“L’ITALIA AL FUTURO. Città e paesaggi, economie e società” di Arturo Lanzani e Gabriele Pasqui, Franco Angeli, 2011. Presentazione di Maria Carla Baroni
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1. “L’ITALIA AL FUTURO. Città e paesaggi, economie e società” di Arturo Lanzani e Gabriele
Pasqui, Franco Angeli, 2011.
Note per una presentazione – Milano, Centro Puecher 8 maggio 2012
“L’Italia al futuro” è un libro veramente importante, che merita larga diffusione e fortuna e che
dovrebbe essere letto e studiato soprattutto da tutti/e coloro che sono impegnati/e in politica: è
infatti un libro “politico” nel senso alto e originario del termine, da “ta politicà”, tutto ciò che
riguarda la polis, la vita aggregata in una collettività.
Il particolare pregio del libro è infatti la capacità di visione complessiva e integrata tra produzione
(da cui, marxianamente, si parte), territorio, società e cultura, sia in una trattazione storica dagli anni
‘50 a oggi, sia in una prospettiva futura secondo possibili scenari parzialmente diversi tra loro.
Ci sono altri libri pregevoli e utili, scritti anche recentemente, ma trattano separatamente questi vari
filoni di fenomeni, si dedicano a un particolare aspetto di quel tutto che chiamiamo modello di
sviluppo.
Vi è anche un libro dal titolo simile, “Italia capace di futuro” a cura di Gianfranco Bologna, uscito
nel 2000, che indica ad es. come risparmiare risorse nella produzione (così come negli altri campi),
non che cosa e come produrre in una prospettiva integrata tra economia, territorio, ambiente,
cultura e società nelle particolari articolazioni territoriali esistenti nel nostro Paese.
“L’Italia al futuro” è quindi un libro complessivo, che tiene conto della vita degli esseri umani in
Italia nei suoi vari aspetti e nel contesto – naturale e antropizzato - di quella porzione di pianeta che
è costituita dall’Italia; per ciò stesso è un libro politico.
Un aspetto interessante è che vi si scrive di cura del territorio e non di manutenzione del territorio,
che è invece il termine e il concetto più usato.
Manutenzione è simile a conservazione, è concetto statico, che non contiene capacità di
interpretazione, di inventiva, di miglioramento. Cura è invece attività dinamica, che presuppone
attenzione, volontà di interagire, di far evolvere, di migliorare, anche di conservare quando è il caso
e di reinventare quando è necessario o utile.
Cura contiene un approccio in un certo senso affettivo e non solo intellettuale (il prendersi cura di)
e, non a caso, è concetto usato dal movimento delle donne e da alcune docenti (ad es. Silvia Macchi
della Sapienza di Roma) di pianificazione territoriale da oltre un decennio.
Altro aspetto a mio parere fondamentale è che, nel delineare gli scenari possibili (l’Italia
piattaforma produttiva e logistica, l’Italia in declino, l’Italia scomposta, e soprattutto nel
prospettare lo scenario più innovativo e l’unico positivo, quello dell’Italia delle qualità) si fa leva
sulle differenti caratteristiche produttive e paesistico/insediative delle varie, ed estremamente
variegate, realtà territoriali presenti nel nostro Paese.
Per prospettare un futuro di qualità si parte dal riconoscere, per un verso, che esistono produzioni
artigianali di altissima qualità , sviluppatesi anche all’interno del moderno sviluppo industriale e
nuove produzioni di eccellenza e, per l’altro verso, paesaggi urbani ed extraurbani ancora
riconoscibili e di elevata qualità, nonostante gli scempi compiuti nelle estese periferie urbane, con
le cosiddette “grandi opere” , con la dispersione e la disseminazione degli insediamenti, con i centri
commerciali, con le costruzioni abusive, con le discariche, ecc. ecc.
(Mi consentano gli autori un rimprovero linguistico, in mezzo a tante, meritatissime, lodi: usano qua
e là locuzioni inglesi senza neppure indicarne la traduzione: essendo l’italiano una lingua
ricchissima, questo vezzo a me pare una forma di subalternità culturale rispetto al mondo
anglosassone, che assume un tratto elitario nel nostro contesto, che allontana ed esclude chi non
conosce la lingua inglese e chi non conosce la terminologia di una specifica disciplina. Chi, da
sinistra, vuole fare cultura, deve farsi capire da tutti e da tutte. Ad es. io ho parlato di dispersione e
disseminazione degli insediamenti, non di sprawl).
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2. Tornando al discorso di prima, per prospettare un futuro di qualità si parte dal riconoscimento e
dalla valorizzazione delle caratteristiche locali, in buona sostanza da un approccio mirante allo
sviluppo locale.
Il concetto di sviluppo locale non ha nulla in comune con il localismo chiuso della Lega Nord, che
è conservativo in senso arretrato; è, invece, una prospettiva di sviluppo, cioè di evoluzione
qualitativa; locale sì, ma aperta al mondo e, anzi, in interazione con il mondo, in base al principio
del “pensare globalmente e agire localmente”, che è comune al movimento ambientalista e al
movimento delle donne.
Lo sviluppo locale è una prospettiva di valorizzazione e di miglioramento, multiforme ma integrato,
di un contesto concreto con tutte le sue componenti, produttive, territoriali, sociali, culturali;
componenti che inevitabilmente interagiscono tra loro; tale interazione non deve però essere
lasciata a se stessa, ma deve essere governata in base a un progetto e cioè per il raggiungimento di
obiettivi, la cui individuazione sia stata largamente partecipata.
Gli autori sottolineano, giustamente, che per realizzare l’Italia delle qualità è indispensabile una
convergenza tra politiche locali (urbanistico/territoriali, produttive, socioculturali) e politiche
nazionali, non solo in campo produttivo e ambientale, ma anche fiscale, culturale, della ricerca e
della formazione.
A me però preme aggiungere che – anche in malaugurata assenza di politiche nazionali lungimiranti
e innovative – la prospettiva di uno sviluppo locale integrato, che faccia leva sulle caratteristiche e
sulle potenzialità di un dato territorio e che coinvolga tutti gli attori locali in un progetto comune
(anche ottenuto dopo discussioni e conflitti), è la via da battere per far politica e per ottenere i
migliori risultati possibili in un qualsiasi territorio, quali che siano le sue condizioni di partenza.
E’ l’approccio delle “Agenda 21 locali”, inventate nel Vertice sulla Terra a Rio de Janeiro giusto
vent’anni fa.
Ritornerò sul concetto di sviluppo locale.
Un ultimo aspetto che trovo particolarmente intrigante in questo libro è rappresentato da un
avverbio contenuto a pag. 159, l’avverbio “forse”.
Gli autori prospettano lo scenario dell’Italia delle qualità in grado di coniugare produzioni di
eccellenza in campo industriale e agricolo rispettose dell’ambiente, della salute e di un lavoro
qualificato e sicuro, e cura del territorio e del patrimonio storico/artistico/culturale, e, all’interno di
questo scenario, due possibili varianti: una, quella dell’Italia come grande “parco turistico/culturale
d’Europa, che si basa sulle sue straordinarie risorse storiche, paesistiche e culturali, pur
conservando alcune produzioni di qualità, e un’altra, basata prevalentemente, sia pure all’interno di
un territorio urbano ed extraurbano riqualificato, su filiere produttive capaci di riprodurre in forme
nuove alcune tradizionali caratteristiche dell’industria manifatturiera nazionale.
E’ poi scritto che uno scenario in cui le due varianti convivano è – anche se non scontato –
certamente possibile e “forse” auspicabile. Perché quel “forse”? Non è totalmente auspicabile,
anche se difficile, che le due varianti convivano?
Tutti gli scenari indicati sono possibili: ma quale riteniamo più probabile? Non mi pare questione
oziosa, ma preparatoria all’azione politica che ognuno/a di noi può svolgere e all’indirizzo da dare a
tale azione.
Avanzo una mia personalissima opinione, in base a ciò che conosco della realtà italiana e a quanto
scritto in questo bellissimo libro; mi sento di escludere lo scenario del declino generalizzato,
proprio per la presenza di numerose situazioni a elevata qualità, dal punto di vista sia produttivo, sia
insediativo/territoriale.
Temo però fortemente che lo scenario più probabile sia un misto dell’Italia piattaforma
produttivo/logistica e dell’Italia scomposta, proprio per l’incapacità delle classi dirigenti (politiche,
anche del centrosinistra, imprenditoriali, sindacali, con l’eccezione della Fiom) di cogliere le
connessioni e le interdipendenze indispensabili per elaborare un progetto di sviluppo avanzato e
unitario per l’intero Paese, per avviare un modello di sviluppo alternativo all’attuale crescita
capitalistica.
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3. Mi pare però chiaro che occorra lottare in tutti i modi possibili per far avanzare nell’intero Paese la
prospettiva dell’Italia delle qualità, unendo al pessimismo della ragione l’ottimismo della volontà.
E qui rientra in scena l’approccio dello sviluppo locale.
Se si assume questo approccio come guida all’azione, nessuno/a potrà permettersi di dire: “mancano
le politiche nazionali, è ovvio che tutto vada a catafascio”. Troppo comodo.
Ciascuno/a, nella sua realtà locale ( zona o grande quartiere urbano, città media o piccola,
aggregazione di Comuni di pianura o collina o montagna o costieri, valle alpina, bacino fluviale o
lacustre, distretto industriale, area in cui siano stati esperiti patti territoriali o piani d’area, ecc.) può
promuovere, progettare e realizzare uno sviluppo locale, che può dare buoni risultati e suscitare
emulazione.
Come conseguenza di quanto detto ho in mente uno sviluppo locale sostenibile ambientalmente e
socialmente che, in ogni realtà territoriale, sviluppi in modo armonico e integrato produzione e
paesaggio, lavoro e ambiente/salute, abitare e cultura, bellezza e convivenza.
Esula dall’ economia di questo libro – giustamente – l’analisi degli strumenti urbanistici e
territoriali con cui perseguire le politiche locali integrate nella prospettiva della qualità, ma
recentemente è stata presa dal governo Monti una misura a mio parere sciagurata per la prospettiva
che auspichiamo e cioè la sostanziale abolizione delle Province, che significa l’abolizione dei piani
territoriali provinciali, l’unico strumento di pianificazione territoriale/ambientale di area vasta in
capo a un livello di governo con organismi democraticamente eletti.
Poiché la spesa per le Province rappresenta solo l’1,35% della spesa complessiva di tutta la
Pubblica Amministrazione, è assolutamente pretestuoso volerle sopprimere per far diminuire i costi
della politica: mi pare evidente che questa misura rappresenta l’ennesimo attacco alla cura del
territorio.
Maria Carla Baroni
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