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Ricordando Luciana
                                                  di Trude Levi1


Pubblicato in Luciana Nissim Momigliano, Ricordi della casa dei morti e altri scritti, a cura di A. Chiappano,
Giuntina, Firenze 2008



Siamo arrivate da Auschwitz nel campo di Hessich-Lichtenau per essere utilizzate, come
manodopera schiava in una delle più grosse fabbriche di munizioni, nel Settembre 1944. Il
comandante Willy Schaeffer ci fece un discorso. Al suo fianco c'erano una donna piccola, ma non
esile, dai capelli neri e un'altra donna magra dai capelli biondi. Entrambe portavano un camice
bianco. La prima era Luciana Nissim. Ci fu detto che era la dottoressa del nostro campo e che l'altra
donna era l'infermiera. Non ricordo il suo nome, ma so che era polacca. Luciana era italiana,
parlava bene il francese e un po' di tedesco. Si è scoperto in seguito che poteva leggere e
comprendere qualsiasi testo in tedesco, ma non parlava e non capiva in nessun modo l'ungherese. In
tutto noi eravamo 1000 donne, tutte ungheresi.
Non ricordo quando ebbi per la prima volta l'occasione di parlare con Luciana. Io parlavo bene il
francese e così avevamo l'opportunità di parlare abbastanza spesso. Ricordo che le dissi che anche
mio padre era medico. Lei mi raccontò che si era appena laureata e che aveva raggiunto i partigiani
e che era stata arrestata e deportata ad Auschwitz, insieme ad alcuni amici, fra cui Primo Levi. Sia
lui che Luciana erano originari di Torino, erano fraterni amici ed erano diventati partigiani nello
stesso momento facendo parte dello stesso gruppo. Luciana mi disse che i suoi genitori erano
rimasti a Torino, così come il suo futuro marito, Franco Momigliano. Ad Auschwitz era stata dura,
era passata attraverso esperienze difficili, ma nel nostro campo le era stata data una infermeria e due
camere, una di queste le serviva da camera da letto: poteva così dormire in un letto vero, con
lenzuola pulite e credo che ricevesse una sufficiente quantità di cibo. Le era permesso di aiutarci,
ma tuttavia disponeva di pochissime medicine e il più delle volte doveva far ricorso alle sue risorse
personali per aiutare chi si ammalava o aveva un incidente sul lavoro. Luciana aveva alcune
amiche: Judith, una ungherese che parlava italiano, Grete, una graziosa ragazza che proveniva dalla
Transilvania. C'erano poi, per quel che ricordo, due gemelle slovacche, Eva e Hedva. Di questo
gruppo facevo parte anche io: parlavo in francese con Luciana, tuttavia avevo una posizione un po'
defilata rispetto a questo gruppo.
Luciana aveva un atteggiamento amichevole, ma distaccato. Era un po' più vecchia di noi: noi
avevamo tutte circa vent'anni, mentre lei ne aveva 24 ed era un medico. Ricordo poco della nostra
amicizia durante la permanenza nel campo, perchè come ho già detto, ero un po' distaccata da
questo gruppetto. C'è però un episodio che vorrei ricordare. Un giorno due donne delle SS, con cui
avevo avuto dei dissapori, ci dissero: «Andate nella piazza dell'appello». Andavamo ogni giorno
all'appello, ma eravamo già state contate quel giorno. Tuttavia mi avviai. Quando arrivai nella
piazza vidi il nostro Kapo che era lì in piedi mentre le donne arrivavano da tutte le direzioni, fino a
che non arrivò più nessuno. Ero molto debole e dal momento che circolava la voce che ci
avrebbero trasferito in una fabbrica di carta, dove saremmo state assegnate ad un lavoro meno duro,
non mi sarebbe dispiaciuto abbandonare il nostro campo. Il nostro Kapo se ne andò e ritornò alcuni
minuti dopo con il comandante del campo e Luciana. Luciana mi bisbigliò di cercare di uscire dalla
fila. Il comandante ci contò. C'erano lì in fila 208 donne. Quello che scoprii molto dopo è che a
Schaeffer era stato ordinato dai suoi superiori di Buchenwald che Luciana facesse un elenco delle
donne che si erano recate all'infermeria nelle settimane precedenti. Dal momento che eravamo
sempre più deboli, il numero era di 206. Schaeffer non era un sadico, ma eseguiva gli ordini. Così
voleva solo 206 donne. Ora la lista è in mio possesso: egli cancellò dalla lista due persone ed una

1
 Ringrazio Trude Levi, una delle compagne di Luciana a Lichtenau, per questo testo che mi ha inviato e che è inedito.
Traduzione dall'inglese di A. Chiappano con una revisione di Alberto Momigliano.

                                                                                                                        1
ero io. Si vede benissimo che dove c'era il mio numero di matricola, 20607 c'è una cancellatura.
Eliminò dalla lista anche una seconda persona. Siamo state estremamente fortunate: le 206 donne
furono inviate nuovamente ad Auschwitz e fu la fine per loro. A noi fu permesso di continuare a
vivere. Io ho sempre pensato che Luciana avesse aiutato il comandante a decidere chi eliminare
dalla lista, ma lei ha sempre negato questo fatto. Diceva che non avrebbe potuto fare una eccezione
per il fatto che io ero sua amica. E' anche possibile che il comandante abbia tolto il mio nome dalla
lista perchè in precedenza avevo partecipato alla corvè di seppellire il suo cane.
Alla fine di Marzo del 1945 la fabbrica fu chiusa per mancanza di materiali. Iniziò la nostra
evacuazione: prima fummo condotte verso Lipsia. Auschwitz era già stata liberata il 27 di
Gennaio, gli americani si stavano avvicinando a Buchenwald, dove le guardie avevano intenzione
originariamente di portarci. Il primo campo dove ci condussero fu un campo di SS, che fu
bombardato dagli americani due giorni dopo il nostro arrivo: le SS si erano ritirate, ma gli americani
non potevano saperlo e così le bombe caddero su di noi: una mia amica morì sotto quel
bombardamento. Fummo quindi evacuate verso un nuovo campo, chiamato Tekla. Era pieno di
donne e di uomini, tutti in pessime condizioni. Arrivammo in questo campo il 7 Aprile, ed eravamo
complessivamente circa 15.000 persone.
Il 12 Aprile le guardie misero tutti i loro bagagli su carretti di legno che noi eravamo costrette a
spingere e ci spinsero nuovamente per le strade della Germania, per una nuova marcia della morte.
Dovevamo marciare in fila per cinque. Camminavamo e non ci veniva dato nulla da mangiare.
Qualche volta sopra le nostre teste si vedeva un piccolo aereo americano: quando i piloti
riconoscevano una divisa tedesca, sparavano, così le guardie indossarono le giacche a righe dei
deportati. Andavamo verso il fiume Elba e marciavamo sia in direzione degli americani, sia dei
russi che pure si avvicinavano. Per due volte abbiamo fatto un percorso circolare. Io ero a piedi nudi
e avevo un vestito senza maniche. Ad un certo punto quando attraversammo una grande foresta, la
fila dietro di me fuggì. Io avevo sempre pensato che fossero fuggite tutte insieme, ma Luciana in
seguito mi disse che lei era scappata con Hedva e che non sapeva che anche le altre si erano date
alla macchia. Era più facile la fuga se scappava una fila intiera piuttosto che una sola persona: le
guardie si sarebbero accorte che marciavano solo quattro prigioniere ed esse sarebbero state uccise.
Udimmo degli spari nella foresta. Non so se colpirono quelle che erano fuggite.
Io fui finalmente liberata il 23 Aprile, il giorno in cui compivo 21 anni. Mi sono sempre chiesta che
cosa era accaduto a Luciana. Dopo la guerra non sono ritornata in Ungheria. Divenni apolide, in
cerca di asilo. Mi recai dapprima in Francia, poi in Sud Africa e in Israele. Nel 1958 mi trasferii a
Londra e diventai cittadina inglese, insieme a mio marito e a mio figlio.
Nel 1959 incontrai una persona che aveva rapporti con il Rabbino capo di Roma, Toaff. Gli
raccontai di Luciana, dicendole che mi sarebbe piaciuto sapere che cosa era stato di lei. Il Rabbino
Capo ci ha messe in contatto e siamo rimaste in rapporti di amicizia, da allora fino alla sua morte.
Fui felice di sapere che anche lei era sopravvissuta. Nel frattempo era diventata psicoanalista, si era
sposata con il suo fidanzato di allora e aveva un figlio. Vivevano a Milano, dove lei esercitava la
professione di medico-psicoanalista. Suo marito, Franco Momigliano era un noto economista e
spessolavorava anche per il governo Italiano. Era una persona molto chiusa e mi ci è voluto molto
tempo per entrare in confidenza con lui. Aveva una bellissima collezione di quadri di noti artisti
contemporanei.
Poco tempo dopo aver ripreso i contatti, Luciana venne a Londra per una conferenza di psicoanalisti
e da allora ebbe l'abitudine di trascorrere qualche giorno da noi quando veniva a Londra. Si
trovava bene anche con il mio secondo marito.
I Momigliano avevano una casa in montagna a Courmayeur e ci invitavano da loro. Generalmente
avevano l'abitudine di passare l'estate in montagna e ritornavano a Milano gli ultimi giorni di
Agosto. Stavamo con loro due o tre giorni e poi ci lasciavano la casa per due settimane. Siamo
sempre stati enormemente grati per questi inviti e abbiamo sempre goduto molto di questi soggiorni
in montagna. Una volta fummo anche ospiti nella loro casa al mare all'isola d'Elba. I giorni che
trascorrevamo con loro - in particolare con Luciana - erano magici. Ci portava a fare delle gite, nei

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rifugi mangiavamo la polenta che era preparata in grandi paioli. Era servita con squisite salsicce e
formaggi di produzione locale. Ci mostrava i posti migliori per raccogliere i funghi, ci segnalava i
sentieri e ci metteva in contatto con i suoi amici, persone molto interessanti. Nonostante il nostro
povero italiano non ci permettesse di partecipare appieno alle conversazioni, che vertevano su
politica o fatti culturali, eravamo in grado di seguire e comprendere la conversazione.
Quando andavamo a trovare Luciana a Milano ci portava sempre a visitare i diversi musei, il mio
preferito era il Poldi Pezzoli: piccolo, ma raffinato, o il museo del Castello o la galleria di Brera.
Quando Luciana veniva a Londra cercavamo di fare lo stesso per lei e la portavamo a visitare le
mostre o in giro per la campagna, oppure andavamo ai concerti. Credo che stesse bene con noi.
Parlavamo anche del campo. Diceva sempre che per lei era stato diverso rispetto a noi: a Hessich-
Lichtenau aveva imparato molto. Si era laureata in medicina subito prima della deportazione e
avendo nel campo pochissimi strumenti a disposizione, aveva dovuto far ricorso a tutte le sue
risorse per aiutarci e giudicò questa esperienza estremamente istruttiva.
A differenza di noi, che avevamo perso nei campi le nostre famiglie, Luciana ritrovò a Torino i suoi
genitori, il suo fidanzato, i suoi amici, i suoi libri: tutto come quando era partita e potè così
riprendere la sua vita. Era solita dire che si era trattato di una esperienza molto speciale, ma non
traumatica.
La nostra amicizia era preziosa ed ha molto arricchito la mia vita. Credo che anche lei si trovasse
bene con me. Quando non avevamo la possibilità di vederci ci sentivamo per telefono o ci
scrivevamo dei nostri figli e dei nostri problemi.
Io lavoravo come bibliotecaria ed ho poi iniziato a parlare delle mie esperienze durante la guerra,
dapprima in seminari per insegnanti, poi nelle scuole ed ero molto impegnata. Così negli ultimi anni
ci vedevamo sempre meno. Quando Luciana si è ammalata avevo tutte le intenzioni di andare a
trovarla, ma poi non l'ho fatto. Continuo a rimproverarmi per non essere andata a Milano quando
era ricoverata in ospedale. Poco prima che morisse parlammo al telefono. Dal momento che era
stata operata con successo, speravo che ci sarebbe stato il tempo per vederla. Ma purtroppo non è
stato così. Non mi sono mai perdonata per non essere andata da lei. Luciana è stata una vera amica
per me e ho sofferto molto quando è morta.




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Ricordando Luciana. Testimonianza di Trude Levi

  • 1. Ricordando Luciana di Trude Levi1 Pubblicato in Luciana Nissim Momigliano, Ricordi della casa dei morti e altri scritti, a cura di A. Chiappano, Giuntina, Firenze 2008 Siamo arrivate da Auschwitz nel campo di Hessich-Lichtenau per essere utilizzate, come manodopera schiava in una delle più grosse fabbriche di munizioni, nel Settembre 1944. Il comandante Willy Schaeffer ci fece un discorso. Al suo fianco c'erano una donna piccola, ma non esile, dai capelli neri e un'altra donna magra dai capelli biondi. Entrambe portavano un camice bianco. La prima era Luciana Nissim. Ci fu detto che era la dottoressa del nostro campo e che l'altra donna era l'infermiera. Non ricordo il suo nome, ma so che era polacca. Luciana era italiana, parlava bene il francese e un po' di tedesco. Si è scoperto in seguito che poteva leggere e comprendere qualsiasi testo in tedesco, ma non parlava e non capiva in nessun modo l'ungherese. In tutto noi eravamo 1000 donne, tutte ungheresi. Non ricordo quando ebbi per la prima volta l'occasione di parlare con Luciana. Io parlavo bene il francese e così avevamo l'opportunità di parlare abbastanza spesso. Ricordo che le dissi che anche mio padre era medico. Lei mi raccontò che si era appena laureata e che aveva raggiunto i partigiani e che era stata arrestata e deportata ad Auschwitz, insieme ad alcuni amici, fra cui Primo Levi. Sia lui che Luciana erano originari di Torino, erano fraterni amici ed erano diventati partigiani nello stesso momento facendo parte dello stesso gruppo. Luciana mi disse che i suoi genitori erano rimasti a Torino, così come il suo futuro marito, Franco Momigliano. Ad Auschwitz era stata dura, era passata attraverso esperienze difficili, ma nel nostro campo le era stata data una infermeria e due camere, una di queste le serviva da camera da letto: poteva così dormire in un letto vero, con lenzuola pulite e credo che ricevesse una sufficiente quantità di cibo. Le era permesso di aiutarci, ma tuttavia disponeva di pochissime medicine e il più delle volte doveva far ricorso alle sue risorse personali per aiutare chi si ammalava o aveva un incidente sul lavoro. Luciana aveva alcune amiche: Judith, una ungherese che parlava italiano, Grete, una graziosa ragazza che proveniva dalla Transilvania. C'erano poi, per quel che ricordo, due gemelle slovacche, Eva e Hedva. Di questo gruppo facevo parte anche io: parlavo in francese con Luciana, tuttavia avevo una posizione un po' defilata rispetto a questo gruppo. Luciana aveva un atteggiamento amichevole, ma distaccato. Era un po' più vecchia di noi: noi avevamo tutte circa vent'anni, mentre lei ne aveva 24 ed era un medico. Ricordo poco della nostra amicizia durante la permanenza nel campo, perchè come ho già detto, ero un po' distaccata da questo gruppetto. C'è però un episodio che vorrei ricordare. Un giorno due donne delle SS, con cui avevo avuto dei dissapori, ci dissero: «Andate nella piazza dell'appello». Andavamo ogni giorno all'appello, ma eravamo già state contate quel giorno. Tuttavia mi avviai. Quando arrivai nella piazza vidi il nostro Kapo che era lì in piedi mentre le donne arrivavano da tutte le direzioni, fino a che non arrivò più nessuno. Ero molto debole e dal momento che circolava la voce che ci avrebbero trasferito in una fabbrica di carta, dove saremmo state assegnate ad un lavoro meno duro, non mi sarebbe dispiaciuto abbandonare il nostro campo. Il nostro Kapo se ne andò e ritornò alcuni minuti dopo con il comandante del campo e Luciana. Luciana mi bisbigliò di cercare di uscire dalla fila. Il comandante ci contò. C'erano lì in fila 208 donne. Quello che scoprii molto dopo è che a Schaeffer era stato ordinato dai suoi superiori di Buchenwald che Luciana facesse un elenco delle donne che si erano recate all'infermeria nelle settimane precedenti. Dal momento che eravamo sempre più deboli, il numero era di 206. Schaeffer non era un sadico, ma eseguiva gli ordini. Così voleva solo 206 donne. Ora la lista è in mio possesso: egli cancellò dalla lista due persone ed una 1 Ringrazio Trude Levi, una delle compagne di Luciana a Lichtenau, per questo testo che mi ha inviato e che è inedito. Traduzione dall'inglese di A. Chiappano con una revisione di Alberto Momigliano. 1
  • 2. ero io. Si vede benissimo che dove c'era il mio numero di matricola, 20607 c'è una cancellatura. Eliminò dalla lista anche una seconda persona. Siamo state estremamente fortunate: le 206 donne furono inviate nuovamente ad Auschwitz e fu la fine per loro. A noi fu permesso di continuare a vivere. Io ho sempre pensato che Luciana avesse aiutato il comandante a decidere chi eliminare dalla lista, ma lei ha sempre negato questo fatto. Diceva che non avrebbe potuto fare una eccezione per il fatto che io ero sua amica. E' anche possibile che il comandante abbia tolto il mio nome dalla lista perchè in precedenza avevo partecipato alla corvè di seppellire il suo cane. Alla fine di Marzo del 1945 la fabbrica fu chiusa per mancanza di materiali. Iniziò la nostra evacuazione: prima fummo condotte verso Lipsia. Auschwitz era già stata liberata il 27 di Gennaio, gli americani si stavano avvicinando a Buchenwald, dove le guardie avevano intenzione originariamente di portarci. Il primo campo dove ci condussero fu un campo di SS, che fu bombardato dagli americani due giorni dopo il nostro arrivo: le SS si erano ritirate, ma gli americani non potevano saperlo e così le bombe caddero su di noi: una mia amica morì sotto quel bombardamento. Fummo quindi evacuate verso un nuovo campo, chiamato Tekla. Era pieno di donne e di uomini, tutti in pessime condizioni. Arrivammo in questo campo il 7 Aprile, ed eravamo complessivamente circa 15.000 persone. Il 12 Aprile le guardie misero tutti i loro bagagli su carretti di legno che noi eravamo costrette a spingere e ci spinsero nuovamente per le strade della Germania, per una nuova marcia della morte. Dovevamo marciare in fila per cinque. Camminavamo e non ci veniva dato nulla da mangiare. Qualche volta sopra le nostre teste si vedeva un piccolo aereo americano: quando i piloti riconoscevano una divisa tedesca, sparavano, così le guardie indossarono le giacche a righe dei deportati. Andavamo verso il fiume Elba e marciavamo sia in direzione degli americani, sia dei russi che pure si avvicinavano. Per due volte abbiamo fatto un percorso circolare. Io ero a piedi nudi e avevo un vestito senza maniche. Ad un certo punto quando attraversammo una grande foresta, la fila dietro di me fuggì. Io avevo sempre pensato che fossero fuggite tutte insieme, ma Luciana in seguito mi disse che lei era scappata con Hedva e che non sapeva che anche le altre si erano date alla macchia. Era più facile la fuga se scappava una fila intiera piuttosto che una sola persona: le guardie si sarebbero accorte che marciavano solo quattro prigioniere ed esse sarebbero state uccise. Udimmo degli spari nella foresta. Non so se colpirono quelle che erano fuggite. Io fui finalmente liberata il 23 Aprile, il giorno in cui compivo 21 anni. Mi sono sempre chiesta che cosa era accaduto a Luciana. Dopo la guerra non sono ritornata in Ungheria. Divenni apolide, in cerca di asilo. Mi recai dapprima in Francia, poi in Sud Africa e in Israele. Nel 1958 mi trasferii a Londra e diventai cittadina inglese, insieme a mio marito e a mio figlio. Nel 1959 incontrai una persona che aveva rapporti con il Rabbino capo di Roma, Toaff. Gli raccontai di Luciana, dicendole che mi sarebbe piaciuto sapere che cosa era stato di lei. Il Rabbino Capo ci ha messe in contatto e siamo rimaste in rapporti di amicizia, da allora fino alla sua morte. Fui felice di sapere che anche lei era sopravvissuta. Nel frattempo era diventata psicoanalista, si era sposata con il suo fidanzato di allora e aveva un figlio. Vivevano a Milano, dove lei esercitava la professione di medico-psicoanalista. Suo marito, Franco Momigliano era un noto economista e spessolavorava anche per il governo Italiano. Era una persona molto chiusa e mi ci è voluto molto tempo per entrare in confidenza con lui. Aveva una bellissima collezione di quadri di noti artisti contemporanei. Poco tempo dopo aver ripreso i contatti, Luciana venne a Londra per una conferenza di psicoanalisti e da allora ebbe l'abitudine di trascorrere qualche giorno da noi quando veniva a Londra. Si trovava bene anche con il mio secondo marito. I Momigliano avevano una casa in montagna a Courmayeur e ci invitavano da loro. Generalmente avevano l'abitudine di passare l'estate in montagna e ritornavano a Milano gli ultimi giorni di Agosto. Stavamo con loro due o tre giorni e poi ci lasciavano la casa per due settimane. Siamo sempre stati enormemente grati per questi inviti e abbiamo sempre goduto molto di questi soggiorni in montagna. Una volta fummo anche ospiti nella loro casa al mare all'isola d'Elba. I giorni che trascorrevamo con loro - in particolare con Luciana - erano magici. Ci portava a fare delle gite, nei 2
  • 3. rifugi mangiavamo la polenta che era preparata in grandi paioli. Era servita con squisite salsicce e formaggi di produzione locale. Ci mostrava i posti migliori per raccogliere i funghi, ci segnalava i sentieri e ci metteva in contatto con i suoi amici, persone molto interessanti. Nonostante il nostro povero italiano non ci permettesse di partecipare appieno alle conversazioni, che vertevano su politica o fatti culturali, eravamo in grado di seguire e comprendere la conversazione. Quando andavamo a trovare Luciana a Milano ci portava sempre a visitare i diversi musei, il mio preferito era il Poldi Pezzoli: piccolo, ma raffinato, o il museo del Castello o la galleria di Brera. Quando Luciana veniva a Londra cercavamo di fare lo stesso per lei e la portavamo a visitare le mostre o in giro per la campagna, oppure andavamo ai concerti. Credo che stesse bene con noi. Parlavamo anche del campo. Diceva sempre che per lei era stato diverso rispetto a noi: a Hessich- Lichtenau aveva imparato molto. Si era laureata in medicina subito prima della deportazione e avendo nel campo pochissimi strumenti a disposizione, aveva dovuto far ricorso a tutte le sue risorse per aiutarci e giudicò questa esperienza estremamente istruttiva. A differenza di noi, che avevamo perso nei campi le nostre famiglie, Luciana ritrovò a Torino i suoi genitori, il suo fidanzato, i suoi amici, i suoi libri: tutto come quando era partita e potè così riprendere la sua vita. Era solita dire che si era trattato di una esperienza molto speciale, ma non traumatica. La nostra amicizia era preziosa ed ha molto arricchito la mia vita. Credo che anche lei si trovasse bene con me. Quando non avevamo la possibilità di vederci ci sentivamo per telefono o ci scrivevamo dei nostri figli e dei nostri problemi. Io lavoravo come bibliotecaria ed ho poi iniziato a parlare delle mie esperienze durante la guerra, dapprima in seminari per insegnanti, poi nelle scuole ed ero molto impegnata. Così negli ultimi anni ci vedevamo sempre meno. Quando Luciana si è ammalata avevo tutte le intenzioni di andare a trovarla, ma poi non l'ho fatto. Continuo a rimproverarmi per non essere andata a Milano quando era ricoverata in ospedale. Poco prima che morisse parlammo al telefono. Dal momento che era stata operata con successo, speravo che ci sarebbe stato il tempo per vederla. Ma purtroppo non è stato così. Non mi sono mai perdonata per non essere andata da lei. Luciana è stata una vera amica per me e ho sofferto molto quando è morta. 3