Art Tecniche di Riproduzione Assistita- Dott.ssa Cristiana D'Orsi Psicologa Psicoterapeuta
1. ART, TECNICHE DI RIPRODUZIONE ASSISTITA
RIFLESSIONI SOCIO-PSICOLOGICHE SULLA MATERNITÀ NELLA POST MODERNITÀ
di Dott.ssa Cristiana D’Orsi (Psicologa Psicoterapeuta, Esperta in psicologia dell’infertilità)
Ho assistito di recente ad un convegno su Bambini e Gravidanze da PMA (procreazione
medicalmente assistita) e nel susseguirsi dei lavori compariva la parola ART, senza alcuna
spiegazione dell’acronimo, in affiancamento al fenomeno della Infertilità, evento individuale
e sociale sempre più importante nei numeri (circa 60.000 le coppie in Italia che ricorrono alla
medicina per difficoltà procreative) e sempre più oggetto di attenzione da parte di operatori,
medici e esperti di comunicazione.
Inizialmente poteva essere inteso che ART fosse un’abbreviazione di “ARTificiale”, con cui
comunemente viene chiamata la PMA. Quante donne e coppie alle
prime consultazioni e ai primi avvertimenti di una difficoltà di
concepimento si esprimono in questo modo: “Non me la sento, non
vogliamo avere un gravidanza artificiale, non sarebbe naturale”.
ART va sostituendo PMA, acronimo che da qualche anno è più
noto: giornali, TV, personaggi, amici, parenti usano, citano,
discutono, trattano, vivono anche in prima persona. In effetti, i
dati statistici pubblicati da ISS (Istituto Superiore della Sanità,
www.iss.it: Relazione PMA - Attività 2008) confermano un
costante incremento di coppie che ricorrono alle tecniche di PMA,
vissuta come la soluzione miracolosa ad uno stato di malattia.
L’aumento delle coppie che accedono ai Centri di PMA e che
entrano in contatto con tutte le problematiche conseguenti
all’infertilità, potrebbe quindi essere il veicolo, il modo per mutare
le accezioni e attribuzioni talvolta negative a queste pratiche. Ovvero fare, avere, procreare,
mettere al mondo un bimbo attraverso le ART, non dovrebbe essere più così
ARTificiale, estraneo, diverso, innaturale.
Eppure l’imbarazzo e la vergogna governano ancora: non certo nei Centri dedicati, ma nel
quotidiano, con il collega di ufficio, verso le famiglie di origine, anche nella cerchia degli amici:
la difficoltà o l’impossibilità di concepire un figlio “tra le lenzuola” è ancora un fatto privato
nonostante gli outing di donne dello spettacolo, della TV, o del mondo della musica.
La generazione di un figlio è spostare lo sguardo da se stessi ad un altro da sé, e peraltro
fragile, bisognoso, non solo di latte, ma di nutrimento affettivo e emotivo, merce rara nella
nostra società, dove le logiche della produzione, del profitto e della economia hanno la
prevalenza, sono logiche dominanti: viviamo in una cultura adrenalina (G. Mieli, Il Bambino
non è un elettrodomestico, 2011), dove manca il tempo, lo spazio per attività endorfiniche (il
piacere di un tempo per se stessi, di una chiacchiera, di un’attività oziosa), necessarie e vitali,
perché di sola e pura adrenalina si rischia l’overdose di stress e di far circuitare il nostro
cervello (non per nulla l’incremento esponenziale di disturbi di ansia e di attacchi di panico,
presenti nella nostra post-moderna società).
Talvolta quando lavoro con le coppie di cui ascolto le lacrime e sento la delusione, ho la
sensazione che quel figlio però sia più un prolungamento di sé, una propagazione narcisistica,
che ha un sapore di onnipotenza, esaltato dalle ART! Si perché le tecniche di riproduzione
assistita hanno a che fare con la cultura e il simbolo del limite, spostano i confini: quelli
biologici, quelli geografici, quelli relazionali (laboratorio-centri esteri-gameti di donatori).
2. Questo è un tema che va tenuto presente, pensato in una società che è cambiata, dove tutto è
possibile, tutto è accessibile, e su questo tema sembra che la natura ceda la sua autonomia e
indipendenza alle capacità scientifiche dell’uomo e al desiderio da soddisfare a tutti i costi. Ma
poi la natura presenta il conto e allora le gravidanze insorte da ART sono considerate a
rischio, trattate con alti costi sanitari e assistenziali perché collegate ad un aumento della
medicalizzazione della gravidanza e del parto.
La mia formazione, la mia professione e la mia persona però mi portano più di tutto a portare
l’attenzione e il rispetto verso il dolore e la sofferenza di chi vive questa esperienza, questa
malattia che resta un fatto privato per l’intimità e l’intensità che la caratterizza e che pervade
condotte, convinzioni, comportamenti e valori sociali.
Come operatore della relazione di aiuto e come donna sposto lo sguardo verso lo scenario che
è già iniziato: ci troveremo sempre più ad entrare in contatto con donne “mature”, più che
mature che chiedono di diventare ancora madri e con padri ultra over (come se per il
maschile non ci fosse limite), di bambini dalle genitorialità anche sconosciute che chiedono ad
un certo punto della vita da dove vengono, come sono nati e quale sia la loro origine.
Dobbiamo prepararci non tanto a dare risposte ma a sostenere emotivamente, socialmente e
civilmente queste nuove maternità e paternità e queste nuove filiazioni, senza scadere nella
idea che siano ART..ificiali, perché ottenute con tecniche di riproduzione assistita.