuri sposi la possibilità di frequentarsi senza troppi controlli.




0.2 Tabella tratta da Oppo in id. (a cura di), 1990:101


1.6 L’esame dei contraenti
Il matrimonio in Chiesa era reso problematico anche dalle condizioni poste affinché
fosse riconosciuto come valido. La dottrina dogmatica della Chiesa cattolica sviluppata
nel Concilio di Trento, concepiva il matrimonio come sacramento e contratto
indissolubile, unione di un uomo con una donna. Affinché tale contratto fosse valido, i
contraenti dovevano rispettare questi presupposti [Pala, 1985:68 nota 4]:
1. aver raggiunto l’età legittima ;
2. non essere parenti entro il quarto grado;
3. non aver fatto voto solenne di castità;
4. non essere incorsi in nessuno dei 15 impedimenti;



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5. esprimere il consenso di fronte a un sacerdote e dei testimoni;
6. esprimere il consenso in modo libero e non estorto, in modo esplicito con parole o
segnali equivalenti.

L’età minima per convolare a nozze era di 14 anni per l’uomo e di 12 per la donna; la
Chiesa, da un certo momento, stabilisce anche l’età minima perché si potesse essere
coinvolti in contratti sposalizi, sette anni per entrambi [Atzori, 1997:34]. Effettivamente,
l’età non è mai stata un grosso problema: per le motivazioni descritte precedentemente
(preparazione del corredo, spese per la celebrazione), era molto più frequente che gli
sposi si sposassero tardi, causando tassi di fecondità ridotti rispetto alla media
europea. Da una ricerca condotta da Anna Oppo in alcuni paesi del Campidano di
Cagliari sull’età del primo matrimonio di piccoli e medi proprietari coltivatori (nati prima
del 1910), si ricava che l’età media degli uomini è di 29 anni, mentre per le donne di
24,7 [vedi sotto].




0.3 Tavola tratta da Oppo, in id. (a cura di), 1990:108

Per quanto riguarda la posizione della Chiesa nei confronti dei vincoli parentali, sembra
che il comportamento fosse differente a seconda che la richiesta provenisse
dall’ambiente popolare o da quello nobiliare [Atzori, 1997:25]. Nei confronti dei nobili, la
dispensa veniva concessa più facilmente, mentre i ceti popolari, di fronte al rifiuto della
Chiesa, erano costretti a subire l’infamia di autodenunciare la consumazione di rapporti




18 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
carnali, anche quando questo non era vero, extrema ratio per ottenere la dispensa in
questi casi.

Gli impedimenti al matrimonio, così come fissati dal Concilio di Trento, si dividevano in
dirimenti e impedienti: i primi (sono 15) rendevano nullo il matrimonio, i secondi (sono
4) lo rendevano illecito; mi sembra necessario, per l’importanza che ad essi veniva
attribuita, riportare integralmente, almeno in nota, la spiegazione di Pala per ognuno di
essi19.


19
   Pala, 1985:56-57
1) ERROR: l'errore di persona ha luogo quando si contrae matrimonio con persona diversa da quella con
la quale si voleva contrarre;
2) CONDITIO: si verifica quando si contrae matrimonio con persona che appartenga a condizione
totalmente diversa da quella dichiarata;
3) VOTUM: l'emissione del voto di castità perpetua rende nullo il successivo matrimonio sia per l'uomo
che per la donna;
4) COGNATIO: la parentela, che può essere di ordine spirituale, ed è quella che ha origine dal battesimo
e dalla cresima tra padrini e i figliocci; di ordine legale, che si stabilisce tra l'adottante e l'adottato; di
ordine naturale ed è la vera consanguineità. Quest'ultima, in linea retta invalida qualunque matrimonio, in
linea collaterale fino al quarto grado compreso;
5) CRIMEN: in quattro modi si configura questo impedimento: a) quando si uccide il coniuge con la
collaborazione o consenso del coniuge dell'ucciso; b) quando l'uccisione del coniuge è stata preceduta
dall'adulterio consumato con il coniuge superstite; c) quando l'adulterio è accompagnato dalla promessa
di contrarre matrimonio dopo la morte del coniuge; d) quando, vivendo la legittima consorte, si contrae e
si consuma il matrimonio con altra persona, consapevole dell'esistenza del vincolo precedente.
6) CULTUS DISPARITAS: quando il matrimonio viene contratto tra persone di diversa religione, p.e. tra
un cristiano e un giudeo, un pagano, un maomettano;
7) VIS: è la violenza morale esercitata sulla volontà di uno dei contraenti con castighi, vessazioni o
minacce, per indurlo a contrarre matrimonio senza la necessaria libertà. Deve essere esercitata in forma
grave ed ingiusta.
8) ORDO: è l'impedimento derivante dall'aver ricevuto uno degli ordini maggiori; suddiaconato,
diaconato o sacerdozio, che comporta l'obbligo del celibato permanente.
9) LIGAMEN: è dato dal vincolo matrimoniale validamente contratto e non sciolto legittimamente, che
vieta di stringere matrimonio con altri.
10) HONESTAS: detto anche di quasi-affinità, esiste tra l'uomo e i consanguinei in linea retta della donna
con la quale ha celebrato valido fidanzamento o contratto matrimonio non consumato; nel primo caso si
ferma al primo grado, nel secondo caso si estende fino al quarto grado compreso.
11) AMENTIA: la pazzia nella forma che privi l'individuo della ragione e, conseguentemente, della
possibilità di emettere valido senso.
12) AFFINITAS: nasce dal vincolo tra uno dei coniugi e i parenti dell‟altro coniuge a seguito di
matrimonio valido, anche se non consumato. Circa il grado di estensione del divieto, bisogna distinguere:
se nasce da copula lecita, si estende fino al quarto grado compreso, se illecita, fino al secondo grado. I
gradi dell'affinità vanno computati con quelli della consanguineità.
13) CLANDESTINITAS: si verifica quando il matrimonio viene celebrato in assenza del Parroco proprio,
o di due o tre testi.
14) IMPOTENTIA: consiste nell'incapacità al compimento della copula matrimoniale, antecedente al
matrimonio e perpetua, cioè inguaribile;
15) RAPTUS: ha luogo con il sequestro violento della donna per scopo di matrimonio. Può effettuarsi o
in forma violenta o con lusinghe e seduzione.

1) TEMPUS: riguardava il tempo della celebrazione che restava interdetto in due periodi dell'anno




                                                               Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 19
Nulla sfuggiva alle strette maglie della Chiesa, che predisponeva nel dettaglio le
modalità di esame non solo dei contraenti, ma anche dei loro testimoni.
L’interrogatorio, che si svolgeva sotto giuramento, prevedeva che i testimoni
rispondessero in modo convincente e preciso riguardo alla possibilità che fossero stati
pagati per testimoniare il falso, le basi sulle quali si fondava la sicurezza della
mancanza di impedimenti, le circostanze dell’avvenuta conoscenza dei fidanzati [Pala,
1985:58-59].

Se si superava il controllo, nella parrocchia dei due fidanzati, per tre settimane di
seguito, veniva pubblicizzato il futuro matrimonio durante la messa maggiore, per dare
la possibilità a quanti ne fossero a conoscenza, di rivelare eventuali impedimenti di cui
non si fosse ancora accertata l’esistenza.


1.7 Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo
Con il matrimonio si voleva costituire un nuovo nucleo familiare che fosse autonomo e
autosufficiente. Perché questo fosse possibile, occorreva disporre dei beni e dei mezzi
che consentissero un’attività remunerativa e le attività quotidiane da svolgersi in casa.
Nel caso di famiglie contadine - la maggioranza nel Campidano - il minimo
indispensabile per cominciare una vita a due, consisteva di un posto dove stare,
dell’essenziale per la cucina e la camera da letto, biancheria, un minimo di provviste e
di sementi, e possibilmente una coppia di buoi da giogo [Ortu e Angioni in Oppo (a
cura di), 1990].

Tutti i cultori di tradizioni popolari si trovano d'accordo su quanto spetti all’uomo e alla
donna nel provvedere al necessario per la casa. L’uomo deve provvedere alla casa,
che deve essere nuova o almeno accuratamente ripulita e re-imbiancata, e deve inoltre
provvedere a tutto ciò che attiene al proprio lavoro20; mentre alla donna spetta



liturgico: dall'avvento all'epifania; dal mercoledì delle ceneri all'ottava di Pasqua inclusa;
2) VOTUM: il voto semplice di entrare in religione o il voto di castità, di non sposarsi, il voto di accedere
agli ordini sacri rendevano illecito il matrimonio anche se tale voto fosse stato emesso privatamente;
3) SPONSALIA: gli sponsali contratti validamente e non sciolti con atto legale;
4) ECCLESIAE VETITUM: il divieto apposto dalla Chiesa a contrarre matrimonio fino a che non venisse
chiarita l'esistenza o meno di un impedimento di legge.
20
   Per un‟analisi approfondita della divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale si veda Da
Re, 1990. In generale, rispetto al resto d‟Europa, per la Sardegna tradizionale gli studiosi hanno notato
“una più marcata specializzazione maschile in uno dei tre grandi mestieri tradizionali: contadino, pastore,
artigiano, da una parte; e dall‟altra, una più marcata specializzazione genericamente femminile nell‟essere
e nel dover essere donna di casa, cioè addetta ai lavori domestici connessi con l‟alimentazione, il vestiario




20 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
l’incombenza del mobilio e della biancheria. Una consuetudine nota almeno dal XVIII
secolo, se l’anonimo piemontese in visita in Sardegna tra il 1755 e il 1759, può
annotare che
   fra gli Villani di campagna, che si maritano, richiedesi che l‟uomo abbia la Casa, il
   Carro, o Cavallo secondo è il Paese, o di pianura o di Montagna, e che la Donna porti
   il letto compito li utensili di Cucina, e venghi in casa proveduta di Vestimenta
   [Anonimo piemontese, 1985:51]

La quantità e la qualità del corredo varia enormemente a seconda del ceto sociale.
Questa considerazione, di per sé banale, non è più tale se si considera che il corredo
viene trasportato per le vie del paese, esposto alla curiosità della comunità, che ne fa il
parametro più significativo per determinare la posizione sociale e il prestigio della
nuova famiglia21. Il trasporto del corredo nella nuova casa è dunque una gara a chi
riesce a mostrare di avere di più e della qualità migliore, il pretesto per fare sfoggio
della propria ricchezza, e nulla nell’organizzazione dell’evento viene lasciato al caso.
Più la famiglia è ricca, maggiore è lo sfarzo e la solennità con cui avviene il
trasferimento, e l’occasione diventa una vera e propria festa, tale che nessuno studioso
resiste alla tentazione di descriverne i particolari.

Nel Campidano il trasporto avveniva per mezzo di carri trainati da buoi, di due tipi: un
tipo serviva per il trasporto delle masserizie, mentre l’altro, le famose traccas, erano
adibite al trasporto di persone e riccamente adornati con drappi di seta e di raso, nastri
colorati e fiori di carta. Della Marmora descrive le traccas come normali carri, “su cui
però si mettono dei materassi e che si copre con una tenda” [Della Marmora 1826,
ediz. 1995:108], mentre Joseph Fuos, nel 1779, lo descrive come un mezzo piuttosto
primitivo: corti e stretti, questi carri

   hanno due ruote basse, le quali sono tagliate in cerchio da parecchi assi insieme
   incastrati, e non girano all‟asse, ma fissate con questo girano fra due cavicchi di
   legno attaccati al di sotto del carro. I due buoi aggiogati, sono guidati colla fune
   legata alle orecchie.
   Il contadino si mette sul carro, tiene le redini nelle mani, punge col suo stimolo i
   buoi, grida il suo ci ei ià, e guida colla presunzione di guidare la più ingegnosa
   macchina che sia possibile in quel genere [Fuos in Boscolo (a cura di), 2003:60]



e la manutenzione della casa, il riordino e la pulizia di ciò che giornalmente si consuma e si sporca”
[Angioni in Oppo (a cura di), 1990:19].
21
   Sul corredo-arredo come oggetto simbolo di status e sulla sua quantità e qualità si veda Da Re,
1990:129 e sgg.




                                                         Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 21
0.4 Sagra di Sant‟Efisio, Cagliari, 1 Maggio 2006 [foto Francesca Salis]




    0.5 Antico Sposalizio Selargino, Selargius, 10/09/2006 [foto Francesca Salis]


22 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
Neanche i buoi sfuggivano al delirio di decorazioni, per cui si provvedeva a lucidarne le
corna e a decorarle con nastri colorati, grandi mazzi di fiori o arance infilzate; al collo
venivano poste grandi collane di velluto, raso o seta, e campanelle dal suono gioioso e
squillante. La vistosità, la grandezza e la ricchezza degli addobbi costituiva un altro
indicatore della ricchezza delle famiglie, e si faceva a gara a chi ne possedeva di più
belli, tanto che, ci informa Cabiddu [1965:33], facevano essi stessi parte del corredo, e
si tramandavano in eredità da madre in figlia.

Della Marmora [1826, ediz. 1995:105] ci informa innanzitutto che il trasporto non
avviene un giorno qualsiasi, bensì 8 giorni prima della celebrazione del matrimonio in
chiesa. Giunto il giorno designato, dalla casa dello sposo parte la comitiva che si reca
a casa della sposa per la consegna del corredo, seguita dai carri necessari per il
trasporto. Alla cerimonia del trasporto del corredo nuziale partecipa lo sposo, i suoi
parenti, gli amici, il paralimpu: chi a piedi, chi a cavallo, chi sulle traccas. Tutti sono
vestiti con gli abiti più belli, quelli della festa. Aprono il corteo i suonatori di launeddas,
che con la loro musica amplificano i canti allegri di tutta la comitiva e il chiasso gioioso
prodotto dai cigolii dei carri e dai campanelli degli animali, richiamando l’attenzione di
tutta la comunità che si affaccia alle porte per vederli passare. Fanno seguito i ragazzi
e le ragazze cui è affidato il compito di portare gli oggetti che non trovano posto sui
carri, perché troppo fragili e delicati: vasi, specchi, servizi in porcellana, piatti, bicchieri,
bottiglie. Insieme a loro, altre ragazze trasportano guanciali ornati con nastri colorati e
fiori.

La profusione di nastri colorati è tale (sugli animali, sulle cose, sui carri) che il Bresciani
[1850] è costretto a interrogarsi sul loro significato e la loro origine, ma una volta
informatici dello stesso uso presso tanti antichi popoli, non riesce a dirci granché,
poiché nessuno ne ricorda il significato.

Seguono i carri, in fila uno dietro l’altro; se la sposa è ricca, ci informa Nurra [1894:4],
si adoperano persino sette od otto carri. Sul primo carro c’è sempre il letto
matrimoniale, o le tavole di legno che lo compongono insieme a materasso e accessori
vari, segue il carro con le casse di legno intagliato, nel quale sono conservate la
biancheria per la casa e quella per la sposa; su un altro sono ammucchiate le sedie,
quindi altri carri contenenti sa mesa (il tavolo) con ceste coperte da tovagliette bianche
ricamate, ornate di pizzi, cosparse di chicchi di grano, petali di rose e di gerani in
segno di buon augurio, gli utensili da cucina, il telaio, il fuso e la rocca col lino, tutto
quanto serve per fare il pane, provviste di grano, orzo e fave. L’ultimo carro è quello




                                                       Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 23
che porta la macina, sa mola, cui segue a breve distanza un asinello, detto molenti,
perché il suo compito è quello di far girare la mola. L’asinello, per un giorno incoronato
di foglie e di fiori, porta al campanello un enorme pezzo di lardo e un pane nero (detto
cifraxiu) attaccato al collo [Nurra,1894:4]. Dietro al corteo vero e proprio stanno le
traccas con le donne e la ragazze che si occuperanno di sistemare ogni cosa nella
nuova casa.

È lo sposo che ha il compito di iniziare il lavoro di arredamento, mettendosi sulle spalle
il materasso del letto nuziale. Ma durante questa operazione, come raccontano Della
Marmora, Cabiddu e Bresciani:
   il giovane veniva spinto dagli amici, travolto e fatto cadere malamente a terra, tra
   materasso e materasso, e pestato – s’accraccangiu – senza misericordia, quasi con
   barbara furia, fino ad esser quasi stordito, fra la gioia, le allusioni, i frizzi e i lazzi
   di tutti i presenti e il beffardo, ironico sorriso delle fanciulle e di tutte le donne.
   […] Avveniva anche che lo sposo, dopo essersi avvicinato ai carri dei materassi,
   se la desse a gambe levate, allontanandosi di corsa. Ma gli amici lo rincorrevano,
   lo raggiungevano, obbligandolo a ritornare accanto ai carri e prendere in ispalle i
   materassi [Cabiddu, 1965:41]

Per Bresciani si tratterebbe di finzione, di “lotta cortese”, per Cabiddu ammaccature e
dolori sono reali, per entrambi il “gioco” preannuncia al futuro sposo il peso che graverà
sulle sue spalle una volta sposato.

Sempre nella stessa casa, successivamente si svolge la cerimonia della filatura della
lana. Una donna, o più di una (in alcuni casi la madre dello sposo, o la donna più
anziana presente al trasloco, in altri paesi alcune fanciulle), sale su un tavolo
appositamente sistemato nel cortile (se il tempo lo permette) e inizia a filare la lana
cantando muttetus beneauguranti per gli sposi, mentre le altre ragazze si preoccupano
di adornare ogni mobilio sistemato con fiori e ramoscelli, che saranno conservati dopo
averli lasciati seccare e cadere da sé.


1.8 La benedizione degli sposi e il corteo nuziale
E finalmente giunge il giorno del matrimonio in chiesa, lo sposalizio vero e proprio,
detto su sposoriu (dallo spagnolo desposorios ) o sa coja (dal latino coniugium). Nel
Campidano, afferma Nurra [1894:5], si preferisce il sabato per la cerimonia nuziale
mentre la domenica è riservata al banchetto.

Lo sposo, ricevuta la benedizione dalla propria madre, si reca a casa della sposa,
accompagnato dal paralimpu, parenti, amici e in qualche caso anche da un prete




24 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
(quando lo sposo non è dello stesso paese o quartiere della sposa? O nel caso sia
stato il paralimpu?).

Secondo alcuni, quando la ragazza sente giungere il corteo, si getta ai piedi della
madre piangendo, invocando perdono per le colpe commesse, e chiedendone la
benedizione. La madre, allora, tiene un piccolo discorso sui suoi nuovi doveri di moglie
e donna di casa, la benedice e l’affida al prete che ha accompagnato lo sposo, mentre
a questi è dato un altro prete della parte della sposa.

Il corteo dello sposo si ferma sulla soglia della casa, ma non entra; oppure entrano tutti
tranne lo sposo; il compito di chiamare la sposa sembra affidato a un’altra persona.

Sarebbe interessante avere maggiori informazioni sull’organizzazione del corteo
nuziale. È sicuro che questo fosse composto da due gruppi separati, quello dello sposo
e quello della sposa, prima l’uno e poi l’altro, ma non è altrettanto chiaro se il percorso
fosse lo stesso o facessero due tragitti diversi. Non disponiamo di dati certi per il
Campidano, mentre sappiamo che nel Sarrabus si procedeva su strade diverse,
probabilmente, spiega Cabiddu [1965:44], un rito scaramantico con il quale si sperava
di sfuggire all’attenzione del Male. Nello stesso modo può essere spiegato l’assoluto
silenzio raccomandato da altri.

Sembra che le madri non accompagnassero i propri figli in chiesa, ma ne aspettassero
il ritorno a casa, forse perché indaffarate con gli ultimi preparativi per il banchetto
nuziale.

Il corteo procedeva per coppie, con la sposa a braccetto del padre, verso la parrocchia
della sposa, dove, per consuetudine, si celebrava e si celebra tutt’ora il matrimonio.


1.9 La cerimonia del matrimonio
Per quanto riguarda la cerimonia del sacramento
   fassi nell‟Isola né più né meno che il cerimoniale cattolico della Chiesa [Bresciani
   1850, ediz. 2001:377]

Ma in cosa consisteva il cerimoniale cattolico? La celebrazione ecclesiastica, in
ottemperanza al decreto tridentino, seguiva nella sostanza il Rituale romano, che
contemplava la formula di consenso da parte degli sposi, la benedizione dell’anello, la
conclusione del sacerdote che dichiarava i due uniti in matrimonio.

Il Rituale Romanum del 1614 costituisce lo standard sul quale si basano tutte le
successive edizioni. Ultimo fra i libri liturgici pubblicati sulla scia del Concilio di Trento,



                                                     Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 25
mantiene pressoché immutata la sua fisionomia originaria sino al XX secolo,
nonostante le modifiche apportate nel 1752 con Benedetto XIV, nel 1872 con Pio IX,
nel 1884 con Leone XIII e nel 1913 con Paolo V; solo la pubblicazione del Codex Iuris
Canonici del 1917, rese necessaria una completa revisione del Rituale nel 1925 (vedi
Sodi, Javier Flores Arcas, (a cura di), 2004: LVII e sgg.).

Prima del 1614, i parroci, per l’attività liturgica ordinaria, dovevano basarsi su una
moltitudine di sussidi di ogni dimensione e tipo, che nella forma e nella sostanza
variavano considerevolmente da luogo a luogo, costituendo motivo di preoccupazione
da parte della gerarchia ecclesiastica che vedeva minacciata l’ortodossia liturgica, o
quantomeno il decoro e la dignità della funzione religiosa. Sulla base di queste
considerazioni, riproduco parte del rituale (scambio del consenso e benedizione
dell’anello) nella pagina seguente, non solo per mostrare i dettagli delle formule
utilizzate, ma anche perché è molto probabile che questo testo abbia costituito la base
delle successive traduzioni in lingua sarda. Il rito era in latino, ad eccezione delle
domande e delle risposte dei contraenti, in lingua sarda22.

Altro elemento significativo della cerimonia era il rituale di inanellamento, mediante il
quale la donna acquisiva l’honor matrimonii. Nel Rituale romano citato si parla solo
dell’anello che lo sposo riceve dal sacerdote e dà alla sposa - “Deinde Sacerdos
aspergat annulum aqua benedicta in modum crucis, & sponsus acceptum annulum de
manu Sacerdotis imponit in […] manus sponsae” - perciò non è chiaro se lo scambio
fosse reciproco. Inoltre sappiamo che il dito e la mano prescelta poteva variare: a volte
si inanellavano più dita, cominciando dal pollice fino all’anulare, passandolo dall’uno
all’altro della mano destra. In seguito prevalse la consuetudine di inanellare il penultimo
dito della mano sinistra, qualificato come “anulare” (“in digito annulari sinistrae”), per il
valore simbolico che questo assunse dal momento in cui S. Isidoro di Siviglia ritenne
fosse irrigato dalla vena cordialis, la vena del cuore, simbolo dell’amore.




22
     Loi Salvatore, comunicazione personale.




26 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
0.6 Tratto da Sodi Manlio, Javier Flores Arcas Juan (a cura di), 2004:147




                                                      Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 27
Oltre all’anello, molti altri erano i simboli del nuovo legame, ma la Chiesa della
Controriforma scelse la strada della cancellazione di qualsiasi residuo vagamente
paganeggiante, imponendo dall’alto un modello uniforme valido per tutti. Della grande
varietà di simboli nuziali, si è conservato sino ai nostri giorni solo l’usanza del bacio - il
classico “e ora può baciare la sposa” dei film americani - che la Chiesa cattolica
proibisce all’interno della chiesa, ma ammette sul sagrato. Richiesto a gran voce dalla
folla in attesa fuori dalla chiesa, il bacio rappresenta simbolicamente la consumazione
del matrimonio.


1.10 Il ritorno del corteo nuziale. L’usanza detta s’arazza o de sa razia
All’uscita dalla chiesa la folla festante accoglie la nuova coppia:
   Lungo la strada è una vera festa: le amiche attendono gli sposi con un piatto colmo di
   grano, sale e fiori, ed anche confetti, ed appena la coppia nuziale si avvicina, le
   buttano quasi addosso il contenuto, gridando: Buona Fortuna! [Nurra, 1894:6]

                                                   Il ritorno del corteo nuziale (solo Lai
                                                   Ruggero afferma che ciò avvenisse
                                                   anche      all’andata)     è   caratterizzato
                                                   dall’usanza di s’arazza o de sa razia
                                                   (la grazia). Con questo termine si
                                                   indica il contenuto di un piatto colmo di
                                                   grano, sale grosso, fiori, o anche di
                                                   pezzettini di carta colorata, confetti,
                                                   monetine.

0.7 Il piatto de s‟arazza esposto nel 2006 alla    L’usanza - che mi sembra di capire
Mostra Fotografico - Documentaria sullo            coinvolga solo le donne - prevede che
Sposalizio [foto Francesca Salis]
                                                   s’arazza     venga       gettata   in   forma
propiziatoria sopra gli sposi e che, esauritone il contenuto, il piatto venga rotto ai loro
piedi. Questo viene scagliato con forza, perché è necessario che si rompa, affinché il
tutto sia di buon auspicio per gli sposi. Dando credito alle affermazioni di Nurra, il piatto
si deve rompere per un altro motivo: la rottura del piatto potrebbe essere un’allusione
alla verginità della donna; intuizione plausibile, se si considera che
   difatti non si fracassano punto allorché la sposa passa a seconde nozze o si dubiti
   della sua verginità [Nurra, 1894:6]

Per Cabiddu, un’usanza pansarda vuole che il corteo nuziale proceda con lo sposo alla
destra, per ricordare che l’uomo è l’essere umano preferito da Dio, che lo ha creato per



28 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
primo a sua immagine e somiglianza. Usanza smentita dal Bresciani e da Della
Marmora, che affermano che il corteo nuziale sia composto da uomini e donne in fila,
le donne a destra, gli uomini a sinistra, e dall’incisione di Cominotti, di cui si discuterà
in seguito.

Giunti a destinazione, alla madre dello sposo spettano i cerimoniali per l’accoglienza
dei due nella loro casa. La suocera, sentendo avvicinarsi il chiassoso corteo preceduto
dal suono delle launeddas, li attende sulla soglia di casa, tenendo in una mano il piatto
con s’arazza e nell’altra un bicchiere d’acqua. Il rituale con l’acqua prevede che i
novelli sposi ne bevano un po’, mentre la restante parte, dopo aver asperso gli sposi,
viene versata davanti alla sposa nel momento in cui questa attraversa la soglia della
camera nuziale, chiamata sa dom’e lettu.


1.11 Su cumbidu - Il banchetto nuziale
Dove si tiene il banchetto nuziale? Prima a casa della sposa e poi nella loro nuova
casa oppure direttamente nella residenza dei neo sposi? Chi partecipa? La divergenza
delle fonti non permette di risalire a informazioni certe per l’area campidanese,
diversamente da altre zone dell’isola in cui un resoconto dettagliato ha permesso di
mettere in evidenza un cerimoniale dalle regole rigide e complesse23.

In ogni caso, giunto il momento del ricevimento (su cumbidu), gli sposi si siedono vicini
e
     v‟ha luogo la singolar cerimonia di mangiare non solo la minestra ad una scodella,
     ma prestandosi il cucchiaio a vicenda; così mangiano il restante allo stesso
     piattello, e beono allo stesso nappo, come se l‟un fosse nella persona dell‟altro
     [Bresciani 1850, ediz. 2001:378]24

Le portate del banchetto di nozze sono regolate da consuetudini che variano a
seconda della zona geografica. Nel Campidano, ci informa Nurra, si
     usa della carne di montone (pezza de mascu), maccheroni in gran quantità ed una
     minestra cucinata col brodo del montone e condita con zafferano e formaggio
     fresco; dolci poi, specialmente bianco mangiare (papai biancu) [Nurra 1894:6]




mentre per Lai Roggero

23
    Per quanto riguarda la Barbagia si veda ad esempio Murru Corriga in Oppo (a cura di), 1990
24
    Si veda anche Della Marmora 1826, ediz. 1995:108




                                                            Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 29
era in uso presentare is mallureddos (gli gnocchi). Facevano seguito le varie
     pietanze a base di porcetto e di agnello arrosto, accompagnati da un‟infinità di
     verdure [Lai Roggero, 1995:73]

                                                                         La    sola     preparazione          del
                                                                         pane       per       il    banchetto
                                                                         meriterebbe una trattazione a
                                                                         parte per la cura e l’abilità
                                                                         richiesta25. Il pane degli sposi
                                                                         doveva essere confezionato
                                                                         esclusivamente             con        la
                                                                         semola:              la          pasta,
                                                                         bianchissima, veniva lavorata
                                                                         a    lungo,      e    da     essa     si
                                                                         creavano         piccole      sculture
0.8 Pani nuziali presenti alla Mostra Fotografico -
Documentaria sullo Sposalizio, Selargius 2006 [foto F.                   dalla forma di colombe, cuori,
Salis]                                                                   ghirlande,       con       l’aiuto    di
                                                                         coltello e forbici.

Per l’occasione venivano poi preparati con cura i dolci26, soprattutto biscotti e amaretti,
e i liquori, primo fra tutti il rosolio, liquore dal sapore dolce, preparato in casa almeno
tre giorni prima con alcool, zucchero e un’essenza in polvere che dà il caratteristico
colore. La “torta” nuziale era costituita da un altro tipo di dolce chiamato gattou, un
croccante confezionato con mandorle tostate e zucchero, di varie forme (castelli,
chiese, case, ecc.).



25
    Sull‟arte della panificazione nella società tradizionale sarda esiste una vastissima bibliografia, per
maggiori informazioni si rimanda ai seguenti testi e alle relative bibliografie: Cirese (a cura di) Pani
tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977 (in particolare Schirru, “La preparazione
tradizionale del pane nel Campidano di Cagliari”, pp. 41-44), AA. VV., In nome del pane. Forme,
tecniche, occasioni della panificazione tradizionale in Sardegna, Carlo Delfino, Roma, 1991, (in
particolare “I pani nuziali”, pp. 73-77), e AA. VV., Pani: tradizione e prospettive della panificazione in
Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2005 (il volume è corredato da un vastissimo repertorio di foto relative a ogni
tipologia di pane presente in Sardegna).
26
   A differenza di quelli sul pane, gli studi sui dolci sardi tradizionali sono scarsi e non altrettanto
approfonditi. Per un primo inquadramento di carattere generale si rimanda a : Atzori M., Dal grano al
miele: la tradizione dei dolci in Sardegna in “S'ischiglia: rivista mensile di poesia e letteratura sarda”,
Vol. 15, A. 1994 , N. 1; Pinna “Panificazione e pasticceria in Sardegna alla metà dell‟Ottocento: saggio di
repertorio”, Cossu - Calvia - Deledda “I pani e i dolci sardi nella Rivista delle Tradizioni popolari
italiane”, Bottiglioni “Pani e dolci tradizionali in Sardegna da Vita Sarda” (tutti e tre in: Cirese (a cura di)
Pani tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977)




30 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
La lunga giornata aveva termine, ma non è certo una caratteristica solo campidanese,
con grandi festeggiamenti, canti e balli27 che proseguivano sino a notte inoltrata.




0.9 Torta gattou per il banchetto nuziale dell‟edizione 2006
del Matrimonio Selargino [foto F. Salis]




27
  Canti e balli suona come un‟espressione piuttosto generica, ma la mancanza di informazioni dettagliate
impedisce di precisare ulteriormente l‟argomento.




                                                           Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 31
Bibliografia
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  Stampalux di F. Migliori
Alziator Francesco,
   2005 [1957] Il folklore sardo, Zonza Editori, Cagliari
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   sole, La Zattera, Cagliari, pp. 63-70 e 283-298
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Anatra, Puggioni,
  1983 Fonti ecclesiastiche per lo studio della popolazione nella Sardegna
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Angioni Giulio,
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"Delle usanze maritali" nel Campidano di Cagliari - Francesca salis

  • 1. Francesca Salis “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari Dal che voi vedete quanto degli antichissimi riti abbiano custodito i Sardi nella solennità de' maritaggi: riti che contengono la storia non solo della divina istituzione, ma degli esordi altresì della prima civiltà delle genti occidentali. Tradizioni importantissime, che i Sardi senza punto conoscerlo, ci conservarono inviolate. [Bresciani, Dei costumi dell’Isola di Sardegna] 1.1 Premessa L’area denominata Campidano di Cagliari corrisponde approssimativamente ai territori dell’area cagliaritana, cioè di quell’area che può essere identificata “nel territorio compreso nei 0.1 Comuni del Campidano di Cagliari limiti di una circonferenza che, con centro in Cagliari, si stenda per un raggio di una ventina di chilometri” [Alziator, 1984:15]. È un’estensione che si presta facilmente ad essere delimitata come unità di ricerca, in quanto relativamente omogenea dal punto di vista geografico, storico, linguistico, economico e delle tradizioni culturali. Fin dalle origini tale estensione è stata sottoposta alle medesime influenze culturali, derivanti dalla sudditanza a uno stesso centro politico e ecclesiastico e favorite dalla presenza di una vasta area pianeggiante che ha consentito scambi relativamente facili e frequenti tra i vari paesi della zona, come pure una medesima lingua, la variante campidanese della lingua sarda. Alziator propone alcuni esempi a dimostrazione di questa uniformità: il tipo della casa a pianta rettangolare che gravita sul cortile interno, il tipo del vestiario, sia maschile che femminile, i motivi dell‟oreficeria popolare, i motivi del patrimonio leggendario tradizionale, la diffusione e la persistenza della Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 1
  • 2. launedda nella musica popolare, una sostanziale unità nella paremiologia, nella religiosità popolare, nella gastronomia ed in non poche manifestazioni del ciclo dell‟uomo e dell‟anno [Alziator, 1984:32] Non esistono al momento studi che si occupino in modo specifico delle usanze matrimoniali nell’isola. Affrontarne lo studio significa dunque fare i conti con una documentazione scarsa e lacunosa, per di più prodotta con fini e metodologie eterogenei. Inoltre, la scelta di circoscrivere l’ambito di approfondimento a una specifica zona complica ulteriormente la ricerca. Gli studi concernenti l’area campidanese sono senza dubbio pochi, specialmente se si prendono in considerazione i lavori dedicati alla raccolta e all’analisi delle tradizioni popolari, fatto tra l’altro costantemente evidenziato dagli autori presi in esame. È opinione diffusa che la “vera” Sardegna sia altrove, la “sardità” viene presentata - nei dépliant turistici, alla televisione, nei discorsi quotidiani - come una qualità localizzata per lo più nel nuorese e specie tra i pastori (cfr. Satta 2003). Tendenza che coinvolge anche gli studiosi; basterebbe una rapida occhiata nelle biblioteche sarde per accorgersi della netta predilezione per lo studio delle zone più interne dell’isola, più “tradizionali”1. Il Campidano appare, al confronto, un’area poco conservativa, da sempre soggetta alle mode “continentali” del momento, per cui l’attenzione a esso rivolta è di natura per lo più storica e sociologica, mentre l’elemento folklorico è trascurato. Nel tentare una ricostruzione il materiale utilizzabile è essenzialmente di tre tipi differenti: i resoconti dei viaggiatori dell’Ottocento in Sardegna, il diritto ecclesiastico locale, i saggi storici e antropologici pubblicati a partire dagli anni ’70. Il primo tipo di fonti ha il vantaggio di fornire una testimonianza diretta, di prima mano, su realtà culturali ormai scomparse, la cui descrizione è spesso molto dettagliata. Tale materiale ha però tutti i limiti della tradizione della letteratura esotica e di viaggio a cui appartiene di diritto: è costituito da resoconti di politici, uomini di chiesa, esploratori, geografi, che non possiedono un’adeguata preparazione di tipo antropologico e non sono guidati da un progetto scientifico esplicito e coerente. L’attenzione tende a 1 Angioni è stato uno dei primi antropologi a riequilibrare il quadro degli studi sulla Sardegna, pubblicando diversi importanti lavori sul lavoro contadino, per di più su aree sarde sino a quel momento poco studiate, tra cui ad esempio Rapporti di produzione e culture subalterne. Contadini in Sardegna, Edes, Cagliari, 1974 e Sa Laurera. Il lavoro contadino in Sardegna, Edes, Cagliari, 1975. 2 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 3. concentrarsi sulla diversità, sulla raccolta di curiosità folkloriche di tipo aneddotico, espressione di una realtà selvaggia nei cui confronti l’atteggiamento varia dalla condanna morale, alla spiegazione tramite pregiudizi, allo stupore divertito. La cautela nell’utilizzo di questo materiale è quindi d’obbligo: si rischia di attribuire ai più il comportamento di una minoranza, di estendere a tutte le classi sociali il comportamento di una sola, a tutta un’area un’usanza di paese. Da questo punto di vista tale letteratura offre un’immagine omogenea di cultura che non soddisfa la ricerca di una verosimiglianza storica: è un’impresa riuscire a determinare l’estensione di un’attività o di un’usanza in termini di spazio, di tempo, di classe sociale. Inoltre, spesso le osservazioni contenute in questi lavori non derivano da osservazione diretta, bensì dal plagio, dal riassunto spesso erroneo, e altrettanto spesso non dichiarato, di passaggi di opere di viaggiatori precedenti2. Una grande quantità di notizie sulle usanze relative al matrimonio si ricava in maniera indiretta dalle fonti ecclesiastiche: documenti di diritto ecclesiastico locale, annotazioni nei Quinque Libri3, atti matrimoniali, manuali di catechismo. I divieti, le prescrizioni e le punizioni con cui la Chiesa tendeva a regolamentare la condotta dei fedeli svelano quale fosse il reale comportamento delle persone registrando con estrema precisione le circostanze dell’evento da sanzionare e i dati delle persone coinvolte. Sempre a differenza dei resoconti di viaggio, l’analisi dei documenti della Chiesa richiede una discreta preparazione, che consenta di attivare la giusta chiave di lettura del testo, eliminare le considerazioni negative espresse da parte dei redattori, capire il significato nascosto dietro le circonlocuzioni e le formule utilizzate. Da tale documentazione possiamo ricavare ciò che si dovrebbe fare (e con quali modalità) e ciò che non si dovrebbe fare ma si fa lo stesso (con quali sanzioni), ma ben poco possiamo conoscere a proposito di quei comportamenti ritenuti talmente normali, ovvi, tali da non aver bisogno di essere prescritti esplicitamente, o al contrario di essere vietati in quanto accettati anche dalla Chiesa. 2 A questo riguardo si veda Delitala, 1981 3 Sono così chiamati i registri parrocchiali che in seguito alle normative emanate dal Concilio di Trento ogni parroco era tenuto a compilare e aggiornare costantemente. I registri parrocchiali erano composti da cinque libri (da cui il nome): il libro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni, dei defunti, dei confessati e comunicati (il quale era suddiviso in stati d‟anime, elenchi nominativi, dichiarazioni generiche del parroco). Fonte: Anatra, Puggioni, 1983 Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 3
  • 4. È solo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, che la ricerca storica e antropologica si mostra più attenta nei confronti di questioni quali il matrimonio e la famiglia nella Sardegna “tradizionale”. Rispetto ai lavori precedenti, di carattere prevalentemente descrittivo e documentario, questi cercano di stabilire il senso delle regolarità statistiche: le strategie matrimoniali, la struttura delle famiglie, il ruolo della parentela, in contesti ben delimitati in termini di spazio e di tempo. Il più utile in questo caso è sicuramente Famiglia e matrimonio nella società sarda tradizionale a cura di Anna Oppo, raccolta di saggi scaturiti da un convegno dallo stesso titolo tenutosi a Cagliari nel 1988. Purtroppo, però, per ovvie ragioni, le testimonianze degli informatori sono limitate temporalmente al XX, o, al massimo, alla seconda metà del XIX secolo. Per limitare i possibili errori di fraintendimento del testo, legati alla natura e all’eterogeneità del materiale di ricerca, si è privilegiato un approccio di tipo selettivo nella lettura dei documenti. Partendo dalle informazioni ricavate dal lavoro di ricerca sul campo, su ciò che sanno o ricordano le generazioni viventi a proposito delle consuetudini relative a nozze e fidanzamento, si è proceduto all’analisi della letteratura di viaggio, dando la precedenza al materiale che facesse esplicito riferimento a paesi del Campidano di Cagliari, ma utilizzando anche quanto riferito alla Sardegna in generale, in cui fosse possibile riconoscere elementi della tradizione campidanese. Per quanto riguarda il resto delle fonti, la cui contestualizzazione è stata meno problematica, mi sono limitata a una selezione sulla base del criterio geografico. Ciò premesso, si può ora passare ad esaminare il contenuto delle opere che si occupano di fidanzamento e matrimonio in area cagliaritana. 4 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 5. 1.2 Su fastigiu - Il corteggiamento Come è noto, la letteratura antropologica sul matrimonio è vastissima. A seconda della prospettiva con la quale si è affrontato il tema, l’istituzione matrimoniale risulta essere uno dei mezzi privilegiati per sanare conflitti diversamente non sanabili tra famiglie rivali, un modo per spartirsi il potere con un accordo anziché con una lotta aperta, un espediente per non frammentare il patrimonio economico familiare. La scelta del coniuge non appare mai totalmente libera, in quanto ampiamente condizionata da elementi quali la difesa di posizioni sociali, le norme morali vigenti, la salvaguardia del patrimonio economico4. Nella Sardegna tradizionale la questione coinvolgeva solitamente il parentado, impegnato al fine di conseguire il risultato più soddisfacente dal punto di vista della posizione sociale e del vantaggio economico, ma coinvolgeva anche la comunità che poteva stigmatizzare la scelta con più o meno pesanti sanzioni sociali5. Lascerei dunque da parte le questioni relative al grado di libertà individuale nella scelta dei pretendenti, poiché difficilmente le questioni relative al fidanzamento e al matrimonio erano decise unicamente dai diretti interessati. Va comunque precisato che vere e proprie forme di strategie matrimoniali erano per lo più limitate ai “ceti proprietari”. “Calidadi cun calidadi”6, come si sente ripetere ancora, ossia l’endogamia sociale prima di tutto. Anche quando si diffonde la moda del corteggiamento - una pratica sociale che si afferma in Sardegna, come nel resto d’Europa, a partire dal XVIII secolo - questo è rigidamente sottoposto al rispetto della separazione tra le classi. Gli incontri tra i giovani dei due sessi sono sottoposti a un severo controllo affinché avvengano 4 Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda a Zonabend, 1988. 5 Un esempio concreto di come le questioni relative alla fondazione di una nuova famiglia non riguardassero solo i diretti interessati e le loro famiglie, ma l‟intera comunità, deriva dalla disamina di Gallini (1977, secondo capitolo) delle forme di charivari in Sardegna. L‟infrazione della norma che prevedeva che la famiglia fosse monogamica oltre la stessa morte di uno dei partner e che la sessualità fosse finalizzata alla procreazione legittima, era oggetto di una plateale disapprovazione pubblica che prendeva il nome di sa coredda (o suo equivalente linguistico). Nei casi di seconde nozze di un vedovo o una vedova, nozze di un anziano con una giovane, cambiamento di fidanzato di una ragazza, gravidanza illegittima, cioè nei casi di famiglia “rotta” (per morte di uno dei due membri o per abbandono di uno dei due fidanzati) ricomposta su altre alleanze, e nei casi di famiglia incompleta (perchè formata solo di madre e di figlio), veniva organizzata una chiassata satirico-ingiuriosa davanti alla casa dei colpevoli di infrazione delle norme morali, della durata di alcuni giorni. 6 Nel vocabolario del Canonico Giovani Spano il termine sardo calidadi è tradotto come “qualità, stato, condizione”. Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 5
  • 6. nell’ambito di famiglie dello stesso ceto7. Pillai [1991:44] rileva forme di endogamia tecnica, per cui i vignaioli sposano figlie di vignaioli, i muratori figlie di muratori, mentre Alziator [1963:65], accenna a una forma di endogamia non di paese, ma di rione, diffusa a Cagliari “a tal punto da stabilizzare, anche fisiognomicamente, il tipo di ogni quartiere”. Purché sia rispettata questa condizione, si può far posto anche all’amore romantico: Già nel XVIII secolo, similmente a quanto accadeva in altre parti d‟Europa “anche tra il popolo si diffonde il linguaggio dell‟amore-passione” e sempre più spazio si riserva agli slanci del cuore, alle passioni travolgenti, il tutto unito alla superstizione che i figli dell‟amore nascano più belli degli altri. [Pillai, 1991:46- 47] La lunga dominazione spagnola in Sardegna ha fatto sì che soprattutto nell’area cagliaritana l’amore sia stato concepito alla maniera del galanteo spagnolo. Il carattere tipicamente spagnolo dell’amoreggiare in area cagliaritana sarebbe testimoniato da molteplici termini e espressioni: primo fra tutti il termine fastigiu (da cui il verbo fastigiai). Il sostantivo fastigiu deriva dallo spagnolo fasteig o dal catalano festej, che indica il “far festa, rendere omaggio, fare la corte, galanteggiare” [Alziator, 1963:65; Caredda, 1993:33]. Sino alla metà del secolo scorso, il termine fastigiu è servito a indicare le forme attraverso cui poteva esprimersi il corteggiamento cagliaritano: solitamente tra strada e balcone, poteva essere del tutto muto, fatto di soli sguardi, oppure per cenni e attraverso il linguaggio dei gesti, i più intraprendenti si servivano di un rudimentale telefono, costruito con dei barattoli uniti da spaghi tesi. Alziator sottolinea come la distanza tra i due giovani sia una discriminante di classe: a classe più elevata corrisponde una maggiore e più rigida distanza. Il fastigiu si esprime anche attraverso le serenate che il giovane, accompagnato da chitarra, mandolino o mandola, dedica alla sua bella. Alcune di queste serenate di corteggiamento sono giunte sino a noi, raccolte da scrittori italiani e stranieri. Saper gestire i propri spasimanti è una questione di abilità e intelligenza. Le donne che si espongono troppo rischiano di essere occasione di critiche e di scherzi da parte della 7 A questo proposito ci si potrebbe chiedere, con Angioni (1990:18) se l‟endogamia di ceto vada intesa come una “una forma di dominanza delle esigenze della famiglia, della parentela” o invece come “una forma di dominanza, di ingerenza, dei rapporti di produzione, di proprietà, anche all‟interno dei rapporti di parentela”. 6 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 7. comunità, fatto che può pregiudicare l’onore di una donna e quindi ogni sua possibilità di accasarsi. In ogni modo, dal XVIII secolo, la diffusione di alcuni modi di dire mostra che le donne non sono più disposte ad accettare passivamente le imposizioni dei genitori o le pretese degli spasimanti, come nei secoli precedenti; la donna si appropria della libertà di donai crocoriga8, donai ciascus9, donai su pagliettu10, tutte espressioni per indicare che la ragazza respinge il corteggiamento. Si dice che le forbicine appese nella cintola di ogni donna, oltre alla funzione di tagliare i fili del cucito, avessero anche un significato simbolico: ai corteggiatori non graditi venivano mostrate nell’atto di tagliare11. I pretendenti respinti si vendicavano con canzoni infamatorie (cantai de malas), imbrattando le porte, sparando schioppettate in direzione della casa della donna. All’irrompere di una maggiore libertà nei rapporti tra i due sessi, una lunga serie di disposizioni normative tenta di ristabilire la sottomissione all’autorità familiare. Si rafforza la consuetudine per la quale è consentito al padre rinchiudere in convento i figli che si fossero messi a corteggiare donne di condizione sociale diversa dalla propria, oppure che volessero sposarsi senza il loro permesso. Si aggrava la condanna per le canzoni infamatorie, punite con mesi di carcere. Baci e abbracci in pubblico continuano a non essere permessi né dal costume, né dalle leggi [Pillai, 1991:47]. 1.3 La figura del paralimpu Quando un giovane proprietario del Campidano vuole sposare una ragazza d‟un paese vicino e di condizione pari alla sua, cerca prima di tutto di avere il consenso del proprio padre12 8 Dal greco korkoros, crocoriga o corcoriga è il termine campidanese con il quale si indica la zucca; donai, pigai c. significa “dare (o prendere) un rifiuto” (in amore), calco sullo spagnolo dar calabazag. Vedi Spano, 1972:171 e Wagner, 1989:380. 9 Il termine ciàscu è tradotto sia da Spano [1972:157] sia da Wagner [1989:445] come “scherzo, burla, dispetto”. Secondo Alziator [1963:65] l‟espressione donai ciascus deriva dall‟espressione spagnola dar chasque, “disingannare”. 10 Wagner [1989:208] assegna un senso dispregiativo all‟espressione campidanese donai su paliéttu che traduce con “mandar via, dar la gambata (specialmente in fatto di amore)”. 11 Puxeddu in Camboni (a cura di), 2000:154 12 Della Marmora 1826, ediz. 1995:105. Alberto Ferrero conte di La Marmora (Torino 1789- ivi 1863). Generale piemontese, il La Marmora trascorse lunghi periodi della sua vita in Sardegna come comandane militare. Alle sue eccelenti capacità di studioso si devono il Voyage e l‟Itinéraire, e inoltre la costruzione di una carta della Sardegna (1845) che è stata per oltre mezzo secolo la più perfetta rappresentazione cartografica della Sardegna. Il nome di Alberto Ferrero conte di La Marmora si trova citato a volte come La Marmora, altre come Lamarmora oppure Della Marmora; in questo lavoro si è scelto di usare l‟ultimo tipo di trascrizione. Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 7
  • 8. Questi, se ritiene che la ragazza sia degna dell’attenzione del ragazzo, chiama una persona di fiducia che si presti a saggiare il parere della famiglia di lei. Alziator [1963] sostiene che sia il padre o il tutore di lui a recarsi direttamente a casa della famiglia di lei, ma probabilmente questo avveniva solo quando si era già sicuri dell’esito positivo della richiesta; il rischio di subire un rifiuto fungeva da deterrente nei casi incerti. Un rifiuto esplicito e diretto sarebbe stato un affronto imperdonabile, cui ovviava la figura dell’intermediario (di cui si poteva disconoscere l’operato). Tutta la letteratura in materia tende a soffermarsi sulla figura degli intermediari. Alziator scrive di “comari compiacenti, vere professioniste in materia, precisa edizione cagliaritana delle casamenteras spagnole” cui si ricorreva in contesti urbani, mentre nell’area non urbana “esisteva il paralimpu, che a nozze concluse riceveva in dono un paio di scarpe” [Alziator, 1963:67]. Lai Roggero [1995:63] ne descrive le caratteristiche: la paraninfa doveva possedere la parlantina facile ed essere dotata di una certa dose di diplomazia e di molta discrezione. Nonostante le proibizioni ecclesiastiche, su cui ci soffermeremo più avanti, questa funzione era spesso assegnata ai sacerdoti: come esempio si può citare quanto affermato nel sinodo celebrato nel 1576-77 a Cagliari in cui si impone tassativamente ai curati sotto pena di dieci denari a non immischiarsi in nessun modo nella trattazione dei matrimoni come intermediari […], a non intromettersi in alcuna maniera e a non portare dall‟una all‟altra parte nessun segno d‟oro o d‟argento o qualunque altro dono13 Uomo o donna, si trattava comunque di una figura che doveva aver facile accesso alla casa della donna, per non destare sospetti sul vero oggetto della sua visita. Questi, ricevuto l’incarico, si recava a casa della giovane prescelta, di preferenza a sera inoltrata, per dare meno nell’occhio. Dopo i “necessari” convenevoli, entrava subito in argomento, e con molta abilità metteva in evidenza le doti del richiedente, sottolineando in particolare i suoi pregi e le sue qualità [Lai Roggero, 1995:63] La risposta alla richiesta era solitamente differita nel tempo (Lai Ruggero precisa: non prima di “due settimane”) anche in caso di risposta affermativa, affinché il parentado 13 Synodus Diocesana Calaritana, (D.F.Perez, 1576-77), Decretum II (De requisitis ad matrimonium certe contrahendum), cap.V, citato in Pala, 1985:67 8 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 9. potesse accertare l’assenza di impedimenti di alcuna sorta all’unione dei due giovani. Una frase è rivelatrice della posizione della donna in tutta la vicenda: alla giovane interessata non era consentito mostrare un eccessivo compiacimento [Lai Roggero, 1995:63] 1.4 Sa pregunta - La domanda della sposa Se la famiglia di lei si mostrava favorevole all’unione dei due ragazzi, il passo successivo era la visita ufficiale da parte dei genitori di lui in casa della ragazza, per regolare le questioni relative a eredità e proprietà destinate ai futuri sposi. Giunti a un accordo, si stabiliva il giorno per la richiesta ufficiale di matrimonio, chiamata sa pregunta (o precunta), dal verbo spagnolo “preguntar”, cioè chiedere. Il giorno fissato, parenti e amici dello sposo si recano in abito di festa a casa della futura sposa. Giunti sulla soglia della casa, ci si accorge che il portone è sbarrato e nessuno risponde al ripetuto bussare, da dentro la casa s‟inizia a dare una qualche risposta ai pretendenti solo quando questi, dopo aver bussato ripetutamente, fanno finta di spazientirsi. Gli si chiede che cosa vogliano e che cosa portino e la risposta è: “Onore e virtù”. A questo punto la porta viene aperta e il padrone di casa, facendo credere di non sapere di averli fatti attendere, li accoglie nella stanza degli ospiti dove è riunita tutta la famiglia in abito da festa [Della Marmora 1826, ediz. 1995:105] Nel resoconto di Smyth, questo momento è seguito da un profondo silenzio finché uno dei più anziani, di provata onestà, invitato espressamente, chiede la ragione per la quale c‟è tanta buona gente in casa dell‟amico [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92] La persona incaricata, che può essere il padre dello sposo, lo sposo stesso o un altro uomo, risponde affermando di avere bisogno di aiuto per ritrovare un animale perduto (o rubato? 14) che ritengono si sia nascosto nella casa. La richiesta ufficiale di matrimonio collega la tradizione popolare sarda alla tradizione di buona parte dell’Europa. Il rito della fidanzata nascosta è conosciuto in Francia come fiancée cachée o substituée, in Inghilterra come mock bride, nel mondo germanico con la falsche braut; si tratta in sostanza di un dialogo nel quale la richiesta di matrimonio è 14 In Animali perduti. Abigeato e scambio sociale in Barbagia (1989:129 e sgg.) Caltagirone mette in evidenza come questa fase della cerimonia del fidanzamento possa essere descritta come una vera e propria azione di abigeato. Tra le diverse similitudini si nota ad esempio che la dichiarazione riguardante l‟aver perduto del bestiame è la stessa che si usa per la ricerca del bestiame rubato (“in circa „e perdimentu” nel dialetto barbaricino) Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 9
  • 10. trasfigurata nella scusa della ricerca di un animale smarrito [Alziator, 2005:41]. In alcuni casi, l’animale che simboleggia metaforicamente la donna è un’agnella, altre volte una colombella, una pecora o una giovenca; ciò che accomuna questi animali è il fatto di essere di sesso femminile e di essere solitamente bianchi, per evidenti ragioni simboliche legate all’idea di purezza, castità, ecc.. Un esempio del discorso dell’uomo è il seguente: Siamo venuti per chiedere il vostro aiuto, affinché possiamo ritrovare la colombella smarrita che cerchiamo da lungo tempo. Essa è così bella, così modesta, così dolce ed unica, che la vita senza di lei non ha più senso. Siamo sicuri che si trova in questa casa, perciò non andremo via se prima non la consegnerete a noi [Lai Roggero, 1995:64] Il padrone di casa può far finta di non capire, e presentare uno alla volta i propri figli maschi e poi le figlie femmine dicendo “Cercate questo?” finché nella stanza viene portata la futura sposa, tenuta nascosta fino a quel momento, accolta dalle esclamazioni di gioia di amici e parenti del fidanzato. 1.5 Fidanzamento o matrimonio? Secondo i resoconti di alcuni viaggiatori dell’800, la domanda della sposa ha luogo in un giorno diverso da quello del fidanzamento ufficiale, mentre per altri ne costituirebbe parte integrante. Nel primo caso, il cerimoniale prevede che si fissi il valore dei rispettivi doni e il giorno in cui si farà lo scambio, nell’altro si procede direttamente al reciproco scambio. Tali doni sono chiamati segnali, dal latino “signa”, “senyals” in catalano. La ragazza, invitata dal padre, consegnava al futuro suocero il dono destinato al fidanzato; il suocero ricambiava con un altro dono. Il dono per la ragazza consisteva generalmente in elementi del vestiario oppure gioielli. Un tipo di anello di fidanzamento molto diffuso era il maninfide, di origine bizantina, il cui nome significherebbe “le mani (strette) in (atto di) fede”, dal fatto che sulla lamina sono incise due mani che si stringono; la stretta di mano simboleggia il patto d’amore suggellato15. Pare che nella Sardegna tradizionale gli uomini non usassero anelli, per cui, all’atto di ufficializzazione del fidanzamento, la promessa sposa donava non un 15 Gometz, 1995:61. Nella stessa pagina aggiunge che “un tempo, in quasi tutti i paesi dell‟isola, non era consentito alle donne non maritate o non fidanzate portare l‟anello, che era il simbolo esteriore della donna che aveva contratto un patto di fede o il vincolo matrimoniale”. 10 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 11. anello, bensì oggetti quali elementi del vestiario, gioielli o anche un coltello finemente lavorato. Secondo Gometz [1995:63] la donna metteva nella mani dell’uomo il coltello, cioè un’arma di difesa (oltre che strumento di lavoro quotidiano), “quasi a pretendere dal futuro sposo protezione e difesa”. Ciò che segue è di grande interesse perché è stato frainteso dalla stragrande maggioranza degli studiosi. Viene detto che durante il pranzo che segue, i due giovani mangiano nello stesso piatto e, da questo momento, si considerano come uniti da un vincolo indissolubile [Bottiglioni, 2001:29], mutavano di abito, mettendo alcuni capi di abbigliamento propri degli sposati [Loi S., 1988:133], il fidanzamento ha luogo generalmente in presenza del rettore o di un altro sacerdote, per conferirgli maggiore validità [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92], il fidanzamento veniva festeggiato quasi al pari di un matrimonio [Lai Roggero, 1995:65], inoltre viene riferito che al fidanzamento segue spesso una lunga convivenza dei fidanzati more uxorio avanti il matrimonio, senza che la coscienza comune trovi alcunché da riprovare […] Quello che avviene durante questo periodo non è più fatto della comunità, ma rientra negli affari personali dei due [Alziator 2005:38 e sgg.] la donna iurata era già considerata come appartenente allo sposo. Dada sa paraula, questi poteva anche possederla senza riprovazione salvo a subire le conseguenze della vendetta se fosse venuto al suo impegno: la violenza usata da altri sulla sposa fu pareggiata a quella usata sulla donna maritata.16 Detto questo, viene da chiedersi: non sarà che quello che gli studiosi chiamano fidanzamento o “sponsali” sia piuttosto da intendere come un vero e proprio matrimonio? Di Tucci [1922:13-17] si interroga sulla questione, avanzando delle ipotesi che però non lo convincono del tutto. Gli sponsali sardi sarebbero costituiti da una combinazione di elementi: su di un fondo romano si innesterebbero consuetudini germaniche con altre di incerta provenienza, nel dubbio attribuite all’inventiva dei sardi. Come gli sponsalia romani, si tratterebbe di una promessa di matrimonio, ma diversamente dalla 16 Citazione di Besta, La Sardegna medievale, Palermo, Reber, 1908:171, in Murru Corriga [in Oppo (a cura di), 1990:237] Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 11
  • 12. tradizione romana, richiede una forma speciale e un tipo di contratto particolare. Il contratto stabilisce il periodo approssimativo delle nozze, ma non prevede un limite massimo di tempo, a differenza dei due anni contemplati sia dal diritto romano, sia dal diritto longobardo; fissa il regime economico dei coniugi: “la dote”, per il sistema dotale, la comunione generale per i matrimoni a ladus a pare, quella degli utili per i matrimoni assa sardisca”; impone una sanzione in caso di scioglimento della promessa, per cui, a differenza del fidanzamento romano, ma similmente alle usanze longobarde, ha carattere di obbligazione. Non è stipulato direttamente dalle parti, ma dai genitori, che assumono la posizione di fideiussori rispetto alle future nozze dei figli; la figura dei genitori è quindi equiparata a quella dei “mundualdi” del diritto germanico, piuttosto che a quella di “paterfamilias” romani, anche se poi è difficile spiegare come mai, a differenza degli sponsali “barbarici”, è completamente sconosciuto il prezzo del mundio, vero o simbolico, termine col quale, nell’antico diritto germanico, si definiva la signoria esercitata dal capofamiglia su tutte le persone e cose componenti il gruppo familiare. Alziator, nel 1957, accenna al problema, ammettendo la difficoltà di individuare le origini di tale situazione. Non trovando di meglio, si appella a quella che tradizionalmente è considerata la causa prima di ogni problema sardo, cioè l’isolamento, il quale avrebbe reso lenta e difficoltosa l’assimilazione delle istituzioni cristiane, favorendo il persistere di antiche usanze. Gli effetti determinati dagli sponsali, prima di tutto la coabitazione all’infuori del matrimonio, potrebbero essere la traccia di un periodo precristiano in cui l‟istituto del matrimonio era considerato nella coniunctio maris et foeminae e nulla più, all‟infuori di ogni diritto positivo o di ogni norma morale o religiosa [Alziator, 2005:38] La realtà sembra molto diversa. Nel rituale bizantino la celebrazione del matrimonio prevede due momenti distinti: nel primo i fidanzati, interrogati dal sacerdote, esprimono il loro consenso con decisione irrevocabile, nel secondo si celebra il sacramento in chiesa in modo solenne, senza replicare il consenso [Pala, 1985:102]. A seguito della totale affermazione degli usi bizantini da parte della Chiesa sarda [Pala, 1985:61], la celebrazione tradizionale in casa, preceduta, come abbiamo visto, dal contratto familiare, era considerata un vero e proprio matrimonio, mentre la celebrazione in chiesa una semplice formalità. Si noti che nella lingua sarda mancano i termini “fidanzamento” e “fidanzata/o” così come li intendiamo attualmente, mentre sono presenti i termini mulleri (dallo spagnolo 12 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 13. “mujer”) e sposa. È plausibile avanzare l’ipotesi del mutamento semantico dei termini in seguito al Concilio di Trento? La mia ipotesi (tutta da verificare) è che in seguito al Concilio il primo termine - mulleri - prese a significare che quest’ultima era riconosciuta come tale anche dalla Chiesa e dallo Stato (in quanto la cerimonia nuziale si era celebrata seguendo le prescrizioni canoniche), mentre il secondo termine - sposa - cominciò ad essere utilizzato per la donna sposata agli occhi della comunità, ma che Chiesa e Stato consideravano solo come ufficialmente fidanzata. 1.5.1 La risposta della Chiesa romana La Chiesa Romana interviene in Sardegna per disciplinare le usanze matrimoniali sin dal sec. IX; ma è con il Concilio Lateranense IV del 1235 che vengono sancite nello specifico le formalità per il matrimonio: accertamento della mancanza di impedimenti, obbligo delle tre pubblicazioni, scambio del consenso di fronte al sacerdote, benedizione nuziale. Celebrare il matrimonio senza osservare tali norme comportava il rischio di sanzioni molto severe, tuttavia, sebbene la celebrazione nuziale familiare non fosse ritenuta “lecita”, era comunque considerata “valida” [vedi Loi 1988 e Pala 1985]. Le cose cambiano radicalmente con il Concilio di Trento, durante il quale, nella VII Sessione del 3 marzo 1547 e nella XXIV Sessione dell’11 novembre 1563, si riformula la dottrina sul matrimonio. Viene stabilito che il matrimonio, per essere valido (non più solo per essere lecito), deve essere celebrato di fronte al parroco o a un suo delegato, alla presenza di almeno due testimoni. Contemporaneamente si vieta ai parroci di prendere parte alle celebrazioni in famiglia. La Chiesa romana tende dunque a limitare l’ambito di partecipazione del sacerdote - prima indispensabile sia nella formulazione degli sponsali che nella celebrazione del matrimonio - soprattutto per non avallare l’equivoco che la conclusione degli sponsali, presente il parroco, dovesse ritenersi vero matrimonio. Nonostante queste prescrizioni, il basso clero continua a intervenire alla celebrazione familiare del rito nuziale, creando in tal modo una divaricazione tra base e vertice che confonde i fedeli. A Selargius, ancora nel 1849, Angius scrive nel dizionario del Casalis che “quando si contraggono gli sponsali, il prete assiste alle consuete cerimonie ed è testimone della parola di uno all’altra” [Angius, Casalis 1849:794, voce Selargius] Con il Concilio di Trento, il tradizionale rito familiare assume per la Chiesa il valore di promessa matrimoniale, ma tra il basso clero e la popolazione la confusione è tale che ancora nel sinodo del Cariñena - tenutosi a Cagliari circa due secoli dopo il Concilio - si Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 13
  • 14. ritiene necessario precisare in modo esplicito e chiaro la differenza tra sponsali e matrimonio: Gli sponsali consistono in una promessa legittima e mutua di accasarsi, fatta tra i contraenti e anteriore al matrimonio che intendono contrarre, ma non sono il matrimonio, poiché questo si contrae solo con parole al presente e con l‟immediata consegna e accettazione17 La differenza tra sponsali e matrimonio è dunque che nel primo si parla al futuro, mentre nel secondo i verbi sono al presente e il proposito espresso ha validità immediata. Da questo momento la celebrazione domestica assume valore di matrimonio solo se: 1) viene consentita dal vescovo tramite dispensa, 2) si svolge alla presenza di sacerdote e testimoni, 3) si segue scrupolosamente il rituale ecclesiastico, evitando ogni intromissione legata ai riti tradizionali. La frequenza con la quale si concede la dispensa è inizialmente molto alta, ma scema progressivamente nei secoli, sino ad arrestarsi: il matrimonio deve essere celebrato interamente in chiesa per evidenziare che è questa a detenere il potere sulla giurisdizione matrimoniale, in contrapposizione coi principi illuministici tendenti a trasferire tale giurisdizione allo Stato. La cerimonia domestica non è comunque completa senza la ricezione della benedizione nuziale, questa volta obbligatoriamente e senza eccezioni in chiesa. In caso contrario, agli sposi non è consentita la coabitazione. Non concludere tutte le formalità ecclesiastiche e vivere comunque come marito e moglie, è una pratica comune a molte parti d’Italia prima del Concilio, ed è un comportamento che persiste in Sardegna addirittura sino al XX secolo, nonostante le pesanti multe e le pubbliche pene comminate ai trasgressori. La Chiesa, come apprendiamo dai sinodi, continua per secoli a non comprendere le tradizioni locali e le motivazioni che portano all’inosservanza delle norme, attribuendo gli abusi a lussuria e superstizione. Secondo studiosi come Turtas, Loi e Pala, la tradizione culturale sarda sul matrimonio resistette per secoli rifiutando quegli elementi imposti “per legge”, ma mancanti di un radicamento nella realtà locale. 17 Constituciones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, pp. 74 -75, traduzione di Pala, 1985:68, nota 8. 14 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 15. 1.5.2 Le coabitazioni In particolare, la condanna della Chiesa si rivolge contro la coabitazione - sia dei fidanzati, sia degli sposi che non abbiano ricevuto la benedizione nuziale - terminologia ecclesiastica colla quale non si indica necessariamente che i due abitino insieme, quanto il sospetto che siano colpevoli di avere rapporti carnali [Loi S., 1988:133, nota 83]. La pratica delle coabitazioni è un fenomeno diffuso che persiste non solo nelle zone più interne e isolate, ma anche nel Campidano di Cagliari, come rileva Pillai analizzando le fonti archivistiche e segnalando casi a Selargius nel 1808, a Sinnai nel 1817, a Quartu Sant’Elena nel 1844, a Settimo San Pietro nel 1851. A Maracalagonis, nel 1828, si arriva addirittura a ritenere lo “scandalo delle coabitazioni” causa di siccità, castigo inviato da Dio per punire tali peccatori [Pillai, 1992:443]. Angius annota per Selargius una media di 20 matrimoni l’anno, con punte che sorpassano i 30 quando per ordine superiore furono obbligati a contrarlo quelli che erano fidanzati da qualche anno e anche evatitavano [abitavano?!] [Angius, Casalis 1849:793, voce Selargius] Simile offesa a Dio veniva punita tramite multa e penitenza pubblica. Le multe dovevano essere pagate più o meno da tutti, perché il significato della coabitazione poteva essere esteso sino a includervi qualunque frequentazione dei due fidanzati. Così, denuncia l’arcivescovo de la Cabra nel 1647, i più ritenevano, avendo pagato la pena imposta, di aver provveduto all’espiazione della propria colpa e continuavano a coabitare. Le sanzioni erano estese a tutti quelli che sapevano, ma non denunciavano immediatamente la situazione, compreso il prete. Se la multa poteva essere evitata a causa delle misere condizioni economiche, la penitenza era d’obbligo. Il sinodo del Cariñena (1715) è estremamente chiaro al riguardo: Quando lo stato di povertà sia tale, da costringere la nostra pietà a condonare la multa pecuniaria, in nessun caso verrà perdonata la penitenza pubblica da compiersi in un giorno di precetto nel corso della Messa Maggiore stando in piedi, tenendo ciascuno in mano una candela accesa scalzo l‟uomo, e la donna unita a lui, scarmigliata con i capelli sciolti, e tale penitenza vogliamo sia compiuta prima Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 15
  • 16. di sposarsi da tutti i colpevoli di coabitazione, qualunque sia il grado e la condizione cui appartengono18 Più avanti nello stesso testo si legge che tutta la comunità parrocchiale è tenuta a vigilare sui comportamenti dei promessi sposi e a denunciarne la coabitazione al parroco, che, da parte sua, sotto pena di scomunica, è obbligato a tentare di separare i due fidanzati; se al terzo tentativo non ottiene risultati può vietarne l’ingresso in chiesa. Come è possibile spiegare questa contrapposizione tra Chiesa e popolazione? Quali sono le motivazioni che spingevano le persone a incorrere nelle pesanti sanzioni della Chiesa piuttosto che rinunciare alle pratiche tradizionali? Una prima risposta attribuisce l’inosservanza delle leggi a ignoranza e superstizione. L’ignoranza, l’abbiamo visto, è dovuta al repentino cambiamento della legislazione matrimoniale, che lo stesso clero fatica ad accettare. Per quanto riguarda la superstizione, il sinodo cagliaritano del 1651 riporta quanto già affermato nel sinodo del 1586, la credenza secondo cui gli sposi dovevano avere rapporti sessuali prima del matrimonio ecclesiastico, altrimenti sarebbero morti entro l’anno. La chiesa sarda, nello stesso sinodo, si oppone a questa superstizione accrescendo, sulla base di alcuni racconti biblici, le considerazioni negative sulla sessualità e consigliando l’astensione dai rapporti sessuali ancora per tre giorni dopo aver ricevuto la benedizione nuziale [Loi S., 1988:125]. Ma la motivazione più importante, probabilmente, è un’altra, legata alle spese necessarie per pagare le pratiche della celebrazione ecclesiastica. Loi Salvatore riporta la situazione del XVI secolo in cui la sola lletra de sposar, la licenza di matrimonio, costava 12 lire; poiché la paga di un lavoratore dipendente di basso livello era di circa 25 lire l’anno, si può ben capire la difficoltà di affrontare simili spese [Loi S., 1988:135, nota 90]. Alle spese si aggiunga il tempo necessario a ottenere le dispense, specie quelle per cui era necessario il ricorso alla Santa Sede, come nel caso dei matrimoni tra consanguinei. La dispensa poteva essere concessa gratuitamente solo se i contraenti non possedevano beni di alcun tipo, dietro richiesta della curia; diversamente, erano costretti a vendere tutti i loro beni al fine di racimolare il quantitativo richiesto. 18 Constitutiones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 180, citazione e traduzione in Pala, 1985:69 nota 12 16 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 17. Nel Campidano, a queste motivazioni, si deve aggiungere la consuetudine (talmente radicata da essere valida tutt’oggi), che vuole che il matrimonio sia celebrato solo dopo che l’uomo abbia procurato la casa e la donna il necessario per viverci: “non ci si sposa se non ci sono le condizioni dell’autonomia” [Ortu in Oppo (a cura di), 1990:39]. Nella stragrande maggioranza dei casi, la struttura familiare era ed è caratterizzata dalla mononuclearità, rafforzata dalla regola della neolocalità: questo significa che la coppia si trasferisce in una nuova casa, in cui risiede coi propri figli. A conferma di quanto affermato, riporto i risultati della ricerca condotta da Anna Oppo [in id. (a cura di), 1990:101] sulla struttura delle famiglie in alcuni paesi del Campidano di Cagliari fra Ottocento e Novecento. Soddisfare questa esigenza comportava lunghi anni di sacrifici, lunghi anni di fidanzamento che le famiglie tendevano ad alleviare concedendo ai futuri sposi la possibilità di frequentarsi senza troppi controlli. 0.2 Tabella tratta da Oppo in id. (a cura di), 1990:101 1.6 L’esame dei contraenti Il matrimonio in Chiesa era reso problematico anche dalle condizioni poste affinché fosse riconosciuto come valido. La dottrina dogmatica della Chiesa cattolica sviluppata nel Concilio di Trento, concepiva il matrimonio come sacramento e contratto indissolubile, unione di un uomo con una donna. Affinché tale contratto fosse valido, i contraenti dovevano rispettare questi presupposti [Pala, 1985:68 nota 4]: 1. aver raggiunto l’età legittima ; 2. non essere parenti entro il quarto grado; 3. non aver fatto voto solenne di castità; 4. non essere incorsi in nessuno dei 15 impedimenti; Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 17
  • 18. 5. esprimere il consenso di fronte a un sacerdote e dei testimoni; 6. esprimere il consenso in modo libero e non estorto, in modo esplicito con parole o segnali equivalenti. L’età minima per convolare a nozze era di 14 anni per l’uomo e di 12 per la donna; la Chiesa, da un certo momento, stabilisce anche l’età minima perché si potesse essere coinvolti in contratti sposalizi, sette anni per entrambi [Atzori, 1997:34]. Effettivamente, l’età non è mai stata un grosso problema: per le motivazioni descritte precedentemente (preparazione del corredo, spese per la celebrazione), era molto più frequente che gli sposi si sposassero tardi, causando tassi di fecondità ridotti rispetto alla media europea. Da una ricerca condotta da Anna Oppo in alcuni paesi del Campidano di Cagliari sull’età del primo matrimonio di piccoli e medi proprietari coltivatori (nati prima del 1910), si ricava che l’età media degli uomini è di 29 anni, mentre per le donne di 24,7 [vedi sotto]. 0.3 Tavola tratta da Oppo, in id. (a cura di), 1990:108 Per quanto riguarda la posizione della Chiesa nei confronti dei vincoli parentali, sembra che il comportamento fosse differente a seconda che la richiesta provenisse dall’ambiente popolare o da quello nobiliare [Atzori, 1997:25]. Nei confronti dei nobili, la dispensa veniva concessa più facilmente, mentre i ceti popolari, di fronte al rifiuto della Chiesa, erano costretti a subire l’infamia di autodenunciare la consumazione di rapporti 18 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 19. carnali, anche quando questo non era vero, extrema ratio per ottenere la dispensa in questi casi. Gli impedimenti al matrimonio, così come fissati dal Concilio di Trento, si dividevano in dirimenti e impedienti: i primi (sono 15) rendevano nullo il matrimonio, i secondi (sono 4) lo rendevano illecito; mi sembra necessario, per l’importanza che ad essi veniva attribuita, riportare integralmente, almeno in nota, la spiegazione di Pala per ognuno di essi19. 19 Pala, 1985:56-57 1) ERROR: l'errore di persona ha luogo quando si contrae matrimonio con persona diversa da quella con la quale si voleva contrarre; 2) CONDITIO: si verifica quando si contrae matrimonio con persona che appartenga a condizione totalmente diversa da quella dichiarata; 3) VOTUM: l'emissione del voto di castità perpetua rende nullo il successivo matrimonio sia per l'uomo che per la donna; 4) COGNATIO: la parentela, che può essere di ordine spirituale, ed è quella che ha origine dal battesimo e dalla cresima tra padrini e i figliocci; di ordine legale, che si stabilisce tra l'adottante e l'adottato; di ordine naturale ed è la vera consanguineità. Quest'ultima, in linea retta invalida qualunque matrimonio, in linea collaterale fino al quarto grado compreso; 5) CRIMEN: in quattro modi si configura questo impedimento: a) quando si uccide il coniuge con la collaborazione o consenso del coniuge dell'ucciso; b) quando l'uccisione del coniuge è stata preceduta dall'adulterio consumato con il coniuge superstite; c) quando l'adulterio è accompagnato dalla promessa di contrarre matrimonio dopo la morte del coniuge; d) quando, vivendo la legittima consorte, si contrae e si consuma il matrimonio con altra persona, consapevole dell'esistenza del vincolo precedente. 6) CULTUS DISPARITAS: quando il matrimonio viene contratto tra persone di diversa religione, p.e. tra un cristiano e un giudeo, un pagano, un maomettano; 7) VIS: è la violenza morale esercitata sulla volontà di uno dei contraenti con castighi, vessazioni o minacce, per indurlo a contrarre matrimonio senza la necessaria libertà. Deve essere esercitata in forma grave ed ingiusta. 8) ORDO: è l'impedimento derivante dall'aver ricevuto uno degli ordini maggiori; suddiaconato, diaconato o sacerdozio, che comporta l'obbligo del celibato permanente. 9) LIGAMEN: è dato dal vincolo matrimoniale validamente contratto e non sciolto legittimamente, che vieta di stringere matrimonio con altri. 10) HONESTAS: detto anche di quasi-affinità, esiste tra l'uomo e i consanguinei in linea retta della donna con la quale ha celebrato valido fidanzamento o contratto matrimonio non consumato; nel primo caso si ferma al primo grado, nel secondo caso si estende fino al quarto grado compreso. 11) AMENTIA: la pazzia nella forma che privi l'individuo della ragione e, conseguentemente, della possibilità di emettere valido senso. 12) AFFINITAS: nasce dal vincolo tra uno dei coniugi e i parenti dell‟altro coniuge a seguito di matrimonio valido, anche se non consumato. Circa il grado di estensione del divieto, bisogna distinguere: se nasce da copula lecita, si estende fino al quarto grado compreso, se illecita, fino al secondo grado. I gradi dell'affinità vanno computati con quelli della consanguineità. 13) CLANDESTINITAS: si verifica quando il matrimonio viene celebrato in assenza del Parroco proprio, o di due o tre testi. 14) IMPOTENTIA: consiste nell'incapacità al compimento della copula matrimoniale, antecedente al matrimonio e perpetua, cioè inguaribile; 15) RAPTUS: ha luogo con il sequestro violento della donna per scopo di matrimonio. Può effettuarsi o in forma violenta o con lusinghe e seduzione. 1) TEMPUS: riguardava il tempo della celebrazione che restava interdetto in due periodi dell'anno Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 19
  • 20. Nulla sfuggiva alle strette maglie della Chiesa, che predisponeva nel dettaglio le modalità di esame non solo dei contraenti, ma anche dei loro testimoni. L’interrogatorio, che si svolgeva sotto giuramento, prevedeva che i testimoni rispondessero in modo convincente e preciso riguardo alla possibilità che fossero stati pagati per testimoniare il falso, le basi sulle quali si fondava la sicurezza della mancanza di impedimenti, le circostanze dell’avvenuta conoscenza dei fidanzati [Pala, 1985:58-59]. Se si superava il controllo, nella parrocchia dei due fidanzati, per tre settimane di seguito, veniva pubblicizzato il futuro matrimonio durante la messa maggiore, per dare la possibilità a quanti ne fossero a conoscenza, di rivelare eventuali impedimenti di cui non si fosse ancora accertata l’esistenza. 1.7 Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo Con il matrimonio si voleva costituire un nuovo nucleo familiare che fosse autonomo e autosufficiente. Perché questo fosse possibile, occorreva disporre dei beni e dei mezzi che consentissero un’attività remunerativa e le attività quotidiane da svolgersi in casa. Nel caso di famiglie contadine - la maggioranza nel Campidano - il minimo indispensabile per cominciare una vita a due, consisteva di un posto dove stare, dell’essenziale per la cucina e la camera da letto, biancheria, un minimo di provviste e di sementi, e possibilmente una coppia di buoi da giogo [Ortu e Angioni in Oppo (a cura di), 1990]. Tutti i cultori di tradizioni popolari si trovano d'accordo su quanto spetti all’uomo e alla donna nel provvedere al necessario per la casa. L’uomo deve provvedere alla casa, che deve essere nuova o almeno accuratamente ripulita e re-imbiancata, e deve inoltre provvedere a tutto ciò che attiene al proprio lavoro20; mentre alla donna spetta liturgico: dall'avvento all'epifania; dal mercoledì delle ceneri all'ottava di Pasqua inclusa; 2) VOTUM: il voto semplice di entrare in religione o il voto di castità, di non sposarsi, il voto di accedere agli ordini sacri rendevano illecito il matrimonio anche se tale voto fosse stato emesso privatamente; 3) SPONSALIA: gli sponsali contratti validamente e non sciolti con atto legale; 4) ECCLESIAE VETITUM: il divieto apposto dalla Chiesa a contrarre matrimonio fino a che non venisse chiarita l'esistenza o meno di un impedimento di legge. 20 Per un‟analisi approfondita della divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale si veda Da Re, 1990. In generale, rispetto al resto d‟Europa, per la Sardegna tradizionale gli studiosi hanno notato “una più marcata specializzazione maschile in uno dei tre grandi mestieri tradizionali: contadino, pastore, artigiano, da una parte; e dall‟altra, una più marcata specializzazione genericamente femminile nell‟essere e nel dover essere donna di casa, cioè addetta ai lavori domestici connessi con l‟alimentazione, il vestiario 20 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 21. l’incombenza del mobilio e della biancheria. Una consuetudine nota almeno dal XVIII secolo, se l’anonimo piemontese in visita in Sardegna tra il 1755 e il 1759, può annotare che fra gli Villani di campagna, che si maritano, richiedesi che l‟uomo abbia la Casa, il Carro, o Cavallo secondo è il Paese, o di pianura o di Montagna, e che la Donna porti il letto compito li utensili di Cucina, e venghi in casa proveduta di Vestimenta [Anonimo piemontese, 1985:51] La quantità e la qualità del corredo varia enormemente a seconda del ceto sociale. Questa considerazione, di per sé banale, non è più tale se si considera che il corredo viene trasportato per le vie del paese, esposto alla curiosità della comunità, che ne fa il parametro più significativo per determinare la posizione sociale e il prestigio della nuova famiglia21. Il trasporto del corredo nella nuova casa è dunque una gara a chi riesce a mostrare di avere di più e della qualità migliore, il pretesto per fare sfoggio della propria ricchezza, e nulla nell’organizzazione dell’evento viene lasciato al caso. Più la famiglia è ricca, maggiore è lo sfarzo e la solennità con cui avviene il trasferimento, e l’occasione diventa una vera e propria festa, tale che nessuno studioso resiste alla tentazione di descriverne i particolari. Nel Campidano il trasporto avveniva per mezzo di carri trainati da buoi, di due tipi: un tipo serviva per il trasporto delle masserizie, mentre l’altro, le famose traccas, erano adibite al trasporto di persone e riccamente adornati con drappi di seta e di raso, nastri colorati e fiori di carta. Della Marmora descrive le traccas come normali carri, “su cui però si mettono dei materassi e che si copre con una tenda” [Della Marmora 1826, ediz. 1995:108], mentre Joseph Fuos, nel 1779, lo descrive come un mezzo piuttosto primitivo: corti e stretti, questi carri hanno due ruote basse, le quali sono tagliate in cerchio da parecchi assi insieme incastrati, e non girano all‟asse, ma fissate con questo girano fra due cavicchi di legno attaccati al di sotto del carro. I due buoi aggiogati, sono guidati colla fune legata alle orecchie. Il contadino si mette sul carro, tiene le redini nelle mani, punge col suo stimolo i buoi, grida il suo ci ei ià, e guida colla presunzione di guidare la più ingegnosa macchina che sia possibile in quel genere [Fuos in Boscolo (a cura di), 2003:60] e la manutenzione della casa, il riordino e la pulizia di ciò che giornalmente si consuma e si sporca” [Angioni in Oppo (a cura di), 1990:19]. 21 Sul corredo-arredo come oggetto simbolo di status e sulla sua quantità e qualità si veda Da Re, 1990:129 e sgg. Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 21
  • 22. 0.4 Sagra di Sant‟Efisio, Cagliari, 1 Maggio 2006 [foto Francesca Salis] 0.5 Antico Sposalizio Selargino, Selargius, 10/09/2006 [foto Francesca Salis] 22 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 23. Neanche i buoi sfuggivano al delirio di decorazioni, per cui si provvedeva a lucidarne le corna e a decorarle con nastri colorati, grandi mazzi di fiori o arance infilzate; al collo venivano poste grandi collane di velluto, raso o seta, e campanelle dal suono gioioso e squillante. La vistosità, la grandezza e la ricchezza degli addobbi costituiva un altro indicatore della ricchezza delle famiglie, e si faceva a gara a chi ne possedeva di più belli, tanto che, ci informa Cabiddu [1965:33], facevano essi stessi parte del corredo, e si tramandavano in eredità da madre in figlia. Della Marmora [1826, ediz. 1995:105] ci informa innanzitutto che il trasporto non avviene un giorno qualsiasi, bensì 8 giorni prima della celebrazione del matrimonio in chiesa. Giunto il giorno designato, dalla casa dello sposo parte la comitiva che si reca a casa della sposa per la consegna del corredo, seguita dai carri necessari per il trasporto. Alla cerimonia del trasporto del corredo nuziale partecipa lo sposo, i suoi parenti, gli amici, il paralimpu: chi a piedi, chi a cavallo, chi sulle traccas. Tutti sono vestiti con gli abiti più belli, quelli della festa. Aprono il corteo i suonatori di launeddas, che con la loro musica amplificano i canti allegri di tutta la comitiva e il chiasso gioioso prodotto dai cigolii dei carri e dai campanelli degli animali, richiamando l’attenzione di tutta la comunità che si affaccia alle porte per vederli passare. Fanno seguito i ragazzi e le ragazze cui è affidato il compito di portare gli oggetti che non trovano posto sui carri, perché troppo fragili e delicati: vasi, specchi, servizi in porcellana, piatti, bicchieri, bottiglie. Insieme a loro, altre ragazze trasportano guanciali ornati con nastri colorati e fiori. La profusione di nastri colorati è tale (sugli animali, sulle cose, sui carri) che il Bresciani [1850] è costretto a interrogarsi sul loro significato e la loro origine, ma una volta informatici dello stesso uso presso tanti antichi popoli, non riesce a dirci granché, poiché nessuno ne ricorda il significato. Seguono i carri, in fila uno dietro l’altro; se la sposa è ricca, ci informa Nurra [1894:4], si adoperano persino sette od otto carri. Sul primo carro c’è sempre il letto matrimoniale, o le tavole di legno che lo compongono insieme a materasso e accessori vari, segue il carro con le casse di legno intagliato, nel quale sono conservate la biancheria per la casa e quella per la sposa; su un altro sono ammucchiate le sedie, quindi altri carri contenenti sa mesa (il tavolo) con ceste coperte da tovagliette bianche ricamate, ornate di pizzi, cosparse di chicchi di grano, petali di rose e di gerani in segno di buon augurio, gli utensili da cucina, il telaio, il fuso e la rocca col lino, tutto quanto serve per fare il pane, provviste di grano, orzo e fave. L’ultimo carro è quello Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 23
  • 24. che porta la macina, sa mola, cui segue a breve distanza un asinello, detto molenti, perché il suo compito è quello di far girare la mola. L’asinello, per un giorno incoronato di foglie e di fiori, porta al campanello un enorme pezzo di lardo e un pane nero (detto cifraxiu) attaccato al collo [Nurra,1894:4]. Dietro al corteo vero e proprio stanno le traccas con le donne e la ragazze che si occuperanno di sistemare ogni cosa nella nuova casa. È lo sposo che ha il compito di iniziare il lavoro di arredamento, mettendosi sulle spalle il materasso del letto nuziale. Ma durante questa operazione, come raccontano Della Marmora, Cabiddu e Bresciani: il giovane veniva spinto dagli amici, travolto e fatto cadere malamente a terra, tra materasso e materasso, e pestato – s’accraccangiu – senza misericordia, quasi con barbara furia, fino ad esser quasi stordito, fra la gioia, le allusioni, i frizzi e i lazzi di tutti i presenti e il beffardo, ironico sorriso delle fanciulle e di tutte le donne. […] Avveniva anche che lo sposo, dopo essersi avvicinato ai carri dei materassi, se la desse a gambe levate, allontanandosi di corsa. Ma gli amici lo rincorrevano, lo raggiungevano, obbligandolo a ritornare accanto ai carri e prendere in ispalle i materassi [Cabiddu, 1965:41] Per Bresciani si tratterebbe di finzione, di “lotta cortese”, per Cabiddu ammaccature e dolori sono reali, per entrambi il “gioco” preannuncia al futuro sposo il peso che graverà sulle sue spalle una volta sposato. Sempre nella stessa casa, successivamente si svolge la cerimonia della filatura della lana. Una donna, o più di una (in alcuni casi la madre dello sposo, o la donna più anziana presente al trasloco, in altri paesi alcune fanciulle), sale su un tavolo appositamente sistemato nel cortile (se il tempo lo permette) e inizia a filare la lana cantando muttetus beneauguranti per gli sposi, mentre le altre ragazze si preoccupano di adornare ogni mobilio sistemato con fiori e ramoscelli, che saranno conservati dopo averli lasciati seccare e cadere da sé. 1.8 La benedizione degli sposi e il corteo nuziale E finalmente giunge il giorno del matrimonio in chiesa, lo sposalizio vero e proprio, detto su sposoriu (dallo spagnolo desposorios ) o sa coja (dal latino coniugium). Nel Campidano, afferma Nurra [1894:5], si preferisce il sabato per la cerimonia nuziale mentre la domenica è riservata al banchetto. Lo sposo, ricevuta la benedizione dalla propria madre, si reca a casa della sposa, accompagnato dal paralimpu, parenti, amici e in qualche caso anche da un prete 24 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 25. (quando lo sposo non è dello stesso paese o quartiere della sposa? O nel caso sia stato il paralimpu?). Secondo alcuni, quando la ragazza sente giungere il corteo, si getta ai piedi della madre piangendo, invocando perdono per le colpe commesse, e chiedendone la benedizione. La madre, allora, tiene un piccolo discorso sui suoi nuovi doveri di moglie e donna di casa, la benedice e l’affida al prete che ha accompagnato lo sposo, mentre a questi è dato un altro prete della parte della sposa. Il corteo dello sposo si ferma sulla soglia della casa, ma non entra; oppure entrano tutti tranne lo sposo; il compito di chiamare la sposa sembra affidato a un’altra persona. Sarebbe interessante avere maggiori informazioni sull’organizzazione del corteo nuziale. È sicuro che questo fosse composto da due gruppi separati, quello dello sposo e quello della sposa, prima l’uno e poi l’altro, ma non è altrettanto chiaro se il percorso fosse lo stesso o facessero due tragitti diversi. Non disponiamo di dati certi per il Campidano, mentre sappiamo che nel Sarrabus si procedeva su strade diverse, probabilmente, spiega Cabiddu [1965:44], un rito scaramantico con il quale si sperava di sfuggire all’attenzione del Male. Nello stesso modo può essere spiegato l’assoluto silenzio raccomandato da altri. Sembra che le madri non accompagnassero i propri figli in chiesa, ma ne aspettassero il ritorno a casa, forse perché indaffarate con gli ultimi preparativi per il banchetto nuziale. Il corteo procedeva per coppie, con la sposa a braccetto del padre, verso la parrocchia della sposa, dove, per consuetudine, si celebrava e si celebra tutt’ora il matrimonio. 1.9 La cerimonia del matrimonio Per quanto riguarda la cerimonia del sacramento fassi nell‟Isola né più né meno che il cerimoniale cattolico della Chiesa [Bresciani 1850, ediz. 2001:377] Ma in cosa consisteva il cerimoniale cattolico? La celebrazione ecclesiastica, in ottemperanza al decreto tridentino, seguiva nella sostanza il Rituale romano, che contemplava la formula di consenso da parte degli sposi, la benedizione dell’anello, la conclusione del sacerdote che dichiarava i due uniti in matrimonio. Il Rituale Romanum del 1614 costituisce lo standard sul quale si basano tutte le successive edizioni. Ultimo fra i libri liturgici pubblicati sulla scia del Concilio di Trento, Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 25
  • 26. mantiene pressoché immutata la sua fisionomia originaria sino al XX secolo, nonostante le modifiche apportate nel 1752 con Benedetto XIV, nel 1872 con Pio IX, nel 1884 con Leone XIII e nel 1913 con Paolo V; solo la pubblicazione del Codex Iuris Canonici del 1917, rese necessaria una completa revisione del Rituale nel 1925 (vedi Sodi, Javier Flores Arcas, (a cura di), 2004: LVII e sgg.). Prima del 1614, i parroci, per l’attività liturgica ordinaria, dovevano basarsi su una moltitudine di sussidi di ogni dimensione e tipo, che nella forma e nella sostanza variavano considerevolmente da luogo a luogo, costituendo motivo di preoccupazione da parte della gerarchia ecclesiastica che vedeva minacciata l’ortodossia liturgica, o quantomeno il decoro e la dignità della funzione religiosa. Sulla base di queste considerazioni, riproduco parte del rituale (scambio del consenso e benedizione dell’anello) nella pagina seguente, non solo per mostrare i dettagli delle formule utilizzate, ma anche perché è molto probabile che questo testo abbia costituito la base delle successive traduzioni in lingua sarda. Il rito era in latino, ad eccezione delle domande e delle risposte dei contraenti, in lingua sarda22. Altro elemento significativo della cerimonia era il rituale di inanellamento, mediante il quale la donna acquisiva l’honor matrimonii. Nel Rituale romano citato si parla solo dell’anello che lo sposo riceve dal sacerdote e dà alla sposa - “Deinde Sacerdos aspergat annulum aqua benedicta in modum crucis, & sponsus acceptum annulum de manu Sacerdotis imponit in […] manus sponsae” - perciò non è chiaro se lo scambio fosse reciproco. Inoltre sappiamo che il dito e la mano prescelta poteva variare: a volte si inanellavano più dita, cominciando dal pollice fino all’anulare, passandolo dall’uno all’altro della mano destra. In seguito prevalse la consuetudine di inanellare il penultimo dito della mano sinistra, qualificato come “anulare” (“in digito annulari sinistrae”), per il valore simbolico che questo assunse dal momento in cui S. Isidoro di Siviglia ritenne fosse irrigato dalla vena cordialis, la vena del cuore, simbolo dell’amore. 22 Loi Salvatore, comunicazione personale. 26 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 27. 0.6 Tratto da Sodi Manlio, Javier Flores Arcas Juan (a cura di), 2004:147 Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 27
  • 28. Oltre all’anello, molti altri erano i simboli del nuovo legame, ma la Chiesa della Controriforma scelse la strada della cancellazione di qualsiasi residuo vagamente paganeggiante, imponendo dall’alto un modello uniforme valido per tutti. Della grande varietà di simboli nuziali, si è conservato sino ai nostri giorni solo l’usanza del bacio - il classico “e ora può baciare la sposa” dei film americani - che la Chiesa cattolica proibisce all’interno della chiesa, ma ammette sul sagrato. Richiesto a gran voce dalla folla in attesa fuori dalla chiesa, il bacio rappresenta simbolicamente la consumazione del matrimonio. 1.10 Il ritorno del corteo nuziale. L’usanza detta s’arazza o de sa razia All’uscita dalla chiesa la folla festante accoglie la nuova coppia: Lungo la strada è una vera festa: le amiche attendono gli sposi con un piatto colmo di grano, sale e fiori, ed anche confetti, ed appena la coppia nuziale si avvicina, le buttano quasi addosso il contenuto, gridando: Buona Fortuna! [Nurra, 1894:6] Il ritorno del corteo nuziale (solo Lai Ruggero afferma che ciò avvenisse anche all’andata) è caratterizzato dall’usanza di s’arazza o de sa razia (la grazia). Con questo termine si indica il contenuto di un piatto colmo di grano, sale grosso, fiori, o anche di pezzettini di carta colorata, confetti, monetine. 0.7 Il piatto de s‟arazza esposto nel 2006 alla L’usanza - che mi sembra di capire Mostra Fotografico - Documentaria sullo coinvolga solo le donne - prevede che Sposalizio [foto Francesca Salis] s’arazza venga gettata in forma propiziatoria sopra gli sposi e che, esauritone il contenuto, il piatto venga rotto ai loro piedi. Questo viene scagliato con forza, perché è necessario che si rompa, affinché il tutto sia di buon auspicio per gli sposi. Dando credito alle affermazioni di Nurra, il piatto si deve rompere per un altro motivo: la rottura del piatto potrebbe essere un’allusione alla verginità della donna; intuizione plausibile, se si considera che difatti non si fracassano punto allorché la sposa passa a seconde nozze o si dubiti della sua verginità [Nurra, 1894:6] Per Cabiddu, un’usanza pansarda vuole che il corteo nuziale proceda con lo sposo alla destra, per ricordare che l’uomo è l’essere umano preferito da Dio, che lo ha creato per 28 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 29. primo a sua immagine e somiglianza. Usanza smentita dal Bresciani e da Della Marmora, che affermano che il corteo nuziale sia composto da uomini e donne in fila, le donne a destra, gli uomini a sinistra, e dall’incisione di Cominotti, di cui si discuterà in seguito. Giunti a destinazione, alla madre dello sposo spettano i cerimoniali per l’accoglienza dei due nella loro casa. La suocera, sentendo avvicinarsi il chiassoso corteo preceduto dal suono delle launeddas, li attende sulla soglia di casa, tenendo in una mano il piatto con s’arazza e nell’altra un bicchiere d’acqua. Il rituale con l’acqua prevede che i novelli sposi ne bevano un po’, mentre la restante parte, dopo aver asperso gli sposi, viene versata davanti alla sposa nel momento in cui questa attraversa la soglia della camera nuziale, chiamata sa dom’e lettu. 1.11 Su cumbidu - Il banchetto nuziale Dove si tiene il banchetto nuziale? Prima a casa della sposa e poi nella loro nuova casa oppure direttamente nella residenza dei neo sposi? Chi partecipa? La divergenza delle fonti non permette di risalire a informazioni certe per l’area campidanese, diversamente da altre zone dell’isola in cui un resoconto dettagliato ha permesso di mettere in evidenza un cerimoniale dalle regole rigide e complesse23. In ogni caso, giunto il momento del ricevimento (su cumbidu), gli sposi si siedono vicini e v‟ha luogo la singolar cerimonia di mangiare non solo la minestra ad una scodella, ma prestandosi il cucchiaio a vicenda; così mangiano il restante allo stesso piattello, e beono allo stesso nappo, come se l‟un fosse nella persona dell‟altro [Bresciani 1850, ediz. 2001:378]24 Le portate del banchetto di nozze sono regolate da consuetudini che variano a seconda della zona geografica. Nel Campidano, ci informa Nurra, si usa della carne di montone (pezza de mascu), maccheroni in gran quantità ed una minestra cucinata col brodo del montone e condita con zafferano e formaggio fresco; dolci poi, specialmente bianco mangiare (papai biancu) [Nurra 1894:6] mentre per Lai Roggero 23 Per quanto riguarda la Barbagia si veda ad esempio Murru Corriga in Oppo (a cura di), 1990 24 Si veda anche Della Marmora 1826, ediz. 1995:108 Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 29
  • 30. era in uso presentare is mallureddos (gli gnocchi). Facevano seguito le varie pietanze a base di porcetto e di agnello arrosto, accompagnati da un‟infinità di verdure [Lai Roggero, 1995:73] La sola preparazione del pane per il banchetto meriterebbe una trattazione a parte per la cura e l’abilità richiesta25. Il pane degli sposi doveva essere confezionato esclusivamente con la semola: la pasta, bianchissima, veniva lavorata a lungo, e da essa si creavano piccole sculture 0.8 Pani nuziali presenti alla Mostra Fotografico - Documentaria sullo Sposalizio, Selargius 2006 [foto F. dalla forma di colombe, cuori, Salis] ghirlande, con l’aiuto di coltello e forbici. Per l’occasione venivano poi preparati con cura i dolci26, soprattutto biscotti e amaretti, e i liquori, primo fra tutti il rosolio, liquore dal sapore dolce, preparato in casa almeno tre giorni prima con alcool, zucchero e un’essenza in polvere che dà il caratteristico colore. La “torta” nuziale era costituita da un altro tipo di dolce chiamato gattou, un croccante confezionato con mandorle tostate e zucchero, di varie forme (castelli, chiese, case, ecc.). 25 Sull‟arte della panificazione nella società tradizionale sarda esiste una vastissima bibliografia, per maggiori informazioni si rimanda ai seguenti testi e alle relative bibliografie: Cirese (a cura di) Pani tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977 (in particolare Schirru, “La preparazione tradizionale del pane nel Campidano di Cagliari”, pp. 41-44), AA. VV., In nome del pane. Forme, tecniche, occasioni della panificazione tradizionale in Sardegna, Carlo Delfino, Roma, 1991, (in particolare “I pani nuziali”, pp. 73-77), e AA. VV., Pani: tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2005 (il volume è corredato da un vastissimo repertorio di foto relative a ogni tipologia di pane presente in Sardegna). 26 A differenza di quelli sul pane, gli studi sui dolci sardi tradizionali sono scarsi e non altrettanto approfonditi. Per un primo inquadramento di carattere generale si rimanda a : Atzori M., Dal grano al miele: la tradizione dei dolci in Sardegna in “S'ischiglia: rivista mensile di poesia e letteratura sarda”, Vol. 15, A. 1994 , N. 1; Pinna “Panificazione e pasticceria in Sardegna alla metà dell‟Ottocento: saggio di repertorio”, Cossu - Calvia - Deledda “I pani e i dolci sardi nella Rivista delle Tradizioni popolari italiane”, Bottiglioni “Pani e dolci tradizionali in Sardegna da Vita Sarda” (tutti e tre in: Cirese (a cura di) Pani tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977) 30 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 31. La lunga giornata aveva termine, ma non è certo una caratteristica solo campidanese, con grandi festeggiamenti, canti e balli27 che proseguivano sino a notte inoltrata. 0.9 Torta gattou per il banchetto nuziale dell‟edizione 2006 del Matrimonio Selargino [foto F. Salis] 27 Canti e balli suona come un‟espressione piuttosto generica, ma la mancanza di informazioni dettagliate impedisce di precisare ulteriormente l‟argomento. Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 31
  • 32.
  • 33. Bibliografia Agus Uccia, 1994 Tradizioni popolari campidanesi, stampato a Cagliari con i tipi della Stampalux di F. Migliori Alziator Francesco, 2005 [1957] Il folklore sardo, Zonza Editori, Cagliari 1963 “Amoreggiamento e nozze”, “L’abbigliamento popolare” in: La città del sole, La Zattera, Cagliari, pp. 63-70 e 283-298 1984 La città del sole, Edizioni 3T, Cagliari Anatra, Puggioni, 1983 Fonti ecclesiastiche per lo studio della popolazione nella Sardegna centro- meridionale: inventario dei registri parrocchiali di sette diocesi della Sardegna centro-meridionale, Università degli Studi di Cagliari, Istituti di Studi Storici e di Ricerche Sociali, Cisp, Roma Angioni Giulio, 1982 Rapporti di produzione e cultura subalterna. Contadini in Sardegna, Edes, Sassari 1985 [1983] “La cultura popolare” in AA.VV. : La Provincia di Cagliari. Ambiente, storia, cultura, Provincia di Cagliari, Milano, pp. 237-284 1987 “Introduzione” in Deidda Giancarlo, Della Maria Attilio (a cura di): Sagre, riti e feste popolari di Sardegna, Janus, s.l. 2000 Pane e formaggio: e altre cose di Sardegna , Zonza Editori, Sestu Angius Vittorio, Casalis Goffredo 1849 Dizionario geografico – storico – statistico - commerciale degli stati di S.M. il Re di Sardegna, Torino, vol. XIX, voce Selargius Anonimo piemontese 1985, Descrizione dell’isola di Sardegna, a cura di Manconi Francesco, Amilcare Pizzi, Milano Atzori Mario, 1997 ”Matrimoni, famiglia, parentela e amicizie”, ”Folklore e turismo in Sardegna” in: Tradizioni popolari della Sardegna, Edes, Sassari, pp. 17-78 e 399-411 Boscolo Alberto (a cura di), 2003 [1973] I viaggiatori dell’Ottocento in Sardegna, collana La Biblioteca dell’Identità, supplemento dell’Unione Sarda, Mondadori printing, Stabilimento di Cles (TN) Bottiglioni Gino, 2001 [1925] Vita Sarda, premessa di Giulio Paulis e Mario Atzori, Edes, Sassari, pp. 25-30 Bresciani Antonio, 1850 Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati cogli antichissimi popoli orientali, riedizione a cura di Benedetto Caltagirone, Ilisso, Nuoro, 2001 33
  • 34. Caltagirone Benedetto, 1989 Animali perduti. Abigeato e scambio sociale in Barbagia, Celt Editrice, Cagliari 2005 Identità sarde. Un’inchiesta etnografica, CUEC, Cagliari 2005 relazione presentata alla giornata di studio “Identità e Sardegna” tenutasi a Cagliari il 2 dicembre 2005 Camboni Gino (a cura di), 2000 [1997] Selargius, l’antica kellarious, Amilcare Pizzi, Milano Caredda Gian Paolo, 1981 Folclore in Sardegna, Sagep, Genova 1990 Sagre e feste in Sardegna, Della Torre, Genova 1993 Le tradizioni popolari della Sardegna, Editrice Archivio Fotografico Sardo, Sassari Cordeddu Efisio, 2002 Ceraxus (Selargius).Identità,memoria,progetto, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova (Ca) Da Re Gabriella, 1990 La casa e i campi. Divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale, Cuec, Cagliari Delitala Enrica, 1981 “Le fonti delle fonti. A proposito della letteratura di viaggio in Sardegna”, estratto dagli Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Nuova serie – vol. II (XXXIX), 3T, Cagliari 1992 Come fare ricerca sul campo. Esempi di inchieste sulla cultura subalterna in Sardegna, Editrice democratica sarda, Sassari Della Marmora Alberto, 1826 Voyage en Sardaigne, Paris; trad. it. Viaggio in Sardegna, nuova traduzione a cura di Manlio Brigaglia con 15 stampe dall’Atlante Illustrato dell’Isola di Sardegna di A. Della Marmora, Editrice Archivio Fotografico Sardo, Nuoro, 1995 1860 Itinéraire de l’Ile de Sardaigne, pour faire suite au Voyage en cette contrée, Fréres Bocca, Turin; trad. it. Itinerario dell’Isola di Sardegna, Ilisso, Nuoro,1997 Di Tucci Raffaele, 1922 Gli sponsali sardi, “La Regione”, 1(2):13-17 Falasca Adele (a cura di), 2003 “Selargius”, in: Istituto Enciclopedico Italiano, volume Sardegna, Collana Comuni d’Italia, Monteroduni (IS) Fuos Joseph, 1780 Nachrichten aus Sardinien von der gegenwartigen Verfassung diesel Insel, Leipzig, Siegfried Lebrecht Crusius; riedizione italiana a cura di Angioni Giulio, Notizie dalla Sardegna, Ilisso, Nuoro, 2000 Gallini Clara, 1977 “Sa correda e ‘a caddu ‘e su molenti. Il charivari in Sardegna” e “Qualche riflessione sulla rinascita del folclore” in: Tradizioni sarde e miti d’oggi, Edes, Sassari, pp. 25-43 e 127-137 2003 [1971] Il consumo del sacro: feste lunghe di Sardegna, Ilisso, Nuoro 34 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it
  • 35. Gometz Piergiorgio, 1995 Gioielli di Sardegna, Della Torre, Cagliari Grimaldi Piercarlo, 1993 Il calendario rituale contadino. Il tempo della festa e del lavoro fra tradizione e complessità sociale, Franco Angeli, Milano Grimaldi Renato, 1987 Complessità sociale e comportamento cerimoniale, Franco Angeli, Milano Lai Roggero Francesca, 1995 “Fidanzamento e matrimonio”, in: Spigolature. Alcune tradizioni etnografiche della Sardegna, Carlo Delfini, Sassari, pp. 63-74 Loi Salvatore, 1977 “Matrimonio e famiglia in Sardegna nei sinodi e nelle prescrizioni della Chiesa dal medioevo al Concordato del 1929”, in: Dottrina sacra, Editrice Sarda Fossataro, Cagliari, pp. 15-37 1998 Cultura popolare in Sardegna tra ‘500 e ‘600, AM&D edizioni, Cagliari Murru Corriga Giannetta, 1990 Dalla montagna ai Campidani. Famiglia e mutamento in una comunità di pastori, Edes, Sassari-Cagliari Nurra Pietro, 1894 Usi e costumi nuziali di Sardegna, Estratto dal volume: Nozze Cian – Sappa- Flandinet, Tipografia dell’Istituto Italiano D’arti Grafiche, Bergamo Oppo Anna (a cura di), 1990 Famiglia e matrimonio nella società sarda tradizionale, La Tarantola, Cagliari Orrù Gianni, Desogus Carlo, 2001 Cent’anni. Storia di Selargius nel ‘900, Grafica del Parteolla, Dolianova (Ca) Pala Francesco, 1985 Il matrimonio in Sardegna. Legislazione e tradizione al tramonto della dominazione spagnola, Della Torre, Cagliari Pillai Carlo, 1991 Fidanzamenti e matrimoni, “La grotta della vipera”, 17(56-57):44-51 1992 Le coabitazioni nel Campidano di Cagliari tra Settecento e Ottocento, “Quaderni Bolotanesi”, anno XVIII, pp. 439-445 1997 Influssi bizantini sulla religiosità popolare della Sardegna meridionale, “Bollettino bibliografico della Sardegna”, anno XIV, quaderno II, fascicolo n°23, pp. 18-26 Puddu Mario, 2002 Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda, Condaghes, Cagliari Serra Marcello, 1977 Mal di Sardegna, Editrice Sarda Fossataro, Cagliari, voce Selargius 1989 Sardegna quasi un continente, Maga Editrice, Cagliari Sodi Manlio, Javier Flores Arcas Juan (a cura di), 2004 Rituale Romanum, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano Francesca Salis email:salfra81@tiscali.it ▪ 35
  • 36. Spano Giovanni, 1972 [1851] Vocabulariu sardu italianu, 3T, Cagliari Turtas Raimondo, 1999 Storia della Chiesa in Sardegna, Città Nuova editrice, Roma Tuveri Giuseppino, 2006 Grammatica sarda campidanese, Edizioni Nuove Grafiche Puddu, Ortacesus (Ca) Valery 1837 Voyages en Corse, a l’ile d’Elbe, et en Sardaigne, tome second, Paris, Libraire de L. Bourgeois-Maze; traduzione e cura di Longhi Maria Grazia, Viaggio in Sardegna, Ilisso, Nuoro, 1996 Vuiller Gaston, 1893 Le iles oubliées: les Baléareas, la Corse et la Sardaigne, impressions de voyage, Paris, Hachette; trad. it. Le isole dimenticate. La Sardegna, impressioni di viaggio, Ilisso, Nuoro, 2002 Wagner Max Leopold, 1989 Dizionario etimologico sardo, Trois Editore, Cagliari Zonabend Françoise, 1988 “Della famiglia. Sguardo etnologico sulla parentela e la famiglia”, in AA.VV. , Storia universale della famiglia, volume primo: Antichità, Medioevo, Oriente antico, Mondadori, Milano, pp. 15 -78 36 ▪ Francesca Salis email: salfra81@tiscali.it