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Seduta n. 374 del 28/9/2010

                           TESTO AGGIORNATO AL 3 FEBBRAIO 2011

                                       ATTI DI CONTROLLO

                          PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI



ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO
TURCO. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della difesa, al Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute. - Per sapere -
premesso che:
secondo quanto riporta Il Manifesto di venerdì 24 settembre 2010, nella collina sopra La Spezia
sarebbero stati abbandonati amianto, solventi delle industrie farmaceutiche, ceneri e scarti della
Union Carbide Unisil Spa;
da La Spezia, verso Lerici, si dipana una piccola strada che si attorciglia su Pitelli nome che riporta
alla storia delle navi a perdere e al traffico delle scorie tossiche e radioattive. Pitelli è forse la più
grande discarica di scorie tossiche d'Europa. Dal 1997 è anche l'unico processo sui grandi traffici di
rifiuti non archiviato. È stato il procuratore Luciano Tarditi ad interessarsi al traffico che dagli
anni Settanta incombeva su Pitelli e sulla città di La Spezia. Le indagini partirono quando Tarditi
indagò sul proprietario della discarica di Pitelli, Orazio Duvia, trovando la contabilità in nero che
per decenni aveva alimentato la politica complice della città. Una rete di legami che partiva dal
gruppo Duvia;
il peso di quella discarica incastonata nella collina di Pitelli risultò chiaro quando il Corpo forestale
dello Stato e i periti entrarono nella zona dove funzionavano i bruciatori, tra i piazzali dove
venivano accumulati i bidoni, in mezzo ai campi intrisi di sostanze pericolosissime. Tra il 1983 e il
1985 - si legge sull'ordinanza di rinvio a giudizio dei gestori della discarica - furono sversate
«sostanze chimiche di laboratorio, provenienti dalla ditta Union Carbide Unisil Spa di Termoli». (Si
tratta della stessa società che a Bophal, in India, uccise 2.259 persone, nel 1984). Inoltre, solventi
organici delle industrie farmaceutiche, ceneri delle centrali Enel, amianto della Nuova Sacelit,
fanghi di risulta, polveri di abbattimento dei fumi, ceneri pesanti degli inceneritori, fanghi organici
e rifiuti speciali vari, pulper, toner esausti e - probabilmente - diossine arrivate da Seveso. Una lista
infinita e parziale, perché ci sono aree dove nessuno riuscì a verificare quello che era stato sversato;
«Dobbiamo ricordarci che quella zona ha un alto valore strategico e militare», raccontò Tarditi
durante un'audizione davanti a una delle tante commissioni parlamentari che hanno indagato sulla
morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e sul traffico di rifiuti. È il contesto di Pitelli, la sua posizione
geografica, la fitta rete di tunnel e bunker di origine militare che la collegano con la Marina. «Fu
segnalata - racconta Tarditi - la presenza di numerose gallerie. La fonte ci disse chiaro e tondo che
si trattava di tunnel di collegamento fra le polveriere della Marina, risalenti al periodo bellico, che
contenevano (...) in particolare nervini radianti»;

la vicinanza tra la gestione della discarica e la Marina militare ancora oggi pone non pochi
interrogativi: «Nel libro paga di Orazio Duvia - spiegò il magistrato davanti alla Commissione
parlamentare sui rifiuti - figuravano ufficiali ed esponenti della Marina e lo stesso Duvia gestiva lo
sgombero degli Rsu dall'arsenale»;
tra le carta che passarono sulla scrivania della procura di Asti in un'altra inchiesta sul traffico di
rifiuti verso la Somalia c'era, tra l'altro, un rapporto pesante, firmato da ufficiali della direzione
investigativa antimafia di Genova, che coinvolgeva anche la città di La Spezia: «È chiaro il ruolo
dei massoni spezzini quali mittenti di materiale bellico nell'area dei corno d'Africa-Somalia»,
scrivevano il 19 maggio del 1997 gli investigatori della direzione investigativa antimafia. Nel
rapporto erano poi analizzate le informazioni confidenziali provenienti dalla Somalia, con i punti di
interramento delle scorie nucleari, i dettagli dello scambio immondo tra aree destinate a contenere i
rifiuti e le armi del nostro made in Italy. Traffici che ruotavano attorno a La Spezia, tra le fabbriche
d'armi, i cantieri navali, i moli riservati e i veleni di Pitelli;
le decine di navi sparite, cariche di scorie, avrebbero qualche legame con la collina di Pitelli. Da La
Spezia partì la Jolly Rosso della Compagnia Ignazio Messina, diretta a Beirut per recuperare i fusti
tossici inviati in Libano dalla Jelly Wax, società protagonista dei viaggi dei veleni verso l'Africa e
l'America Latina negli anni Ottanta, È sempre da La Spezia che la stessa nave, dopo aver cambiato
nome in Rosso, ripartì dopo più di un anno, per poi spiaggiarsi vicino ad Amantea. Una nave che il
Sismi teneva sotto costante controllo fin dal 1988 e, in seguito, finita nell'inchiesta del capitano De
Grazia. Il caso della Rosso è stato archiviato nel maggio del 2009, come gran parte dei processi
sulle navi e sulle rotte dei veleni;
le udienze di primo grado per Pitelli sono riprese ora davanti al tribunale di La Spezia. La sentenza
dovrebbe arrivare entro la fine del 2010;
fonti confidenziali hanno raccontato di una vera e propria seconda Pitelli, nascosta nelle gallerie
militari: «Qui si nascondono i peggiori veleni, come le armi chimiche dismesse» -:
di quali dati disponga il Governo in merito a quanto esposto in premessa e quali iniziative di
competenza intendano adottare al fine di accertare la presenza di sostanze pericolose nell'area
descritta e fare luce sull'intera vicenda.
(4-08772)




       Il manifesto 24.09.2010

        | Andrea Palladino

       Pitelli dei veleni




       La discarica di Pitelli


       Ci sono stanze nel nostro paese dove con lavoro certosino e sistematico - quando gli occhi indiscreti sono
       lontani - qualcuno disfa la complessa tela di Penelope. Ci sono segreti che ormai appartengono alla storia della
       Repubblica ed altri che ancora oggi avvelenano la nostra vita. La storia dell'immenso e strutturato traffico delle
       scorie tossiche e radioattive non ha un colpevole. Ha, però, migliaia di vittime, dalle coste della Calabria fino
       alle colline liguri, dove ogni giorno si contano nuovi casi di tumori, dove il futuro stesso dell'Italia viene
       sacrificato alla ragion di Stato dei traffici più oscuri. La tela fitta delle rotte dei veleni ha una capitale, non
       dichiarata, ma ben conosciuta. Ha un nome sublime, incredibilmente bello, il golfo dei poeti. Sono le colline
       quasi brutali che scendono sul la città di La Spezia, arrivando a specchiarsi tra i cantieri navali, le basi militari, il
       porto. Dalla città, verso Lerici, si dipana una sorta di budello, una piccola strada che si attorciglia su Pitelli. Un
       nome che riporta alla storia delle navi a perdere, dei vascelli fantasma affondati nel Mediterraneo.
       Pitelli è forse la più grande discarica di scorie tossiche d'Europa. Dal 1997 è anche l'unico processo sui grandi
       traffici di rifiuti che non è finito archiviato. È stato un procuratore venuto da un'altra regione, il Piemonte, a
       scoperchiare la cappa di omertà che dagli anni '70 schiacciava Pitelli e la città di La Spezia. Luciano Tarditi - il
pm di Asti che probabilmente sfiorò una parte della verità sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin - ha cercato
     di darsi una spiegazione su questo paradosso giuridico: «Fu illuminante per noi il discorso che proveniva da
     una persona della quale avevamo e abbiamo la massima stima, il dottor Franz: "Se lavorate voi da fuori, è
     molto meglio"», spiegò in una commissione parlamentare pochi anni fa. Perché dietro i veleni di Pitelli si
     nascondono patti che nessuno può raccontare, gruppi di pressione talmente forti da condizionare interi pezzi
     delle istituzioni. Le indagini partirono quasi per caso, quando Tarditi sta va indagando su un traffico di rifiuti nella
     zona di Asti. Seguendo le rotte delle scorie scoprì il ruolo che la collina di Pitelli svolgeva nella vasta rete dei
     monnezzari italiani ed europei. Indagò sul dominus di quella discarica, Orazio Duvia, trovando la contabilità in
     nero che per decenni aveva alimentato la politica complice, silenziosa, connivente della città. Una rete di legami
     che partiva dal gruppo Duvia e che non risparmiava nessuno, neanche l'allora partito comunista.
     Il peso di quella discarica incastonata nella collina di Pitelli risultò chiaro quando il Corpo forestale dello Stato e i
     periti entrarono nella zona dove funzionavano i bruciatori, tra i piazzali dove venivano accumulati i bidoni, in
     mezzo ai campi intrisi di sostanze pericolosissime. Basta un nome per fare accapponare la pelle: tra il 1983 e il
     1985 - si legge sull'ordinanza di rinvio a giudizio dei gestori della discarica - furono sversate «sostanze chimiche
     di laboratorio, provenienti dalla ditta Union Carbide Unisil Spa di Termoli». La stessa società che a Bophal, in
     India, uccise 2.259 persone, nel 1984. E poi solventi organici delle industrie farmaceutiche, ceneri delle centrali
     Enel, amianto della Nuova Sacelit, fanghi di risulta, polveri di abbattimento dei fumi, ceneri pesanti degli
     inceneritori, fanghi organici e rifiuti speciali vari, pulper, toner esausti e - probabilmente - diossine arrivate da
     Seveso. Una lista infinita e parziale, perché ci sono aree dove nessuno riuscì a verificare quello che era stato
     sversato.
     Il pm Luciano Tarditi aveva ben chiaro il peso di quell'inchiesta. «Dobbiamo ricordarci che quella zona ha un
     alto valore strategico e militare», raccontò durante un'audizione davanti a una delle tante commissioni
     parlamentari che hanno indagato sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e sul traffico di rifiuti. È il contesto di
     Pitelli, la sua posizione geografica, la fitta rete di tunnel e bunker di origine militare che la collegano con la
     Marina a far capire che questa non è una storia qualsiasi di veleni e criminali. «Fu segnalata - racconta Tarditi -
     la presenza di numerose gallerie. La fonte ci disse chiaro e tondo che si trattava di tunnel di collegamento fra le
     polveriere della Marina, risalenti al periodo bellico, che contenevano (...) in particolare nervini radianti». Una
     vicinanza tra la gestione della discarica e la Marina militare che ancora oggi pone non pochi interrogativi: «Nel
     libro paga di Orazio Duvia - spiegò il magistrato davanti alla commissione parlamentare sui rifiuti - figuravano
     ufficiali ed esponenti della Marina e lo stesso Duvia gestiva lo sgombero degli Rsu dall'arsenale».
     Tra le carte che passarono sulla scrivania della Procura di Asti in un'altra inchiesta sul traffico di rifiuti verso la
     Somalia c'era, tra l'altro, un rapporto pesante, firmato da ufficiali della Direzione investigativa antimafia di
     Genova. Anche in questo caso la città di La Spezia, con le sue reti invisibili di complicità, era al centro
     dell'attenzione: «È chiaro il ruolo dei massoni spezzini quali mittenti di materiale bellico nell'area del corno
     d'Africa-Somalia», scrivevano il 19 maggio del 1997 gli investigatori della Dia. Nel rapporto erano poi analizzate
     le informazioni confidenziali provenienti dalla Somalia, con i punti di interramento delle scorie nucleari, i dettagli
     dello scambio immondo tra aree destinate a contenere i rifiuti e le armi del nostro made in Italy. Traffici che
     ruotavano attorno a La Spezia, tra le fabbriche d'armi, i cantieri navali, i moli riservati e i veleni di Pitelli.
     La Spezia era anche la meta finale dell'ultimo viaggio del capitano di vascello Natale De Grazia, morto, forse
     avvelenato, il 13 dicembre del 1995. Era nel porto sovrastato dalla collina dei poeti che si nascondeva - e
     ancora si nasconde - la chiave per capire che fine hanno fatto decine di navi sparite in mare, probabilmente
     cariche di scorie. Da La Spezia partì la Jolly Rosso della compagnia Ignazio Messina, diretta a Beirut per
     recuperare i fusti tossici inviati in Libano dalla Jelly Wax, società protagonista dei viaggi dei veleni verso l'Africa
     e l'America Latina negli anni '80. Ed è sempre da La Spezia che la stessa nave, dopo aver cambiato nome in
     Rosso, ripartì dopo più di un anno, per poi spiaggiarsi vicino ad Amantea. Una nave che il Sismi teneva sotto
     costante controllo fin dal 1988 - come si può leggere nei rapporti firmati dall'agente Ettore, pubblicati nei mesi
     scorsi nel libro Avvelenati dei giornalisti calabresi Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì - e finita nell'inchiesta
     del capitano De Grazia. Un caso, quello della Rosso, archiviato nel maggio dello scorso anno, come gran parte
     dei processi sulle navi e sulle rotte dei veleni.
     Le udienze di primo grado per Pitelli sono riprese lunedì scorso davanti al Tribunale di La Spezia. La sentenza
     dovrebbe arrivare entro la fine di quest'anno. Gran parte dei testimoni - ex lavoratori della discarica - durante il
     processo spesso si sono tirati indietro, forse seguendo suggeritori interessati. Nessuno parla a La Spezia di
     quello che accade dove difficilmente lo sguardo troppo indiscreto della stampa può arrivare. Nessuno racconta
     quello che oggi avviene nel Porto, tra le gru che caricano i container, sui moli dove arrivano le navi con le
     bandiere degli stati più improbabili. Qualche giorno fa qui è morto un portuale, una delle tante morti bianche dei
     nostri porti. Al sit-in organizzato dal Prc c'erano appena una ventina di persone: nessun sindacato, nessun
     lavoratore. Non c'è la forza storica dei camalli di Genova, il porto è gestito da decine di piccole aziende dove
     spesso i diritti non valgono nulla.
     Quella che appare nel processo in corso è probabilmente solo una piccola parte della verità. Fonti confidenziali
     - che mai hanno avuto il coraggio di deporre davanti ai magistrati - hanno raccontato di una vera e propria
     seconda Pitelli, nascosta nelle gallerie militari: «Qui si nascondono i peggiori veleni, come le armi chimiche
     dismesse». Voci, solo voci, sospetti che mai nessuno ha potuto andare a verificare, anche perché a chi
     svolgeva l'inchiesta venne opposto il segreto militare, come ricordò l'ispettore della forestale De Podestà alla
     commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti guidata da Massimo Scalia.




FUORIPAGINA
07/01/2011

         | Andrea Palladino

        "Servizi" e rifiuti tossici, si riapre il caso




        Il capitano
        Natale De Grazia


             È un'aria strana quella che tira dalle parti di palazzo San Macuto. Via del Seminario, in piena Roma
               barocca, è sempre stata la sede dei misteri italiani. Qui passò Tina Ansel mi, quando presiedeva la
          commissione sulla P2. Qui si affacciava Carlo Taormina, quando preparava la vergognosa relazione finale
         sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E qui la commissione bicamerale sui rifiuti, presieduta da un altro
                avvocato celebre, Gaetano Pecorella, prepara oggi la fase finale del dossier sulle navi dei veleni.
            La testimonianza di Francesco Fonti e la vicenda del cargo Cunski sembrano ormai archiviate, sepolte.
         Manca una spiegazione decente su questa vicenda, qualcuno che racconti perché per cinque anni si è dato
        credito alla storia dell'ex collaboratore di giustizia che oggi tutti giudicano inattendibile. O è un folle, oppure le
                                     sue parole nascondevano - e nascondono - qualcos'altro.
          C'è una pista che preme particolarmente alla commissione. Un filo che riporta al 1995, ai mesi che hanno
         preceduto la morte del capitano De Grazia, l'ufficiale della marina - medaglia d'oro alla memoria - che stava
           ricostruendo le rotte della navi a perdere, delle carrette cariche di scorie affondate nel mar Mediterraneo.
              Indagini che sono morte insieme a lui, che nessun altro uomo della nostra Marina Militare ha avuto il
                                                   coraggio e la forza di riprendere.
         Nei mesi scorsi sono entrati in gioco i servizi di sicurezza, vero enzima dei segreti italiani. Tra le carte della
          commissione Pecorella c'è un documento che promette rivelazioni scottanti. È datato 11 dicembre 1995, e
            dimostrerebbe - secondo alcune indiscrezioni - un finanziamento proveniente dal governo Dini ai servizi
        italiani per la gestione di un traffico di rifiuti nucleari e di armi. Il documento sarebbe ancora secretato, e non
         ne conosciamo la provenienza, che, in questi casi, non è un fattore secondario. Ma è la data del documento
            a colpire, a ricollegarsi - in una incredibile coincidenza temporale - con la morte del capitano di corvetta
                                                            Natale De Grazia.


                                                     Nome in codice Pinocchio

          È il 13 maggio 1995. Davanti agli uomini della forestale guidati dal colonnello Rino Martini si presenta una
           fonte confidenziale. Viene ascoltato con il patto di non rivelare la sua identità, utilizzando un articolo del
           codice di procedura penale specifico, che serve a tutelare i confidenti. Il suo racconto punta il dito su un
        personaggio chiave del mondo delle scorie pericolose, Orazio Duvia. È un imprenditore di La Spezia, a capo
         della mega discarica di Pitelli, una vera e propria piattaforma logistica dei rifiuti tossici. Il confidente - che si
        fa chiamare, con una certa ironia, Pinocchio - spiega quali sono i presunti legami di Duvia con il mondo delle
        fabbriche di armi e con quel groviglio di poteri che ancora oggi dominano la città di La Spezia. Alla fine della
           sua lunga deposizione parla di una nave, affondata al largo delle coste ioniche - a capo Spartivento - la
                Rigel. Un cargo che, secondo "Pinocchio", era pieno di «materiale nucleare (uranio additivato)».
         La testimonianza è fondamentale. È la prima volta che nell'inchiesta allora condotta dalle Procure di Reggio
        Calabria - Francesco Neri - e di Matera - Nicola Maria Pace - appare la pista della nave Rigel. Quel verbale è
                                                     un vero punto di svolta.


                                                         «Affondamenti sospetti»

          Il periodo tra il maggio e il dicembre del 1995 è frenetico. Natale De Grazia è la persona del gruppo che si
          dedica alla ricostruzione delle rotte delle navi a perdere, a partire dalla Rigel. Vengono acquisiti gli atti del
         processo contro gli armatori e i caricatori della nave, già accusati di truffa all'assicurazione e affondamento
         doloso dalla Procura di La Spezia. Un processo terminato con una condanna fino al terzo grado per il reato
         di affondamento doloso, mentre l'ipotesi dell'associazione per delinquere è caduta nel corso del processo.
Rileggere oggi quelle carte conservate negli archivi del Tribunale di La Spezia è però fondamentale per
    capire il contesto dell'affondamento della nave Rigel, sospettata di aver trasportato uranio additivato.
   Nell'ordinanza di rinvio a giudizio degli imputati, il giudice istruttore di La Spezia parla non di un singolo
      affondamento, ma di tante navi affondate in maniera dolosa e sospetta. L'ipotesi era che esistesse
«un'associazione criminosa avente lo scopo di commettere più reati di naufragio doloso e truffe aggravate ai
  danni di varie società di assicurazione». Più naufragi, non solo la Rigel. Ed era questa la pista seguita da
 Natale De Grazia e la prima, solida conferma giudiziaria dell'esistenza di diverse navi disperse nelle acque
                 del Mediterraneo. Cosa trasportavano? Chi ha organizzato l'affondamento?


                                              Una questione di Stato

I magistrati si rendono subito conto che quell'indagine è esplosiva. Pensare a traffico di rifiuti nucleari, gestiti
 da gruppi massonici e criminali, per poi essere gettati in mare, faceva tremare i polsi anche ad investigatori
    testardi come De Grazia. Perché era evidente che un traffico del genere non poteva avvenire senza la
copertura di parti importanti dello stato. Pensando, poi, al centro della rete, la città di La Spezia, sede di basi
Nato, della Marina Militare, del centro di addestramento dei reparti speciali, di fabbriche di armi, era evidente
            che far uscire una nave carica di uranio non poteva essere un gioco per semplici truffatori.
  E così i magistrati in quei mesi scrissero al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Lo ricorda
    Francesco Neri, nella sua testimonianza del 1997 durante l'inchiesta per la morte di Natale De Grazia:
«Ricordo che unitamente al collega Pace della Procura circondariale di Matera comunicammo al Capo dello
Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano
   essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell'ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiesi al
  direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di
  rifiuti radioattivi con navi». Informative dei servizi poi realmente confluite negli incartamenti dell'inchiesta.
                     Dunque, l'intelligence italiana conosceva sicuramente l'indagine sulle navi.


                                               Un tragico dicembre

Natale De Grazia era sul punto di chiudere le indagini. Aveva già programmato di utilizzare le festività di fine
   anno per preparare un rapporto finale, con le conclusioni della lunga inchiesta. Il sei dicembre a Reggio
 Calabria viene sentito - per la seconda volta - il teste "alfa alfa", ovvero Aldo Anghessa. Oscuro trafficante,
 fortemente sospettato di agire spesso per interessi non chiari o come agente provocatore, due giorni prima
     del ponte dell'immacolata depone davanti a Natale De Grazia. E introduce un nuovo nome, che sarà
  fondamentale per l'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, Giampiero Sebri. «È disposto a collaborare», spiega
    Anghessa. Sebri qualche anno più tardi - nel 1997 - deporrà a lungo davanti ai magistrati della Dda di
     Milano, raccontando di una organizzazione internazionale specializzata nel traffico dei rifiuti nucleari.
 Indicherà anche Giancarlo Marocchino e l'ufficiale del Sisde presente in Somalia nel marzo del 1994, Luca
      Rajola Pescarini, come personaggi coinvolti, a suo dire, nel traffico. Per quelle dichiarazioni venne
     condannato per calunnia, condanna penale poi revocata qualche mese fa dalla Corte di Cassazione.
Quattro giorni dopo l'interrogatorio Natale De Grazia, insieme al maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta,
riceve sei deleghe dal procuratore Neri, per compiere indagini a La Spezia e a Como. Chi doveva incontrare
 De Grazia non lo sappiamo. Il 12 dicembre parte e a mezzanotte viene stroncato da un arresto cardiaco, in
                                            circostanze mai chiarite.


                                                  I servizi segreti

Il documento arrivato nei mesi scorsi negli uffici della commissione Pecorella che dimostrerebbe l'erogazione
 di fondi ai servizi segreti per la gestione dei rifiuti nucleari e di armi ha la data - secondo quanto riportato dal
     quotidiano Terra - dell'11 dicembre 1995, ovvero il giorno prima del viaggio di De Grazia. Il capitano di
   corvetta sentiva il pericolo come vicino, vicinissimo. Lo raccontava al cognato, mentre da qualche mese -
    dopo una perquisizione decisamente anomala a Roma - aveva il timore di entrare in contrasto con pezzi
         importanti dello stato. Sapeva di essere vicino alla verità, e questo lo preoccupava. Quello che
     probabilmente non sapeva era che quello stesso stato che gli pagava lo stipendio per bloccare i traffici
criminali di rifiuti e di armi, finanziava - segretamente - chi quei traffici li copriva o, addirittura, li organizzava.
Il manifesto
                 Venerdì 11 marzo 2011 IL MANIFESTOABBONAME NTISTOREARCHIVI IO
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    06 POLITICA & SOCIETÀ
    11.03.2011

           APERTURA       | di Andrea Palladino


    VELENI D'ITALIA
    La collina dei veleni è senza colpevoli
    Tutti assolti perché «il fatto non sussiste». Si conclude nel nulla il
    processo sul sotterramento di rifiuti tossici nella discarica spezzina,
    che ha provocato uno dei peggiori disastri ecologici nella storia
    d'Italia. A nulla sono servite le denunce presentate da associazioni
    e cittadini. Dopo 15 anni di inchieste, tutti assolti gli undici imputati
    per il disastro ambientale di Pitelli, a La Spezia.

    È un silenzio plumbeo quello che ieri è calato sulla collina dei veleni. La discarica di Pitelli
    - che sovrasta il golfo dei poeti di La Spezia - è ormai chiusa dal 1996, quando la forestale
    sequestrò definitivamente gli impianti, eseguendo un ordine arrivato dalla procura di Asti.
    Ma le quattro vasche cariche di veleni, che i tecnici ritengono ormai non più bonificabili,
    rimarranno come un monumento eterno all'Italia dell'impunità.
    Non c'è un colpevole, non è stato commesso nessun reato, questo hanno detto i giudici,
    dopo una camera di consiglio di poche ore, terminata con la sentenza di assoluzione per
    tutti gli imputati. «Il fatto non sussiste», recita con freddezza il codice. C on un dubbio
    finale, contenuto nel secondo comma dell'articolo 530 del codice di procedura penale,
    citato nel dispositivo, che corrisponde grosso modo all'insufficienza di prove del vecchio
    codice di procedura penale.
    Ora la città di La Spezia rimarrà ancora una volta sola di fronte ad un dubbio, che si
    trascina da decenni: come è stato possibile veder crescere la più grande discarica di rifiuti
    industriali nel mezzo di una zona che era stata dichiarata a tutela paesaggistica?
    «Qui per la legge non si potev a neanche cogliere un fiore», aveva spiegato Roberto
    Lamma, avvocato di Legambiente, parte civile nel processo. Eppure dall'agosto del 1976
    Orazio Duvia, un imprenditore con un passato sostanzialmente incolore e sconosciuto,
    aveva costruito un vero e proprio impero della monnezza sui terreni che dominano il golfo
    di La Spezia. Roba pesante, a leggere le perizie. Fusti che provenivano da tutta Italia,
svuotati in quattro invasi costruiti uno sopra l'altro, grazie all'intero sistema politico,
amministrativo e giudiziario che per anni non ha voluto vedere quello che stava
accadendo.
Ci volle la tenacia di Luciano Tarditi, un pubblico ministero di Asti, per scoperchiare il vaso
di Pandora di Pitelli. «I colleghi di La Spezia mi dissero che data la gravità del pr oblema -
raccontò Tarditi davanti alla commissione rifiuti presieduta da Massimo Scalia - sarebbe
stato opportuno che se ne occupasse una procura di fuori». Un'ombra che pesava sulla
città che per un decennio aveva ignorato le tante denunce presentate da c ittadini e
associazioni ambientaliste sulla discarica che cresceva sulla collina. Un sospetto che si
rafforzò quando si scoprì che alcuni ufficiali di polizia giudiziaria svolgevano un secondo
lavoro pomeridiano negli uffici di Orazio Duvia, il padrone di Pitelli.
Ci vorranno novanta giorni ora per poter leggere le motivazioni di una sentenza che -
codice alla mano - lascia aperta la porta del dubbio. I giudici dovranno chiarire perché non
può essere considerato «disastro ambientale doloso» lo sversamento c ontinuo e
indisturbato di veleni per i vent'anni di funzionamento della discarica. Dovremo capire per
quale motivo Orazio Duvia confessò, quando venne arrestato nel 1996, di aver
sistematicamente corrotto «funzionari istruttori, dipendenti di enti pubblici , partiti, politici
con ruoli decisionali», come si legge nel rinvio a giudizio. Una accusa, quella di corruzione,
che venne confermata dal ritrovamento di un vero e proprio brogliaccio delle tangenti, un
libro a partita doppia dei soldi versati per anni. Un reato finito in prescrizione, già diversi
anni fa.
Alla fine della fase preliminare del processo era rimasto in piedi solo il reato di disastro
ambientale doloso, che, per la sua gravità, ha tempi di prescrizione molto più lunghi. Un
vero e proprio macigno che pendeva sulla testa degli undici imputati coinvolti. Non tutti si
sentivano così sicuri di arrivare ad una assoluzione, di fronte alla gravità delle accuse:
Giancarlo Motta - uno dei principali soci di Orazio Duvia nella Sistemi Ambientali, l'impresa
che ha gestito l'ultima fase della storia di Pitelli - aveva chiesto di poter patteggiare. Non ci
fu l'accordo con la Procura, che riteneva la pena proposta eccessivamente ridotta. Un
episodio processuale che oggi suona come una beffa.
Le udienze si son o svolte nella sostanziale indifferenza della città. Il principale imputato,
Orazio Duvia, non si è mai fatto vedere in Tribunale, preferendo mandare il suo braccio
destro Franco Bertolla ad annotare quello che accadeva. Non sono solo gli imputati i
grandi assenti. Buona parte delle testimonianze sono state titubanti, non confermando
molto spesso il quadro emerso durante le indagini preliminari. «Spesso i testimoni
venivano ammoniti che quello che avrebbero dichiarato poteva essere utilizzato contro di
loro», ricorda Corrado Cucciniello dei comitati di Pitelli. Il collegio non ha poi ritenuto di
ammettere la visione di un video realizzato dalla Forestale di La Spezia, che descriveva
nei dettagli come si era trasformata la collina dei veleni. Immagini che potevano creare
suggestione, venne detto.
Eppure le indagini condotte dalla forestale di La Spezia erano state puntigliose, precise
nella descrizione dei rifiuti accolti dalla discarica di Pitelli. «Tre milioni di kg di rifiuti tossico
nocivi, scarti di specialità medicinali dell'industria farmaceutica, 17.800 tonnellate di scorie
da attività di termodistruzione di rifiuti solidi urbani, 116 tonnellate di fanghi, solventi vari
quali toluene, xilene e benzene, fusti contenti terre di bonifica, solventi organici , ceneri
leggere, fibrocemento, polveri di abbattimento dei fumi di fonderia, scorie alluminose e
altro materiale non identificato», recitava il capo di imputazione. Sostanze in grado di
distruggere ogni forma di vita dove venivano sversate. O di uccidere, se inalate o ingerite
da un essere umano. Indagini che non sono bastate per accertare il disastro ambientale.
È impressionante oggi scorrere il libro nero di Pitelli, ovvero la cartina d'Italia virtuale che
mostra la provenienza di buona parte dei rifiuti tossici. Oltre a La Spezia i luoghi d'origine
dei veleni di Pitelli andavano dalla Lombardia alla Toscana, dal Piemonte al Molise, in una
sorta di nodo centrale dove confluivano carichi di veleni e interessi mai approfonditi fino in
fondo. Un centro di interessi dove doveva terminare l'ultimo viaggio del capitano De
Grazia, morto sulla strada per La Spezia, alla ricerca di una verità ancora lontana .



Il manifesto 11.03.2011



COMMISSIONE RIFIUTI
Bratti (Pd): «Per noi il caso non è chiuso»
Non basterà la sentenza del Tribunale di La Spezia a mettere la parola fine al caso Pitelli.
Quel crocevia di poteri, di faccendieri, di servizi segreti e di navi cariche di rifiuti che
collega Pitelli alla città di La Spezia è stato al centro di almeno due commissioni bicamerali
d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. E seguendo le tracce lasciate dalla morte del capitano della
marina Natale De Grazia, anche l'attuale commissione sulle ecomafie, presieduta da
Gaetano Pecorella, si è imbattuta con la collina dei veleni.
«La vicenda di Pitelli non finisce con la sentenza di assoluzione», commenta Alessandro
Bratti, capogruppo del Pd in commissione rifiuti. Troppi i dubbi ancora non risolti su questo
vero e proprio nodo cruciale nella storia dei traffici internazionali: «La commissione
bicamerale d'inchiesta sui r ifiuti sta affrontando in questi ultimi mesi la questione del porto
di La Spezia e della discarica di Pitelli, anche in relazione ai poteri dell'epoca, con il
coinvolgimnento di pezzi dello stato. Secondo le nostre indagini - prosegue Bratti - vi
potrebbe essere una relazione tra il porto, la discarica di Pitelli e alcuni traffici
particolarmente preoccupanti».
Dai verbali riservati della commissione rifiuti emergerebbe poi un legame tra le inchieste
condotte negli anni '90 in Calabria sulle navi a perdere e l'ambiente che ha garantito il
gruppo Duvia: «Secondo alcuni informatori spiega Alessandro Bratti - risulterebbero delle
connessioni tra l'inchiesta del capitano della marina militare Natale De Grazia e la vicenda
di Pitelli. È una vicenda che stiamo approfondendo con particolare attenzione».
Nei prossimi giorni la commissione bicamerale sui rifiuti dovrà sentire anche Luciano
Tarditi, il pm di Asti che avviò nel 1996 l'inchiesta su Pitelli. Il magistrato aveva già
raccontato gli aspetti più inquietanti della vicenda alla commissione presieduta da
Massimo Scalia, in una audizione riservata. poi desecretata nel 2006: «Ci fu segnalata la
presenza di numerose gallerie, una delle quali ci fu indicata come oggetto di muratura
all'ingresso. La fonte ci disse, chiaro e tondo, che si trattava di tunnel di collegamento fra
le polveriere della Marina, risalenti al periodo bellico, che contenevano materiali dismessi
dalle forze armate, in particolare nervini radianti dell'esercito». Un aspetto, quello dei
collegamenti con la marina, che aprì all'epoca scenari che il processo non è riuscito poi ad
affrontare fino in fondo: «Che nel corso dei decenni, a partire dalla metà degli anni
settanta, vi fossero state commistioni tra le gestione della discarica e l'ambiente mil itare,
era un dato che già sembrava emergere dal fatto che ritenevamo assolutamente
inconcepibile che ci potesse essere una discarica cresciuta in dimensioni e e qualità a
ridosso di una polveriera militare». A spiegare le difficoltà incontrate su questo f ronte fu
l'ispettore della forestale Gianni De Podestà, che ha condotto diverse indagini sul traffici
internazionali di rifiuti: «Per fare questi accertamenti bisogna entrare negli ambiti
dell'arsenale della marina militare - raccontò alla commissione Scalia - e già
precedentemente è sempre stato opposto il segreto. Il corpo forestale dello Stato di La
Spezia si era recato a fare accertamenti, ma, salvo documenti catastali, non si potè
accedere ad altri atti».
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  • 1. Seduta n. 374 del 28/9/2010 TESTO AGGIORNATO AL 3 FEBBRAIO 2011 ATTI DI CONTROLLO PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO. - Al Presidente del Consiglio dei ministri, al Ministro della difesa, al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, al Ministro della salute. - Per sapere - premesso che: secondo quanto riporta Il Manifesto di venerdì 24 settembre 2010, nella collina sopra La Spezia sarebbero stati abbandonati amianto, solventi delle industrie farmaceutiche, ceneri e scarti della Union Carbide Unisil Spa; da La Spezia, verso Lerici, si dipana una piccola strada che si attorciglia su Pitelli nome che riporta alla storia delle navi a perdere e al traffico delle scorie tossiche e radioattive. Pitelli è forse la più grande discarica di scorie tossiche d'Europa. Dal 1997 è anche l'unico processo sui grandi traffici di rifiuti non archiviato. È stato il procuratore Luciano Tarditi ad interessarsi al traffico che dagli anni Settanta incombeva su Pitelli e sulla città di La Spezia. Le indagini partirono quando Tarditi indagò sul proprietario della discarica di Pitelli, Orazio Duvia, trovando la contabilità in nero che per decenni aveva alimentato la politica complice della città. Una rete di legami che partiva dal gruppo Duvia; il peso di quella discarica incastonata nella collina di Pitelli risultò chiaro quando il Corpo forestale dello Stato e i periti entrarono nella zona dove funzionavano i bruciatori, tra i piazzali dove venivano accumulati i bidoni, in mezzo ai campi intrisi di sostanze pericolosissime. Tra il 1983 e il 1985 - si legge sull'ordinanza di rinvio a giudizio dei gestori della discarica - furono sversate «sostanze chimiche di laboratorio, provenienti dalla ditta Union Carbide Unisil Spa di Termoli». (Si tratta della stessa società che a Bophal, in India, uccise 2.259 persone, nel 1984). Inoltre, solventi organici delle industrie farmaceutiche, ceneri delle centrali Enel, amianto della Nuova Sacelit, fanghi di risulta, polveri di abbattimento dei fumi, ceneri pesanti degli inceneritori, fanghi organici e rifiuti speciali vari, pulper, toner esausti e - probabilmente - diossine arrivate da Seveso. Una lista infinita e parziale, perché ci sono aree dove nessuno riuscì a verificare quello che era stato sversato; «Dobbiamo ricordarci che quella zona ha un alto valore strategico e militare», raccontò Tarditi durante un'audizione davanti a una delle tante commissioni parlamentari che hanno indagato sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e sul traffico di rifiuti. È il contesto di Pitelli, la sua posizione geografica, la fitta rete di tunnel e bunker di origine militare che la collegano con la Marina. «Fu segnalata - racconta Tarditi - la presenza di numerose gallerie. La fonte ci disse chiaro e tondo che si trattava di tunnel di collegamento fra le polveriere della Marina, risalenti al periodo bellico, che contenevano (...) in particolare nervini radianti»; la vicinanza tra la gestione della discarica e la Marina militare ancora oggi pone non pochi interrogativi: «Nel libro paga di Orazio Duvia - spiegò il magistrato davanti alla Commissione parlamentare sui rifiuti - figuravano ufficiali ed esponenti della Marina e lo stesso Duvia gestiva lo sgombero degli Rsu dall'arsenale»; tra le carta che passarono sulla scrivania della procura di Asti in un'altra inchiesta sul traffico di rifiuti verso la Somalia c'era, tra l'altro, un rapporto pesante, firmato da ufficiali della direzione investigativa antimafia di Genova, che coinvolgeva anche la città di La Spezia: «È chiaro il ruolo dei massoni spezzini quali mittenti di materiale bellico nell'area dei corno d'Africa-Somalia»,
  • 2. scrivevano il 19 maggio del 1997 gli investigatori della direzione investigativa antimafia. Nel rapporto erano poi analizzate le informazioni confidenziali provenienti dalla Somalia, con i punti di interramento delle scorie nucleari, i dettagli dello scambio immondo tra aree destinate a contenere i rifiuti e le armi del nostro made in Italy. Traffici che ruotavano attorno a La Spezia, tra le fabbriche d'armi, i cantieri navali, i moli riservati e i veleni di Pitelli; le decine di navi sparite, cariche di scorie, avrebbero qualche legame con la collina di Pitelli. Da La Spezia partì la Jolly Rosso della Compagnia Ignazio Messina, diretta a Beirut per recuperare i fusti tossici inviati in Libano dalla Jelly Wax, società protagonista dei viaggi dei veleni verso l'Africa e l'America Latina negli anni Ottanta, È sempre da La Spezia che la stessa nave, dopo aver cambiato nome in Rosso, ripartì dopo più di un anno, per poi spiaggiarsi vicino ad Amantea. Una nave che il Sismi teneva sotto costante controllo fin dal 1988 e, in seguito, finita nell'inchiesta del capitano De Grazia. Il caso della Rosso è stato archiviato nel maggio del 2009, come gran parte dei processi sulle navi e sulle rotte dei veleni; le udienze di primo grado per Pitelli sono riprese ora davanti al tribunale di La Spezia. La sentenza dovrebbe arrivare entro la fine del 2010; fonti confidenziali hanno raccontato di una vera e propria seconda Pitelli, nascosta nelle gallerie militari: «Qui si nascondono i peggiori veleni, come le armi chimiche dismesse» -: di quali dati disponga il Governo in merito a quanto esposto in premessa e quali iniziative di competenza intendano adottare al fine di accertare la presenza di sostanze pericolose nell'area descritta e fare luce sull'intera vicenda. (4-08772) Il manifesto 24.09.2010 | Andrea Palladino Pitelli dei veleni La discarica di Pitelli Ci sono stanze nel nostro paese dove con lavoro certosino e sistematico - quando gli occhi indiscreti sono lontani - qualcuno disfa la complessa tela di Penelope. Ci sono segreti che ormai appartengono alla storia della Repubblica ed altri che ancora oggi avvelenano la nostra vita. La storia dell'immenso e strutturato traffico delle scorie tossiche e radioattive non ha un colpevole. Ha, però, migliaia di vittime, dalle coste della Calabria fino alle colline liguri, dove ogni giorno si contano nuovi casi di tumori, dove il futuro stesso dell'Italia viene sacrificato alla ragion di Stato dei traffici più oscuri. La tela fitta delle rotte dei veleni ha una capitale, non dichiarata, ma ben conosciuta. Ha un nome sublime, incredibilmente bello, il golfo dei poeti. Sono le colline quasi brutali che scendono sul la città di La Spezia, arrivando a specchiarsi tra i cantieri navali, le basi militari, il porto. Dalla città, verso Lerici, si dipana una sorta di budello, una piccola strada che si attorciglia su Pitelli. Un nome che riporta alla storia delle navi a perdere, dei vascelli fantasma affondati nel Mediterraneo. Pitelli è forse la più grande discarica di scorie tossiche d'Europa. Dal 1997 è anche l'unico processo sui grandi traffici di rifiuti che non è finito archiviato. È stato un procuratore venuto da un'altra regione, il Piemonte, a scoperchiare la cappa di omertà che dagli anni '70 schiacciava Pitelli e la città di La Spezia. Luciano Tarditi - il
  • 3. pm di Asti che probabilmente sfiorò una parte della verità sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin - ha cercato di darsi una spiegazione su questo paradosso giuridico: «Fu illuminante per noi il discorso che proveniva da una persona della quale avevamo e abbiamo la massima stima, il dottor Franz: "Se lavorate voi da fuori, è molto meglio"», spiegò in una commissione parlamentare pochi anni fa. Perché dietro i veleni di Pitelli si nascondono patti che nessuno può raccontare, gruppi di pressione talmente forti da condizionare interi pezzi delle istituzioni. Le indagini partirono quasi per caso, quando Tarditi sta va indagando su un traffico di rifiuti nella zona di Asti. Seguendo le rotte delle scorie scoprì il ruolo che la collina di Pitelli svolgeva nella vasta rete dei monnezzari italiani ed europei. Indagò sul dominus di quella discarica, Orazio Duvia, trovando la contabilità in nero che per decenni aveva alimentato la politica complice, silenziosa, connivente della città. Una rete di legami che partiva dal gruppo Duvia e che non risparmiava nessuno, neanche l'allora partito comunista. Il peso di quella discarica incastonata nella collina di Pitelli risultò chiaro quando il Corpo forestale dello Stato e i periti entrarono nella zona dove funzionavano i bruciatori, tra i piazzali dove venivano accumulati i bidoni, in mezzo ai campi intrisi di sostanze pericolosissime. Basta un nome per fare accapponare la pelle: tra il 1983 e il 1985 - si legge sull'ordinanza di rinvio a giudizio dei gestori della discarica - furono sversate «sostanze chimiche di laboratorio, provenienti dalla ditta Union Carbide Unisil Spa di Termoli». La stessa società che a Bophal, in India, uccise 2.259 persone, nel 1984. E poi solventi organici delle industrie farmaceutiche, ceneri delle centrali Enel, amianto della Nuova Sacelit, fanghi di risulta, polveri di abbattimento dei fumi, ceneri pesanti degli inceneritori, fanghi organici e rifiuti speciali vari, pulper, toner esausti e - probabilmente - diossine arrivate da Seveso. Una lista infinita e parziale, perché ci sono aree dove nessuno riuscì a verificare quello che era stato sversato. Il pm Luciano Tarditi aveva ben chiaro il peso di quell'inchiesta. «Dobbiamo ricordarci che quella zona ha un alto valore strategico e militare», raccontò durante un'audizione davanti a una delle tante commissioni parlamentari che hanno indagato sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e sul traffico di rifiuti. È il contesto di Pitelli, la sua posizione geografica, la fitta rete di tunnel e bunker di origine militare che la collegano con la Marina a far capire che questa non è una storia qualsiasi di veleni e criminali. «Fu segnalata - racconta Tarditi - la presenza di numerose gallerie. La fonte ci disse chiaro e tondo che si trattava di tunnel di collegamento fra le polveriere della Marina, risalenti al periodo bellico, che contenevano (...) in particolare nervini radianti». Una vicinanza tra la gestione della discarica e la Marina militare che ancora oggi pone non pochi interrogativi: «Nel libro paga di Orazio Duvia - spiegò il magistrato davanti alla commissione parlamentare sui rifiuti - figuravano ufficiali ed esponenti della Marina e lo stesso Duvia gestiva lo sgombero degli Rsu dall'arsenale». Tra le carte che passarono sulla scrivania della Procura di Asti in un'altra inchiesta sul traffico di rifiuti verso la Somalia c'era, tra l'altro, un rapporto pesante, firmato da ufficiali della Direzione investigativa antimafia di Genova. Anche in questo caso la città di La Spezia, con le sue reti invisibili di complicità, era al centro dell'attenzione: «È chiaro il ruolo dei massoni spezzini quali mittenti di materiale bellico nell'area del corno d'Africa-Somalia», scrivevano il 19 maggio del 1997 gli investigatori della Dia. Nel rapporto erano poi analizzate le informazioni confidenziali provenienti dalla Somalia, con i punti di interramento delle scorie nucleari, i dettagli dello scambio immondo tra aree destinate a contenere i rifiuti e le armi del nostro made in Italy. Traffici che ruotavano attorno a La Spezia, tra le fabbriche d'armi, i cantieri navali, i moli riservati e i veleni di Pitelli. La Spezia era anche la meta finale dell'ultimo viaggio del capitano di vascello Natale De Grazia, morto, forse avvelenato, il 13 dicembre del 1995. Era nel porto sovrastato dalla collina dei poeti che si nascondeva - e ancora si nasconde - la chiave per capire che fine hanno fatto decine di navi sparite in mare, probabilmente cariche di scorie. Da La Spezia partì la Jolly Rosso della compagnia Ignazio Messina, diretta a Beirut per recuperare i fusti tossici inviati in Libano dalla Jelly Wax, società protagonista dei viaggi dei veleni verso l'Africa e l'America Latina negli anni '80. Ed è sempre da La Spezia che la stessa nave, dopo aver cambiato nome in Rosso, ripartì dopo più di un anno, per poi spiaggiarsi vicino ad Amantea. Una nave che il Sismi teneva sotto costante controllo fin dal 1988 - come si può leggere nei rapporti firmati dall'agente Ettore, pubblicati nei mesi scorsi nel libro Avvelenati dei giornalisti calabresi Giuseppe Baldessarro e Manuela Iatì - e finita nell'inchiesta del capitano De Grazia. Un caso, quello della Rosso, archiviato nel maggio dello scorso anno, come gran parte dei processi sulle navi e sulle rotte dei veleni. Le udienze di primo grado per Pitelli sono riprese lunedì scorso davanti al Tribunale di La Spezia. La sentenza dovrebbe arrivare entro la fine di quest'anno. Gran parte dei testimoni - ex lavoratori della discarica - durante il processo spesso si sono tirati indietro, forse seguendo suggeritori interessati. Nessuno parla a La Spezia di quello che accade dove difficilmente lo sguardo troppo indiscreto della stampa può arrivare. Nessuno racconta quello che oggi avviene nel Porto, tra le gru che caricano i container, sui moli dove arrivano le navi con le bandiere degli stati più improbabili. Qualche giorno fa qui è morto un portuale, una delle tante morti bianche dei nostri porti. Al sit-in organizzato dal Prc c'erano appena una ventina di persone: nessun sindacato, nessun lavoratore. Non c'è la forza storica dei camalli di Genova, il porto è gestito da decine di piccole aziende dove spesso i diritti non valgono nulla. Quella che appare nel processo in corso è probabilmente solo una piccola parte della verità. Fonti confidenziali - che mai hanno avuto il coraggio di deporre davanti ai magistrati - hanno raccontato di una vera e propria seconda Pitelli, nascosta nelle gallerie militari: «Qui si nascondono i peggiori veleni, come le armi chimiche dismesse». Voci, solo voci, sospetti che mai nessuno ha potuto andare a verificare, anche perché a chi svolgeva l'inchiesta venne opposto il segreto militare, come ricordò l'ispettore della forestale De Podestà alla commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti guidata da Massimo Scalia. FUORIPAGINA
  • 4. 07/01/2011 | Andrea Palladino "Servizi" e rifiuti tossici, si riapre il caso Il capitano Natale De Grazia È un'aria strana quella che tira dalle parti di palazzo San Macuto. Via del Seminario, in piena Roma barocca, è sempre stata la sede dei misteri italiani. Qui passò Tina Ansel mi, quando presiedeva la commissione sulla P2. Qui si affacciava Carlo Taormina, quando preparava la vergognosa relazione finale sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. E qui la commissione bicamerale sui rifiuti, presieduta da un altro avvocato celebre, Gaetano Pecorella, prepara oggi la fase finale del dossier sulle navi dei veleni. La testimonianza di Francesco Fonti e la vicenda del cargo Cunski sembrano ormai archiviate, sepolte. Manca una spiegazione decente su questa vicenda, qualcuno che racconti perché per cinque anni si è dato credito alla storia dell'ex collaboratore di giustizia che oggi tutti giudicano inattendibile. O è un folle, oppure le sue parole nascondevano - e nascondono - qualcos'altro. C'è una pista che preme particolarmente alla commissione. Un filo che riporta al 1995, ai mesi che hanno preceduto la morte del capitano De Grazia, l'ufficiale della marina - medaglia d'oro alla memoria - che stava ricostruendo le rotte della navi a perdere, delle carrette cariche di scorie affondate nel mar Mediterraneo. Indagini che sono morte insieme a lui, che nessun altro uomo della nostra Marina Militare ha avuto il coraggio e la forza di riprendere. Nei mesi scorsi sono entrati in gioco i servizi di sicurezza, vero enzima dei segreti italiani. Tra le carte della commissione Pecorella c'è un documento che promette rivelazioni scottanti. È datato 11 dicembre 1995, e dimostrerebbe - secondo alcune indiscrezioni - un finanziamento proveniente dal governo Dini ai servizi italiani per la gestione di un traffico di rifiuti nucleari e di armi. Il documento sarebbe ancora secretato, e non ne conosciamo la provenienza, che, in questi casi, non è un fattore secondario. Ma è la data del documento a colpire, a ricollegarsi - in una incredibile coincidenza temporale - con la morte del capitano di corvetta Natale De Grazia. Nome in codice Pinocchio È il 13 maggio 1995. Davanti agli uomini della forestale guidati dal colonnello Rino Martini si presenta una fonte confidenziale. Viene ascoltato con il patto di non rivelare la sua identità, utilizzando un articolo del codice di procedura penale specifico, che serve a tutelare i confidenti. Il suo racconto punta il dito su un personaggio chiave del mondo delle scorie pericolose, Orazio Duvia. È un imprenditore di La Spezia, a capo della mega discarica di Pitelli, una vera e propria piattaforma logistica dei rifiuti tossici. Il confidente - che si fa chiamare, con una certa ironia, Pinocchio - spiega quali sono i presunti legami di Duvia con il mondo delle fabbriche di armi e con quel groviglio di poteri che ancora oggi dominano la città di La Spezia. Alla fine della sua lunga deposizione parla di una nave, affondata al largo delle coste ioniche - a capo Spartivento - la Rigel. Un cargo che, secondo "Pinocchio", era pieno di «materiale nucleare (uranio additivato)». La testimonianza è fondamentale. È la prima volta che nell'inchiesta allora condotta dalle Procure di Reggio Calabria - Francesco Neri - e di Matera - Nicola Maria Pace - appare la pista della nave Rigel. Quel verbale è un vero punto di svolta. «Affondamenti sospetti» Il periodo tra il maggio e il dicembre del 1995 è frenetico. Natale De Grazia è la persona del gruppo che si dedica alla ricostruzione delle rotte delle navi a perdere, a partire dalla Rigel. Vengono acquisiti gli atti del processo contro gli armatori e i caricatori della nave, già accusati di truffa all'assicurazione e affondamento doloso dalla Procura di La Spezia. Un processo terminato con una condanna fino al terzo grado per il reato di affondamento doloso, mentre l'ipotesi dell'associazione per delinquere è caduta nel corso del processo.
  • 5. Rileggere oggi quelle carte conservate negli archivi del Tribunale di La Spezia è però fondamentale per capire il contesto dell'affondamento della nave Rigel, sospettata di aver trasportato uranio additivato. Nell'ordinanza di rinvio a giudizio degli imputati, il giudice istruttore di La Spezia parla non di un singolo affondamento, ma di tante navi affondate in maniera dolosa e sospetta. L'ipotesi era che esistesse «un'associazione criminosa avente lo scopo di commettere più reati di naufragio doloso e truffe aggravate ai danni di varie società di assicurazione». Più naufragi, non solo la Rigel. Ed era questa la pista seguita da Natale De Grazia e la prima, solida conferma giudiziaria dell'esistenza di diverse navi disperse nelle acque del Mediterraneo. Cosa trasportavano? Chi ha organizzato l'affondamento? Una questione di Stato I magistrati si rendono subito conto che quell'indagine è esplosiva. Pensare a traffico di rifiuti nucleari, gestiti da gruppi massonici e criminali, per poi essere gettati in mare, faceva tremare i polsi anche ad investigatori testardi come De Grazia. Perché era evidente che un traffico del genere non poteva avvenire senza la copertura di parti importanti dello stato. Pensando, poi, al centro della rete, la città di La Spezia, sede di basi Nato, della Marina Militare, del centro di addestramento dei reparti speciali, di fabbriche di armi, era evidente che far uscire una nave carica di uranio non poteva essere un gioco per semplici truffatori. E così i magistrati in quei mesi scrissero al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. Lo ricorda Francesco Neri, nella sua testimonianza del 1997 durante l'inchiesta per la morte di Natale De Grazia: «Ricordo che unitamente al collega Pace della Procura circondariale di Matera comunicammo al Capo dello Stato che le indagini potevano coinvolgere la sicurezza nazionale, inoltre poiché fatti di questo tipo potevano essere a conoscenza del Sismi ancor prima dell'ingresso del capitano De Grazia nelle indagini chiesi al direttore del servizio di trasmettermi copia di tutti gli atti che potevano riguardare il traffico clandestino di rifiuti radioattivi con navi». Informative dei servizi poi realmente confluite negli incartamenti dell'inchiesta. Dunque, l'intelligence italiana conosceva sicuramente l'indagine sulle navi. Un tragico dicembre Natale De Grazia era sul punto di chiudere le indagini. Aveva già programmato di utilizzare le festività di fine anno per preparare un rapporto finale, con le conclusioni della lunga inchiesta. Il sei dicembre a Reggio Calabria viene sentito - per la seconda volta - il teste "alfa alfa", ovvero Aldo Anghessa. Oscuro trafficante, fortemente sospettato di agire spesso per interessi non chiari o come agente provocatore, due giorni prima del ponte dell'immacolata depone davanti a Natale De Grazia. E introduce un nuovo nome, che sarà fondamentale per l'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi, Giampiero Sebri. «È disposto a collaborare», spiega Anghessa. Sebri qualche anno più tardi - nel 1997 - deporrà a lungo davanti ai magistrati della Dda di Milano, raccontando di una organizzazione internazionale specializzata nel traffico dei rifiuti nucleari. Indicherà anche Giancarlo Marocchino e l'ufficiale del Sisde presente in Somalia nel marzo del 1994, Luca Rajola Pescarini, come personaggi coinvolti, a suo dire, nel traffico. Per quelle dichiarazioni venne condannato per calunnia, condanna penale poi revocata qualche mese fa dalla Corte di Cassazione. Quattro giorni dopo l'interrogatorio Natale De Grazia, insieme al maresciallo dei carabinieri Nicolò Moschitta, riceve sei deleghe dal procuratore Neri, per compiere indagini a La Spezia e a Como. Chi doveva incontrare De Grazia non lo sappiamo. Il 12 dicembre parte e a mezzanotte viene stroncato da un arresto cardiaco, in circostanze mai chiarite. I servizi segreti Il documento arrivato nei mesi scorsi negli uffici della commissione Pecorella che dimostrerebbe l'erogazione di fondi ai servizi segreti per la gestione dei rifiuti nucleari e di armi ha la data - secondo quanto riportato dal quotidiano Terra - dell'11 dicembre 1995, ovvero il giorno prima del viaggio di De Grazia. Il capitano di corvetta sentiva il pericolo come vicino, vicinissimo. Lo raccontava al cognato, mentre da qualche mese - dopo una perquisizione decisamente anomala a Roma - aveva il timore di entrare in contrasto con pezzi importanti dello stato. Sapeva di essere vicino alla verità, e questo lo preoccupava. Quello che probabilmente non sapeva era che quello stesso stato che gli pagava lo stipendio per bloccare i traffici criminali di rifiuti e di armi, finanziava - segretamente - chi quei traffici li copriva o, addirittura, li organizzava.
  • 6. Il manifesto Venerdì 11 marzo 2011 IL MANIFESTOABBONAME NTISTOREARCHIVI IO MANIFESTO INFO In Edicola ARCHIVIO NOTIZIE Condividi su 06 POLITICA & SOCIETÀ 11.03.2011  APERTURA | di Andrea Palladino VELENI D'ITALIA La collina dei veleni è senza colpevoli Tutti assolti perché «il fatto non sussiste». Si conclude nel nulla il processo sul sotterramento di rifiuti tossici nella discarica spezzina, che ha provocato uno dei peggiori disastri ecologici nella storia d'Italia. A nulla sono servite le denunce presentate da associazioni e cittadini. Dopo 15 anni di inchieste, tutti assolti gli undici imputati per il disastro ambientale di Pitelli, a La Spezia. È un silenzio plumbeo quello che ieri è calato sulla collina dei veleni. La discarica di Pitelli - che sovrasta il golfo dei poeti di La Spezia - è ormai chiusa dal 1996, quando la forestale sequestrò definitivamente gli impianti, eseguendo un ordine arrivato dalla procura di Asti. Ma le quattro vasche cariche di veleni, che i tecnici ritengono ormai non più bonificabili, rimarranno come un monumento eterno all'Italia dell'impunità. Non c'è un colpevole, non è stato commesso nessun reato, questo hanno detto i giudici, dopo una camera di consiglio di poche ore, terminata con la sentenza di assoluzione per tutti gli imputati. «Il fatto non sussiste», recita con freddezza il codice. C on un dubbio finale, contenuto nel secondo comma dell'articolo 530 del codice di procedura penale, citato nel dispositivo, che corrisponde grosso modo all'insufficienza di prove del vecchio codice di procedura penale. Ora la città di La Spezia rimarrà ancora una volta sola di fronte ad un dubbio, che si trascina da decenni: come è stato possibile veder crescere la più grande discarica di rifiuti industriali nel mezzo di una zona che era stata dichiarata a tutela paesaggistica? «Qui per la legge non si potev a neanche cogliere un fiore», aveva spiegato Roberto Lamma, avvocato di Legambiente, parte civile nel processo. Eppure dall'agosto del 1976 Orazio Duvia, un imprenditore con un passato sostanzialmente incolore e sconosciuto, aveva costruito un vero e proprio impero della monnezza sui terreni che dominano il golfo di La Spezia. Roba pesante, a leggere le perizie. Fusti che provenivano da tutta Italia,
  • 7. svuotati in quattro invasi costruiti uno sopra l'altro, grazie all'intero sistema politico, amministrativo e giudiziario che per anni non ha voluto vedere quello che stava accadendo. Ci volle la tenacia di Luciano Tarditi, un pubblico ministero di Asti, per scoperchiare il vaso di Pandora di Pitelli. «I colleghi di La Spezia mi dissero che data la gravità del pr oblema - raccontò Tarditi davanti alla commissione rifiuti presieduta da Massimo Scalia - sarebbe stato opportuno che se ne occupasse una procura di fuori». Un'ombra che pesava sulla città che per un decennio aveva ignorato le tante denunce presentate da c ittadini e associazioni ambientaliste sulla discarica che cresceva sulla collina. Un sospetto che si rafforzò quando si scoprì che alcuni ufficiali di polizia giudiziaria svolgevano un secondo lavoro pomeridiano negli uffici di Orazio Duvia, il padrone di Pitelli. Ci vorranno novanta giorni ora per poter leggere le motivazioni di una sentenza che - codice alla mano - lascia aperta la porta del dubbio. I giudici dovranno chiarire perché non può essere considerato «disastro ambientale doloso» lo sversamento c ontinuo e indisturbato di veleni per i vent'anni di funzionamento della discarica. Dovremo capire per quale motivo Orazio Duvia confessò, quando venne arrestato nel 1996, di aver sistematicamente corrotto «funzionari istruttori, dipendenti di enti pubblici , partiti, politici con ruoli decisionali», come si legge nel rinvio a giudizio. Una accusa, quella di corruzione, che venne confermata dal ritrovamento di un vero e proprio brogliaccio delle tangenti, un libro a partita doppia dei soldi versati per anni. Un reato finito in prescrizione, già diversi anni fa. Alla fine della fase preliminare del processo era rimasto in piedi solo il reato di disastro ambientale doloso, che, per la sua gravità, ha tempi di prescrizione molto più lunghi. Un vero e proprio macigno che pendeva sulla testa degli undici imputati coinvolti. Non tutti si sentivano così sicuri di arrivare ad una assoluzione, di fronte alla gravità delle accuse: Giancarlo Motta - uno dei principali soci di Orazio Duvia nella Sistemi Ambientali, l'impresa che ha gestito l'ultima fase della storia di Pitelli - aveva chiesto di poter patteggiare. Non ci fu l'accordo con la Procura, che riteneva la pena proposta eccessivamente ridotta. Un episodio processuale che oggi suona come una beffa. Le udienze si son o svolte nella sostanziale indifferenza della città. Il principale imputato, Orazio Duvia, non si è mai fatto vedere in Tribunale, preferendo mandare il suo braccio destro Franco Bertolla ad annotare quello che accadeva. Non sono solo gli imputati i grandi assenti. Buona parte delle testimonianze sono state titubanti, non confermando molto spesso il quadro emerso durante le indagini preliminari. «Spesso i testimoni venivano ammoniti che quello che avrebbero dichiarato poteva essere utilizzato contro di loro», ricorda Corrado Cucciniello dei comitati di Pitelli. Il collegio non ha poi ritenuto di ammettere la visione di un video realizzato dalla Forestale di La Spezia, che descriveva nei dettagli come si era trasformata la collina dei veleni. Immagini che potevano creare suggestione, venne detto. Eppure le indagini condotte dalla forestale di La Spezia erano state puntigliose, precise nella descrizione dei rifiuti accolti dalla discarica di Pitelli. «Tre milioni di kg di rifiuti tossico nocivi, scarti di specialità medicinali dell'industria farmaceutica, 17.800 tonnellate di scorie da attività di termodistruzione di rifiuti solidi urbani, 116 tonnellate di fanghi, solventi vari quali toluene, xilene e benzene, fusti contenti terre di bonifica, solventi organici , ceneri leggere, fibrocemento, polveri di abbattimento dei fumi di fonderia, scorie alluminose e altro materiale non identificato», recitava il capo di imputazione. Sostanze in grado di distruggere ogni forma di vita dove venivano sversate. O di uccidere, se inalate o ingerite da un essere umano. Indagini che non sono bastate per accertare il disastro ambientale. È impressionante oggi scorrere il libro nero di Pitelli, ovvero la cartina d'Italia virtuale che mostra la provenienza di buona parte dei rifiuti tossici. Oltre a La Spezia i luoghi d'origine dei veleni di Pitelli andavano dalla Lombardia alla Toscana, dal Piemonte al Molise, in una
  • 8. sorta di nodo centrale dove confluivano carichi di veleni e interessi mai approfonditi fino in fondo. Un centro di interessi dove doveva terminare l'ultimo viaggio del capitano De Grazia, morto sulla strada per La Spezia, alla ricerca di una verità ancora lontana . Il manifesto 11.03.2011 COMMISSIONE RIFIUTI Bratti (Pd): «Per noi il caso non è chiuso» Non basterà la sentenza del Tribunale di La Spezia a mettere la parola fine al caso Pitelli. Quel crocevia di poteri, di faccendieri, di servizi segreti e di navi cariche di rifiuti che collega Pitelli alla città di La Spezia è stato al centro di almeno due commissioni bicamerali d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti. E seguendo le tracce lasciate dalla morte del capitano della marina Natale De Grazia, anche l'attuale commissione sulle ecomafie, presieduta da Gaetano Pecorella, si è imbattuta con la collina dei veleni. «La vicenda di Pitelli non finisce con la sentenza di assoluzione», commenta Alessandro Bratti, capogruppo del Pd in commissione rifiuti. Troppi i dubbi ancora non risolti su questo vero e proprio nodo cruciale nella storia dei traffici internazionali: «La commissione bicamerale d'inchiesta sui r ifiuti sta affrontando in questi ultimi mesi la questione del porto di La Spezia e della discarica di Pitelli, anche in relazione ai poteri dell'epoca, con il coinvolgimnento di pezzi dello stato. Secondo le nostre indagini - prosegue Bratti - vi potrebbe essere una relazione tra il porto, la discarica di Pitelli e alcuni traffici particolarmente preoccupanti». Dai verbali riservati della commissione rifiuti emergerebbe poi un legame tra le inchieste condotte negli anni '90 in Calabria sulle navi a perdere e l'ambiente che ha garantito il gruppo Duvia: «Secondo alcuni informatori spiega Alessandro Bratti - risulterebbero delle connessioni tra l'inchiesta del capitano della marina militare Natale De Grazia e la vicenda di Pitelli. È una vicenda che stiamo approfondendo con particolare attenzione». Nei prossimi giorni la commissione bicamerale sui rifiuti dovrà sentire anche Luciano Tarditi, il pm di Asti che avviò nel 1996 l'inchiesta su Pitelli. Il magistrato aveva già raccontato gli aspetti più inquietanti della vicenda alla commissione presieduta da Massimo Scalia, in una audizione riservata. poi desecretata nel 2006: «Ci fu segnalata la presenza di numerose gallerie, una delle quali ci fu indicata come oggetto di muratura all'ingresso. La fonte ci disse, chiaro e tondo, che si trattava di tunnel di collegamento fra le polveriere della Marina, risalenti al periodo bellico, che contenevano materiali dismessi dalle forze armate, in particolare nervini radianti dell'esercito». Un aspetto, quello dei collegamenti con la marina, che aprì all'epoca scenari che il processo non è riuscito poi ad affrontare fino in fondo: «Che nel corso dei decenni, a partire dalla metà degli anni settanta, vi fossero state commistioni tra le gestione della discarica e l'ambiente mil itare, era un dato che già sembrava emergere dal fatto che ritenevamo assolutamente inconcepibile che ci potesse essere una discarica cresciuta in dimensioni e e qualità a ridosso di una polveriera militare». A spiegare le difficoltà incontrate su questo f ronte fu l'ispettore della forestale Gianni De Podestà, che ha condotto diverse indagini sul traffici internazionali di rifiuti: «Per fare questi accertamenti bisogna entrare negli ambiti dell'arsenale della marina militare - raccontò alla commissione Scalia - e già precedentemente è sempre stato opposto il segreto. Il corpo forestale dello Stato di La Spezia si era recato a fare accertamenti, ma, salvo documenti catastali, non si potè accedere ad altri atti».