2. Il nostro lavoro si basa sulla lettura di Esping-Adersen
“Il welfare state senza lavoro. L’ascesa del
familismo nelle politiche sociali dell’Europa
continentale” e su quella di Scherer e Reyneri
“Come è cresciuta l’occupazione femminile in Italia:
fattori strutturali e culturali a confronto”.
Il nostro obiettivo è quello di mostrare come il sistema
di welfare familistico influisca a lungo termine
sull’occupazione femminile italiana, esponendo la
risultante della partecipazione al mercato del lavoro
delle donne all’influenza di fattori individuali,
l’istruzione in particolare.
3. Introduzione
Nel periodo dal 1995 al 2003 sono stati creati 2 milioni di posti di
lavoro, dei quali il 71% occupati da donne. Questo è stato il
più veloce aumento del tasso d’occupazione avutosi in Italia
dai primi anni Settanta.
Nella ricerca condotta da Scherer e Reyneri il tipo di analisi verte
su due diversi approcci:
Culturale
Strutturale
Quest’ultimo aspetto è ritenuto rilevante dai due autori per la
spiegazione del fenomeno. Il sistema di welfare può allora
essere un ostacolo per l’occupazione femminile, ed è
evidente nell’articolo di Esping-Andersen “Il welfare senza
lavoro”.
4. Perché i welfare state dell’Europa continentale
si dimostrano incapaci di innescare la crescita
dell’occupazione femminile?
La nascita dei sistemi di welfare conservatori-familisti, secondo
Esping-Andersen, deriva da una matrice di stampo cattolico
che ha appunto influenzato l’ideologia sottostante allo stato
sociale; ciò diventa un ostacolo all’offerta pubblica di servizi,
soprattutto quelli legati all’assistenza sociale e alla
riproduzione sociale della famiglia.
Da un lato la mancanza di servizi sociali è in contraddizione con
l’aumento dell’aspirazione delle donne di avere un impiego,
ma d’altra parte essa contribuisce a spiegare la staticità
dell’occupazione europea. Il sistema contribuisce allora ad un
rigido trade-off tra carriere femminili e maternità, imponendo
la dipendenza della donna verso il capofamiglia lavoratore.
5. Il welfare era stato concepito in questa maniera per
offrire benessere alla popolazione in un modello
occupazionale di tipo taylor-fordista, con un basso
tasso di disoccupazione; gli aiuti statali erano stati
progettati per essere richiesti solo durante i periodi
d’inattività del capofamiglia maschio.
I presupposti di stabilità del nucleo famigliare, di bassa
disoccupazione e di polarizzazione dei ruoli delle
donne e degli uomini non sono più accettabili;
servirebbe quindi una ristrutturazione dell’intero
sistema di welfare, questo è però un processo lungo
e difficilmente realizzabile.
6. Scherer e Reyneri ci mostrano, ad esempio,
l’esistenza di donne che sono entrate nel mondo del
lavoro, però il loro ingresso è strettamente collegato
al loro livello d’istruzione: più sono istruite più è
probabile che esse siano occupate o in cerca di
lavoro.
Questa crescita è stata visibile anche nel periodo
precedente rispetto a quello considerato, ovvero tra
il 1977 e il 1992, ed anche in questo caso l’aumento
fu dovuto all’incremento dei livelli d’istruzione e non
ad una propensione generale delle donne verso il
mondo del lavoro.
7. Considerando i comportamenti individuali delle donne nate dai primi
anni Trenta ai primi anni Settanta si nota che il tasso di
partecipazione aumenta significativamente man mano che si
passa dalla coorte più anziana a quella più giovane; se però si
controlla per il livello d’istruzione le differenze tra le coorti
diminuiscono. Ciò conferma l’incisività del livello d’istruzione in
quanto un cambiamento d’orientamento di tipo culturale verso la
partecipazione al mercato del lavoro è presente solo tra le donne
nate dopo la fine degli anni Sessanta (chiaramente al netto
dell’impatto dell’istruzione).
In ogni caso questa spiegazione di tipo culturalista è comunque più
debole rispetto all’”effetto istruzione” (che come abbiamo già
detto sta aumentando negli anni).
8. La preponderanza di elementi che si possono ricondurre ad una
sfera di tipo strutturale è rilevante per le implicazioni sulla
disuguaglianza sociale in quanto sono prevalentemente le
donne che hanno la possibilità di continuare gli studi che
partecipano al mercato del lavoro. Le donne di più bassa
estrazione sociale saranno probabilmente meno istruite
rispetto a quelle appartenenti ad una classe sociale più
elevata. Oltretutto esse sono svantaggiate anche da una
carenza di lavori a tempo parziale.
Altra considerazione da fare in proposito riguarda gli aiuti statali:
nell’Europa meridionale (tra cui l’Italia) i fondi destinati al
welfare state sono ridistribuiti al nucleo famigliare, e non sono
destinati alla costruzione di servizi. La bassa istruzione può
portare all’inattività delle donne le quali saranno destinate ad
occuparsi dei lavori domestici e di cura.
9. A partire dagli anni Ottanta si è verificato un mix tra calo del
lavoro nell’industria e un basso ritmo di crescita nei
servizi dovuto alla “malattia dei costi”. La policy in
risposta a questi problemi è stata quella di incentivare
l’uscita della forza lavoro, facendo in modo che la
situazione occupazionale nei paesi dell’Europa
continentale presenti ancor di più i caratteri di un
mercato del lavoro caratterizzato da “inclusi” ed
“esclusi”.
Gli effetti di lungo periodo danno luogo a rapporti negativi
tra popolazione attiva e inattiva, ai quali si aggiunge una
situazione di stagnazione e restringimento della forza
lavoro.
È possibile cambiare la struttura
occupazionale tramite la creazione di
servizi alle persone?
10. Il terziario può essere l’unica soluzione per la crescita
dell’occupazione anche (e soprattutto) femminile. I servizi
richiedono inoltre flessibilità che potrebbe essere garantita dal
ricorso al part time (flessibilità funzionale) e dall’utilizzo di
contratti di lavoro “atipici” (flessibilità numerica).
L’analisi di Scherer e Reyneri si dà rilevanza all’importanza del
lavoro a tempo parziale, infatti in quasi tutti i paesi sviluppati
la relazione tra occupazione femminile e part time è positiva: il
secondo fattore influenza infatti il tasso d’attività femminile.
L’aumento del tasso d’occupazione a tempo pieno si deve
essenzialmente alle donne con livelli d’istruzione più elevati,
che sono più propense a impegnarsi pienamente nel lavoro
retribuito. A parità d’istruzione, si notare che la partecipazione
al lavoro aumenta soltanto grazie ad un maggiore ricorso alle
occupazioni a tempo parziale.
11. Suddividendo le donne in tre coorti in base all’età (giovani,
adulte e anziane) possiamo notare delle differenze:
Coloro che sono nate tra il 1978 al 1969 sono entrate
nel mondo del lavoro full-time.
Chi è nato tra il 1968 e il 1954 sono entrate nel
mercato del lavoro con un impiego part-time,
probabilmente l’offerta di tempo parziale è proprio
quello di cui queste donne necessitavano per uscire da
uno stato d’inattività.
Coloro che sono nate tra il 1953 al 1949 hanno “subito”
un “effetto sostituzione” dal tempo pieno al tempo
parziale. Questo potrebbe essere dovuto ad un voler
dilazionare l’età pensionabile.
12. Altre due proposte individuate da Esping-Andrsen per la
ristrutturazione del sistema occupazionale e del sistema di
welfare, oltre all’offerta di lavoro a tempo parziale, sono
l’incentivo di servizi nel settore pubblico e l’incentivo alla
flessibilità dei salari. Nell’Europa continentale a causa del welfare
familista non è stato possibile optare per nessuna delle due
opzioni: nel primo caso lo stato sociale privilegia il reddito
familiare con trasferimenti monetari nominali; mentre nel
secondo caso il fatto stesso dell’esistenza del welfare state, che
ha come principio il benessere dei cittadini, non può portare alla
promozione di una politica di salari flessibili e bassi.
Il quadro complessivo presenta una bassa partecipazione femminile
al lavoro con grande disoccupazione giovanile in concomitanza
con una forza maschile che ha un impiego garantito a vita e con
alti salari per poter garantire il benessere famigliare.
Non potendo più assicurare queste condizioni primarie e non
potendo incentivare un’espansione dell’occupazione, diventa un
modello “perdente”.
13. Nonostante l’aumento dell’occupazione
femminile e nonostante la struttura di welfare,
c’è stato un calo della disoccupazione e
dell’inattività?
Negli anni Settanta e Ottanta, accanto alla crescita
dell’occupazione femminile si è accompagnata anche la
crescita della disoccupazione delle stesse. Questo
potrebbe essere dovuto a:
“effetto incoraggiamento”
“effetto lavoratore aggiuntivo”
14. Per le giovani diminuisce la disoccupazione in
quanto la maggior parte di esse sono ancora
studentesse; l’occupazione aumenta poco o nulla
nonostante la possibilità di contratti flessibili.
Per le adulte vi è una riduzione della
disoccupazione e un contemporaneo aumento
dell’occupazione in quanto poche inattive entrano
nel mercato del lavoro.
Per le anziane nonostante l’aumento
dell’occupazione, il tasso di disoccupazione
femminile rimane stabile a causa dell’entrata
all’interno del mercato del lavoro di donne in
precedenza inattive.
15. Possiamo inoltre analizzare la situazione delle
donne in base ai flussi di ingresso, uscita e
rientro nel mercato del lavoro
Osservando gli accessi al mercato del lavoro possiamo vedere
come le corti più giovani abbiano progressivamente
dilazionato il loro ingresso nelle forze di lavoro, che avviene in
un’età sempre più avanzata; ciò è dovuto al prolungamento
della permanenza nel sistema scolastico.
Il risultato finale che viene evidenziato è che appare delinearsi
un effetto dell’istruzione: le donne più istruite non solo hanno
più propensione a lavorare, ma entrano nel mondo del lavoro
molto più velocemente di quelle meno dotate di capitale
culturale, ovviamente scontando un “ritardo” dovuto alla lunga
permanenza nel sistema scolastico.
16. Per quanto riguarda l’uscita dal mercato del lavoro, possiamo
notare come le giovani donne tendano ad abbandonare la
partecipazione attiva al mercato del lavoro meno spesso e più
tardi rispetto alle donne delle corti più anziane. Introducendo il
controllo per istruzione, gli effetti di corte si riducono.
Le donne più istruite hanno solitamente un maggior
attaccamento al mercato del lavoro, permanendovi più a
lungo.
L’ultima transizione esaminata riguarda le donne che rientrano
nel mercato del lavoro, dopo esserne uscite, per un tempo più
o meno lungo. Il ritorno al lavoro risulta più comune fra le
giovani donne, nonostante si riveli un evento molto raro. Il
tutto diventa più chiaro quando è controllato per il livello di
istruzione.
17. Conclusioni
È abbastanza chiaro che una ristrutturazione del sistema di
welfare familista-conservatore presente in Italia sia
necessario per poter far fronte ai cambiamenti intervenuti
negli ultimi anni. In primis, la condizione di stabilità famigliare
è venuta meno, secondariamente anche la struttura
occupazionale è cambiata, passando da un modello
fortemente basato sull’industria, ad una società terziarizzata.
Le donne potrebbero trarre vantaggio da quest’ultimo aspetto,
sia per il tipo di lavoro che per la flessibilità richiesta. Per
quanto riguarda il primo punto la difficoltà si trova nella
scarsità di offerta di servizi, soprattutto pubblici, che
potrebbero incentivare, attraverso la domanda, l’offerta di
lavoro. Il part time, aspetto rilevante per la flessibilità, è stato
offerto ma il suo “utilizzo” ha toccato prevalentemente le
donne appartenenti alle classi d’età centrali ed avanzate, che
sono state ipotizzate come meno istruite rispetto alle giovani
che accedono a posti di lavoro full time.
18. Nonostante questi cambiamenti positivi per l’occupazione
femminile, permane una grossa quota di inattive o
disoccupate, in particolare tra le adulte e le anziane.
Il welfare state incentrato sulla famiglia nucleare continua a
influenzare il percorso di vita delle donne; l’unico
elemento che Scherer e Reyneri hanno individuato come
decisivo per la formazione di una stabile carriera
professionale è l’istruzione, fattore che però è dato da
una scelta o da possibilità individuali.
19. Esping-Andersen, Scherer e Reyneri invocano, direttamente o
indirettamente, un cambiamento nella struttura di welfare, in
modo tale che questa possa poi portare ad un incentivo
dell’occupazione femminile. Una possibile risposta potrebbe
essere un cambiamento verso un tipo di welfare redistributivo
(presente nei paesi scandinavi) che, attraverso un incentivo dei
servizi pubblici, possa offrire posti di lavoro tagliati su misura
per le donne, anche grazie al part time. Le politiche attive del
lavoro sono quindi una buona soluzione.
Un possibile problema potrebbe però essere una segregazione
delle donne in determinate occupazioni.
Il cambiamento a livello strutturale dovrebbe però accompagnarsi
ad una modifica a livello culturale: non solo le donne
dovrebbero sopportare il peso della “doppia presenza”; ma
questa possibilità è difficile e lunga da attuarsi in quanto è
necessario che tutti gli attori coinvolti siano consapevoli di
questa “opzione”.