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Cos’è un videogame?
In cosa consiste il ‘game design’? Se ci atteniamo ad una definizione strettamente tecnica, il
game design è la fase di progettazione delle meccaniche, ovvero delle regole, alla base del
funzionamento di un gioco; a loro volta, le regole sono dei meccanismi d’interazione con il
giocatore che producono lo stimolo di proseguire. Che lo stimolo sia dato dal
divertimento, dall’immersione escapista, o altro, non importa. Nel Monopoly, sarebbe
l’insiemedelleregolecontenutenelmanuale.

Eppure,leregoledelMonopolynonesisterebberosenzalebanconotefittizie,iltabellonecon
le locazioni, i dadi, le carte con le proprietà e le opportunità. E’ quindi compito del game
designer produrre anche icontenuti necessari all’interazione con le regole. Ed icontenuti e le
regole, se il giocatore non sapesse di essere un magnate che compete per il controllo della
città, se ogni carta non fosse illustrata a tema, sarebbero troppo astratti perché il giocatore si
immerga.

E’ quindi compito del game designer creare anche una ‘backstory’, un’ambientazione, che
sorregga le regole e i contenuti. E il gioco non sarebbe divertente, se queste regole non
fossero state affinate in una lunga fase di ‘betatesting’, con partite su partite, adattando di
volta in volta carte e locazioni e regole per raggiungere il maggior equilibrio. Ed anche in
quest’ultima fase è coinvolto il game designer: quanto deve essere il gioco affidato al caso, e
quantodeterministico,perchérisulti‘divertente’,‘stimolante’,o‘emozionante’?
In cosa consiste il game design
Il processo di game design è quindi in realtà molto più esteso
della stesura di un manuale di regole: si tratta della
supervisione generale di ogni singolo aspetto nella produzione
di un videogame, dalla progettazione su carta alle ultime
rifiniture, per assicurarsi che l’esperienza di gioco raggiunga gli
obiettivi prefissati.

E gli obiettivi possono essere i più disparati. Si dibatte ancora
oggi sul videogame come forma d’arte, poiché la fusione tra
letteratura, animazione, e interazione consente sviluppi in ogni
direzione; si può volere accompagnare mano nella mano il
giocatore in un mondo, sfidarne l’abilità, metterne l’intelletto
alla        prova,       terrorizzarlo,      scaricarne        la
frustrazione, mesmerizzarlo: anche uno solo di questi elementi
è sufficiente allo scopo, ma non è infrequente vedere molti
combinati.
Esempi celebri
In tutti questi casi, avremo raggiunto il successo soltanto se il
giocatore sarà portato a tornare al nostro videogame; non importa
che le sessioni di gioco siano brevi, come la sessione media di un
videogame per iPhone, o interminabili, ma che il giocatore senta
l’esigenza di ripetere l’esperienza.

Myst mesmerizzava il giocatore e ne metteva alla prova l’intelletto
catapultandolo in un’isola dai toni surreali e fantastici, senza offrire
indizi sul perché egli fosse lì (The Witness di Jonathan Blow ripercorre
oggi la stessa strada); Il Professor Layton ci chiede esplicitamente di
risolvere degli enigmi da settimanale, e la metastoria reminiscente
dei capolavori di Myiazaki ha il merito di renderli appaganti e non
invadenti; Silent Hill terrorizza, mette l’intelletto alla prova, sfida
l’abilità, e ci accompagna in un mondo agghiacciante in un sol colpo; i
casual game (Zuma, Bejewelled) e gli arcade game (Bubble Bobble)
offrono semplice relax sfidando la sola abilità del giocatore; i
videogiochi della scena indie (Braid, VVVVV) stimolano invece il
giocatore con delle meccaniche innovative.
Abbiamo un posto in questo mercato?
Se il giocatore sente l’impulso di tornare al vostro prodotto, qualunque
meccanismo d’intesa si crei è valido. La stessa innovazione pura è un fattore
secondario, importante soprattutto volete tentare di sfondare accettando
una maggior percentuale di ‘rischio’ sulla riuscita del progetto. Nel solo
mercato casual vi sono letteralmente centinaia di ‘cloni’ (giochi che
mimicano l’architettura di un gioco, pur variando tutti gli ‘asset’) che
vendono a volte quanto o più dell’originale: quando le meccaniche
funzionano, i giocatori continuano a volere più dello stesso…
e, tuttavia, minore è l’innovazione, maggiori sono i valori di produzione
richiesti per l’inserimento sul mercato.

Al contrario, ad un progetto dalla meccanica innovativa ed avvincente si
condona un progetto artistico sì piacevole e coerente, ma privo dei valori di
produzione dell’industria. Il primo segmento richiede un team di artisti, e
con esso possibilmente un finanziamento (tratteremo in seguito le
possibilità nate negli ultimi anni, come il Crowdsourcing), mentre al secondo
segmento,       orientato      al     mondo      indipendente      e     della
sperimentazione, possiamo mirare senza disporre di particolari risorse
economiche iniziali.
Scegliere il nostro pubblico
Quindi, prima di tutto, è fondamentale visualizzare il nostro obiettivo.
E, per farlo, dobbiamo aver chiaro chi sarà ad usufruire del nostro
prodotto, ovvero avere ben chiara in mente la demografica a cui ci
indirizziamo. Molte delle più grandi case di videogiochi (ad esempio
Ubisoft, Capcom) hanno lamentato negli ultimi dieci anni vendite
troppo basse rispetto ai costi di produzione; è stata attribuita la colpa
alla pirateria, la riproduzione illegale dei videogiochi, e il PC venne
considerato temporaneamente una piattaforma poco profittevole.
Sono le case di Lost Planet, Resident Evil 5, Assassin’s Creed, Raving
Rabbids: tutti giochi che nei costi di produzione e nella cinematicità
mimicano Hollywood.

Eppure, mentre questi colossi dibattevano sul declino della
piattaforma PC, altre compagnie emergevano con fatturati di gran
lunga superiori, proporzionalmente, all’investimento iniziale. Com’è
possibile che la compagnia produttrice di Peggle, un semplice gioco
ispirato in cui si gettano palline con l’obiettivo di illuminare dei pioli
su una tavola, abbia dei fatturati paragonabili alle grandi produzioni?
Alcuni dati demografici
Da una ricerca di mercato di Pop Cap, noto produttore di giorchi
casual di ampia distribuzione (piattaforme web, facebook, pc, mac,
console, mobile) emerge che dei loro giocatori:

•   l’89% ha trenta o più anni
•   Il 79% appartiene al genere femminile

L’avvento del casual gaming, e soprattutto del social networking, ha
portato ad una demografica completamente nuova; compagnie note
per giochi “hardcore” come Crytek, autrice di Crysis 1 e 2, hanno
affermato ufficialmente in occasione del lancio della nuova console
Ninendo Wii-U che il gaming “si sta diversificando, e non solo nei
media adottati, ma nei diversi target group […] se si dà un’occhiata ai
social network, il 50% o più dei giocatori sono ragazze”, ritenendo che
se le console di nuova generazione favoriranno questi nuovi modelli
di interazione sociale (già prominenti nel settore mobile e computer)
vi saranno buone prospettive per un pubblico ancora più ampio.
Dal videogame per ragazzi ai nuovi giocatori
La risposta è la scelta del proprio pubblico: nel produrre giochi del
costo medio di quaranta euro ed orientati ad un mercato per un
range che va dai 15 ai 30 anni di età si deve far fronte a numerose
problematiche;          gli        acquirenti        sono         giovani
adolescenti, economicamente dipendenti dai genitori, spesso per
spirito di ribellione meno inclini ad acquistare prodotti originali, e con
altissime aspettative di spettacolarità nei prodotti che acquistano.

Al contrario, il mercato di Peggle e dell’intera Pop Cap mira nei
temi, nelle meccaniche e nei prezzi all’intera popolazione, e
raggiunge in particolare le donne con più di trent’anni (l’89% dei loro
giocatori sono donne, e il 76% di queste oltre i trent’anni): persone
affermate, spesso con famiglia, stress da rilasciare, e delle entrate
regolari.

La pirateria delle grandi produzioni orientate a un pubblico giovanile è
quindi una conseguenza dovuta ad una pessima ricerca di mercato:
non hanno riflettuto oculatamente sulla loro ‘target audience’.
Riflessioni dalla Game Developer Conference 2011
Thomas Grip di Frictional Games (Amnesia: The Dark Descent), facente
parte della giuria dell’Indie Games Summit, nota come i videogame
prodotti dall’industria vengano reclamizzati sulla stessa scatola con
delle quantità ad indicare il valore del prodotto: quante
armi, livelli, personaggi sono presenti; come, fa notare, se nell’ultimo
film di Die Hard scrivessero “con tre armi in più del precedente”, idea
ovviamente inconcepibile per un’opera d’arte quale un film o un
romanzo.

Si fa leva su come il videogame sia chiaramente un media artistico, ma
come l’industria fatichi ad allontanarsi dal concetto di giocattolo;
ma, come mostrato in precedenza, quella è la loro target audience.

Tuttavia gli indipendenti sono lontani da logiche di mercato non
sempre funzionali, e questo è il loro più grande vantaggio. I veri
innovatori dell’industria di questa generazione sono stati a tutti gli
effetti gli indipendenti, e la sperimentazione nei videogiochi, a
differenza del cinema e della televisione, non solo diviene sempre
meno un rischio, ma si tramuta spesso in una garanzia di successo.
Slittamenti di paradigma e fruibilità delle periferiche, parte 1

Dagli anni ’90 alla metà del 2005 quasi tutte le innovazioni riguardavano quel
che accadeva su schermo: profondità del colore, alta definizione, grafica
3D, rincorsa tecnologica sul lato macchina e nessuna vera innovazione sul lato
utente. Nelle camere abbiamo uno schermo, una tastiera e un mouse, e nei
saloni un televisore un joypad; i tentativi di innovare sono timidi e
fallimentari.

Nintendo, che non ha mai prodotto hardware rivoluzionario, introduce quindi
una piattaforma mobile che intende rivoluzionare il modo in cui si fruisce
della periferica: il Nintendo DS. Con due schermi, uno dei quali
touch, ridefinisce la concezione tradizionale di gioco, obbliga gli sviluppatori a
pensare sistemi di gioco alternativi, a decidere se impugnare la periferica
come un libro, o orizzontalmente, ad usare contemporaneamente due
quadri, ad usare un pennino come sistema di controllo. Si inizia a
comprendere quanto sia importante l’esperienza utente; forte del
successo, seguirà una strada altrettanto coraggiosa con la console da casa
Wii.
Slittamenti di paradigma e fruibilità delle periferiche, parte 2

Ma il vero innovatore di quest’ultima generazione informatica, è Apple: con uno
schermo ad alta definizione, multitouch, accelerometri, la cancellazione
dell’intermediario e del retail con l’appstore, ha ridefinito l’interazione tra
macchina e utente, e generato una tipologia di mercato e di fruibilità della
periferica completamente nuova. Ha costretto nintendo a dimezzare il costo del
successore di Nintendo DS.

E, col tempo, si è compreso come la chiave sia nella ricerca di nuovi paradigmi:
Microsoft tenta persino di eliminare l’oggetto, la periferica fisica, con Kinect e la
sua interpretazione dei movimenti tramite un sistema di sensori, telecamere ed
intelligenza artificiale. E la domotica, l’integrazione multimediale con la
casa, diviene fondamentale: tutto si trasmette via internet, con negozi unificati.
Una prospettiva letterariamente preoccupante che però garantisce maggiori
vantaggi agli sviluppatori, che vedono l’intero pubblico accessibile da un solo
portale, e le entrate dei loro guadagni distribuite equamente e senza una
struttura piramidale ed elitaria a limitarne: nasce lo sviluppo indipendente anche
su console casalinghe e mobili.
Quantità ed eccesso contro semplicità
Come per qualsiasi disciplina che contenga una componente artistica, non esistono
regole ferree, una procedura passo passo per realizzare un design efficace, ma solo
buoni consigli. E la stessa struttura, una volta acquisita padronanza degli
strumenti, può essere decostruita; il genere ‘hidden object’ è ad esempio fondato su
quello che è stato considerato per molti anni un difetto del game design.

Ma, prima ancora di analizzare i generi più noti, partiamo da un principio
fondamentale: un buon gioco si basa su di un’idea semplice e vincente. Se state già
aggiungendo personaggi, ambientazioni, armi, power-up… o avete una grandissima
padronanza di quel che state facendo, e un grane team, o il vostro gioco finirà
rapidamente nel dimenticatoio. Se lo completerete.

Prendiamo, ad esempio, quanto più di distante ci sia dal nostro focus: i cosiddetti ‘First
Person Shooter’. Per quanto il mercato sia letteralmente inondato dal genere, non vi
sono che una manciata di franchise nell’immaginario pubblico (Half Life, Halo, Modern
Warfare, Doom, Medal of Honor). Eppure, ne esiste una quantità sconfinata, e si
incentrano tutti su vasti livelli lineari, una buona manciata di armi, nemici e mostri di
ogni genere. Hanno richiesto alti costi di sviluppo, e hanno certamente coperto le
spese, ma in dieci anni non li ricorda più nessuno.
Un successo nato dalla semplicità

Nel nostro caso, ed è lo scenario più comune e
commercialmente sicuro, utilizzeremo come base dei giochi
precedentemente realizzati da cui deriveremo parte delle
regole, mentre le restanti verranno realizzate in sintonia
con una backstory completamente nuova… forse persino
innovativa e sperimentale, nonostante le umili e note
origini! Braid, in fondo, si ispira a classici come Super Mario
Bros… per creare un’opera di poesia ermetica, ed un
gameplay che in tanti non potrebbero neppure concepire.

Prendiamo un esempio tanto lontano dal nostro
genere, eppure prezioso nella lezione che ha offerto
all’intera industria.
Un successo nato dalla semplicità, parte 2
Dopo anni di giochi che non facevano che aggiungere personaggi, armi, mostri, giunge
un gruppo di studenti dell’università Digipen: realizzano un prototipo chiamato
Narbacular Drop, un piccolo gioco a sfondo fantastico. Valve, la software house nota
per la serie Half-Life, assume il team, e nasce Portal.

In Portal abbiamo una sola arma (che non uccide), un gioco che si completa in sole tre
ore e mezza, livelli composti da semplici stanze, niente mostri o nemici:
solo, occasionalmente, delle torrette. Eppure diviene un record di vendite, e resta
vivido nell’immaginario dei giocatori.

Il concetto è il seguente: veniamo sottoposti in un laboratorio ad una serie di
test, composti da semplici stanze da cui uscire, e ci viene data una sola arma. Con un
tasto spariamo sulla parete una macchia gialla, e con un altro ne possiamo sparare
un’altra blu, su di un’altra parete: le macchie svaniscono, e si crea un portale.
Entrando da una parte usciamo dall’altra.

E la voce del computer che ci guida nei vari test che si comporta come un partner con
evidenti disturbi mentali, in una delle migliori caratterizzazioni di sempre di un
supercomputer: è in grado di incutere prima un sorriso e poi angoscia nell’arco di un
battito di ciglia. Portal è del 2007; la tecnologia per questo gioco esisteva già nel
1998, e venne persino reclamizzata dal team che la sviluppò, Epic Megagames, ma
tutti erano così presi dall’aggiungere carne al fuoco, da non aver notato il vaso di
pandora.
Dalla meccanica di gioco al mantenere alto l’interesse
Le lezioni che giungono da questo semplice gioco sono molteplici, e
rappresentano la migliore ispirazione, nel loro minimalismo, per comprenere cosa
renda buono un design.

E sono applicabili anche al nostro futuro, perché Portal nasce in fondo dal mondo
indipendente, dalla sperimentazione di pochi che avevano la possibilità di non
aderire alle logiche di mercato della clonazione delle idee.

Ma un gioco che anche solo nella meccanica raggiunge l’eccellenza, sarebbe
monotono se avesse solo una ripetizione di prove d’abilità e d’ingegno da
superare.

Entra quindi in gioco il fattore emozionale: un videogame necessità di una
meccanica alla base che garantisca la progressione, così come in un romanzo
d’investigazione è necessario un mistero su cui indagare, ma questa porterebbe
rapidamente alla ripetizione e alla noia. Entra quindi in gioco la narrazione.
Narrazione, senso di progressione e ricompense
Entra quindi in gioco il fattore emozionale: un videogame necessità di una meccanica alla base
che garantisca la progressione, così come in un romanzo d’investigazione è necessario un mistero
su cui indagare, ma questa porterebbe rapidamente alla ripetizione e alla noia… proprio come in
un romanzo ben strutturato ma poco avvincente.

E’ quindi necessario garantire un arco narrativo che mantenga alto l’interesse, e il senso di
ricompensa del giocatore nel proseguire: qui si compie il passo tra le primissime generazioni di
videogiochi, con alcune eccezioni, e le correnti moderne sempre più attente alle dinamiche e alle
innovazioni della narrazione nell’intrattenimento audiovisivo. Ma uno svolgimento con una
narrazione avvincente garantisce sì l’attenzione del giocatore, ma solo finché vi è interesse nella
storia.

Non dimentichiamo quindi che il nostro obiettivo, sin dall’inizio, è di veicolare il ritorno del
giocatore alla nostra opera, non importa il modo. E meccanica e trama, seppur fondamentali, non
sono le nostre uniche strade. Vi è infatti, ed infine, un aspetto apparentemente secondario, ma
affermato e adottato persino nelle strategie aziendali, che consiste nell’utilizzo di un sistema di
‘ricompense’ costituite dal conseguimento di premi (achievement, o trofei) al raggiungimento di
un obiettivo previsto dai game designer, e di cui ci occuperemo in seguito.

Siamo così al termine della nostra introduzione… adesso, occupiamoci del nostro videogioco!

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Introduzione al game design

  • 1. Cos’è un videogame? In cosa consiste il ‘game design’? Se ci atteniamo ad una definizione strettamente tecnica, il game design è la fase di progettazione delle meccaniche, ovvero delle regole, alla base del funzionamento di un gioco; a loro volta, le regole sono dei meccanismi d’interazione con il giocatore che producono lo stimolo di proseguire. Che lo stimolo sia dato dal divertimento, dall’immersione escapista, o altro, non importa. Nel Monopoly, sarebbe l’insiemedelleregolecontenutenelmanuale. Eppure,leregoledelMonopolynonesisterebberosenzalebanconotefittizie,iltabellonecon le locazioni, i dadi, le carte con le proprietà e le opportunità. E’ quindi compito del game designer produrre anche icontenuti necessari all’interazione con le regole. Ed icontenuti e le regole, se il giocatore non sapesse di essere un magnate che compete per il controllo della città, se ogni carta non fosse illustrata a tema, sarebbero troppo astratti perché il giocatore si immerga. E’ quindi compito del game designer creare anche una ‘backstory’, un’ambientazione, che sorregga le regole e i contenuti. E il gioco non sarebbe divertente, se queste regole non fossero state affinate in una lunga fase di ‘betatesting’, con partite su partite, adattando di volta in volta carte e locazioni e regole per raggiungere il maggior equilibrio. Ed anche in quest’ultima fase è coinvolto il game designer: quanto deve essere il gioco affidato al caso, e quantodeterministico,perchérisulti‘divertente’,‘stimolante’,o‘emozionante’?
  • 2. In cosa consiste il game design Il processo di game design è quindi in realtà molto più esteso della stesura di un manuale di regole: si tratta della supervisione generale di ogni singolo aspetto nella produzione di un videogame, dalla progettazione su carta alle ultime rifiniture, per assicurarsi che l’esperienza di gioco raggiunga gli obiettivi prefissati. E gli obiettivi possono essere i più disparati. Si dibatte ancora oggi sul videogame come forma d’arte, poiché la fusione tra letteratura, animazione, e interazione consente sviluppi in ogni direzione; si può volere accompagnare mano nella mano il giocatore in un mondo, sfidarne l’abilità, metterne l’intelletto alla prova, terrorizzarlo, scaricarne la frustrazione, mesmerizzarlo: anche uno solo di questi elementi è sufficiente allo scopo, ma non è infrequente vedere molti combinati.
  • 3. Esempi celebri In tutti questi casi, avremo raggiunto il successo soltanto se il giocatore sarà portato a tornare al nostro videogame; non importa che le sessioni di gioco siano brevi, come la sessione media di un videogame per iPhone, o interminabili, ma che il giocatore senta l’esigenza di ripetere l’esperienza. Myst mesmerizzava il giocatore e ne metteva alla prova l’intelletto catapultandolo in un’isola dai toni surreali e fantastici, senza offrire indizi sul perché egli fosse lì (The Witness di Jonathan Blow ripercorre oggi la stessa strada); Il Professor Layton ci chiede esplicitamente di risolvere degli enigmi da settimanale, e la metastoria reminiscente dei capolavori di Myiazaki ha il merito di renderli appaganti e non invadenti; Silent Hill terrorizza, mette l’intelletto alla prova, sfida l’abilità, e ci accompagna in un mondo agghiacciante in un sol colpo; i casual game (Zuma, Bejewelled) e gli arcade game (Bubble Bobble) offrono semplice relax sfidando la sola abilità del giocatore; i videogiochi della scena indie (Braid, VVVVV) stimolano invece il giocatore con delle meccaniche innovative.
  • 4. Abbiamo un posto in questo mercato? Se il giocatore sente l’impulso di tornare al vostro prodotto, qualunque meccanismo d’intesa si crei è valido. La stessa innovazione pura è un fattore secondario, importante soprattutto volete tentare di sfondare accettando una maggior percentuale di ‘rischio’ sulla riuscita del progetto. Nel solo mercato casual vi sono letteralmente centinaia di ‘cloni’ (giochi che mimicano l’architettura di un gioco, pur variando tutti gli ‘asset’) che vendono a volte quanto o più dell’originale: quando le meccaniche funzionano, i giocatori continuano a volere più dello stesso… e, tuttavia, minore è l’innovazione, maggiori sono i valori di produzione richiesti per l’inserimento sul mercato. Al contrario, ad un progetto dalla meccanica innovativa ed avvincente si condona un progetto artistico sì piacevole e coerente, ma privo dei valori di produzione dell’industria. Il primo segmento richiede un team di artisti, e con esso possibilmente un finanziamento (tratteremo in seguito le possibilità nate negli ultimi anni, come il Crowdsourcing), mentre al secondo segmento, orientato al mondo indipendente e della sperimentazione, possiamo mirare senza disporre di particolari risorse economiche iniziali.
  • 5. Scegliere il nostro pubblico Quindi, prima di tutto, è fondamentale visualizzare il nostro obiettivo. E, per farlo, dobbiamo aver chiaro chi sarà ad usufruire del nostro prodotto, ovvero avere ben chiara in mente la demografica a cui ci indirizziamo. Molte delle più grandi case di videogiochi (ad esempio Ubisoft, Capcom) hanno lamentato negli ultimi dieci anni vendite troppo basse rispetto ai costi di produzione; è stata attribuita la colpa alla pirateria, la riproduzione illegale dei videogiochi, e il PC venne considerato temporaneamente una piattaforma poco profittevole. Sono le case di Lost Planet, Resident Evil 5, Assassin’s Creed, Raving Rabbids: tutti giochi che nei costi di produzione e nella cinematicità mimicano Hollywood. Eppure, mentre questi colossi dibattevano sul declino della piattaforma PC, altre compagnie emergevano con fatturati di gran lunga superiori, proporzionalmente, all’investimento iniziale. Com’è possibile che la compagnia produttrice di Peggle, un semplice gioco ispirato in cui si gettano palline con l’obiettivo di illuminare dei pioli su una tavola, abbia dei fatturati paragonabili alle grandi produzioni?
  • 6. Alcuni dati demografici Da una ricerca di mercato di Pop Cap, noto produttore di giorchi casual di ampia distribuzione (piattaforme web, facebook, pc, mac, console, mobile) emerge che dei loro giocatori: • l’89% ha trenta o più anni • Il 79% appartiene al genere femminile L’avvento del casual gaming, e soprattutto del social networking, ha portato ad una demografica completamente nuova; compagnie note per giochi “hardcore” come Crytek, autrice di Crysis 1 e 2, hanno affermato ufficialmente in occasione del lancio della nuova console Ninendo Wii-U che il gaming “si sta diversificando, e non solo nei media adottati, ma nei diversi target group […] se si dà un’occhiata ai social network, il 50% o più dei giocatori sono ragazze”, ritenendo che se le console di nuova generazione favoriranno questi nuovi modelli di interazione sociale (già prominenti nel settore mobile e computer) vi saranno buone prospettive per un pubblico ancora più ampio.
  • 7. Dal videogame per ragazzi ai nuovi giocatori La risposta è la scelta del proprio pubblico: nel produrre giochi del costo medio di quaranta euro ed orientati ad un mercato per un range che va dai 15 ai 30 anni di età si deve far fronte a numerose problematiche; gli acquirenti sono giovani adolescenti, economicamente dipendenti dai genitori, spesso per spirito di ribellione meno inclini ad acquistare prodotti originali, e con altissime aspettative di spettacolarità nei prodotti che acquistano. Al contrario, il mercato di Peggle e dell’intera Pop Cap mira nei temi, nelle meccaniche e nei prezzi all’intera popolazione, e raggiunge in particolare le donne con più di trent’anni (l’89% dei loro giocatori sono donne, e il 76% di queste oltre i trent’anni): persone affermate, spesso con famiglia, stress da rilasciare, e delle entrate regolari. La pirateria delle grandi produzioni orientate a un pubblico giovanile è quindi una conseguenza dovuta ad una pessima ricerca di mercato: non hanno riflettuto oculatamente sulla loro ‘target audience’.
  • 8. Riflessioni dalla Game Developer Conference 2011 Thomas Grip di Frictional Games (Amnesia: The Dark Descent), facente parte della giuria dell’Indie Games Summit, nota come i videogame prodotti dall’industria vengano reclamizzati sulla stessa scatola con delle quantità ad indicare il valore del prodotto: quante armi, livelli, personaggi sono presenti; come, fa notare, se nell’ultimo film di Die Hard scrivessero “con tre armi in più del precedente”, idea ovviamente inconcepibile per un’opera d’arte quale un film o un romanzo. Si fa leva su come il videogame sia chiaramente un media artistico, ma come l’industria fatichi ad allontanarsi dal concetto di giocattolo; ma, come mostrato in precedenza, quella è la loro target audience. Tuttavia gli indipendenti sono lontani da logiche di mercato non sempre funzionali, e questo è il loro più grande vantaggio. I veri innovatori dell’industria di questa generazione sono stati a tutti gli effetti gli indipendenti, e la sperimentazione nei videogiochi, a differenza del cinema e della televisione, non solo diviene sempre meno un rischio, ma si tramuta spesso in una garanzia di successo.
  • 9. Slittamenti di paradigma e fruibilità delle periferiche, parte 1 Dagli anni ’90 alla metà del 2005 quasi tutte le innovazioni riguardavano quel che accadeva su schermo: profondità del colore, alta definizione, grafica 3D, rincorsa tecnologica sul lato macchina e nessuna vera innovazione sul lato utente. Nelle camere abbiamo uno schermo, una tastiera e un mouse, e nei saloni un televisore un joypad; i tentativi di innovare sono timidi e fallimentari. Nintendo, che non ha mai prodotto hardware rivoluzionario, introduce quindi una piattaforma mobile che intende rivoluzionare il modo in cui si fruisce della periferica: il Nintendo DS. Con due schermi, uno dei quali touch, ridefinisce la concezione tradizionale di gioco, obbliga gli sviluppatori a pensare sistemi di gioco alternativi, a decidere se impugnare la periferica come un libro, o orizzontalmente, ad usare contemporaneamente due quadri, ad usare un pennino come sistema di controllo. Si inizia a comprendere quanto sia importante l’esperienza utente; forte del successo, seguirà una strada altrettanto coraggiosa con la console da casa Wii.
  • 10. Slittamenti di paradigma e fruibilità delle periferiche, parte 2 Ma il vero innovatore di quest’ultima generazione informatica, è Apple: con uno schermo ad alta definizione, multitouch, accelerometri, la cancellazione dell’intermediario e del retail con l’appstore, ha ridefinito l’interazione tra macchina e utente, e generato una tipologia di mercato e di fruibilità della periferica completamente nuova. Ha costretto nintendo a dimezzare il costo del successore di Nintendo DS. E, col tempo, si è compreso come la chiave sia nella ricerca di nuovi paradigmi: Microsoft tenta persino di eliminare l’oggetto, la periferica fisica, con Kinect e la sua interpretazione dei movimenti tramite un sistema di sensori, telecamere ed intelligenza artificiale. E la domotica, l’integrazione multimediale con la casa, diviene fondamentale: tutto si trasmette via internet, con negozi unificati. Una prospettiva letterariamente preoccupante che però garantisce maggiori vantaggi agli sviluppatori, che vedono l’intero pubblico accessibile da un solo portale, e le entrate dei loro guadagni distribuite equamente e senza una struttura piramidale ed elitaria a limitarne: nasce lo sviluppo indipendente anche su console casalinghe e mobili.
  • 11. Quantità ed eccesso contro semplicità Come per qualsiasi disciplina che contenga una componente artistica, non esistono regole ferree, una procedura passo passo per realizzare un design efficace, ma solo buoni consigli. E la stessa struttura, una volta acquisita padronanza degli strumenti, può essere decostruita; il genere ‘hidden object’ è ad esempio fondato su quello che è stato considerato per molti anni un difetto del game design. Ma, prima ancora di analizzare i generi più noti, partiamo da un principio fondamentale: un buon gioco si basa su di un’idea semplice e vincente. Se state già aggiungendo personaggi, ambientazioni, armi, power-up… o avete una grandissima padronanza di quel che state facendo, e un grane team, o il vostro gioco finirà rapidamente nel dimenticatoio. Se lo completerete. Prendiamo, ad esempio, quanto più di distante ci sia dal nostro focus: i cosiddetti ‘First Person Shooter’. Per quanto il mercato sia letteralmente inondato dal genere, non vi sono che una manciata di franchise nell’immaginario pubblico (Half Life, Halo, Modern Warfare, Doom, Medal of Honor). Eppure, ne esiste una quantità sconfinata, e si incentrano tutti su vasti livelli lineari, una buona manciata di armi, nemici e mostri di ogni genere. Hanno richiesto alti costi di sviluppo, e hanno certamente coperto le spese, ma in dieci anni non li ricorda più nessuno.
  • 12. Un successo nato dalla semplicità Nel nostro caso, ed è lo scenario più comune e commercialmente sicuro, utilizzeremo come base dei giochi precedentemente realizzati da cui deriveremo parte delle regole, mentre le restanti verranno realizzate in sintonia con una backstory completamente nuova… forse persino innovativa e sperimentale, nonostante le umili e note origini! Braid, in fondo, si ispira a classici come Super Mario Bros… per creare un’opera di poesia ermetica, ed un gameplay che in tanti non potrebbero neppure concepire. Prendiamo un esempio tanto lontano dal nostro genere, eppure prezioso nella lezione che ha offerto all’intera industria.
  • 13. Un successo nato dalla semplicità, parte 2 Dopo anni di giochi che non facevano che aggiungere personaggi, armi, mostri, giunge un gruppo di studenti dell’università Digipen: realizzano un prototipo chiamato Narbacular Drop, un piccolo gioco a sfondo fantastico. Valve, la software house nota per la serie Half-Life, assume il team, e nasce Portal. In Portal abbiamo una sola arma (che non uccide), un gioco che si completa in sole tre ore e mezza, livelli composti da semplici stanze, niente mostri o nemici: solo, occasionalmente, delle torrette. Eppure diviene un record di vendite, e resta vivido nell’immaginario dei giocatori. Il concetto è il seguente: veniamo sottoposti in un laboratorio ad una serie di test, composti da semplici stanze da cui uscire, e ci viene data una sola arma. Con un tasto spariamo sulla parete una macchia gialla, e con un altro ne possiamo sparare un’altra blu, su di un’altra parete: le macchie svaniscono, e si crea un portale. Entrando da una parte usciamo dall’altra. E la voce del computer che ci guida nei vari test che si comporta come un partner con evidenti disturbi mentali, in una delle migliori caratterizzazioni di sempre di un supercomputer: è in grado di incutere prima un sorriso e poi angoscia nell’arco di un battito di ciglia. Portal è del 2007; la tecnologia per questo gioco esisteva già nel 1998, e venne persino reclamizzata dal team che la sviluppò, Epic Megagames, ma tutti erano così presi dall’aggiungere carne al fuoco, da non aver notato il vaso di pandora.
  • 14. Dalla meccanica di gioco al mantenere alto l’interesse Le lezioni che giungono da questo semplice gioco sono molteplici, e rappresentano la migliore ispirazione, nel loro minimalismo, per comprenere cosa renda buono un design. E sono applicabili anche al nostro futuro, perché Portal nasce in fondo dal mondo indipendente, dalla sperimentazione di pochi che avevano la possibilità di non aderire alle logiche di mercato della clonazione delle idee. Ma un gioco che anche solo nella meccanica raggiunge l’eccellenza, sarebbe monotono se avesse solo una ripetizione di prove d’abilità e d’ingegno da superare. Entra quindi in gioco il fattore emozionale: un videogame necessità di una meccanica alla base che garantisca la progressione, così come in un romanzo d’investigazione è necessario un mistero su cui indagare, ma questa porterebbe rapidamente alla ripetizione e alla noia. Entra quindi in gioco la narrazione.
  • 15. Narrazione, senso di progressione e ricompense Entra quindi in gioco il fattore emozionale: un videogame necessità di una meccanica alla base che garantisca la progressione, così come in un romanzo d’investigazione è necessario un mistero su cui indagare, ma questa porterebbe rapidamente alla ripetizione e alla noia… proprio come in un romanzo ben strutturato ma poco avvincente. E’ quindi necessario garantire un arco narrativo che mantenga alto l’interesse, e il senso di ricompensa del giocatore nel proseguire: qui si compie il passo tra le primissime generazioni di videogiochi, con alcune eccezioni, e le correnti moderne sempre più attente alle dinamiche e alle innovazioni della narrazione nell’intrattenimento audiovisivo. Ma uno svolgimento con una narrazione avvincente garantisce sì l’attenzione del giocatore, ma solo finché vi è interesse nella storia. Non dimentichiamo quindi che il nostro obiettivo, sin dall’inizio, è di veicolare il ritorno del giocatore alla nostra opera, non importa il modo. E meccanica e trama, seppur fondamentali, non sono le nostre uniche strade. Vi è infatti, ed infine, un aspetto apparentemente secondario, ma affermato e adottato persino nelle strategie aziendali, che consiste nell’utilizzo di un sistema di ‘ricompense’ costituite dal conseguimento di premi (achievement, o trofei) al raggiungimento di un obiettivo previsto dai game designer, e di cui ci occuperemo in seguito. Siamo così al termine della nostra introduzione… adesso, occupiamoci del nostro videogioco!