Bauli, la fabbrica dei dolci italiani. Intervista a Paolo Isolati direttore marketing del Gruppo Bauli a cura di Sherin Baggio, Gabriele Ferrari, Andrea Marano, Andrea Staffiere - Master in Marketing Management 2016-2017
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Bauli, la fabbrica dei dolci italiani. Intervista a Paolo Isolati direttore marketing del Gruppo Bauli
1. Business School
Bauli, la fabbrica dei dolci italiani. Intervista a Paolo Isolati direttore
marketing del Gruppo Bauli.
A cura di Sherin Baggio, Gabriele Ferrari, Andrea Marano, Andrea Staffiere - Master in Marketing
Management 2016-2017
L’azienda Bauli S.p.A. nasce a Verona nel 1922 per mano di un artigiano locale, Ruggero Bauli. Da una singola
ricetta, quella del Pandoro, che integra antiche tradizioni dolciarie ha raggiunto negli anni una posizione di
leadership all’interno del mercato di riferimento. Con un fatturato di 446 milioni di Euro, una superficie totale di
stabilimenti di 282.000 mq, ed un totale medio di 1200 dipendenti, Bauli garantisce ai propri consumatori 170
tipologie di prodotti.
Dottor Isolati, come si pone il gruppo Bauli nello
scenario Made in Italy?
Il Gruppo Bauli si pone come Azienda tipicamente
italiana. Ad oggi non siamo ancora una società con
configurazione di tipo multinazionale, sebbene si
stiano muovendo i primi passi verso uno sviluppo
futuro che ci dovrebbe portare ad una maggior
presenza a livello internazionale. Attualmente le
vendite all’estero sviluppano per noi circa il 10% del
fatturato. La strada dello sviluppo che intendiamo
intraprendere fa leva sul Made in Italy: vogliamo
trasmetterelatradizionalitàdelnostroprodottoe,nella
fattispecie mi riferisco a quelli realizzati in occasione
delle ricorrenze natalizie e pasquali, repertorio della
tradizione pasticcera e dolciaria italiana, molto
apprezzati anche all’estero.
Il nostro intento è dunque trasferire a livello
internazionale, il gusto tradizionale della nostra
gamma di prodotto senza modificare l’originalità
della ricetta iniziale. Al tempo stesso però ci sono
situazioni che richiedono un adattamento dei prodotti
alle diverse realtà locali, una scelta già sviluppata da
importanti brand internazionali e tale cambiamento
risulta più logico per i prodotti a consumo quotidiano.
Se le chiedessimo di spiegarci l’affermazione
“pensare globalmente, agire localmente”, che
cosa ci risponderebbe?
Partiamo, innanzitutto, dal fatto che pensare globale
oggi è diventato un must: in Italia i consumi nel
segmento food sono piatti o in contrazione. La
popolazione invecchia e presta maggior attenzione
alla qualità del prodotto piuttosto che alla quantità.
Notiamo sempre più una polarizzazione: lo
sviluppo dell’area wellness da un lato (integrale,
bio, free form) e indulgence dall’altra, così come
l’espansione di posizionamenti e punti vendita che
mirano a sviluppare sementi e nicchie di valore in
2. contrapposizione a situazioni che premiano logiche
di discountizzazione e di EDLP. Ciò premesso,
quando “pensiamo globale” è importante conciliare
la nostra cultura con quella delle aree geografiche
in cui sono localizzati i mercati potenziali in cui
intendiamo sviluppare il nostro business. Nel nostro
caso, ad esempio, una nazione che presenta un alto
livello di consumo di prodotti dolciari è l’India, paese
nel quale i gusti non sempre corrispondono a quelli
europei. Mantenendo invariata la forma del prodotto,
la distribuzione del nostro croissant in India passa
inevitabilmente verso l’adattamento - ad esempio
- delle farciture che devono soddisfare i gusti più
apprezzati di quelle popolazioni.
Quest’ultimo è un caso specifico in cui possiamo
rendere disponibile “ localmente” il nostro prodotto
nelle modalità e nei gusti atti a soddisfare le attese
del consumatore.
Pensare globalmente significa anche saper affrontare
altre questioni, dalle tendenze del consumatore alle
logiche di insediamento -aspetti legislativi, fiscali,
doganali-, dalle metodologie aziendali le quali
dovranno essere valutate in base al contesto in cui
si opera, all’aspetto culturale e valoriale dello stesso.
L’importante è che vi sia coerenza a livello
complessivo nella strategia aziendale, che poi potrà
essere innestata localmente.
Sicuramente, come Gruppo, abbiamo un vantaggio
da spendere ovverosia l’italianità, che costituisce una
risorsa preziosa. Essere italiani denota qualità e valore.
C’è una metafora con cui lei descriverebbe la
sua azienda?
Per Bauli vedo un’immagine ed uno stato d’essere.
Vogliamo trasferire di noi un’immagine lucente,
luminosa. Siamo un’azienda proiettata al futuro, con
una continua voglia di innovazione e cambiamento,
ma rimaniamo sempre radicati alle nostre tradizioni.
La luce che vogliamo trasmettere si esprime attraverso
il nostro brand e i nostri prodotti, può essere una
luce di Natale (calda, accogliente, magica) o quella
del risveglio quotidiano, una luce che ti fa iniziare nel
modo giusto la giornata con un croissant.
Lo stato d’essere invece conduce ad una sensazione
di morbidezza intesa non solo come aspetto interiore
ma anche in termini di prodotto, caratteristica questa
che contraddistingue il nostro know-how. Cerchiamo
di evocare, attraverso quello che facciamo, uno stato
di benessere interiore e aperto a relazioni positive
che fanno sentire bene.
Potrebbe indicarci un punto di forza ed un
punto di debolezza della sua azienda?
Come punto di forza evidenzierei dei valori aziendali
forti e distintivi, quali la condivisione, la partecipazione
a tutti livelli e il coinvolgimento di tutta la “popolazione
aziendale” nel raggiungimento degli obiettivi, una
partecipazione volta a creare un sentire comune, uno
stile Bauli.
Come punto di debolezza, l’eccesso di prudenza che,
in talune circostanze, ha rappresentato un limite nel
poter cogliere prima di altri delle opportunità.
Sicuramente abbiamo dei margini di miglioramento
sulla velocità dei nostri lanci sul mercato.
Quale era la sua idea del mondo del marketing
prima di entrare in azienda e toccarla con
mano? Corrisponde a quella attuale o ci sono
discrepanze significative?
Le rispondo per esperienza personale, attraverso
testimonianze che tengo presso alcune Università
italiane. Ciò che cerco di tradurre agli studenti è
questo: ci sono delle metodologie che gli studi di
marketing mettono a disposizione, questo è un
grande valore. L’avvento del digital ha apportato
grandi cambiamenti ai paradigmi del marketing,
cambiamento questo che inciderà sempre di più sul
modo di fare branding nel futuro.
La vita aziendale, tuttavia, insegna ciò che i testi
universitari non riescono a trasmettere: il marketing
è un lavoro faticoso, in cui ci si sporca le mani, un
lavoro però stimolante che rappresenta un collante
all’interno dell’azienda perché si interfaccia con tutte
le funzioni: alla funzione marketing spetta il compito
-con l’adeguato livello di team leadership- di
coinvolgere ogni area aziendale al fine di trasformare
un progetto in un progetto aziendale e non in un
piano in cui crede una o l’altra area funzionale.
L’altro aspetto è quello organizzativo. Entrare in un
contesto lavorativo mette alla prova le persone, i
giovani in particolare. Lavorando insieme agli altri una
persona conosce meglio se stessa e scopre le sue
risorse ed i punti su cui lavorare per migliorare.
Le opportunità che oggi vengono offerte, a differenza
del passato, quando ancora non erano conosciute o
applicate esperienze quali Erasmus e stage aziendali,
offrono sicuramente grandi possibilità per ampliare i
propri orizzonti ed espandere la propria mente. Ciò
a cui non sempre l’Università prepara, è il fatto di
curare e creare le relazioni: i progetti vanno avanti se
è presente uno spirito di squadra, se si è disposti a
mettersi in gioco e quando l’interesse della collettività
precede quello del singolo.