Articles (selection) - Look Lateral, supplement to Marie Claire Maison Italy
1. 22 look lateralSGUARDO CORRENTE 23
Bridget Jones non è come me l’aspettavo,
goffaecicciottella.Éunasplendidaromana,
Livia Giuggioli, che nel 1997 ha sposato
l’affascinante attore inglese Colin Firth,
con il quale ha due figli, Luca e Matteo.
Produttrice cinematografica e attivista per
i diritti umani, lo scorso anno insieme al
marito, al fratello Nicola e al finanziatore
Ivo Coulson, ha fondato Ecò. Il primo store
ecologico, finalizzato a promuove una vita
completamente ecosostenibile, è situato
a Chiswick, quartire bene del sud-ovest di
Londra.ÉlìcheincontriamoNicola,ideatore
eforzatrainantedelprogettocheciracconta
lalorostoria,mentreLivia,piùschiva,segue
gli appuntamenti con i buyers.
Lo spazio, con il pavimento a doghe di
legno, ovviamente riciclate, si articola su
quattro piani e ovunque si posi l'occhio
troviamo prodotti legati da un unico filo
conduttore: ecosostenibilità. La prima
domanda, scontata e inevitabile, cade
proprio sul famoso cognato Colin Firth,
che in una precedente intervista si è definito
“strumento di comunicazione” per questo
progetto comune.
"Lui, - precisa Nicola - insieme a mia
sorella, mi ha dato la spinta necessaria.
Quando ho presentato loro la mia idea,
subito entusiasti, mi hanno dato appoggio
totale. È iniziato così. Successivamente il
suo coinvolgimento a livello d’immagine
è stato davvero massiccio. Colin era ed è
un partner, per questo si sente coinvolto
personalmente. Un grosso aiuto, non c’è
che dire. Crede profondamente nell’anima
ecologistadiquestolavoro,moltoinformato,
va alla radice delle varie problematiche.
All'inizio ha persino frequentato il negozio
e i clienti sono impazziti!"
Come è nata quest’idea?
Era il 2006 e vedendo An unconvenient
Truth, il documentario di Al Gore sul
riscaldamento globale, mi resi conto che
il film forniva analisi ma non dava imput
per risolvere un fenomeno così complesso.
Decisi allora di farlo io, producendo un
lungometraggio insieme a Livia. Cominciai
così a studiare e ricercare. Mi sono detto, ci
vorrebbe una sorta di Green Hub, un centro
specializzato su cui fare affidamento, dove
trovare consigli esperti e prodotti, dalla
lampadina al pannello solare. Quindi a
maggio 2007 è nato il business plan e a
febbraio 2008 abbiamo inaugurato Ecò.
InInghilterraognigiornosiparladiecologia,
per questo avete scelto di aprire il negozio
non in Italia ma a Londra, dove vivono i
tuoi partners?
Esatto. I primi finanziatori sono italiani, però
devo dire che hanno investito anche perchè il
progettoavvenivaaLondra.Nonsoseilmercato
italianosarebbestatopronto.Ilconsumatorein
Colin Firth & Co
diario di un ecologista
Snob? No. Convinto. Ha aperto a Londra, con la moglie Livia
Giuggioli, il cognato Nicola e Ivo Coulson uno spazio innovativo
ECÓ,
Chiswick
High Road 213
Londra W4
Livia Giuggioli, Colin
Firth, Nicola Giuggioli
e Ivo Coulson; sopra,
la locandina del film di
successo dell'attore inglese.
di Paola Marchini
Inghilterraèmoltopiùinformatoesensibile.In
Italial’eco-sostenibilitàèancorapercepitacome
economia costosa, anche se non è più così.
In quasi un anno di attività, hai già notato
dei cambiamenti nei comportamenti della
tua clientela?
La risposta è stata fantastica, oltre le
aspettative. Siamo riusciti a influenzare le
scelte della comunità che ha capito che il
nostro non era un atteggiamento dettato da
snobismo. Molti prodotti che presentiamo
vengonorealizzatiproprioinquestoquartiere.
Non cerchiamo di fare gli hippies, ma
d’informare il consumatore e i nostri clienti
lo apprezzano. Ora stiamo convertendo
una chiesa di Chiswick, fornendola di
sistema geotermico e fotovoltaico per
renderlaindipendenteperquantoconcerne
riscaldamento e illuminazione.
Ecò è uno store autosufficiente dal punto
di vista energetico?
D’estate sì, il che mi ha sorpreso. Sai che
una casa media consuma generalmente
4 o 5 Kw, mentre noi abbiamo un picco di
consumo che raggiunge solo i 700 watts.
Questodàlapossibilitàaiclientidiverificare
come si possa partire da un edificio nato
secondovecchicanonie,senzastravolgerlo,
arrivare a ridurne il fabbisogno energetico
del 70%.
Immagino che il giardino verticale esterno
non sia solo una scelta estetica...
No, ispirati dal Mur Végétal di Patrick
Le Blanc, abbiamo voluto riprodurre un
simile effetto, usando dei piccoli pannelli
già piantumati, quindi di facile montaggio
e mantenimento. Un modo fantastico per
isolarel’edificio.Ilgiardino,bello,garantisce
anche bio diversità, produce ossigeno e
assorbe arnidride carbonica.
Tra i prodotti e servizi che offrite, quale il
più richiesto?
Senza dubbio la sezione di Interior Design,
quinditappeti,tappezzerie,superficidilavoro
e vernici. Questo perchè hanno un prezzo
equivalente a quello di un prodotto non
ecosostenibile di ottima qualità. La gente
si sorprende della loro bellezza e li sceglie
perchè sono chiaramente superiori.
Nel futuro anche l'Italia?
Milleidee.Primadituttounacollaborazione
con Coco de Mer, di Sam Roddick (figlia di
DameAnitaRoddick,pionieranelsostenere
il consumo etico e la causa ambientalista,
nonchè fondatrice del Body Shop n.d.r).
Inoltre, ci piacerebbe aprire altri negozi: ne
abbiamo in programma uno a Milano, che
dimostra di avere un’attenzione per questo
mondo, e uno negli Stati Uniti.
In confidenza, che ne è stato della camicia
bagnata indossata da Colin in una scena
del film Orgoglio e Pregiudizio?
Beh, ti posso garantire una cosa: quella
camicia non era certo di cotone organico!
I gemelli Giuggioli con la sorella Livia; dettaglio della
lampada Vespa di Maurizio Lamponi Leonardi realizzata
con pezzi originali; Nicola e Alessandro (attore, ha
recitato in Genova di Winterbottom) davanti alle carte
da parati; Pencil Necklace, collana realizzata con matite
colorate; elefante prodotto con lattine riciclate; coperte in
mohair e seta; dettaglio di un tappeto Nonna Pepa.
4. ANGOLO (IN)DIMENTICATO DI UNA
BERLINO PATRIMONIO DELL’UNESCO,
LA WEISSE STADT RIUNISCE IN MANIERA
SORPRENDENTE PASSATO, PRESENTE
E FUTURO DI UNA DELLE CITTÀ PIÙ
CARISMATICHE E COINVOLGENTI DEL
VECCHIO MONDO
Un luogo schiavo della luce, popolato da un piccolo
esercito di edifici allineati come disciplinati soldatini
dai volti pallidi che riflettono gli umori di un clima
schizofrenico, qui spesso protagonista, la “città
bianca” insieme ad altri cinque centri residenziali
berlinesi diventa nel 2008 patrimonio dell’Unesco.
Questa pagina minore della storia dell’architettura,
scritta alla fine degli anni Venti in un contesto di
grande fermento creativo che aveva fatto confluire
a Berlino i più grandi artisti e pensatori dell’epoca,
è figlia dello zeitgeist, cioè di quello “spirito del
tempo” che registrò l’allontanamento dalla pura
sperimentazione estetica a favore di un pratico
funzionalismo. La Weisse Stadt fu infatti ideata
sulla base di criteri che guardavano principalmente
alla razionalità e all’efficienza economica, dovendo
rispondere alla grave mancanza di alloggi scaturita
alla fine della prima guerra mondiale. Diviene
quindi esempio emblematico del suo tempo,
grazie alla creatività di Martin Wagner, architetto e
planner tedesco che, insieme a Bruno Taut e Martin
Gropius, fu tra i principali fautori di un movimento
di urbanizzazione modernista che influenzò tutto il
mondo.
A soli quindici minuti a nord della centralissima e
turistica Alexanderplatz, a questa zona si giunge
scendendo alla stazione metro di Paracelsus Bad,
il cui sapiente e geometrico gioco di luci ed ombre
riporta inequivocabilmente alla scuola Bauhaus
che fu fondata appunto da Gropius, e che festeggia
quest’anno il suo novantesimo anniversario.
In una cupa mattinata invernale, le strade deserte,
l’evidente distribuzione schematica degli edifici che
si snodano ordinati sulle direttrici principali nella
loro bianca sterilità, mostrano di questo quartiere
dormitorio la vena più triste. Mentre ci si perde nella
sequenza tutta uguale di viuzze si è colti tuttavia da
emozioni contrastanti. Basta infatti uno spiraglio di
sole perché la cittadella cambi espressione, perché
le facciate candide evidenzino i tratti architettonici
che ne hanno decretato il valore universale: le logge, i
tetti piani, gli inserti di pietra nuda che incorniciano le
finestre delle scale interne, allineate una sopra l’altra
al di sopra dei portoni principali, e infine i rigogliosi
giardini. Alberi maestosi e fitte siepi si intersecano
armonicamente alle zone abitative come un perfetto
La Città Bianca
1look lateral
diPaolaMarchini
5. puzzle, impedendo che questo angolo berlinese
sia l’ennesimo esempio malriuscito di un’edilizia
suburbana povera di mezzi. Eppure l’idea che
qualcosa rispetto alle intenzioni fondatrici sia andato
storto non abbandona. Ci si accorge velocemente
che il problema viene dall’alto: è il rombo assordante
dei jet che con spaventosa regolarità sfiorano questi
condomini ogni cinque minuti a tacitare il sogno di
una tranquilla vita di sobborgo. Certo non si poteva
prevedere nel 1929 la nascita proprio dietro l’angolo
del Tegel, l’aeroporto che solo lo scorso anno ha
portato più di quattordici milioni di passeggeri in
questo tratto di “cielo sopra Berlino”.
Ma tutto ciò è destinato a cambiare: presto si
respirerà aria nuova, non c’è che da aspettare un po’.
L’aerostazione intitolata al pioniere dell’aviazione Otto
Lilienthal, costruita nel 1948 in piena guerra fredda,
verrà chiusa nel 2012 per lasciare posto al nuovo
Berlin-Brandenburg International Airport a sud della
città, ben lontano da qui.
E allora l’unico rumore che si sentirà sarà quello
delle voci disordinate dei giovani che come topini, alle
quattro del pomeriggio, finita la scuola, cominciano
a spuntare da ogni dove. Figli del melting pot, di
una società in cui le razze si sono amalgamate
così omogeneamente da non essere più facilmente
riconoscibili sui loro volti, saranno loro ad assicurare
alla città bianca un futuro a colori.
4
7. 76
controverso guru della pubblicità e patron dell’arte, Charles Saatchi,
personaggio discusso non solo per il conflitto generato dal duplice
ruolo di collezionista e di mercante, ma anche per la predilezione,
secondo i detrattori, per una certa produzione scandalistica.
Nato a Baghdad nel 1943 da famiglia ebrea, si trasferisce a Londra
nel 1950. Arriva al successo con la creazione, insieme al fratello
Maurice, di quella che negli anni Ottanta fu l’agenzia pubblicitaria
più grande del mondo, la Saatchi & Saatchi, da cui rompe per
contrasti e fonda nel 1995 la rivale M&C Saatchi.
Evento decisivo per la svolta della sua vita è l'incontro con l'opera
di Jackson Pollock al MoMa di New York. Nel 1985 il desiderio
di rendere l’arte accessibile a tutti, non solo alla ristretta cerchia
di compratori e galleristi, lo porta a esporre le sue straordinarie
collezioni.
Da allora diviene artefice della fortuna di molti giovani artisti bri-
tannici, Young British Artists, noti con l’acronimo YBAs. Uno fra
tutti Damien Hirst, divenuto icona degli anni Novanta con l'opera
intitolata L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivente,
un enorme squalo conservato sotto formaldeide in casse trasparenti,
acquistata da Saatchi per 50 mila sterline nel 1991 e rivenduta
tredici anni dopo all’esorbitante cifra di 7 milioni.
La consacrazione a potente mecenate dell’arte arriva nel 1997
quando la Royal Academy di Londra esibisce 110 opere di sua
proprietà in una mostra itinerante intitolata, non a caso, Sensation,
termine ambiguo che significa non solo sensazione, emozione, ma
anche senso, scalpore, impressione.
Da New York a Berlino, il lavoro dell’Inglese Marcus Harvey fa
versare fiumi d’inchiostro e gridare allo scandalo. La gigantesca
riproduzione pittorica della foto segnaletica di Myra Hindley, assas-
sina che negli anni Sessanta insieme all’amante torturò e uccise
quattro bambini e un adolescente, prende forma dalle impronte di
tante piccole mani.
Ci si chiese allora fino che punto, alla fine del secolo scorso, l’arte
potesse spingersi, se fosse arte anche inscenare i più carnali e
In questa pagina, da sinistra in senso orario: Dead Dad, di
Ron Mueck; Angel, di Sun Yuan and Peng Yu, 2008; Myra,
di Marcus Harvey, 1995; Old Persons Home (dettaglio),
di Sun Yuan and Peng Yu, 2007; Yalta No.2, di Shi Xinning,
2006.
8. look lateral 77
bassi istinti umani: violenza, morte, sessualità. O se il vero intento
non fosse piuttosto generare un coup mediatico orientato al
business.
Provocazione fine a se stessa, o invece evoluzione dell’arte?
Sta di fatto che la prima mostra di Saatchi nella nuova sede, The
revolution continues: new art from China, è stata da record: in tre
mesi 500 mila visitatori. La rassegna ha esaminato, spesso irridendo,
le tradizioni, i cambiamenti e le contraddizioni della Cina. Molti sono
gli artisti che rileggono l’eredità lasciata da Mao, con la convinzione
che la sua importanza sia stata trascurata dall’Occidente. Come
l’irriverente Shi Xinning che riscrive la storia, inserendo il dittatore
cinese in un dipinto raffigurante il senato americano e lo siede tra
Churchill e Roosvelt nella foto simbolo della Conferenza di Yalta
(1945).
La panoramica ha dato grande risalto alla scultura, confermando
anche la passione di Saatchi per l’arte figurativa iperrealista. Una
inclinazione evidenziata già nel 1997 quando puntò i riflettori su
Ron Mueck, un model maker australiano convertitosi alle belle arti
che, con attenzione maniacale per i dettagli e l’abile stravolgimento
delle reali dimensioni umane riesce a produrre lavori sconcertanti,
come Dead Dad, che lo ha reso famoso. La struggente scultura in
silicone, tecniche miste e veri peli umani, raffigura il padre morto,
nudo, in scala ridotta per sottolinere la fragile evanescenza della
vita. Con lo stesso scioccante e puntiglioso realismo Zun Yang e
Peng Yu creano l’Angelo caduto. Il volto di un vecchio uomo sotto
il peso delle sue stesse ali ispira timore reverenziale e compassione
allo stesso tempo. Mentre Communication, autoritratto di Can Xing,
performing artist che fa del suo corpo il mezzo con cui esprimersi,
strappa un sorriso e incuriosisce. Una scultura che lo raffigura,
mentre lecca il pavimento su cui è prostrato perchè, egli afferma,
è attraverso la lingua, parte del corpo tra le più intime e sensibili,
che si può raggiungere la comunione religiosa tra essere umano,
ambiente e cose. Obiettivo che lui, sciamano bona fide, si prefigge.
Ma il lavoro che più ha riscosso successo è Old persons home,
Qui, Ghost, di Kader Attia, plotone di donne inginocchiate in
preghiera, 2007; The physical impossibility of death in
the mind of someone living; Tiger shark, glass, steel,
formaldehyde solution, di Demian Hirst, 1992; Untitled
from the Ghajar Series, di Shadi Ghadirian, 1998-1999;
Untitled from the Like Everyday Series, di Shadi
Ghadirian, 2000-2001.
9. 78
ossia Ospizio, un’altra opera del duo Yang e Yu. Tredici figure a
dimensione reale raffiguranti i grandi della terra accasciati su sedie
a rotelle. Castro, Arafat e compagni, errano per la sala in una sorta
di spietato autoscontro globale.
Come i cinesi, anche gli artisti mediorientali nell'evento appena con-
cluso dal titolo Svelata: la nuova arte dal Medio Oriente, affrontano
in maniera coraggiosa tematiche politico-ideologiche.
Prima tra tutte, la condizione femminile nella società odierna, oggetto
della satira più feroce. Sono donne i cui volti sbiadiscono come in
vecchie fotografie; oppure ritratti ufficiali in cui appaiono eleganti e
fiere mentre imbracciano l'aspirapolvere, o con i veli che coprono
il volto sostituiti da grattugie, ferri da stiro, arnesi che ricordano
l’immutevole e prigioniero ruolo domestico.
Nella suggestiva installazione di Kattir Attia, Ghost, plotone di donne
inginocchiate in preghiera, è sintetizzato da modellini in carta d’al-
luminio: sempre uguali, senza volto, senza identità. Donne piegate
e soggiogate al proprio immutevole ruolo domestico, che vivono in
prigioni senza sbarre. Opere lapidarie, che non possono lasciare
indifferenti.
Come quelle ora esposte in Abstract America: new paintings and
sculptures, tra cui spiccano le pagine di una quotidianità trasfigurata
dal colore di Eric e Heather ChanSchatz, l'ironia di Stephen Rho-
des, capace di stravolgere le forme in un'invenzione da cartoon. E
ancora, i lavori di Dan Walsh, presentati anche a Milano alla galleria
Paolo Curti/Annamaria Gambuzzi & Co.: grandi acrilici colorati,
quasi monocromi nei quali l’uso ricorrente di un alfabeto composto
da semplici elementi geometrici, linee, quadrati, rettangoli... crea
composizioni astratte che dialogano e sono divenuti sempre meno
“trascendenti” e più corporee, come colorate tovaglie estive. Nelle
sculture di Carter in cellulosa, plastica e gel prende se stesso a
modello dell'evoluzione di un uomo gay che diventa stereotipo
dell'odierna omosessualità. Mark Grotjahn impagina le sue forme
allungate in progressione logica e prospettica, crendo l'illusione
ottica di un pulsare di arcobaleni.
Saatchi: astuto burattinaio mediatico, abile mercante, o geniale
propulsore dell’arte contemporanea? Sicuramente caustico e refrat-
tario ai giornalisti. Al cronista del Sunday Times che gli chiede se le
sue mostre trattano di Saatchi collezionista o di Saatchi mercante,
risponde secco: “trattano di arte, stupido”.
A sinistra: 1949, Self Portrait as a Homosexual, 1965,
1970, di Carter, 2006; sopra, Magnolia Blvd, di Patrick
Hill, 2006; a destra, K Is Multiplied, di Halsey Rodman,
2004 - 2007.
A sinistra, Recondite, di Sterling Ruby,
2007; sotto, Continent, di Jacob
Hashimoto, 2007.
A sinistra, PTG.96 M-P, di Eric and He-
ather ChanSchatz, 2007; sotto a sinistra
Untitled (large coloured butterfly
white background 10 wings), di
Mark Grotjahn, 2004.
A sinistra, Red Diptych II, di Dan Walsh,
2005; a destra, Untitled (Lavender
Butterfly Jacaranda over Green), di
Mark Grotjahn, 2004.
Sopra, Ssspecific
Object, di Stephen G.
Rhodes, 2006.
ABSTRACT AMERICA
NEW PAINTINGS AND SCULPTURE
dal 3 giugno al 15 settembre
10. NEL PAESE DELLE
MERAVIGLIE
DIGITALI
IL VICTORIA AND ALBERT MUSEUM DI LONDRA, IN COLLABORAZIONE CON
ONEDOTZERO, METTE IN SCENA FINO ALL’11 APRILE 2010 IL MEGLIO DELLA
CREAZIONE DIGITALE IN DECODE: DIGITAL DESIGN SENSATIONS, APRENDO
UNO SQUARCIO SUL FUTURO DELL’ARTE DI CUI CONSACRA
UN NUOVO PROTAGONISTA: LO SPETTATORE
di Paola Marchini
1sguardo corrente look lateral
11. Una esibizione piena di sorprese, a cominciare dalla location
principale, il V&A, museo normalmente votato alle collezioni storiche,
che con questo progetto dimostra invece di aver intrapreso con vigore
la strada dell’innovazione e della sperimentazione, anche in quanto
possessore della più vasta collezione di media art al mondo.
La rassegna, composta da opere create negli ultimi 5 anni o
commissionate appositamente, è vasta, va dai semplici e piccoli
monitor alle installazioni interattive su grande scala, e si dipana in
diverse location: il Science Museum, la stazione di South Kensington
ma principalemnte in una nuova ala della V&A, la Porter Gallery.
Spazio a cui si accede varcando un’entrata imponente composta da
pannelli rotanti rivestiti in fibra di carbonio riflettene alti 7 metri; un
portone che è tutto una promessa di ciò che verrà. Attraversandolo
si giunge infatti a un corridoio angusto e nero, costeggiato da due fitti
filaridiquellichesembranoesserelunghistelid’erbasullacuicimasi
accendono al tocco piccoli pistilli in led (Dune di Daan Roosegaarde).
La musica che ne esce poi, un trillio leggero che aleggia nell’aria
seguendoci, contribuisce non poco a creare un senso di emozione e
spaesamento. Ed ecco che appare la magia, ci si sente un po’ Alice
nel paese delle meraviglie, giacché le “creature” in esposizione,
immerse in una piccola stanza buia sono tutte colori, luci e suoni che
mutano, si trasformano al nostro passaggio, ad un
nostro gesto, ad una parola. Il richiamo è forte. Curiosi,
ci avviciniamo al primo screen, poi al secondo, ammirando le forme
che nascono in reazione al nostro agire, come nel caso del lavoro
di Aaron Koblin, con il quale è possibile manovrare la trasposizione
tridimensionale del volto di Thom Yorke, leader della band inglese
Radiohead, grazie ad un complesso gioco di laser e sensori. Oppure
On Growth and Form, una parata di fiori esotici che sbocciando si
tramutano in ipnotica tappezzeria digitale. O ancora l’inquetante
Opto-isolator II, l’occhio meccatronico, cioè funzionante mediante
un sistema integrato di componenti meccaniche, elettroniche e
informatiche, che “scruta” chi gli sta di fronte. Non ci vuole molto
per capire che qui l’onnipresente divieto “per favore non toccare” è
sostituito da un tacito “per favore toccate, agitatevi, urlate, saltate!”.
Dictat a cui non ci si vuole certo sottrarre: uno sguardo a sinistra,
uno a destra, per accertarsi che nessuno ci veda mentre, ad esempio,
ci dimeniamo come tarantolati di fronte a Body Paint (vedi sopra),
grande display virtuale sul quale “dipingere” con il proprio corpo
affreschi caleidoscopici e in costante evoluzione.
2
12. In apertura, in alto Dune di Daan Roosegaarde, sotto, Opto-Isolator II di Golan
Levin; nella pagina a fianco, Body Paint di Mehmet Akten e a sinistra House of
Cards di Aaron Koblin. In questa pagina la silhouette di un bambino che gioca
con un virtuale fiore di tarassaco: Digital Dandelion della ditta Sennep. Nelle due
pagine seguenti Videogrid di Ross Phillips.
3sguardo corrente look lateral
14. È sì perché la cosa che più rimane impressa, è che ci si diverte un
sacco, ci si anima, concetti raramente associati alle visite museali.
Una novità fra le novità.
Tra gli sviluppi più innovativi e onorevoli in tema di design digitale
presentati, vi è il concetto di “open source code”, traducile con
“codice accessibile” cioè che può essere modificato da chiunque, qui
esemplificato da Recode. Un programma ideato da Karsten Schmitt,
che è scaricabile da internet, e per il quale Karsten ha persino
disegnato l’interfaccia grafica, così da consentire anche a chi non è
un programmatore esperto di esprimere la propria fantasia in pixel.
Software generativi, animazione 3D ed altre tecnologie reattive fanno
sì che vi sia un elemento “vivo” introvabile altrove.
Una rivoluzione sostanziale quindi che registra il crollo del muro
che ha sempre separato creatore e spettatore, e sfuma il confine tra
mezzi, metodologie, programmazione e performance.
E pensare che sono già passati più di 40 anni da quando, nel 1968,
Jasia Reichard scelse di esibire presso l’Institute of Contemporary
Art della capitale britannica Cybernetic Serendipity: Computers and
Arts; il primo tentativo di riunire sotto uno stesso tetto le varie forme
di arte creata con l’utilizzo di computer. Robotica, scultura, musica
e poesia a testimoniare l’uso della cibernetica nella produzione
artistica contemporanea. Da allora però l’evoluzione è stata enorme,
anche in termini di coinvolgimento umano. Dalle poche decine di
computer artists negli anni sessanta, si arriva oggi ad una comunità
di centinaia di migliaia di operatori, numeri che hanno innalzato la
qualità e creato competizione.
Tutto fantastico, penserete. Ma anche questa realtà presenta un
rovescio della medaglia. L’evoluzione delle tecnologie, e delle nuove
possibilità che queste offrono avviene a velocità esponenziale; il che
porta inevitabilmente alla breve longevità delle opere create, con
annesso tutta una serie di complessi problemi pratici. Primo fra
questi, le competenze. Competenze di chi, all’interno di un istituzione
museale dovrà essere in grado di riconoscere, gestire, e mantenere
in vita il capolavoro. Non dimenticando poi il collezionista, il quale,
nel valutare l’investimento dovrà soppesare il fatto che tra solo una
decina d’anni potrebbe trovarsi in possesso di un qualcosa di morto,
inutilizzabile poiché animato da tecnologia ormai obsoleta il che,
tradotto in moneta, equivarrebbe a un assegno a vuoto. Ne deriva
la necessità di ripensare a come porsi di fronte alle
nuove forme d’arte e a come valutarle.
Creatività senza frontiere, immaterialità, intangibilità, e un dubbio,
derivante dall’osservare le file impazienti che si formano davanti
a Venetian Mirror, due metri di schermo ad alta definizione che,
per mezzo di una videocamera, riflette l’immagine di chi vi si pone
dinnanzi o a Videogrid, installazione che permette agli utenti di
registrare brevi video che vengono immediatamente trasmessi a
scacchiera su di un mega televisore, solo per citare alcuni esempi.
Inevitabile chiedersi pertanto se il grande apprezzamento dimostrato
dal numeroso pubblico di questa collettiva londinese sia dovuto alla
meraviglia nello scoprire le possibilità infinite del mondo digitale o
non sia bensì il ruolo di protagonista che questa regala, anche se
solo per pochi istanti? Il sottile piacere provato nel vedere la propria
immagine sulla parete di uno dei più autorevoli musei del mondo?
Aveva forse ragione Gustave Flaubert quando diceva che “la vanità
è alla base di tutto”? Il dubbio è plausibile e rimane, ma una cosa è
certa: questa mostra è da non perdere.
5sguardo corrente look lateral