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I. MOBBINGOLOGIA … E UN PASSO OLTRE In principio fu il verbo, poi il discorso, poi l’affermazione, poi l’informazione, infine un chiasso infernale. Carlo Dante 
Mobbing è solo un sostantivo, una parola. Le parole sono semplici convenzioni che veicolano suoni con cui noi abbiamo deciso, per un certo periodo (poiché le parole cambiano nel tempo), di condi- videre un’idea, un’immagine, un senso. Se io scrivo cielo, tutti capite immediatamente che cosa intendo, a questo serve il linguaggio; ep- pure scrivendo cielo, ognuno di voi visualizzerà mentalmente qualco- sa di diverso, qualcosa che potrebbe essere enormemente differente per uno e per l’altro, oppure caratterizzato da microscopiche diver- genze, ma in ogni caso diverso per ognuno. Quando mi trovo a par- lare con persone che subiscono violenza psicologica sul posto di la- voro, non posso non notare lo sforzo che molti di essi compiono nel cercare di accatastare i loro vari problemi e le loro tristi espe- rienze al fine di far convergere tutto verso il termine “mobbing”. Si avverte l’ansia di trasmettere il malessere non attraverso la semplice espressione del male che in effetti sentono e vivono, lasciando così che il professionista percepisca ed acquisisca davvero le loro storie, ma piuttosto cercando di portare allo psicologo una diagnosi bella e fatta, così come certi pazienti si presentano dal medico lamentando un sintomo ed al contempo proponendo il nome della malattia che li affligge. Nello smanioso desiderio di farsi capire secondo schemi ampiamente condivisi (e anche sì legalmente riconosciuti), ci si sfor- za di ricorrere a un termine “assoluto”, sentito in giro o letto sui giornali, a volte con risultati bislacchi sul piano verbale. Ho sentito neologismi divertenti a questo proposito: molling, mobbato, bob- bin, etc. Questo accade perché, invece di parlare un linguaggio che si conosce alla perfezione, quello dei propri vissuti e dei propri sen- timenti, molte persone preferiscono usare il linguaggio del “sentito dire”, non loro e non conosciuto, finendo per parlare male del pro-
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prio stesso caso. Come avvertimento al professionista che si pone in una dimensione di aiuto, al fine di non stimolare una dinamica ia- trogena a tutto svantaggio dell’assistito, si fa notare che il lessico tecnico può diventare un supporto tendente a separare il vissuto dal discorso su di esso, con perdita di spontaneità e irrigidimento delle strategie maladattive adottate dal paziente stesso; tutto questo, sommato al soggetto in parte passivizzato dalla situazione di males- sere e “supportato” dal professionista a identificarsi con una dia- gnosi, determina un deuteroapprendimento1 di sé dall’esterno, con perdita progressiva di un’identità davvero soggettiva a vantaggio di identità diagnostiche o comunque provenienti dal sociale (Petrella, 1985). Quindi, alcune modalità di aiuto offerte a coloro che hanno subito violenza psicologica sul lavoro, veicolando nel paziente teorie psicopatologiche su di sé o sull’ambiente, finiscono per trasmettere un senso d’identità precaria, permeabile e difficilmente padroneg- giabile attraverso interpretazioni stereotipate (Spence, 1993). Reputo perciò che uno dei primi errori che possa compiere un sog- getto che “se la stia passando male al lavoro”, sia quello di ricorrere e rincorrere il termine mobbing, come se il disagio psicologico che si può vivere in azienda sia un tutto o nulla: o è mobbing, oppure grossi problemi non ce ne sono e si può fare poco per difendersi sul piano psicologico e/o legale. Come per diverse cose o idee, anche il mobbing ha goduto di un suo periodo modaiolo, di richiamo sociale e di successo fra psicologi, avvocati, medici ad altre figure profes- sionali. Molti di questi hanno costruito sul mobbing un business niente male. Il risultato di tutto ciò è che un soggetto possa cercare di autodefinirsi mobbizzato senza esattamente sapere cosa stia di- cendo di preciso e, in ogni caso, rendendo l’ennesimo cattivo servi- zio al proprio Sé che vorrebbe si dicesse semplicemente che si sta male, quanto, da quando e perché. 
L’idea quindi, poiché questo libro si propone primariamente come aiuto per coloro che vivono un malessere, è quella di compiere un superamento di un termine tramite il quale tutti ci capiamo con grande immediatezza ma sotto la cui ombra ogni individuale dolore 
1 Introdotto dallo psicologo inglese Gregory Bateson (1904-1980), il termine deute- roapprendimento descrive il processo, nell’ambito dell’apprendimento, attraverso cui si impara ad imparare.
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si stempera, si confonde e in parte si perde. Così come il termine cielo richiama dunque spicchi e settori di spazio sopra la nostra te- sta, diversi per ognuna delle teste, così in effetti ogni persona ha la propria esperienza di “mobbing” ed è a questa che tutto va riporta- to, è questa che va offerta al professionista dell’ascolto, non la paro- la che risolve il caso, così come un viaggio non inizia mai dall’arrivo. Tuttavia, per compiere un superamento, occorre individuare e co- noscere ciò che va superato, quindi ritengo sia utile illustrare con spirito di sintesi il fenomeno mobbing. Cos’è il mobbing? 
Mobbing deriva dall’inglese “to mob” (assalire con violenza, accer- chiare), verbo utilizzato nel 1966 dal padre dell’etologia Konrad Lo- renz nel suo libro On Aggression per descrivere il comportamento di alcuni animali che assalgono un membro del gruppo, od un esterno, per espellerlo; per Lorenz il mobbing rispondeva alla spinta della selezione naturale del più adatto su base darwiniana, ma l’etologo faceva anche notare che gli umani, pur condividendo l’istinto ani- male, avrebbero potuto porlo sotto il controllo della razionalità. Il medico svedese Peter Paul Heinemann nel 1972 prese il termine e lo “passò” alle persone, descrivendo il comportamento dei bambini che opprimono i coetanei (ciò che in Italia è più noto come bulli- smo). Nel 1973 Dan Olweus, che da qualche anno studiava le ag- gressioni fra ragazzi in ambiente scolastico, introdusse la parola “bullying”2, termine che ottenne poi maggior fortuna nei paesi an- glossassoni come sinonimo di mobbing lavorativo, mentre nei paesi mediterranei e di lingua tedesca la parola mobbing ha maggior dif- fusione. Il medico tedesco naturalizzato svedese Heinz Leymann, 
2 Da notare come le parole siano convenzioni condivise che possono cambiare radicalmente significato nel tempo. La parola bully fu coniata intorno al 1530 con il significato di “innamorato/a, dolcezza”, attribuibile ad entrambi i sessi e deriva- ta dall’olandese boel “amante”, a propria volta diminutivo del tedesco medievale buole, fratello. Già nel XVII sec. il significato della parola era mutato in “fanfaro- ne, borioso” forse per la connessione fra la parola “amante” e “ruffiano”. In fine, nel 1710, si attestò il verbo to bully con il senso di “molestare i deboli”.
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nel 1984 sdoganò definitivamente nell’ambito lavorativo il termine mobbing, con tanto di studi che sottolineavano come la violenza psicologica sul posto di lavoro producesse danni psicofisici. 
Nella spasmodica ricerca di una definizione, il lettore stia sereno: una definizione univoca di mobbing non c’è, o per lo meno non an- cora. Ci sono definizioni più o meno condivise, più o meno ufficiali, che qui presento in una personale sintesi3: Il mobbing si configura come un insieme di atteggiamenti lesivi, ripetuti e pro- gressivi, che si manifestano in un ambiente di lavoro che presenta criticità, perpe- trati da superiori e/o da colleghi ai danni di uno o più lavoratori, e che con pro- grammatico intento di compromettere l’equilibrio psicofisico della vittima, fini- scono per comprometterne il futuro lavorativo. Scomponiamo in fattori la definizione di questo fenomeno chiara- mente composto da sub-fenomeni. Il mobbing è un insieme di atteggiamenti: non si tratta di un unico tipo di frasi, atti, gesti. Ci può essere un modo “preferito” per attac- care un lavoratore ma in genere si tratta di una molteplicità di forme d’attacco, che vanno da atti palesemente aggressivi (anche sul piano fisico) a punzecchiature subdole sul piano produttivo o squisita- mente personale, che incidono il benessere della vittima con la pro- verbiale lentezza della tortura della goccia d’acqua. Uno stillicidio. 
Il mobbing è fatto da atteggiamenti lesivi: come detto poco sopra, non bisogna confondere i comportamenti mobbizzanti con una normale legge di selezione naturale applicata al mercato del lavoro. Sempre che ciò significhi qualcosa di positivo. Trattare duramente sottoposti e colleghi per cercare di capire chi sia il più adatto, se- condo la logica del “chi la dura la vince” è, fuor di metafora, 
3 Per realizzare questa sintesi sono stati consultati: 1) Commissione di analisi e studio sulle politiche di gestione delle risorse umane e sulle cause e le conseguen- ze dei comportamenti vessatori nei confronti dei lavoratori (Ministero della Fun- zione Pubblica, 2003). 2) Documento di Consenso (Gilioli et al. 2001). 3) Einar- sen et. al. 2003. 4) Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute del Lavoro (2002). 5) Harcèlement moral au travail, Loi 2002-73 du 17 janvier 2002. 6) Ege Harald, 1988.
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II. L’OSMOSI INVERSA, UNA VIA VERSO LA SERENITÁ Solo chi cade può dare agli altri l’edificante spettacolo del rialzarsi. A. Graf Alcuni dei lavoratori con i quali ho colloquiato sanno già tutto e po- trebbero saltare a piè pari alla prossima sezione ma, nel caso si tro- vassero per le mani queste pagine, prendano la cosa come un’utile ripetizione. Il capitolo in questione, infatti, è una (quasi) fedele ri- proposizione delle parole che ho usato con loro nel momento in cui mi è stata chiesta una via di uscita psicologica dallo stress lavorativo che stavano patendo. 
L’idea che la persona affetta da stress occupazionale potesse essere concettualizzata in via metaforica come una cellula, è una trovata, spero di una certa originalità, che ho sviluppato nel tentativo di illu- strare ai pazienti la loro situazione e, da essa, l’evoluzione positiva che si poteva intraprendere partendo da una fase che a volte pare essere senza via d’uscita. Ovviamente non è una formula magica né la taumaturgica panacea che possa curare tutti i mali, però questa metafora è semplice, condivisibile quasi universalmente, diretta, gra- ficamente immediata e, in un solo concetto, permette di dare diver- se risposte alle domande poste più di frequente dai pazienti. FAQ9 tipo: Come posso star meglio? Perché ho perso interesse per tutto? Dopo starò meglio? Quanto ci metterò a stare meglio? Alcuni pa- zienti mi hanno detto, non senza mia malcelata soddisfazione, che non avevano mai visto una più chiara rappresentazione della propria condizione. C’è anche mi ha consigliato di non rivelare in un libro questa metafora, diciamo così terapeutica, perché poi sarebbe stata 
9 FAQ, acronimo diffusosi in internet, sta per Frequently Asked Questions, cioè Domande Poste Frequentemente.
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copiata; se io avessi avuto bisogno di usarla, ormai divenuta di pub- blico dominio, avrebbe potuto avere meno impatto sul paziente. Tuttavia se avessi agito seguendo quest’ultimo consiglio, non sarei stato migliore dei mobber che per narcisismo tengono per sé pote- re, ruolo, idee e soldi, cioè uguale a quelle persone dalle quali i pa- zienti mi hanno chiesto di “salvarle”. Così mi sono detto che se questa metafora è stata utile a coloro ai quali era stata mostrata, po- teva esserlo anche per i lavoratori in difficoltà che non avevo ancora incontrato e che probabilmente mai incontrerò, ma che forse po- trebbero essere aiutati ad aiutarsi. E se ciò significherà per me sot- trarre una freccia al mio arco, poco male, giacché il mio lavoro non è cacciare ma produrre archi e frecce. Iniziamo quindi con il dire COSA occorra fare per stare meglio, quindi tratteremo il COME.
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Una persona con problemi lavorativi può essere idealmente imma- ginata come una cellula e, come tale, ha una membrana esterna ed un nucleo (Fig. 1). In una cellula vera, il nucleo contiene il DNA (cosa bella e interessante), mentre il nucleo della persona con pro- blemi sul lavoro è il problema lavorativo stesso. Fra il nucleo nero e la membrana vi è lo spazio vitale del soggetto, che contiene tutte le diverse cose che compongono la vita di una persona: mogli, mariti, fidanzati, figli, genitori, le cose che piacciono (leggere un libro, fare sport, guardare la tv, etc.). Io ho indicato cose molto comuni, ma voi potete immaginare in quello spazio le cose della vostra vita che più gradite. Pensando ancora alla cellula, questi elementi sparsi nello spazio vitale possono essere intesi come mitocondri, ovvero quegli organuli contenuti nello spazio cellulare la cui funzione è la produ- zione di energia. Ora, il problema di quel grosso punto nero, il problema lavorativo, è che esso non è un’invenzione della vostra mente, un asino che vo- la, ma è un fatto concreto in un mondo reale con conseguenze tan- gibili. Non che se aveste avuto un delirio sarebbe stata cosa da po- co! Tuttavia, nel caso dello stress occupazionale, chi vi può aiutare in senso psicologico (lo psicoterapeuta, tanto per non parlare a no- me di altri) non può agire in via diretta andando a prendere per il colletto il mobber di turno nello sforzo di convincerlo ad essere più umano. Quindi si dovrà agire di sponda, operando sullo spazio vita- le. 
Per sua natura il problema lavorativo tende ad espandersi nella mente del lavoratore, andando ad invadere buona parte dello spazio vitale che, ricordo, va inteso come spazio geografico ma soprattutto psichico che la persona mette a disposizione degli altri e delle cose che fanno parte della propria esistenza. Succede che, come si dice in termini tecnici, la mente del soggetto è polarizzata da e verso il pro- blema, cioè, in parole semplici, la persona che patisce stress occupa- zionale non pensa ad altro che al lavoro e parla quasi sempre di la- voro, cosa che può inasprire le relazioni che ha con chi lo circonda. In effetti, il problema di lavoro non solo si espande ma si diffonde, esattamente come farebbe il petrolio che sversasse da una petroliera con una falla nello scafo e, a macchia d’olio, andrà ad inquinare ogni cosa (Fig. 2). Elementi che per loro natura non c’entrano nulla con il lavoro, vengono intaccati dalle negatività psichiche provenienti
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dallo stress lavorativo il quale esercita ormai una tale pressione men- tale che, per osmosi10 (siamo in una metafora cellulare, non dimen- tichiamo), fa passare il suo contenuto nello spazio vitale dell’individuo. Quindi, rimanendo nell’esempio, se prima ci piaceva leggere libri, adesso non abbiamo più voglia di farlo né traiamo più soddisfazione da tale attività. Lo stesso dicasi del rapporto con il partner e in special modo dei rapporti sessuali, la cui frequenza si va progressivamente diradando, fino a raggiungere livelli di avversione. 
10 Con osmosi in biologia si indica la diffusione del solvente attraverso una mem- brana semipermeabile, che va dalla parte a maggior potenziale idrico verso il compartimento a minor potenziale idrico, in pratica secondo il gradiente di con- centrazione.
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Queste cose non sono connesse in modo diretto con il lavoro, anzi, in alcuni casi possono essere quasi antitetiche, eppure lo stress lavo- rativo, inquinandola, riesce a rendere insopportabile ogni cosa. I la- voratori-genitori iniziano generalmente a spaventarsi per la propria condizione di squilibrio esattamente quando l’inquinamento rag- giunge le energie e le risorse prima impiegate per la cura dei figli. Arrivati al punto di sgridare eccessivamente i figli, oppure di non giocare o parlare con loro, ecco che a tale livello molti lavoratori ca- piscono che la misura è colma e che si devono prendere provvedi- menti. Cosa deve avvenire? Non è difficile. Di complicato c’è solo il nome: osmosi inversa. Oc- corre, in parole semplici, fare in modo che i mitocondri riprendano a produrre energia, cioè deve aumentare la pressione-qualità degli elementi contenuti nello spazio vitale, affinché sia maggiore di quel- la esercitata dallo stress lavorativo (Fig.3).
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Si deve quindi invertire un processo, compiere un cambiamento, una piccola rivoluzione, che in fondo è il seme di ogni evoluzione che voglia definirsi tale. Non si richiedono sforzi insormontabili, piuttosto è necessaria la continuità. Sarebbe impossibile simulare, d’improvviso, che il lavoro non sia più un problema, sdraiandosi a leggere un libro con la serenità di un Buddha. Potete però iniziare ad aprire le porte, da quelle fisiche a quelle mentali, cominciando a dire che qualcosa deve modificarsi, convincendovi del fatto che non state scontando una condanna e che non siete tenuti in nessun mo- do a farvi (fare) del male. Prima di entrare nel merito del meccani- smo che porta i nostri “mitocondri” a produrre una sana energia d’opposizione, vediamo cosa accade all’interno della cellula- lavoratore nel momento in cui viene invertita l’osmosi. Aumentan- do la pressione, cioè come detto l’importanza e l’investimento psi- chico sulle cose che riempiono il nostro spazio vitale, si assiste ad uno stop dell’espansione del problema lavorativo all’interno di detto spazio. Stop non significa scomparsa. Come ovvio il problema lavo- rativo è qualcosa di molto concreto e non bastano i “poteri mentali” per farlo svanire. Il blocco dell’espansione del problema, però, con- sente al lavoratore una tregua psichica e, in questa tregua, un riordi- no e un riorientamento delle proprie risorse. Interrompere quella che sembrava un’inarrestabile espansione del problema lavorativo dentro la nostra mente, significa in primo luogo trarre nell’immediatezza l’impressione di una possibile risoluzione di qual- cosa che pareva ormai una malattia cronica alla quale eravamo con- dannati e che, invece, adesso assume le sembianze di un malanno che possiamo debellare. Bloccare l’espansione, soprattutto, significa permettere una continua espansione di tutti gli altri fattori (i mito- condri) che tornano alle loro normali quote e riprendono a produrre la positiva energia psichica che è loro natura produrre. Ora che il problema lavorativo non è più un bubbone pulsante nella vostra mente (parallelo alquanto sgradevole ma, mi confermerete, calzan- te), accadrà che i livelli di benessere torneranno ad aumentare e ciò comporterà un aumento della lucidità mentale e della concentrazio- ne impiegabile per la risoluzione del problema lavorativo. 
Più lucidità mentale significa iniziare ad uscire da quella dimensione psicologica confusa, poiché inquinata da paure e vissuti di svaluta- zione indotti, che fino ad aggi vi hanno impedito di guardare da una certa distanza la vostra situazione lavorativa, pianificare strategie uti- li e passare all’azione. Contenuta in buona parte la fuoriuscita del
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“petrolio” che soffocava i vostri mitocondri, soppeserete lucida- mente i pro e i contro delle diverse opzioni che avete a disposizione e che scoprirete essere molte di più di quante prima sembrassero: “parlo con un medico”, “chiedo consulenza ad un avvocato”, “ini- zio ad interpellare i sindacati”, “non cambio lavoro ma chiedo un incontro con l’ufficio personale”, “ho bisogno di un periodo di ri- poso”, “inizio a mandare in giro dei curricula che non si sa mai11”, etc. La cosa importante, comunque, è avere un piano, ancor meglio se suddiviso in più piccoli traguardi da raggiungere. Avere un piano e dedicarsi ad esso anche pochi minuti al giorno, significa iniziare a provare meno paura e meno esitazione. Ok - mi direte - sono d’accordissimo, ma è proprio lo spostamento di energie dal problema di lavoro alle altre cose della mia vita che risulta difficile. State sottovalutando le vostre risorse e le vostre in- tenzioni, vi risponderò. Se avete in mano questo libro e siete arrivati a questa pagina, che è il nucleo di tutta la faccenda, o siete molto fortunati (e la fortuna comunque è una cosa che conta) oppure vi state già impegnando a cercare una svolta, e forse non ve ne rendete pienamente conto; d’altronde qualcuno vi ha abituati a svalutare il valore delle vostre stesse idee e del vostro lavoro. 
11 Riguardo al curriculum. Non penso di sconvolgere e menti se affermo che la politica di coloro che ricevono curricula sia, in buona parte, il cestino, soprattutto in questo periodo di crisi lavorativa. Tuttavia più si fa e più si è fortunati. Di sicu- ro non entrerà in casa vostra nessun datore di lavoro ad offrirvi un buon posto ed un buono stipendio. Anche nei casi in cui la fortuna sembra aver determinato tut- to, ad esempio nell’ipotesi di un biglietto vincente della lotteria, non si può negare che l’acquisto implichi un soggetto che sia volontariamente andato in tabaccheria ed abbia deciso di giocarsi un azzardo: probabilità di vincita? Minimale. Probabili- tà di vincita stando chiusi in casa? Nulla. Con ciò non voglio certo incentivare comportamenti azzardati, voglio piuttosto suggerire la potenzialità della volontà e della perseverazione. Prodotto un buon curriculum, non è vero che sia cosa indif- ferente spedirlo a 100 aziende o non spedirlo affatto. Se anche si ottenessero 100 “no”, rimarrebbe la differenza fra una persona che c’ha provato e una che non c’ha provato affatto. E, fatemi dire, l’autostima è qualcosa che vale.
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III. IL PREDATORE PSICHICO, HABITUS E HABITAT Nessun uomo cattivo è felice. Giovenale 
Dopo aver inquadrato il problema del disagio lavorativo e delle pos- sibili soluzioni, è naturale che sorga la curiosità sull’identità dei col- pevoli o, meglio, sul quadro di personalità dei mobber e dei loro ac- coliti. Curiosità più che lecita ed utile, aggiungerei, dato che un iden- tikit consentirebbe una sorta di prevenzione o di protezione per i lavoratori attenti che avrebbero così degli strumenti ri-conoscitivi per rilevare il tramonto prima che si faccia notte. Una foto segnale- tica però non c’è, né i ricercatori sono facilitati nell’impresa. Il moti- vo è semplice: è la vittima che chiede aiuto, non il carnefice. Si lavo- ra quindi di sponda, ricostruendo “il volto” sulla base dei ricordi; il fatto che i ricordi siano quelli di coloro che hanno subito vessazioni, non aiuta a costruire un identikit neutrale. Anche avendo, ipoteti- camente, un preciso profilo del mobber, ciò che rende ben più complessa la disamina del problema è che egli agisce e può agire in modo lesivo soprattutto perché esiste un ecosistema lavorativo che gli consente tale comportamento e, più o meno indirettamente, lo consolida; in alcuni altri ambienti, caratterizzati da una feroce ambi- zione, il comportamento vessante è persino auspicato ed incentiva- to. Quindi, analizzando l’ambiente, si scopre che il gioco al massa- cro è il più delle volte inaugurato da uno o pochi individui ma è par- tecipato da molti più elementi che si trovano in un’ambigua posi- zione a metà fra la vittima e l’assistente del carnefice, non renden- dosi forse conto che un collega poso rispettoso di un altro collega lo potrà essere di tutti. Perciò, in questo sistema complesso, non sono solo i capi a fare danni e a poter essere definiti mobber, ma anche i colleghi, i parigrado, coloro sui quali con più naturalezza a- vevamo posto fiducia e confidenza. Non a caso Dante Alighieri sprofonda i traditori nell’ultima e più arida parte dell’Inferno, poi-
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ché il traditore commette frode verso una persona che di lui si fida. Quante volte si è sentito di un impiegato che per farsi bello agli oc- chi del capo danneggia il collega? Quante volte, poi, si è sentito di dipendenti isolati da colleghi, resi vili e traditori da un ricatto mai espresso ma serpeggiante? In un mio precedente saggio (Qualcosa da Leggere, 2009) l’incipit di un capitolo citava un aforisma: “I pasto- ri saranno brutali, finché le pecore staranno stupide” (Godin); il capitolo ri- guardava non a caso un elenco di 30 personaggi passati alla storia come tiranni. Riportato in modo così crudo all’interno dell’argomento lavorativo, l’aforisma può suonare fastidiosamente provocatorio. Eppure è nell’esperienza di ognuno di noi il fatto che un clima lavorativo negativo possa essere generato e diffuso solo se trova mezzi di propagazione, ovvero se altre persone all’interno dell’azienda, per paura o interesse, si fanno possedere da quel male e/o lo fanno proprio. Se si accetta per sufficiente la spiegazione se- condo la quale la necessità di uno stipendio e di un lavoro giustifica la collusione con il male, allora è sufficiente anche la giustificazione di un capo che maltratta i dipendenti per insondabili necessità per- sonali o produttive. Per essere equi, poi, il concetto di responsabilità deve essere equanimemente distribuito, e per quanto i capi attirino, per ruolo, invidie ed antipatie, è troppo facile vedere in loro l’inizio e la fine di ogni stress occupazionale. Una persona sola può fare ben poco, specialmente se parliamo di dinamiche relazionali. I di- pendenti, o comunque tutti coloro che non sono capi, devono ini- ziare a guardarsi dentro e dirsi, almeno nel privato del proprio Sé, in che misura concorrono a sostenere un sistema sbagliato, in che mi- sura partecipano all’emarginazione di un collega, quindi in che mi- sura condividono la responsabilità di un malessere lavorativo che magari a tratti condannano. D’altro canto nessuno si aspetta da voi delle rivoluzioni esplosive ma solo dei piccoli, accessibili cambia- menti nella direzione del vostro bene; ma attenzione: “vostro bene” e “vostro interesse” potrebbero non essere da subito coincidenti. 
Saranno comunque gli psicologi ricercatori, con qualche pubblica- zione che abbia la solidità dei numeri, a scattare la foto definitiva al volto del mobber e a disegnare la mappa più precisa possibile dell’ambiente in cui si muove. Io, tuttavia, posso provare a sintetiz- zare e ricombinare ciò che mi è stato riferito iniziando quindi a to- gliere dal campo d’analisi il referente e a differenziare i due grandi attori del fenomeno mobbing: l’individuo e l’ambiente nel quale agi- sce.
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L’Individuo 
I pazienti riportano delle descrizioni abbastanza sbrigative per in- quadrare coloro che fanno dell’ambiente di lavoro un inferno. Non sono belle parole e non sono inquadramenti lusinghieri: “È una per- sona disturbata” è la frase più comune, e la più clemente. Attraverso un percorso tortuoso fatto di ascolto e riflessioni, non posso che convenire con il virgolettato; l’aforisma citato ad inizio capitolo (in latino: nemo malus felix) fa riferimento proprio a questo concetto. Il male proviene da altro male; chi danneggia gli altri e l’ambiente cir- costante lo fa poiché “infestato” da qualche malessere. Ovvio, ma vale la pena ripeterlo, se non si vuol cadere nel vizio di pensare che esista altro male oltre a quello causato dagli uomini. Per le vittime, però, non è una giustificazione e non deve esserla. Chi produce ma- lessere lavorativo è una persona capace di intendere e volere (mi au- guro) ed è giusto che risponda del proprio comportamento, poiché ha la possibilità di accedere a qualsiasi tipo di percorso psicologico o cura medica per porre freno al proprio malessere. O almeno ci deve provare; non provarci è un’ulteriore aggravante. Sfortunatamente, quando si tratta di guardarsi dentro, buona parte degli individui mo- stra di avere non poche difficoltà, soprattutto se occorre cercare proprie responsabilità. Anche per gli psicologi è difficile, ecco per- ché per diventare psicoterapeuti, cioè per essere titolati ad ascoltare ed aiutare professionalmente gli altri, occorrono anni di lavoro su di sé. E rimane difficile anche per gli psicoterapeuti. L’insight, cioè l’introspezione, diventa ancor più ostica per chi riveste un ruolo di comando. Per essi è già un atto quotidiano e rodato l’attribuire compiti, movimentando il pensiero dal sé all’altro e non il contrario. Quindi una persona in posizione direttiva capace di invertire questo moto, ammettendo responsabilità e colpe è cosa rara, così com’è ra- ra l’umiltà, un ingranaggio necessario per realizzare quel movimento invertito. La rarità di questi leader ne fa automaticamente dei grandi personaggi. In alcune situazioni, di fatto meno comuni, sono i sot- toposti a vessare e il capo è la vittima. Si tratta sempre di un sistema malato che agisce su meccanismi di propagazione, il più delle volte innescati e fomentati da un singolo o comunque pochi individui: re- puto sia impossibile che un gruppo possa agire negativamente senza che nessuno in qualche modo abbia innescato o coordinato, per quanto grossolanamente, l’azione. In alcuni casi i subordinati, coesi
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da diverso tempo, non accolgono nel modo dovuto un nuovo capo e tendono quindi xenofobicamente (nel senso etimologico) ad e- spellere o a non integrare il nuovo. Può anche essere che il capo ab- bia “inavvertitamente” stimolato l’astio dei dipendenti, ma questo può essere vero anche in senso inverso. Piuttosto è bene capire se la presenza di questo nuovo capo non abbia frenato l’ascesa o in gene- rale l’amore di altri per il potere, in quanto quasi mai l’ambizione va d’accordo con la bontà ma piuttosto, come scrisse Tolstoj, con il raggiro e con la violenza. In questo caso il dirigente potrebbe subire una pressione dal basso, da parte di arrivisti e invidiosi, o una pres- sione dal basso ma mossa indirettamente dall’alto, ovvero da un su- periore che fomenta i sottoposti per contenere il potere di un rivale da cui teme di essere scalzato. Machiavellico. 
Dato che gli attori sono così tanti e in ruoli diversi, in fine, che vol- to possiamo dare al mobber? L’esperienza mi ha permesso di indi- viduare otto tipologie diverse di persone che creano dissidio al lavo- ro, per quanto molte caratteristiche compaiano in una categoria e anche in un’altra, intendendo in effetti queste categorie come insie- mi che si intersecano. Le otto categorie sono: Gerarca, Risentito, Incompetente, Padronale, Ipermotivato, Spettatore, Misogino e Sa- dico, quest’ultimo il più pericoloso di tutti nella sua forma maligna. Prima di presentarli uno per uno val la pena precisare che tutti que- sti diversi tipi di mobber sono comunque dei narcisisti27, nella misu- ra in cui le loro energie sono dirette verso loro stessi, i loro proble- mi, le loro ragioni e i loro desideri. All’inizio dell’Ottocento si parla- va di “monomanie”28 quando un soggetto, con un quadro di perso- 
27 Nel linguaggio comune, con narcisismo s’intende un quadro personologico ca- ratterizzato da vanità ed egocentrismo. In psicologia, però, con narcisismo si deli- neano dei soggetti con un disturbato senso di sé, egocentrici, che tuttavia non si esprimono necessariamente con vanità ed arroganza; il narcisista infatti può esse- re anche un timido, roso dall’invidia. Il narcisista, ogni caso, è un soggetto costan- temente impegnato a compensare un radicale danno alla propria autostima che nasconde dietro facciate di vanità o di apparente adesione all’ambiente. Per com- pensare la sua grande ferita interiore, egli invidia costantemente, depreda psicolo- gicamente, manipola e, in tutti i casi, si trova incapace di connettersi con profon- da umanità agli altri i quali, in definitiva, sono visti come nemici e/o strumenti per zittire il suo danneggiato senso di sé. 
28 Il termine, qui esteso nel suo significato originario, venne coniato dallo psichia- tra francese Jean-Étienne Dominique Esquirol (1772-1840) intorno al 1810.
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nalità altrimenti integro, presentava uno specifico squilibrio o mani- a, cioè uno spunto peculiare ma pervasivo che caratterizzava il suo essere: una sorta di delirio parziale, insomma. Ora, a tutti sarà capi- tato di incontrare una persona, ad esempio, davvero tirchia, questa persona può essere definita (estendendo quel paradigma) monoma- niaca, in quanto la sua volontà di persona “normale” è coercizzata alla frugalità, al risparmio, all’avarizia. Il monomaniaco è un narcisi- sta perché, dando sfogo al proprio “delirio”, interrompe il processo comunicativo e di condivisione con il prossimo, interrompe il cana- le empatico che serve a “sentire” gli altri, e orienta tutte le proprie energie psichiche su di sé, ovvero alla salvaguardia di ciò che crede il proprio massimo interesse che, ancora una volta, è se stesso. Que- sto è esattamente ciò che accade ai mobber, i quali non solo non sono interessati al benessere dei colleghi ma, per ciò che ho appena scritto, non lo sono in definitiva nemmeno a quello dell’azienda. È davvero paradossale il fatto che tantissime aziende cautelino la car- riera di questi mobber a danno altri lavoratori più onesti e psicolo- gicamente sani, dimostrando una pessima lungimiranza e un’inquietante tendenza al masochismo produttivo, giacché riman- gono affascinate e succubi di un carisma che, per esprimersi, costerà tanto a tutti. Nel descrivere questi soggetti, che non sono elencati in ordine di pericolosità o complessità psicologica, utilizzerò il maschi- le ma questo solo per comodità; certi problemi sono molto demo- cratici e trascendono i generi. Padronale, risentito, sadico, così come le altre definizioni sono, in fin dei conti, solo categorizzazioni di comodo ma non vogliono e non devono essere intese come incasel- lamenti rigidi; non si tratta di una tassonomia linneana. Avrei potuto scegliere aggettivi diversi e probabilmente chi altri volesse scrivere sull’argomento deciderà per un’altra terminologia. Piuttosto, auspico che il mio elenco venga inteso come vademecum per orientarsi e quindi meglio difendersi. 
Il Mobber Misogino. Questo soggetto è il protagonista del mobbing di genere e di quello sessuale, di cui si era discusso nel primo capito- lo. Vittime di questo soggetto sono, come fa intuire il nome, le donne, sia nella figure di femmine da conquistare o vessare, sia nelle
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IV. DUE PAROLE … La vigliaccheria chiede: è sicuro? L’opportunità chiede: è conveniente? La vanagloria chiede: è popolare? Ma la coscienza chiede: è giusto? Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare; ma bisogna prenderla, perché è giusta. Martin Luther King … Alle famiglie Colloquiando con i pazienti che hanno subito violenza psicologica al lavoro, si riconosce immediatamente come variabile protettiva la presenza di una famiglia alle spalle. Attenzione però, non una fami- glia che di familiare e protettivo ha solo il nome, ma una famiglia intesa come almeno una persona che, per affetto, sta dalla nostra parte, crede in noi. Le storie di alcuni soggetti incontrati erano terri- ficanti, ingiuste, dolorose, permeate di un’illogicità che avrebbe por- tato allo scompenso chiunque; non però chi poteva sempre fare ri- ferimento sulle logiche del bene contenute nell’abbraccio di un fa- miliare, un fidanzato, un genitore. La presenza di qualcuno dalla no- stra parte può fare davvero la differenza fra il perdersi e il ritrovarsi. 
Essere il familiare di un soggetto mobbizzato non è però facile. Il più delle volte significa dover assorbire per lungo tempo le ansie, lo stress e il rancore di chi ci sta accanto. La dinamica di ascolto sem- bra seguire alcune fasi nelle quali l’impegno psichico del familiare per gli accadimenti lavorativi del partner o del parente segue un’oscillazione irregolare che passa da fasi di grande attenzione e partecipazione, a fasi di stanchezza ed esasperazione per la situazio- ne emotiva del familiare, fino ad una fase “terminale” in cui il ma-
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lessere del lavoratore ha logorato le capacità di coping32 dei familiari da troppo tempo alle prese con la gestione della rabbia e della fru- strazione del primo, finché la comprensione e l’appoggio offerto per diverso tempo vengono sottratte o si riducono ad una facciata (vedasi “doppio mobbing” nel primo capitolo). La figura 7 illustra le fasi e le controfasi di questa dinamica che cer- cherò di chiarificare prendendo come esempio paradigmatico il caso di un lavoratore e di sua moglie. 
Agli esordi del problema, il lavoratore riferisce alla moglie, in toni non drammatici, gli accadimenti stressogeni che sta vivendo, ed ella ascolterà questi racconti con vivo interesse (I fase). Tuttavia, tali racconti, reiterati, porteranno la donna ad una prima controfase che 
32 Con capacità di coping (dall’inglese to cope, fronteggiare) in psicologia s’intende la capacità dell’individuo di far fronte mentalmente e fattivamente ai problemi o alle situazioni che incontra. Una buona capacità di coping consentirà lo sviluppo di strategie risolutorie e dell’energia per sopportare fasi stressogene, una ridotta ca- pacità di coping porterà il soggetto ad essere soverchiato dal problema e ad avver- tire un malessere psicofisico ingovernabile. La capacità di coping non può essere azzerata completamente ma può essere maladattiva (non-coping). Come molti altri fattori psicologici, la capacità di coping fra soggetti è variabile e dipende da predisposizioni congenite e fattori ambientali, infatti tale capacità, innata, è elasti- ca e può anche essere rinforzata.

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MOBBINGOLOGIA … E UN PASSO OLTRE

  • 1. 17 I. MOBBINGOLOGIA … E UN PASSO OLTRE In principio fu il verbo, poi il discorso, poi l’affermazione, poi l’informazione, infine un chiasso infernale. Carlo Dante Mobbing è solo un sostantivo, una parola. Le parole sono semplici convenzioni che veicolano suoni con cui noi abbiamo deciso, per un certo periodo (poiché le parole cambiano nel tempo), di condi- videre un’idea, un’immagine, un senso. Se io scrivo cielo, tutti capite immediatamente che cosa intendo, a questo serve il linguaggio; ep- pure scrivendo cielo, ognuno di voi visualizzerà mentalmente qualco- sa di diverso, qualcosa che potrebbe essere enormemente differente per uno e per l’altro, oppure caratterizzato da microscopiche diver- genze, ma in ogni caso diverso per ognuno. Quando mi trovo a par- lare con persone che subiscono violenza psicologica sul posto di la- voro, non posso non notare lo sforzo che molti di essi compiono nel cercare di accatastare i loro vari problemi e le loro tristi espe- rienze al fine di far convergere tutto verso il termine “mobbing”. Si avverte l’ansia di trasmettere il malessere non attraverso la semplice espressione del male che in effetti sentono e vivono, lasciando così che il professionista percepisca ed acquisisca davvero le loro storie, ma piuttosto cercando di portare allo psicologo una diagnosi bella e fatta, così come certi pazienti si presentano dal medico lamentando un sintomo ed al contempo proponendo il nome della malattia che li affligge. Nello smanioso desiderio di farsi capire secondo schemi ampiamente condivisi (e anche sì legalmente riconosciuti), ci si sfor- za di ricorrere a un termine “assoluto”, sentito in giro o letto sui giornali, a volte con risultati bislacchi sul piano verbale. Ho sentito neologismi divertenti a questo proposito: molling, mobbato, bob- bin, etc. Questo accade perché, invece di parlare un linguaggio che si conosce alla perfezione, quello dei propri vissuti e dei propri sen- timenti, molte persone preferiscono usare il linguaggio del “sentito dire”, non loro e non conosciuto, finendo per parlare male del pro-
  • 2. 18 prio stesso caso. Come avvertimento al professionista che si pone in una dimensione di aiuto, al fine di non stimolare una dinamica ia- trogena a tutto svantaggio dell’assistito, si fa notare che il lessico tecnico può diventare un supporto tendente a separare il vissuto dal discorso su di esso, con perdita di spontaneità e irrigidimento delle strategie maladattive adottate dal paziente stesso; tutto questo, sommato al soggetto in parte passivizzato dalla situazione di males- sere e “supportato” dal professionista a identificarsi con una dia- gnosi, determina un deuteroapprendimento1 di sé dall’esterno, con perdita progressiva di un’identità davvero soggettiva a vantaggio di identità diagnostiche o comunque provenienti dal sociale (Petrella, 1985). Quindi, alcune modalità di aiuto offerte a coloro che hanno subito violenza psicologica sul lavoro, veicolando nel paziente teorie psicopatologiche su di sé o sull’ambiente, finiscono per trasmettere un senso d’identità precaria, permeabile e difficilmente padroneg- giabile attraverso interpretazioni stereotipate (Spence, 1993). Reputo perciò che uno dei primi errori che possa compiere un sog- getto che “se la stia passando male al lavoro”, sia quello di ricorrere e rincorrere il termine mobbing, come se il disagio psicologico che si può vivere in azienda sia un tutto o nulla: o è mobbing, oppure grossi problemi non ce ne sono e si può fare poco per difendersi sul piano psicologico e/o legale. Come per diverse cose o idee, anche il mobbing ha goduto di un suo periodo modaiolo, di richiamo sociale e di successo fra psicologi, avvocati, medici ad altre figure profes- sionali. Molti di questi hanno costruito sul mobbing un business niente male. Il risultato di tutto ciò è che un soggetto possa cercare di autodefinirsi mobbizzato senza esattamente sapere cosa stia di- cendo di preciso e, in ogni caso, rendendo l’ennesimo cattivo servi- zio al proprio Sé che vorrebbe si dicesse semplicemente che si sta male, quanto, da quando e perché. L’idea quindi, poiché questo libro si propone primariamente come aiuto per coloro che vivono un malessere, è quella di compiere un superamento di un termine tramite il quale tutti ci capiamo con grande immediatezza ma sotto la cui ombra ogni individuale dolore 1 Introdotto dallo psicologo inglese Gregory Bateson (1904-1980), il termine deute- roapprendimento descrive il processo, nell’ambito dell’apprendimento, attraverso cui si impara ad imparare.
  • 3. 19 si stempera, si confonde e in parte si perde. Così come il termine cielo richiama dunque spicchi e settori di spazio sopra la nostra te- sta, diversi per ognuna delle teste, così in effetti ogni persona ha la propria esperienza di “mobbing” ed è a questa che tutto va riporta- to, è questa che va offerta al professionista dell’ascolto, non la paro- la che risolve il caso, così come un viaggio non inizia mai dall’arrivo. Tuttavia, per compiere un superamento, occorre individuare e co- noscere ciò che va superato, quindi ritengo sia utile illustrare con spirito di sintesi il fenomeno mobbing. Cos’è il mobbing? Mobbing deriva dall’inglese “to mob” (assalire con violenza, accer- chiare), verbo utilizzato nel 1966 dal padre dell’etologia Konrad Lo- renz nel suo libro On Aggression per descrivere il comportamento di alcuni animali che assalgono un membro del gruppo, od un esterno, per espellerlo; per Lorenz il mobbing rispondeva alla spinta della selezione naturale del più adatto su base darwiniana, ma l’etologo faceva anche notare che gli umani, pur condividendo l’istinto ani- male, avrebbero potuto porlo sotto il controllo della razionalità. Il medico svedese Peter Paul Heinemann nel 1972 prese il termine e lo “passò” alle persone, descrivendo il comportamento dei bambini che opprimono i coetanei (ciò che in Italia è più noto come bulli- smo). Nel 1973 Dan Olweus, che da qualche anno studiava le ag- gressioni fra ragazzi in ambiente scolastico, introdusse la parola “bullying”2, termine che ottenne poi maggior fortuna nei paesi an- glossassoni come sinonimo di mobbing lavorativo, mentre nei paesi mediterranei e di lingua tedesca la parola mobbing ha maggior dif- fusione. Il medico tedesco naturalizzato svedese Heinz Leymann, 2 Da notare come le parole siano convenzioni condivise che possono cambiare radicalmente significato nel tempo. La parola bully fu coniata intorno al 1530 con il significato di “innamorato/a, dolcezza”, attribuibile ad entrambi i sessi e deriva- ta dall’olandese boel “amante”, a propria volta diminutivo del tedesco medievale buole, fratello. Già nel XVII sec. il significato della parola era mutato in “fanfaro- ne, borioso” forse per la connessione fra la parola “amante” e “ruffiano”. In fine, nel 1710, si attestò il verbo to bully con il senso di “molestare i deboli”.
  • 4. 20 nel 1984 sdoganò definitivamente nell’ambito lavorativo il termine mobbing, con tanto di studi che sottolineavano come la violenza psicologica sul posto di lavoro producesse danni psicofisici. Nella spasmodica ricerca di una definizione, il lettore stia sereno: una definizione univoca di mobbing non c’è, o per lo meno non an- cora. Ci sono definizioni più o meno condivise, più o meno ufficiali, che qui presento in una personale sintesi3: Il mobbing si configura come un insieme di atteggiamenti lesivi, ripetuti e pro- gressivi, che si manifestano in un ambiente di lavoro che presenta criticità, perpe- trati da superiori e/o da colleghi ai danni di uno o più lavoratori, e che con pro- grammatico intento di compromettere l’equilibrio psicofisico della vittima, fini- scono per comprometterne il futuro lavorativo. Scomponiamo in fattori la definizione di questo fenomeno chiara- mente composto da sub-fenomeni. Il mobbing è un insieme di atteggiamenti: non si tratta di un unico tipo di frasi, atti, gesti. Ci può essere un modo “preferito” per attac- care un lavoratore ma in genere si tratta di una molteplicità di forme d’attacco, che vanno da atti palesemente aggressivi (anche sul piano fisico) a punzecchiature subdole sul piano produttivo o squisita- mente personale, che incidono il benessere della vittima con la pro- verbiale lentezza della tortura della goccia d’acqua. Uno stillicidio. Il mobbing è fatto da atteggiamenti lesivi: come detto poco sopra, non bisogna confondere i comportamenti mobbizzanti con una normale legge di selezione naturale applicata al mercato del lavoro. Sempre che ciò significhi qualcosa di positivo. Trattare duramente sottoposti e colleghi per cercare di capire chi sia il più adatto, se- condo la logica del “chi la dura la vince” è, fuor di metafora, 3 Per realizzare questa sintesi sono stati consultati: 1) Commissione di analisi e studio sulle politiche di gestione delle risorse umane e sulle cause e le conseguen- ze dei comportamenti vessatori nei confronti dei lavoratori (Ministero della Fun- zione Pubblica, 2003). 2) Documento di Consenso (Gilioli et al. 2001). 3) Einar- sen et. al. 2003. 4) Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute del Lavoro (2002). 5) Harcèlement moral au travail, Loi 2002-73 du 17 janvier 2002. 6) Ege Harald, 1988.
  • 5. 39 II. L’OSMOSI INVERSA, UNA VIA VERSO LA SERENITÁ Solo chi cade può dare agli altri l’edificante spettacolo del rialzarsi. A. Graf Alcuni dei lavoratori con i quali ho colloquiato sanno già tutto e po- trebbero saltare a piè pari alla prossima sezione ma, nel caso si tro- vassero per le mani queste pagine, prendano la cosa come un’utile ripetizione. Il capitolo in questione, infatti, è una (quasi) fedele ri- proposizione delle parole che ho usato con loro nel momento in cui mi è stata chiesta una via di uscita psicologica dallo stress lavorativo che stavano patendo. L’idea che la persona affetta da stress occupazionale potesse essere concettualizzata in via metaforica come una cellula, è una trovata, spero di una certa originalità, che ho sviluppato nel tentativo di illu- strare ai pazienti la loro situazione e, da essa, l’evoluzione positiva che si poteva intraprendere partendo da una fase che a volte pare essere senza via d’uscita. Ovviamente non è una formula magica né la taumaturgica panacea che possa curare tutti i mali, però questa metafora è semplice, condivisibile quasi universalmente, diretta, gra- ficamente immediata e, in un solo concetto, permette di dare diver- se risposte alle domande poste più di frequente dai pazienti. FAQ9 tipo: Come posso star meglio? Perché ho perso interesse per tutto? Dopo starò meglio? Quanto ci metterò a stare meglio? Alcuni pa- zienti mi hanno detto, non senza mia malcelata soddisfazione, che non avevano mai visto una più chiara rappresentazione della propria condizione. C’è anche mi ha consigliato di non rivelare in un libro questa metafora, diciamo così terapeutica, perché poi sarebbe stata 9 FAQ, acronimo diffusosi in internet, sta per Frequently Asked Questions, cioè Domande Poste Frequentemente.
  • 6. 40 copiata; se io avessi avuto bisogno di usarla, ormai divenuta di pub- blico dominio, avrebbe potuto avere meno impatto sul paziente. Tuttavia se avessi agito seguendo quest’ultimo consiglio, non sarei stato migliore dei mobber che per narcisismo tengono per sé pote- re, ruolo, idee e soldi, cioè uguale a quelle persone dalle quali i pa- zienti mi hanno chiesto di “salvarle”. Così mi sono detto che se questa metafora è stata utile a coloro ai quali era stata mostrata, po- teva esserlo anche per i lavoratori in difficoltà che non avevo ancora incontrato e che probabilmente mai incontrerò, ma che forse po- trebbero essere aiutati ad aiutarsi. E se ciò significherà per me sot- trarre una freccia al mio arco, poco male, giacché il mio lavoro non è cacciare ma produrre archi e frecce. Iniziamo quindi con il dire COSA occorra fare per stare meglio, quindi tratteremo il COME.
  • 7. 41 Una persona con problemi lavorativi può essere idealmente imma- ginata come una cellula e, come tale, ha una membrana esterna ed un nucleo (Fig. 1). In una cellula vera, il nucleo contiene il DNA (cosa bella e interessante), mentre il nucleo della persona con pro- blemi sul lavoro è il problema lavorativo stesso. Fra il nucleo nero e la membrana vi è lo spazio vitale del soggetto, che contiene tutte le diverse cose che compongono la vita di una persona: mogli, mariti, fidanzati, figli, genitori, le cose che piacciono (leggere un libro, fare sport, guardare la tv, etc.). Io ho indicato cose molto comuni, ma voi potete immaginare in quello spazio le cose della vostra vita che più gradite. Pensando ancora alla cellula, questi elementi sparsi nello spazio vitale possono essere intesi come mitocondri, ovvero quegli organuli contenuti nello spazio cellulare la cui funzione è la produ- zione di energia. Ora, il problema di quel grosso punto nero, il problema lavorativo, è che esso non è un’invenzione della vostra mente, un asino che vo- la, ma è un fatto concreto in un mondo reale con conseguenze tan- gibili. Non che se aveste avuto un delirio sarebbe stata cosa da po- co! Tuttavia, nel caso dello stress occupazionale, chi vi può aiutare in senso psicologico (lo psicoterapeuta, tanto per non parlare a no- me di altri) non può agire in via diretta andando a prendere per il colletto il mobber di turno nello sforzo di convincerlo ad essere più umano. Quindi si dovrà agire di sponda, operando sullo spazio vita- le. Per sua natura il problema lavorativo tende ad espandersi nella mente del lavoratore, andando ad invadere buona parte dello spazio vitale che, ricordo, va inteso come spazio geografico ma soprattutto psichico che la persona mette a disposizione degli altri e delle cose che fanno parte della propria esistenza. Succede che, come si dice in termini tecnici, la mente del soggetto è polarizzata da e verso il pro- blema, cioè, in parole semplici, la persona che patisce stress occupa- zionale non pensa ad altro che al lavoro e parla quasi sempre di la- voro, cosa che può inasprire le relazioni che ha con chi lo circonda. In effetti, il problema di lavoro non solo si espande ma si diffonde, esattamente come farebbe il petrolio che sversasse da una petroliera con una falla nello scafo e, a macchia d’olio, andrà ad inquinare ogni cosa (Fig. 2). Elementi che per loro natura non c’entrano nulla con il lavoro, vengono intaccati dalle negatività psichiche provenienti
  • 8. 42 dallo stress lavorativo il quale esercita ormai una tale pressione men- tale che, per osmosi10 (siamo in una metafora cellulare, non dimen- tichiamo), fa passare il suo contenuto nello spazio vitale dell’individuo. Quindi, rimanendo nell’esempio, se prima ci piaceva leggere libri, adesso non abbiamo più voglia di farlo né traiamo più soddisfazione da tale attività. Lo stesso dicasi del rapporto con il partner e in special modo dei rapporti sessuali, la cui frequenza si va progressivamente diradando, fino a raggiungere livelli di avversione. 10 Con osmosi in biologia si indica la diffusione del solvente attraverso una mem- brana semipermeabile, che va dalla parte a maggior potenziale idrico verso il compartimento a minor potenziale idrico, in pratica secondo il gradiente di con- centrazione.
  • 9. 43 Queste cose non sono connesse in modo diretto con il lavoro, anzi, in alcuni casi possono essere quasi antitetiche, eppure lo stress lavo- rativo, inquinandola, riesce a rendere insopportabile ogni cosa. I la- voratori-genitori iniziano generalmente a spaventarsi per la propria condizione di squilibrio esattamente quando l’inquinamento rag- giunge le energie e le risorse prima impiegate per la cura dei figli. Arrivati al punto di sgridare eccessivamente i figli, oppure di non giocare o parlare con loro, ecco che a tale livello molti lavoratori ca- piscono che la misura è colma e che si devono prendere provvedi- menti. Cosa deve avvenire? Non è difficile. Di complicato c’è solo il nome: osmosi inversa. Oc- corre, in parole semplici, fare in modo che i mitocondri riprendano a produrre energia, cioè deve aumentare la pressione-qualità degli elementi contenuti nello spazio vitale, affinché sia maggiore di quel- la esercitata dallo stress lavorativo (Fig.3).
  • 10. 44 Si deve quindi invertire un processo, compiere un cambiamento, una piccola rivoluzione, che in fondo è il seme di ogni evoluzione che voglia definirsi tale. Non si richiedono sforzi insormontabili, piuttosto è necessaria la continuità. Sarebbe impossibile simulare, d’improvviso, che il lavoro non sia più un problema, sdraiandosi a leggere un libro con la serenità di un Buddha. Potete però iniziare ad aprire le porte, da quelle fisiche a quelle mentali, cominciando a dire che qualcosa deve modificarsi, convincendovi del fatto che non state scontando una condanna e che non siete tenuti in nessun mo- do a farvi (fare) del male. Prima di entrare nel merito del meccani- smo che porta i nostri “mitocondri” a produrre una sana energia d’opposizione, vediamo cosa accade all’interno della cellula- lavoratore nel momento in cui viene invertita l’osmosi. Aumentan- do la pressione, cioè come detto l’importanza e l’investimento psi- chico sulle cose che riempiono il nostro spazio vitale, si assiste ad uno stop dell’espansione del problema lavorativo all’interno di detto spazio. Stop non significa scomparsa. Come ovvio il problema lavo- rativo è qualcosa di molto concreto e non bastano i “poteri mentali” per farlo svanire. Il blocco dell’espansione del problema, però, con- sente al lavoratore una tregua psichica e, in questa tregua, un riordi- no e un riorientamento delle proprie risorse. Interrompere quella che sembrava un’inarrestabile espansione del problema lavorativo dentro la nostra mente, significa in primo luogo trarre nell’immediatezza l’impressione di una possibile risoluzione di qual- cosa che pareva ormai una malattia cronica alla quale eravamo con- dannati e che, invece, adesso assume le sembianze di un malanno che possiamo debellare. Bloccare l’espansione, soprattutto, significa permettere una continua espansione di tutti gli altri fattori (i mito- condri) che tornano alle loro normali quote e riprendono a produrre la positiva energia psichica che è loro natura produrre. Ora che il problema lavorativo non è più un bubbone pulsante nella vostra mente (parallelo alquanto sgradevole ma, mi confermerete, calzan- te), accadrà che i livelli di benessere torneranno ad aumentare e ciò comporterà un aumento della lucidità mentale e della concentrazio- ne impiegabile per la risoluzione del problema lavorativo. Più lucidità mentale significa iniziare ad uscire da quella dimensione psicologica confusa, poiché inquinata da paure e vissuti di svaluta- zione indotti, che fino ad aggi vi hanno impedito di guardare da una certa distanza la vostra situazione lavorativa, pianificare strategie uti- li e passare all’azione. Contenuta in buona parte la fuoriuscita del
  • 11. 45 “petrolio” che soffocava i vostri mitocondri, soppeserete lucida- mente i pro e i contro delle diverse opzioni che avete a disposizione e che scoprirete essere molte di più di quante prima sembrassero: “parlo con un medico”, “chiedo consulenza ad un avvocato”, “ini- zio ad interpellare i sindacati”, “non cambio lavoro ma chiedo un incontro con l’ufficio personale”, “ho bisogno di un periodo di ri- poso”, “inizio a mandare in giro dei curricula che non si sa mai11”, etc. La cosa importante, comunque, è avere un piano, ancor meglio se suddiviso in più piccoli traguardi da raggiungere. Avere un piano e dedicarsi ad esso anche pochi minuti al giorno, significa iniziare a provare meno paura e meno esitazione. Ok - mi direte - sono d’accordissimo, ma è proprio lo spostamento di energie dal problema di lavoro alle altre cose della mia vita che risulta difficile. State sottovalutando le vostre risorse e le vostre in- tenzioni, vi risponderò. Se avete in mano questo libro e siete arrivati a questa pagina, che è il nucleo di tutta la faccenda, o siete molto fortunati (e la fortuna comunque è una cosa che conta) oppure vi state già impegnando a cercare una svolta, e forse non ve ne rendete pienamente conto; d’altronde qualcuno vi ha abituati a svalutare il valore delle vostre stesse idee e del vostro lavoro. 11 Riguardo al curriculum. Non penso di sconvolgere e menti se affermo che la politica di coloro che ricevono curricula sia, in buona parte, il cestino, soprattutto in questo periodo di crisi lavorativa. Tuttavia più si fa e più si è fortunati. Di sicu- ro non entrerà in casa vostra nessun datore di lavoro ad offrirvi un buon posto ed un buono stipendio. Anche nei casi in cui la fortuna sembra aver determinato tut- to, ad esempio nell’ipotesi di un biglietto vincente della lotteria, non si può negare che l’acquisto implichi un soggetto che sia volontariamente andato in tabaccheria ed abbia deciso di giocarsi un azzardo: probabilità di vincita? Minimale. Probabili- tà di vincita stando chiusi in casa? Nulla. Con ciò non voglio certo incentivare comportamenti azzardati, voglio piuttosto suggerire la potenzialità della volontà e della perseverazione. Prodotto un buon curriculum, non è vero che sia cosa indif- ferente spedirlo a 100 aziende o non spedirlo affatto. Se anche si ottenessero 100 “no”, rimarrebbe la differenza fra una persona che c’ha provato e una che non c’ha provato affatto. E, fatemi dire, l’autostima è qualcosa che vale.
  • 12. 75 III. IL PREDATORE PSICHICO, HABITUS E HABITAT Nessun uomo cattivo è felice. Giovenale Dopo aver inquadrato il problema del disagio lavorativo e delle pos- sibili soluzioni, è naturale che sorga la curiosità sull’identità dei col- pevoli o, meglio, sul quadro di personalità dei mobber e dei loro ac- coliti. Curiosità più che lecita ed utile, aggiungerei, dato che un iden- tikit consentirebbe una sorta di prevenzione o di protezione per i lavoratori attenti che avrebbero così degli strumenti ri-conoscitivi per rilevare il tramonto prima che si faccia notte. Una foto segnale- tica però non c’è, né i ricercatori sono facilitati nell’impresa. Il moti- vo è semplice: è la vittima che chiede aiuto, non il carnefice. Si lavo- ra quindi di sponda, ricostruendo “il volto” sulla base dei ricordi; il fatto che i ricordi siano quelli di coloro che hanno subito vessazioni, non aiuta a costruire un identikit neutrale. Anche avendo, ipoteti- camente, un preciso profilo del mobber, ciò che rende ben più complessa la disamina del problema è che egli agisce e può agire in modo lesivo soprattutto perché esiste un ecosistema lavorativo che gli consente tale comportamento e, più o meno indirettamente, lo consolida; in alcuni altri ambienti, caratterizzati da una feroce ambi- zione, il comportamento vessante è persino auspicato ed incentiva- to. Quindi, analizzando l’ambiente, si scopre che il gioco al massa- cro è il più delle volte inaugurato da uno o pochi individui ma è par- tecipato da molti più elementi che si trovano in un’ambigua posi- zione a metà fra la vittima e l’assistente del carnefice, non renden- dosi forse conto che un collega poso rispettoso di un altro collega lo potrà essere di tutti. Perciò, in questo sistema complesso, non sono solo i capi a fare danni e a poter essere definiti mobber, ma anche i colleghi, i parigrado, coloro sui quali con più naturalezza a- vevamo posto fiducia e confidenza. Non a caso Dante Alighieri sprofonda i traditori nell’ultima e più arida parte dell’Inferno, poi-
  • 13. 76 ché il traditore commette frode verso una persona che di lui si fida. Quante volte si è sentito di un impiegato che per farsi bello agli oc- chi del capo danneggia il collega? Quante volte, poi, si è sentito di dipendenti isolati da colleghi, resi vili e traditori da un ricatto mai espresso ma serpeggiante? In un mio precedente saggio (Qualcosa da Leggere, 2009) l’incipit di un capitolo citava un aforisma: “I pasto- ri saranno brutali, finché le pecore staranno stupide” (Godin); il capitolo ri- guardava non a caso un elenco di 30 personaggi passati alla storia come tiranni. Riportato in modo così crudo all’interno dell’argomento lavorativo, l’aforisma può suonare fastidiosamente provocatorio. Eppure è nell’esperienza di ognuno di noi il fatto che un clima lavorativo negativo possa essere generato e diffuso solo se trova mezzi di propagazione, ovvero se altre persone all’interno dell’azienda, per paura o interesse, si fanno possedere da quel male e/o lo fanno proprio. Se si accetta per sufficiente la spiegazione se- condo la quale la necessità di uno stipendio e di un lavoro giustifica la collusione con il male, allora è sufficiente anche la giustificazione di un capo che maltratta i dipendenti per insondabili necessità per- sonali o produttive. Per essere equi, poi, il concetto di responsabilità deve essere equanimemente distribuito, e per quanto i capi attirino, per ruolo, invidie ed antipatie, è troppo facile vedere in loro l’inizio e la fine di ogni stress occupazionale. Una persona sola può fare ben poco, specialmente se parliamo di dinamiche relazionali. I di- pendenti, o comunque tutti coloro che non sono capi, devono ini- ziare a guardarsi dentro e dirsi, almeno nel privato del proprio Sé, in che misura concorrono a sostenere un sistema sbagliato, in che mi- sura partecipano all’emarginazione di un collega, quindi in che mi- sura condividono la responsabilità di un malessere lavorativo che magari a tratti condannano. D’altro canto nessuno si aspetta da voi delle rivoluzioni esplosive ma solo dei piccoli, accessibili cambia- menti nella direzione del vostro bene; ma attenzione: “vostro bene” e “vostro interesse” potrebbero non essere da subito coincidenti. Saranno comunque gli psicologi ricercatori, con qualche pubblica- zione che abbia la solidità dei numeri, a scattare la foto definitiva al volto del mobber e a disegnare la mappa più precisa possibile dell’ambiente in cui si muove. Io, tuttavia, posso provare a sintetiz- zare e ricombinare ciò che mi è stato riferito iniziando quindi a to- gliere dal campo d’analisi il referente e a differenziare i due grandi attori del fenomeno mobbing: l’individuo e l’ambiente nel quale agi- sce.
  • 14. 77 L’Individuo I pazienti riportano delle descrizioni abbastanza sbrigative per in- quadrare coloro che fanno dell’ambiente di lavoro un inferno. Non sono belle parole e non sono inquadramenti lusinghieri: “È una per- sona disturbata” è la frase più comune, e la più clemente. Attraverso un percorso tortuoso fatto di ascolto e riflessioni, non posso che convenire con il virgolettato; l’aforisma citato ad inizio capitolo (in latino: nemo malus felix) fa riferimento proprio a questo concetto. Il male proviene da altro male; chi danneggia gli altri e l’ambiente cir- costante lo fa poiché “infestato” da qualche malessere. Ovvio, ma vale la pena ripeterlo, se non si vuol cadere nel vizio di pensare che esista altro male oltre a quello causato dagli uomini. Per le vittime, però, non è una giustificazione e non deve esserla. Chi produce ma- lessere lavorativo è una persona capace di intendere e volere (mi au- guro) ed è giusto che risponda del proprio comportamento, poiché ha la possibilità di accedere a qualsiasi tipo di percorso psicologico o cura medica per porre freno al proprio malessere. O almeno ci deve provare; non provarci è un’ulteriore aggravante. Sfortunatamente, quando si tratta di guardarsi dentro, buona parte degli individui mo- stra di avere non poche difficoltà, soprattutto se occorre cercare proprie responsabilità. Anche per gli psicologi è difficile, ecco per- ché per diventare psicoterapeuti, cioè per essere titolati ad ascoltare ed aiutare professionalmente gli altri, occorrono anni di lavoro su di sé. E rimane difficile anche per gli psicoterapeuti. L’insight, cioè l’introspezione, diventa ancor più ostica per chi riveste un ruolo di comando. Per essi è già un atto quotidiano e rodato l’attribuire compiti, movimentando il pensiero dal sé all’altro e non il contrario. Quindi una persona in posizione direttiva capace di invertire questo moto, ammettendo responsabilità e colpe è cosa rara, così com’è ra- ra l’umiltà, un ingranaggio necessario per realizzare quel movimento invertito. La rarità di questi leader ne fa automaticamente dei grandi personaggi. In alcune situazioni, di fatto meno comuni, sono i sot- toposti a vessare e il capo è la vittima. Si tratta sempre di un sistema malato che agisce su meccanismi di propagazione, il più delle volte innescati e fomentati da un singolo o comunque pochi individui: re- puto sia impossibile che un gruppo possa agire negativamente senza che nessuno in qualche modo abbia innescato o coordinato, per quanto grossolanamente, l’azione. In alcuni casi i subordinati, coesi
  • 15. 78 da diverso tempo, non accolgono nel modo dovuto un nuovo capo e tendono quindi xenofobicamente (nel senso etimologico) ad e- spellere o a non integrare il nuovo. Può anche essere che il capo ab- bia “inavvertitamente” stimolato l’astio dei dipendenti, ma questo può essere vero anche in senso inverso. Piuttosto è bene capire se la presenza di questo nuovo capo non abbia frenato l’ascesa o in gene- rale l’amore di altri per il potere, in quanto quasi mai l’ambizione va d’accordo con la bontà ma piuttosto, come scrisse Tolstoj, con il raggiro e con la violenza. In questo caso il dirigente potrebbe subire una pressione dal basso, da parte di arrivisti e invidiosi, o una pres- sione dal basso ma mossa indirettamente dall’alto, ovvero da un su- periore che fomenta i sottoposti per contenere il potere di un rivale da cui teme di essere scalzato. Machiavellico. Dato che gli attori sono così tanti e in ruoli diversi, in fine, che vol- to possiamo dare al mobber? L’esperienza mi ha permesso di indi- viduare otto tipologie diverse di persone che creano dissidio al lavo- ro, per quanto molte caratteristiche compaiano in una categoria e anche in un’altra, intendendo in effetti queste categorie come insie- mi che si intersecano. Le otto categorie sono: Gerarca, Risentito, Incompetente, Padronale, Ipermotivato, Spettatore, Misogino e Sa- dico, quest’ultimo il più pericoloso di tutti nella sua forma maligna. Prima di presentarli uno per uno val la pena precisare che tutti que- sti diversi tipi di mobber sono comunque dei narcisisti27, nella misu- ra in cui le loro energie sono dirette verso loro stessi, i loro proble- mi, le loro ragioni e i loro desideri. All’inizio dell’Ottocento si parla- va di “monomanie”28 quando un soggetto, con un quadro di perso- 27 Nel linguaggio comune, con narcisismo s’intende un quadro personologico ca- ratterizzato da vanità ed egocentrismo. In psicologia, però, con narcisismo si deli- neano dei soggetti con un disturbato senso di sé, egocentrici, che tuttavia non si esprimono necessariamente con vanità ed arroganza; il narcisista infatti può esse- re anche un timido, roso dall’invidia. Il narcisista, ogni caso, è un soggetto costan- temente impegnato a compensare un radicale danno alla propria autostima che nasconde dietro facciate di vanità o di apparente adesione all’ambiente. Per com- pensare la sua grande ferita interiore, egli invidia costantemente, depreda psicolo- gicamente, manipola e, in tutti i casi, si trova incapace di connettersi con profon- da umanità agli altri i quali, in definitiva, sono visti come nemici e/o strumenti per zittire il suo danneggiato senso di sé. 28 Il termine, qui esteso nel suo significato originario, venne coniato dallo psichia- tra francese Jean-Étienne Dominique Esquirol (1772-1840) intorno al 1810.
  • 16. 79 nalità altrimenti integro, presentava uno specifico squilibrio o mani- a, cioè uno spunto peculiare ma pervasivo che caratterizzava il suo essere: una sorta di delirio parziale, insomma. Ora, a tutti sarà capi- tato di incontrare una persona, ad esempio, davvero tirchia, questa persona può essere definita (estendendo quel paradigma) monoma- niaca, in quanto la sua volontà di persona “normale” è coercizzata alla frugalità, al risparmio, all’avarizia. Il monomaniaco è un narcisi- sta perché, dando sfogo al proprio “delirio”, interrompe il processo comunicativo e di condivisione con il prossimo, interrompe il cana- le empatico che serve a “sentire” gli altri, e orienta tutte le proprie energie psichiche su di sé, ovvero alla salvaguardia di ciò che crede il proprio massimo interesse che, ancora una volta, è se stesso. Que- sto è esattamente ciò che accade ai mobber, i quali non solo non sono interessati al benessere dei colleghi ma, per ciò che ho appena scritto, non lo sono in definitiva nemmeno a quello dell’azienda. È davvero paradossale il fatto che tantissime aziende cautelino la car- riera di questi mobber a danno altri lavoratori più onesti e psicolo- gicamente sani, dimostrando una pessima lungimiranza e un’inquietante tendenza al masochismo produttivo, giacché riman- gono affascinate e succubi di un carisma che, per esprimersi, costerà tanto a tutti. Nel descrivere questi soggetti, che non sono elencati in ordine di pericolosità o complessità psicologica, utilizzerò il maschi- le ma questo solo per comodità; certi problemi sono molto demo- cratici e trascendono i generi. Padronale, risentito, sadico, così come le altre definizioni sono, in fin dei conti, solo categorizzazioni di comodo ma non vogliono e non devono essere intese come incasel- lamenti rigidi; non si tratta di una tassonomia linneana. Avrei potuto scegliere aggettivi diversi e probabilmente chi altri volesse scrivere sull’argomento deciderà per un’altra terminologia. Piuttosto, auspico che il mio elenco venga inteso come vademecum per orientarsi e quindi meglio difendersi. Il Mobber Misogino. Questo soggetto è il protagonista del mobbing di genere e di quello sessuale, di cui si era discusso nel primo capito- lo. Vittime di questo soggetto sono, come fa intuire il nome, le donne, sia nella figure di femmine da conquistare o vessare, sia nelle
  • 17. 97 IV. DUE PAROLE … La vigliaccheria chiede: è sicuro? L’opportunità chiede: è conveniente? La vanagloria chiede: è popolare? Ma la coscienza chiede: è giusto? Prima o poi arriva l’ora in cui bisogna prendere una posizione che non è né sicura, né conveniente, né popolare; ma bisogna prenderla, perché è giusta. Martin Luther King … Alle famiglie Colloquiando con i pazienti che hanno subito violenza psicologica al lavoro, si riconosce immediatamente come variabile protettiva la presenza di una famiglia alle spalle. Attenzione però, non una fami- glia che di familiare e protettivo ha solo il nome, ma una famiglia intesa come almeno una persona che, per affetto, sta dalla nostra parte, crede in noi. Le storie di alcuni soggetti incontrati erano terri- ficanti, ingiuste, dolorose, permeate di un’illogicità che avrebbe por- tato allo scompenso chiunque; non però chi poteva sempre fare ri- ferimento sulle logiche del bene contenute nell’abbraccio di un fa- miliare, un fidanzato, un genitore. La presenza di qualcuno dalla no- stra parte può fare davvero la differenza fra il perdersi e il ritrovarsi. Essere il familiare di un soggetto mobbizzato non è però facile. Il più delle volte significa dover assorbire per lungo tempo le ansie, lo stress e il rancore di chi ci sta accanto. La dinamica di ascolto sem- bra seguire alcune fasi nelle quali l’impegno psichico del familiare per gli accadimenti lavorativi del partner o del parente segue un’oscillazione irregolare che passa da fasi di grande attenzione e partecipazione, a fasi di stanchezza ed esasperazione per la situazio- ne emotiva del familiare, fino ad una fase “terminale” in cui il ma-
  • 18. 98 lessere del lavoratore ha logorato le capacità di coping32 dei familiari da troppo tempo alle prese con la gestione della rabbia e della fru- strazione del primo, finché la comprensione e l’appoggio offerto per diverso tempo vengono sottratte o si riducono ad una facciata (vedasi “doppio mobbing” nel primo capitolo). La figura 7 illustra le fasi e le controfasi di questa dinamica che cer- cherò di chiarificare prendendo come esempio paradigmatico il caso di un lavoratore e di sua moglie. Agli esordi del problema, il lavoratore riferisce alla moglie, in toni non drammatici, gli accadimenti stressogeni che sta vivendo, ed ella ascolterà questi racconti con vivo interesse (I fase). Tuttavia, tali racconti, reiterati, porteranno la donna ad una prima controfase che 32 Con capacità di coping (dall’inglese to cope, fronteggiare) in psicologia s’intende la capacità dell’individuo di far fronte mentalmente e fattivamente ai problemi o alle situazioni che incontra. Una buona capacità di coping consentirà lo sviluppo di strategie risolutorie e dell’energia per sopportare fasi stressogene, una ridotta ca- pacità di coping porterà il soggetto ad essere soverchiato dal problema e ad avver- tire un malessere psicofisico ingovernabile. La capacità di coping non può essere azzerata completamente ma può essere maladattiva (non-coping). Come molti altri fattori psicologici, la capacità di coping fra soggetti è variabile e dipende da predisposizioni congenite e fattori ambientali, infatti tale capacità, innata, è elasti- ca e può anche essere rinforzata.