TFR in busta paga? No, grazie.
L’Osservatorio della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro rende noti i primi dati concernenti il numero dei lavoratori che hanno fatto richiesta del TFR in busta paga: il risultato, come prevedibile, è disarmante.
1. TFR in busta paga? No, grazie
L’Osservatorio della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro rende noti i primi dati concernenti
il numero dei lavoratori che hanno fatto richiesta del TFR in busta paga: il risultato, come
prevedibile, è disarmante.
Il TFR in busta paga, uno dei principali cavalli di battaglia propagandati dal Governo, si sta
risolvendo in un pauroso flop, almeno stando ai dati comunicati dall’Osservatorio della Fondazione
Studi dei Consulenti del Lavoro.
L’erogazione del TFR in busta paga è stata disciplinata dal DPCM 20 febbraio 2015, N. 29, in
attuazione dell’art. 1, c. 26-34, della Legge di Stabilità 2015 (L. 190/2014). Tale norma, accanto alla
possibilità di poter destinare il TFR in un fondo di previdenza complementare oppure mantenerlo
semplicemente in azienda per fruirne in caso di interruzione del rapporto di lavoro, ha concesso ai
lavoratori dipendenti la possibilità di chiedere l’anticipazione del proprio trattamento di fine
rapporto, in quote erogate ogni mese direttamente nella propria busta paga.
Come noto, tale provvedimento è operativo dal 3 aprile 2015 (data di entrata in vigore del citato
DPCM 29/2015) e avrà termine il 30 giugno 2018 (con prima liquidazione prevista per il mese di
maggio 2015). Il TFR maturando, ovverossia quello che viene inserito in busta paga, dipende dal
momento in cui si fa la scelta. Il TFR maturato (cioè, quello ante maggio 2015), viceversa, non può
essere monetizzato e segue la doppia precedente destinazione ordinaria: si lascia in azienda,
oppure si versa in apposito fondo di previdenza complementare.
La disposizione in esame è, peraltro, particolarmente penalizzata da due peculiarità che,
indubbiamente, le fanno perdere appeal, scoraggiando i lavoratori:
- l’assoggettamento a tassazione ordinaria (cosa che comporta una notevole diminuzione del
netto percepito nel caso in cui si opti per richiedere l’inserimento del TFR in busta paga,
rispetto a quanto si andrà a incassare a fine rapporto);
- l’irrevocabilità della scelta: una volta deciso di richiedere il TFR in busta paga, non si può
più tornare indietro, restando vincolati a tale scelta fino al 30 giugno 2018.
Si rammenta, infatti, che il triennio in questione è un periodo di sperimentazione.
Orbene, dopo poco più di due mesi dall’entrata in vigore, coloro che hanno optato per ricevere il
TFR in busta paga sono un numero davvero infinitesimale: su un campione di 1 milione di
lavoratori, soltanto 567 di loro (pari allo 0,0567%) hanno deciso di approfittare di tale “preziosa
opportunità”. Tali sono i dati resi noti dall’Osservatorio della Fondazione Studi dei Consulenti del
Lavoro, che ha elaborato gli stipendi di circa 7 milioni di dipendenti del mese di maggio 2015.
Seppure, viene precisato, che, per il momento, sono state analizzate solamente le situazioni delle
grandi aziende, ossia quelle che mediamente occupano più di 500 dipendenti. Aspettiamo,
dunque, di scoprire cosa è accaduto nelle piccole imprese.
Piccola considerazione in proposito: questi 567 “temerari” (o, molto più probabilmente, solo
persone che versano in una situazione finanziaria particolarmente grave), essendo lavoratori di
2. aziende con più di 50 dipendenti, nella stragrande maggioranza dei casi (oltre il 90%) hanno il TFR
destinato all’INPS (che, notoriamente, non gode di meravigliosa fama, quanto a certezze
pensionistiche). Tale elemento potrebbe, dunque, aver pesato non poco nella scelta dei diretti
interessati.
Qualunque siano i motivi, resta il fatto che anche questa novità normativa del Governo Renzi,
asseritamente rivoluzionaria e foriera di chissà quali benefici effetti nelle tasche delle famiglie, tali
da rimettere prontamente in moto il volano dei consumi, al momento, si è dimostrato un flop di
dimensioni spaventose.
D’altronde, per prevedere che, in ogni caso, il livello della spesa degli Italiani non avrebbe potuto
subire alcuna positiva ripercussione, non ci sarebbe stato certo bisogno di scomodare dalla tomba
Keynes (padre della “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, nonché
massimo esperto in materia di propensione al consumo), per chiedergli un parere pro veritate.
Stante, infatti, l’enorme sconvenienza economica nell’optare per il TFR in busta paga, chi adotta
tale scelta non può che trovarsi in situazione finanziaria particolarmente critica. Gioco forza, è
impensabile anche solo immaginare che, tali soggetti, una volta ricevuta questo piccolo surplus
(tassato in maniera inusitata), non vedano loro di andare per il centro a fare shopping per
contribuire alla ripresa dei consumi del Paese.
E, passando di flop in flop, non possiamo esimerci dal dare conto di quanto appena pubblicato da
Italia Oggi sul suo sito Internet, in merito al 730 precompilato.
Parrebbe, infatti, che siano sempre di più i CAF (per i quali, il modello 730 è sempre stato fonte di
importanti entrate) a inoltrare allarmanti direttive nei confronti dei loro vari uffici territoriali,
invitandoli a evitare di predisporre la denuncia, posto che, e seguito dei numerosi errori riscontrati
sui modelli precompilati rilasciati dall’Agenzia delle Entrate, il 730 precompilato sta dimostrandosi
essere solo un’inutile perdita di tempo e, pertanto, è meglio evitarlo, procedendo, fin da subito,
con le modalità ordinarie di compilazione e presentazione del “vecchio” modello 730 per il periodo
d’imposta 2014.
Circa i tempi di lavorazione, i CAF hanno verificato che l’accesso alla precompilata del cliente si
rivela in molte situazioni un inutile passaggio in più, nel ciclo di predisposizione del modello 730. Di
conseguenza, rinunciare all’accesso alla precompilata consente di velocizzare le operazioni di
inserimento e trasmissione dei modelli, ottimizzando così i tempi e rendendo il lavoro non
svantaggioso dal punto di vista economico.
TFR in busta paga e 730 precompilato: due fallimenti annunciati.