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La censura e la morale sessuale nell’Italia
del Boom economico
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Lettere e Culture moderne
Corso di laurea in Letteratura Musica e Spettacolo
Matteo Torella
Matricola 1867316
Relatore
Prof. Roberto Gigliucci
A.A. 2020-2021
- 2 -
Ai miei genitori
- 3 -
INDICE - SOMMARIO
Introduzione...................................................................................................6
Capitolo primo
INTRODUZIONE STORICA
1. Definizione del concetto di censura.........................................14
1.2. Censura: evoluzione della disciplina normativa nel
contesto italiano.............................................................................15
Capitolo secondo
PASOLINI E IL PROCESSO A “RAGAZZI DI VITA”
1. Pasolini: da “piccolo profeta” a “poeta maledetto”........................27
2. Quando il “Ferrobedò” era un trittico..............................................28
3. L’incontro con Garzanti.....................................................................32
4. Bozze “da correggere e da castrare”: i giorni dell’autocensura....36
5. “Il mio libro letto dagli altri”: quando “Ragazzi di vita” è
stampato e va per la sua strada.........................................................40
6. Il processo a “Ragazzi di vita”...........................................................42
- 4 -
Capitolo terzo
GIORGIO GABER: LA CENSURA DI UN
INTELLETTUALE
1. Giorgio Gaberscik....................................................................................52
1.2 Gaber e la “nuova canzone”..............................................................55
1.3 Genesi del “Signor G”........................................................................56
2 La metamorfosi........................................................................................61
2.1 Modelli e influenze del “Teatro canzone”............................................63
2.2 Gli anni Settanta......................................................................................66
2.3 “Io se fossi Dio”.......................................................................................72
Capitolo quarto
DUE CASI DI CENSURA CINEMATOGRAFICA:
“ULTIMO TANGO A PARIGI” E “SALO’ O LE 120
GIORNATE DI SODOMA”
1. Bernardo Bertolucci............................................................................77
1.1 “Ultimo tango a Parigi”..........................................................................80
- 5 -
1.2 Autocensura e processo.........................................................................84
2 Pasolini cineasta.......................................................................................89
2.1“Salò o la 120 giornate di Sodoma”........................................................92
2.2 La censura................................................................................................97
Osservazioni conclusive............................................................102
Bibliografia..................................................................................104
- 6 -
Introduzione
In pochi anni la comunicazione, con l'avvento del digitale, è passata dall'era della scarsità a quella
dell'abbondanza. Dalla nascita della tv, nel 1954, fino al 1961 in Italia l'etere era monopolizzato da
una sola rete televisiva, il “Nazionale”, mentre oggi abbiamo centinaia di canali a portata di
telecomando. Nel 2001 i siti web registrati in Italia erano circa 100.000, cinque anni dopo erano già
diversi milioni. All'inizio del 2017, ogni minuto il motore di ricerca Google riceveva 3,8 milioni di
richieste, Facebook circa 3,3 milioni di post e 1,8 milioni di Like, nascevano 571 nuovi siti e 70 nuovi
domini, su YouTube venivano caricate 500 ore di video, su Twitter si cinguettava 488.000 volte.
Questa alluvione incontrollata e incontrollabile di contenuti sembra rendere velleitario qualunque
tentativo di controllo o censura, come svuotare l'oceano con una tazzina da caffè. Basta invece
leggere con attenzione una qualunque rassegna stampa di politica internazionale per verificare che
la censura è ancora pratica corrente in tutto il globo. In genere sembrano le ripicche goffe e inefficaci
di un piccolo satrapo che non ha capito come funziona il mondo. In realtà, come tutte le forme di
censura, la repressione serve da deterrente: colpirne uno per educarne cento. È la stessa logica con
cui si muovono i poteri (e le mafie e le milizie) che minacciano, feriscono, uccidono i giornalisti
scomodi: non tanto perché abbiano scoperto o stiano per scoprire quello che è già sotto gli occhi di
tutti, ovvero che il potere è corrotto e corrompe, quanto per lanciare un avvertimento: se dici che il
re è nudo, rischi di fare la stessa fine.
Nei regimi totalitari la situazione è tragicamente chiara – oggi come un secolo fa -, come racconta
l'ultimo saggio di Tzvetan Todorov: Il “sogno di un amore reciproco tra artisti e rivoluzionari”, il
“fascino per l'ideale” e i “nobili obiettivi” vengono presto travolti dalle “conseguenze indesiderabili”
fatte di “distruzioni, violenza, crudeltà”1. Il modus operandi delle dittature odierne è
sostanzialmente lo stesso di quelle protagoniste del XX secolo: controllo assoluto dei mezzi di
comunicazione, repressione del dissenso politico ed un costante tentativo di screditare il “way of
life” e il sistema di valori su cui si basano le società politicamente avverse al regime di turno.
Nel paese più popoloso del mondo, la Cina, vengono oscurati tra l'altro social come Facebook,
Twitter, Instagram, Pinterest, Tumblr, Snapchat, Picasa, WordPress.com, Blogspot, Blogger, Flickr,
SoundCloud, Google+, Google Hangouts, Hootsuite; applicazioni come Google Play, Line, KaKao
Talk, Telegram; motori di ricerca come Google, Duck Duck Go, oltre che diverse versioni estere di
Baidu e Yahoo; tra i media non sono accessibili testate “sovversive” come “The New York Times”,
1 T. Todorov, L'arte nella tempesta. L'avventura di poeti, scrittori e pittori nella Rivoluzione russa, traduzione di
Emanuele Lana, Garzanti, 2017.
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“Financial Times”, “The Wall Street Journal”, “The Economist”, “Bloomberg”, “Reuters”, “Le
Monde”, “L’Equipe”, Netflix, Youtube, Vimeo, Google News, Daily Motion, molte pagine di
Wikipedia, Wikileaks; e sono bloccati anche quasi tutti i siti porno.
In occasione del Congresso del Partito Comunista, dell'ottobre 2017, i censori cinesi hanno creato un
curioso paradosso: hanno continuato a oscurare numerosi siti, ma non hanno censurato la notizia
della BBC in cui si denunciava la censura “made in China”. Una distrazione? Forse un tentativo di
dimostrare che la censura non esiste? Oppure la prova definitiva della potenza di un meccanismo
talmente potente che si può permettere di farsi pubblicità attraverso la BBC?2.
Innanzitutto, va sottolineato che la censura è un fenomeno umano e come tale va analizzato. Essa,
come è facile riscontrare, è nata parallelamente alla nascita delle prime società antiche e, come ogni
attività umana, si è evoluta per far fronte alle necessità di controllo riscontrate, di volta in volta, dai
detentori del potere in quel dato sistema. Nell’antica Roma, i pontefici prima e gli imperatori poi,
sovraintendevano al controllo dei costumi e all’espletamento da parte di tutti i cittadini di quei rituali
fondamentali per garantire la pax deorum e quindi la prosperità della città stessa. La comprovata
trasgressione del mos maiorum – il sistema di valori su cui si reggeva la società dell’antica Roma –,
attuabile anche attraverso la realizzazione di opere che potessero in qualche modo sobillare il popolo
e, in misura variabile, aizzarlo contro la Repubblica o l’imperatore, poteva comportare l’esilio o, nel
peggiore dei casi, la condanna a morte: ne sanno qualcosa poeti come Cicerone, Seneca, Ovidio.
Se scorriamo la linea del tempo, possiamo facilmente imbatterci in dinamiche simili nel quadro
storico dell’Italia dei comuni. L’esilio di Dante dalla città di Firenze, nel contesto della guerra fra
guelfi bianchi e guelfi neri, ne è un celebre esempio. Andando ancora più avanti ci imbattiamo nelle
vicende legate alla figura di Niccolò Macchiavelli, poi di Ugo Foscolo e, per non limitarci al solo
contesto italiano, possiamo menzionare Victor Hugo, ma anche compositori come Fryderyk Chopin,
Richard Wagner e scienziati come Galileo Galilei, Albert Einstein e Sigmund Freud. Insomma, la
censura ha agito e agisce tutt’ora seguendo una sola massima fondamentale: quando non si può
contenere il danno attraverso la repressione, la causa di questo va identificata ed estirpata alla radice.
E le dinamiche con le quali quest’opera di rimozione può essere condotta svariano, appunto,
dall’eliminazione fisica dei personaggi ritenuti eversivi – attraverso, come detto, l’esilio o
l’esecuzione capitale -, praticata di frequente quasi solo nei regimi dispotici; alla delegittimazione
morale delle figure che si sono fatte portavoce di determinate istanze eversive, praticata spesso e
volentieri anche nelle democrazie contemporanee.
Non bisogna, difatti, commettere l’errore di credere che la censura sia un fenomeno legato
esclusivamente ai regimi dispotici che si sono resi protagonisti dei più efferati crimini contro
2 Se Pechino censura la censura: per censurare di più, La Stampa, 25 ottobre 2017.
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l’umanità nel corso del Novecento, e che quindi essa sia “crollata”, insieme con il muro di Berlino,
quel fatidico 9 novembre 1989. La censura, come già ribadito, ha origine umana e pertanto capacità
metamorfiche che le hanno consentito di sopravvivere e di rinnovarsi all’interno dei regimi
democratici che sono sorti sulle ceneri delle dittature, fascista e nazista prima, sovietica poi. Basti
pensare, per ciò che concerne l’Italia, che essa fu introdotta nel 1913 dal governo Giolitti per
autorizzare “il governo del Re ad esercitare la vigilanza sulla produzione delle pellicole
cinematografiche, prodotte all’interno o importate dall’esterno”. Circa dieci anni prima della Marcia
su Roma. Sarebbe pertanto errato voler confinare questo fenomeno all’interno di un singolo periodo
e di un singolo sistema di governo che, per quanto possa aver portato all’esasperazione il concetto
di censura estendendola a tutti gli aspetti della vita, financo privata delle persone, di fatto lo procede.
Non solo, gli sopravvive.
Infatti, La Repubblica italiana, sorta all’indomani del referendum del 2 giugno 1946, ereditando
sostanzialmente la legislatura prodotta in epoca monarchica in materia di censura ha impostato il
proprio operato nel segno della continuità tanto con l’Italia monarchica, quanto con quella fascista –
anche a causa della permanenza, all’interno della macchina statale, di figure ampiamente
compromesse con il regime. L’unico aggiustamento fatto fu quello relativo alla legge n. 161 del 21
aprile 1962, la quale, pur apportando alcuni cambiamenti, confermava il mantenimento di un sistema
preventivo di censura e assoggettava al rilascio del nullaosta la proiezione pubblica dei film e la loro
esportazione all’estero. Non bisogna, fra l’altro, lasciarsi ingannare dalla menzione della sola arte
cinematografica, all’interno del testo della legge. Il motivo può essere ricondotto al “terrore” che
questo nuovo mezzo incuteva, e al fatto che esso rappresentava appunto una novità, le cui
potenzialità ancora dovevano essere del tutto esperite. Sebbene il regime fascista, e ancor più quello
nazista, avessero già dato prova della potenza di questo medium, servendosene in maniera massiccia
per veicolare le rispettive ideologie in maniera capillare fra la popolazione.
Di fatto, le varie commissioni di censura hanno operato fin dal primo istante a macchia d’olio,
passando al setaccio ogni forma di espressione artistica e intellettuale: dal romanzo alla pièce,
dall’articolo di giornale alla canzone, dalla pellicola cinematografica alla performance televisiva.
Inoltre, bisogna tenere ben presente che non vi sono differenze qualitative fra la censura attuata dal
regime e quella messa in pratica dalla Repubblica, non esiste una censura cattiva e una buona. Se è
vero che il regime la metteva in pratica anche attraverso la violenza fisica e materiale, cui abbiamo
già accennato, nella presente trattazione verranno trattati casi emblematici relativi al periodo del
dopoguerra che rendono bene l’idea di come non sia necessario imprigionare, esiliare o uccidere una
persona per ridurla al silenzio. È proprio qui che emerge una delle differenze più evidenti fra la
censura fascista e quella repubblicana, nel primo caso si tendeva a prediligere l’eliminazione fisica
- 9 -
dei personaggi ritenuti scomodi, mentre nel secondo – e ritorniamo al concetto di evoluzione della
censura e dei mezzi per attuarla – si è progressivamente affermata la prassi della condanna morale,
con conseguente svilimento dell’immagine pubblica dell’”eversivo” di turno, finalizzata ovviamente
a minarne la credibilità presso l’opinione pubblica. Ne sa qualcosa l’autore che tratto nel primo
capitolo della presente trattazione: Pier Paolo Pasolini. È senza ombra di dubbio lui l’intellettuale
che è stato maggiormente vessato dal meccanismo della censura in Italia, fin dal suo primissimo
romanzo, “Ragazzi di vita”. La pubblicazione dell’opera venne da subito osteggiata, a Pasolini
furono consigliati (di fatto imposti) molti tagli e rimaneggiamenti, in primis dal suo editore Garzanti,
soprattutto del lessico popolare ritenuto eccessivamente scurrile. Il problema del romanzo era
proprio questo: Pasolini aveva deciso di portare sul proscenio della letteratura impegnata gli ultimi,
i diseredati, i “borgatari” romani che, nell’immediato dopo guerra, vivevano in condizioni più che
subalterne e sopravvivevano attraverso espedienti e piccoli crimini. E se per lui queste persone, e le
loro storie, erano più che meritevoli di essere raccontati all’interno di un romanzo, non era della
stessa opinione l’élite culturale, e soprattutto politica, dell’epoca. Per denunciare l’opera i vari
censori si appellarono alla trivialità del lessico dei protagonisti e alla presunta oscenità di taluni
episodi raccontati all’interno del racconto. La realtà è che per la coscienza borghese, intrisa di
cattolicesimo, imperante all’epoca era inaccettabile che personaggi così umili, se pur così rispondenti
alla realtà, trovassero spazio all’interno del pantheon della letteratura. Semplicemente non ne erano
degni, e non ne era degno neanche l’autore che aveva avuto tale iniziativa. Fu proprio con Pasolini
che si mise in atto, per la prima volta in maniera così eclatante, quel tentativo di condanna morale
cui accennavo prima. Il processo che fu intentato ai suoi danni nel 1955 a seguito della pubblicazione
del romanzo fu l’occasione per l’inizio di un altro processo, quello mediatico, che non prendeva di
mira il suo operato in quanto romanziere o intellettuale bensì la sua persona. Pasolini era già finito
in tribunale qualche anno prima, a seguito di una denuncia per corruzioni di minori e atti osceni in
luogo pubblico e, sebbene ne fosse uscito assolto, quel precedente fu abilmente utilizzato dai suoi
detrattori per minarne la credibilità agli occhi dell’opinione pubblica.
Questo episodio ci fornisce la possibilità di prendere in considerazione un’altra differenza
importante fra la censura fascista e quella post Seconda guerra mondiale. L’operato della prima era
esclusivamente finalizzato all’eliminazione di qualsiasi forma di opposizione politica ma non
nutriva reali velleità nel diffondere un modello unico di comportamento – eccezion fatta per quel
machismo militarista in realtà proprio di ogni regime autoritario. Al contrario, nel secondo caso, la
censura borghese – nell’accezione più Pasoliniana, quindi negativa, possibile – espressione, appunto,
della classe sociale dominante, pretendeva che vi fosse un’omologazione assoluta al modello che
essa condivideva e rappresentava. Venuto meno il problema della repressione del dissenso politico,
- 10 -
essa ha trovato una nuova missione nella regolamentazione, totale e pervasiva, della vita delle
persone. Il fulcro dell’intero discorso è divenuto ora il senso del pudore, nel senso più cattolico e
conservatore possibile, il rifiuto dell’oscenità, della nudità, dell’omosessualità. Il ruolo che prima era
idealmente affidato al duce è stato presto ereditato dalle élite ecclesiastiche nell’Italia del dopoguerra
e, di fatti, le commissioni di censura hanno sempre lavorato a stretto contatto con le associazioni
cattoliche dislocate sull’intero territorio nazionale. Proprio da queste sono pervenute la maggior
parte delle denunce ai danni dei più svariati artisti. Se ne trova facilmente testimonianza nelle lettere
che cito, fra l’altro, nel primo capitolo: un botta e risposta fra l’allora sottosegretario con delega al
teatro e allo spettacolo, Andreotti, e l’Azione Cattolica di Varese, in cui entrambe le parti si accusano
reciprocamente di eccessivo lassismo nell’attuazione pratica della censura.
Alla luce di ciò, chi potrebbe affermare che la dichiarata omosessualità di Pasolini non abbia
minimamente influito nel renderlo ancor più antipatico al sistema? Esattamente, nessuno.
Essa poi diverrà un argomento assolutamente scottante quando, vent’anni dopo, egli denuncerà
attraverso il grande schermo tutta la depravazione a cui può condurre il potere, nel film più turbante
che personalmente abbia mai visto: “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Purtroppo o per fortuna,
Pasolini non visse abbastanza a lungo per subire l’ennesimo processo, giudiziario prima e mediatico
poi, della sua vita.
Certo, la tematica dell’omosessualità ha sempre scaldato gli animi dell’universo cattolico nel nostro
bel paese, ma non è l’unica ad aver destato scandalo. Nel terzo capitolo della presente trattazione,
insieme con il film di Pasolini appena menzionato, tratto anche un altro celebre caso di censura
cinematografica, anzi, il caso più celebre in assoluto. Mi riferisco ovviamente al film che ha
definitivamente proiettato nell’olimpo del cinema Bernardo Bertolucci: “Ultimo tango a Parigi”.
Uscito nel 1972 - già a seguito di una autocensura imposta dalla Commissione che impose al regista
il taglio di otto secondi della scena iniziale - il film divenne nel giro di poche settimane un caso a
livello mondiale. Osannato alle première di Parigi e di New York, in Italia il film destò tanto scandalo
da portare la Cassazione a disporre, a seguito della sentenza del 29 gennaio 1976, la distruzione di
tutti i negativi esistenti, condannando di fatto all’oblio la pellicola del regista parmense.
Qual era la sua colpa? Ancora una volta, nient’altro che aver avuto l’ardore di portare sul grande
schermo una storia d’amore non convenzionale, una storia vera. Le poche scene di nudo che si
registrano all’interno della pellicola – la tanto demonizzata “scena del burro”, in realtà, non mostra
assolutamente nulla di osceno – furono in realtà utilizzate come puro pretesto. Il vero problema era
che la pellicola operava una decostruzione del modello vigente di amore, portando in scena un
rapporto che non si identificava in alcun modo nella “famiglia del mulino bianco”, che invece la
cultura dominante voleva passare. Il rapporto morboso che si instaura fra il vedovo Paul e la giovane
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Jeanne, fatto di rapporti estemporanei e violenti, consumati nello spazio di un appartamento
squallido e semi vuoto in Rue Jules Verne, è in realtà una critica alla società alienante che il regista
stesso vive e vede intorno a sé. Il film rappresenta il fallimento degli ideali rivoluzionari che avevano
riempito gli anni immediatamente precedenti, quelli della contestazione giovanile del ’68 e delle
successive lotte operaie. È la constatazione dell’impossibilità, per l’uomo comune inserito in società,
di trovare uno spazio in cui essere pienamente sé stesso e pienamente appagato, ed è per questa
ragione che il film si svolge tutto al di fuori della società stessa. Il regista inaugura in questa pellicola
la sua poetica “in the box”, tutta la storia si dispiega all’interno delle quattro mura dell’appartamento
sopra citato e non appena Paul tenterà di redimersi e di fuoriuscire da quella prigione, più mentale
che fisica, l’esito sarà catastrofico. Nulla di quanto detto riguardo questo capolavoro avrebbe dovuto,
in teoria, giustificare una condanna tanto severa, eppure quando parliamo di “Ultimo tango a
Parigi”, parliamo del film il cui bando è durato più di qualunque altro nella storia della censura
cinematografica italiana: in totale ben quindici anni, dal 1972 al 1987.
L’ultimo campo che prendo in analisi è quello relativo al mondo discografico musicale. In questo
caso il soggetto prediletto è il mitico Signor G. Voler ridurre la figura di Giorgio Gaber a quella di
un cantante e basta sarebbe tanto errato quanto fuorviante. Egli è stato un intellettuale ed un artista
a tutto tondo che ha scelto di rinunciare al successo facile e immediato per intraprendere una strada
diversa, ridefinendo il concetto di canzone ma anche quello di teatro. Il punto di svolta è da cercare
a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. Nel 1970, infatti, a seguito della pubblicazione del suo album
meno famoso e certamente più particolare - “Sexus et Politica”, scritto dal deus ex machina del
Quartetto Cetra, Virgilio Savona -, Gaber sceglie di abbandonare la televisione e la bagarre
discografica per dedicarsi al suo personalissimo Teatro canzone. Ai fini della sua autoesclusione dal
mondo del jet set discografico e televisivo, non sono stati certamente estranei i fatti relativi proprio
al suo ultimo album. Questo, realizzato da Savona parafrasando, traducendo e riadattando brani di
autori latini vissuti duemila anni fa – fra cui si annoverano fra gli altri Properzio, Catone, Ovidio e
Marco Aurelio – risulta essere un album di uno spessore artistico e culturale impressionante. Ciò
nonostante, la Commissione lettura della Rai lo bollò come “disco da trasmettere, per il suo
contenuto, solo commentato da persona qualificata”, fornendo, con tutta probabilità, la spinta in più
a Gaber per compiere definitivamente quel passo verso il teatro che meditava da tempo. Ed è proprio
sul proscenio, sotto le luci della ribalta, che Gaber arriva alla piena maturità artistica. Fianco a fianco
con Sandro Luporini egli realizza qualcosa che mai si era visto prima e mai si è più visto dopo. Il
teatro canzone gaberiano, fondendo la canzone al recitativo, ha fornito al Signor G lo spazio di cui
aveva bisogno per essere pienamente sé stesso, senza dover sottostare alle logiche di mercato che
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premiavano le cosiddette “canzonette”, sul palco del festival di San Remo, a scapito di tutti quegli
autori impegnati che sgomitavano per trovare uno spazio in cui affermarsi.
Nel contesto del teatro, Gaber ha trovato il suo personalissimo modo per sottrarsi alla censura cui
sarebbe certamente andato incontro se avesse deciso di trattare gli argomenti, su cui si sono basati
tutti i suoi spettacoli, su palcoscenici più mainstream. Quando prendi di petto tutto e tutti però, poco
conta dove tu lo faccia, se in tv o in teatro, specialmente se i tuoi spettacoli fanno registrare il tutto
esaurito in ogni città d’Italia. Di fatti, quando Luporini e Gaber, sul finire degli anni Settanta, alzano
la posta in palio divenendo sempre più espliciti e sempre più aggressivi contro tutto ciò che
ritenevano ingiusto all’interno della società che vivevano, la censura bussa di nuovo alla sua porta.
Il pretesto è fornito dalla realizzazione della canzone più celebre, veritiera, arrabbiata e spudorata, e
per questo anche la più osteggiata, eseguita da Gaber: “Io se fossi Dio”.
Si tratta di un’invettiva di quindici minuti in cui i due non risparmiano colpi a nessuno: politici di
destra, di sinistra, radicali, borghesi, militanti, giovani, vecchi, democristiani, brigatisti, ce n’è per
tutti. Ciò che proprio non gli venne perdonato però fu il riferimento ad Aldo Moro, assassinato due
anni prima dai brigatisti. Come si evince dal testo, e dall’interpretazione di Gaber, egli non accettava
che “un politico qualunque” divenisse “l’unico statista”, solo perché “gli ha sparato un brigatista”.
Insomma, non accettava l’ipocrisia imperante e manifestò questa insofferenza accusando Moro, e
tutta la Democrazia Cristiana, di essere il principale responsabile di “vent’anni di cancrena italiana”.
Il risultato di tale iniziativa fu che quando Gaber decise di tornare in sala di registrazione, dopo dieci
anni dall’ultima volta, proprio per registrare “Io se fossi Dio”, venne scaricato dalla sua casa
discografica, la quale non voleva in alcun modo assumersi la responsabilità di pubblicare un disco
tanto scomodo. Fu solo grazie ad una label minore, la F1 team di Sergio De Gennaro, che il disco alla
fine venne inciso e iniziò a circolare. Di fatto questo disco rimase un “fantasma” nel panorama
discografico, non fu ufficialmente censurato solo perché non ce ne fu bisogno, nessuna radio lo passò
neanche per sbaglio, figuriamoci se godette di passaggi televisivi. Nel giro di poco tempo non venne
più stampato e i pochi che riuscirono ad averne una copia lo conservano tutt’ora come un cimelio di
inestimabile valore.
Queste breve panoramica ci consente, spero, di tornare ai concetti espressi all’inizio di questo
paragrafo con maggiore consapevolezza. Quanto è importante -in un’epoca come la nostra, dove
ognuno è teoricamente libero di esprimere la propria opinione – interrogarsi e riflettere sulla qualità
effettiva di questa libertà? Noi oggi viviamo in un mondo in cui con due click vieni “profilato”, in
cui gli stati d’animo vengono espressi nello spazio di 140 caratteri e nel quale il valore di una persona
è strettamente commisurato alla quantità di Like e Follower presenti sul suo profilo. Senza voler fare
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i “complottisti”, è evidente agli occhi di tutti la situazione della Cina, ma siamo così sicuri – noi
occidentali – di non essere vittime della stessa sorte?
Questa tesi, ideata a seguito dell’abolizione, da parte del ministro della Cultura Dario Franceschini,
della censura cinematografica – con il decreto del 5 aprile 2021 - ha la pretesa di rispondere a questa
domanda: Nel 2021 è ancora possibile avere un pensiero libero, autonomo e allo stesso tempo critico,
svincolato dai parametri che la società, oggi più che mai, in maniera ben più subdola di qualsiasi
regime, cerca di imporci?
- 14 -
Capitolo primo
Introduzione storica
1 Definizione del concetto di censura
La censura è una forma di controllo sociale che limita la libertà di espressione e di accesso
all’informazione, basata sul principio secondo cui determinate informazioni e le idee e le opinioni
da esse generate possono minare la stabilità dell’ordine sociale, politico e morale vigente. Applicare
la censura significa esercitare un controllo autoritario sulla creazione e sulla diffusione di
informazioni, idee e opinioni. È ormai un uso consolidato suddividere la censura, secondo l’oggetto
e il tipo di autorità che la esercita, in religiosa, politica e morale. Quando è la religione l’istituzione
sociale predominante, eresia ed empietà costituiscono i bersagli principali della censura; la
formazione degli Stati nazionali orienta la censura contro il tradimento e le idee politicamente
sovversive; la censura morale, infine, è diretta contro l’oscenità e la pornografia e può essere
esercitata sia dalle autorità statali che da gruppi di pressione volontari3. Queste distinzioni sono utili
in quanto mettono in relazione la censura con la forma di potere predominante, responsabile
dell’osservanza della tradizione e della stabilità interna di una società; non vanno però
sopravvalutate poiché, la varie forma di censura, si sovrappongono e si rafforzano a vicenda, tant’è
vero che, in genere, il compito assegnato alla censura è quello di impedire ogni pubblicazione che
contenga ciò che è – per citare, a titolo di esempio, la legge sulla censura promulgata da Caterina II
di Russia – “contrario alle leggi di Dio o al potere supremo, o che corrompe i costumi”. L’estensione
e i metodi della censura variano sia secondo l’ordine sociale che essa cerca di difendere, sia secondo
i mezzi di comunicazione che prevalgono in una data società. Alcuni metodi hanno dimostrato una
considerevole stabilità. Nelle società basate sulla comunicazione orale, dove erano i discorsi a venir
censurati, l’espulsione dalla comunità rappresentava un metodo coercitivo assai efficace. Ovidio fu
mandato in esilio sul Mar Nero da Augusto e lo stessa sistema viene ancora adottato nelle società
industriali a partito unico, come è stato dimostrato dalle espulsioni di Trockij e di Solzenicyn
dall’Unione Sovietica. In ogni caso, la censura come pratica istituzionalizzata è apparsa in seguito
all’invenzione della stampa; essa è, quindi, una delle più antiche istituzioni sociali e la sua analisi,
pertanto, richiede un approccio storico.
3 Vd. Victor Zaslavsky, Censura. Alfabeto Treccani, Enciclopedia delle scienze sociali in enciclopedia italiana
Treccani, 2014, pp. 1-2
- 15 -
1.2 Censura: evoluzione della disciplina normativa
nel contesto italiano
Di norma, si pensa al Ventennio fascista come momento cruciale nella storia della censura italiana,
eppure le radici della legislazione censoria, sul cinema in primis - in quanto ritenuto, all’epoca, un
nuovo medium dalle capacità comunicative ancora in parte sconosciute e, pertanto, particolarmente
temuto - e, a seguire, su tutti gli altri mezzi di espressione del pensiero, risiedono nell’Italia liberale.
La nascita di una legislazione specifica in materia risale all’epoca giolittiana e trova il suo humus in
un forte movimento d’opinione favorevole all’introduzione della censura, animato soprattutto dal
quotidiano conservatore “Il Giornale d’Italia”.
Il 20 febbraio 1913, il presidente del Consiglio Giolitti diramò ai prefetti una circolare che colpisce
“le rappresentazioni dei famosi atti di sangue, di adulteri, di rapine, di altri delitti” e i film che
“rendono odiosi i rappresentanti della pubblica forza e simpatici i rei; gli ignobili eccitamenti al
sensualismo (…) ed altri film da cui scaturisce un eccitamento all’odio tra le classi sociali ovvero di
offesa al decoro nazionale”4. Il 25 giugno dello stesso anno, il primo provvedimento legislativo
registrato in materia di censura (n. 785) autorizzava “il governo del Re ad esercitare la vigilanza sulla
produzione delle pellicole cinematografiche, prodotte all’interno o importate dall’esterno”. È questa
la data che, a tutti gli effetti, segnò la nascita e l’entrata in funzione, in Italia, di un apparato di
revisione cinematografica, ovvero della censura. Il regolamento esecutivo della legge (Regio decreto
31 maggio 1914, n. 532) è di grande importanza, poiché introdusse quella casistica di argomenti
suscettibili di rientrare nell'ambito della censura che verrà ripresa fedelmente, adattata e ampliata,
non solo nel periodo fascista ma anche in età repubblicana.
• Obiettivo della legge era vietare al pubblico la visione di: "spettacoli offensivi della
morale, del buon costume, della pubblica decenza e dei privati cittadini; spettacoli
contrari alla reputazione e al decoro nazionale o all'ordine pubblico, ovvero che
possano turbare i buoni rapporti internazionali; spettacoli offensivi del decoro e del
4 P. Carretti, Diritto pubblico dell’informazione, Bologna, il Mulino, 1994
- 16 -
prestigio delle istituzioni e autorità pubbliche, dei funzionari e degli agenti della forza
pubblica; scene truci, ripugnanti o di crudeltà, anche se a danno di animali; delitti o
suicidi impressionanti e in generale azioni perverse o fatti che possano essere scuola
o incentivo al delitto, ovvero turbare gli animi o eccitare al male".
• La legge accennava anche alla questione della lingua straniera: "I titoli, i sottotitoli e
le scritture (...) debbono essere in corretta lingua italiana. Possono tuttavia essere
espressi anche in lingua straniera, purché riprodotti fedelmente e correttamente
anche in lingua italiana".
• La censura sui film era esercitata dal ministro dell'Interno, cui spetta concedere o
negare il nulla osta "in conformità al giudizio del revisore" (ed eventualmente
imporre una nuova revisione a film già muniti di nulla osta). Erano previsti due gradi
di giudizio per la revisione delle pellicole: in primo grado il revisore era un
funzionario della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza o un commissario di
polizia, in secondo grado una commissione composta dal vicedirettore generale e da
due capi divisione della Direzione Generale della P.S.
A seguire, il R.d. 9 ottobre 1919, n. 1953, introdusse il controllo preventivo sul "copione o scenario":
perché una pellicola potesse accedere al procedimento di revisione, prima dell'inizio delle riprese il
soggetto doveva essere "in massima riconosciuto rappresentabile" dalla censura. Nella pratica,
tuttavia, il copione veniva sempre presentato alla commissione di primo grado insieme al film finito:
il controllo preventivo fu applicato con rigore solo a partire dal 1935.
Il R.d. 22 aprile 1920, n. 531 (a firma del ministro dell'Interno F. S. Nitti) aggiungeva che anche la
revisione di primo grado era affidata a una commissione, che non aveva più una natura solo
repressiva ma si allargava ad altri soggetti, seppur sempre di nomina ministeriale: oltre a due
funzionari della Pubblica Sicurezza, "un magistrato, una madre di famiglia, un membro da scegliersi
fra educatori e rappresentanti di associazioni umanitarie che si propongono la protezione morale del
popolo e della gioventù, una persona competente in materia artistica e letteraria e un pubblicista".
Alla casistica censoria si aggiungevano ora l'offesa al "pudore", l'offesa al "Regio esercito e alla Regia
armata", "l'apologia di un fatto che la legge prevede come reato" e "le operazioni chirurgiche e i
fenomeni ipnotici e medianici".
Il Fascismo confermò in toto l’impianto legislativo del periodo precedente: vennero mantenuti il
controllo accentrato presso un ministero (dapprima quello dell'Interno, dal 1934 quello della Cultura
Popolare nelle sue varie denominazioni) e il parere vincolante delle commissioni di revisione di
primo e secondo grado. All’attenzione, quasi esclusiva, dedicata dalla legislazione in materia di
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censura al mondo del cinema, però, come ben sappiamo, il regime fascista aggiunse una cura
particolare per gli organi di stampa e, più in generale, per qualsiasi mezzo di comunicazione
esistente. Il governo Mussolini introdusse la politica dell’epurazione dubito dopo la presa del potere.
L’eliminazione di ogni reale opposizione antifascista nel paese doveva cominciare dalle
comunicazioni di massa: la prima legge contro la libertà di stampa fu adottata dal governo fascista
già nel 1923, anche se entrò in vigore l’anno dopo. Secondo questa legge i prefetti, in quanto detentori
del potere esecutivo, avevano la facoltà di diffidare il direttore di un giornale – pena l’immediata
soppressione della testata – dal pubblicare quel quotidiano o quel periodico che “con articoli,
commenti, note, illustrazioni o vignette ecciti [...] all’odio di classe o alla disobbedienza alle leggi e
agli ordini delle autorità”5. Inizialmente il processo di fascistizzazione della stampa italiana
procedette a passo lento e si attuò attraverso i sequestri e le repressioni della stampa di opposizione,
fino ad aperte violenze contro giornalisti, distributori e acquirenti. Dopo l’assassinio Matteotti,
invece, lo smantellamento delle vecchie strutture del periodo liberale assunse un ritmo accelerato.
La fascistizzazione della stampa seguì due linee generali6. I quotidiani più influenti che godevano di
notorietà e prestigio all’estero, come il “Corriere della Sera” e “La Stampa”, furono fascistizzati
dall’interno con un radicale cambio di proprietà e l’allontanamento dei vecchi direttori. Per quanto
riguarda gli altri giornali dell’opposizione, il governo Mussolini si pose come obiettivo la loro
radicale eliminazione; applicò la legge del 1923 e, procedendo con sequestri e diffide a ritmo
crescente, cominciò a far devastare le sedi di giornali dei partiti dell’opposizione. Nello stesso tempo
la Federazione della stampa italiana, che era essenzialmente antifascista, venne sciolta e fusa con il
sindacato fascista dei giornalisti in una nuova organizzazione, che nel 1927 divenne parte della
Confederazione nazionale dei sindacati fascisti. Questa tattica permise al regime, verso la fine del
decennio, di epurare la categoria dei giornalisti e altri circoli intellettuali da elementi antifascisti. La
durissima repressione, che si abbatté sugli oppositori politici del regime, fu istituzionalizzata
attraverso la promulgazione delle “Leggi eccezionali” del 1926. Istituito dapprima per cinque anni,
il Tribunale speciale fu prorogato fino al 1943, comminando 42 condanne a morte e condannando
4596 antifascisti ad un totale di 27.735 anni di carcere (fra loro vi fu anche il leader comunista Antonio
Gramsci, che morì nel 1937 dopo 9 anni di detenzione). Circa 15.000 oppositori furono, inoltre,
condannati al confino di polizia.
Lo Stato fascista, sin dall’inizio, individuò le possibilità dei nuovi mezzi di comunicazione, come
radio e cinema – celebre, in tal senso, è la scritta che campeggiava all’ingresso di Cinecittà
(inaugurata nel 1937 proprio dal regime fascista) che recitava “la cinematografia è l’arma più forte”
5 Vd. Lazzaro, G., La libertà di stampa in Italia dell’editto albertino alle norme vigenti, Milano 1969, pp. 101-102
6 Vd. Castronovo, V., La stampa italiana dall’Unità al Fascismo, Bari 1976, pp.312-340
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– per la propaganda di massa e si sforzò di porli sotto il suo pieno controllo. Per esempio, un decreto
riservava allo Stato gli impianti per le comunicazioni radiofoniche, e il governo poteva affidarli in
concessione a società private, revocando il permesso in caso di emissione di notizie dannose al
regime. Un Comitato superiore di vigilanza sulle radiodiffusioni, che diventò in seguito la direzione
speciale del Ministero per la Propaganda, esaminava i testi dei programmi, censurava quelli che non
si conformavano alla politica del governo e introduceva programmi politici come “Le cronache del
regime”. Per rafforzare il controllo fu persino posto un limite alla durata degli annunci pubblicitari,
che nel 1937 furono definitivamente soppressi.
Di fatto, La censura mantenne un ruolo essenzialmente burocratico fino al 1934, quando la creazione
della Direzione generale della cinematografia portò a un ampliamento delle sue funzioni (in primo
luogo rendendo effettivo il controllo preventivo sui copioni) ed a un irrigidimento complessivo del
sistema, almeno fino all'allontanamento di Luigi Freddi dal vertice della Direzione generale nel
marzo 1939. Nel frattempo, attraverso il progressivo snaturamento della loro concezione originaria,
le commissioni di revisione vennero sempre più inquadrate all'interno dell'apparato dirigenziale
fascista: nella pratica, il vero potere censoriale era esercitato non tanto dalle commissioni ma dai
funzionari di grado superiore: i Direttori generali della cinematografia, i Ministri della Cultura
Popolare e lo stesso Duce. Come detto in precedenza, è la cinematografia e il suo controllo che
interessarono principalmente al regime fascista: passione per il grande schermo palesata anche dal
numero di decreti e leggi ad esso dedicati durante il Ventennio. Il via ci fu con il R.d. 24 settembre
1923, n. 3287:
• La composizione delle commissioni di revisione venne trasformata in senso
rigidamente burocratico. Quella di primo grado si riduceva a "singoli funzionari
di prima categoria dell'Amministrazione dell'Interno appartenenti alla Direzione
Generale della Pubblica Sicurezza", ma venne ripristinata un anno dopo (R.d. 18
settembre 1924, n. 1682) e contava tre membri: un funzionario di polizia, un
magistrato e una madre di famiglia. In quella di secondo grado o di appello, che
rimase di sette membri, l'educatore fu sostituito con un professore e la "persona
competente in materia artistica e letteraria" fu prima eliminata e poi reintegrata.
• L'elenco delle scene da proibire riprendeva fedelmente quello del 1920 (a sua volta
ricalcato su quello del 1914), con l'aggiunta di una sola frase sulle "scene, fatti e
soggetti" che "incitino all'odio fra le varie classi sociali", tuttavia già presente nella
circolare del 1913.
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• Fu stabilita un'apposita revisione per le pellicole destinate all'esportazione: erano
da vietare quelle che potessero, tra l'altro, "ingenerare, all'estero, errati o dannosi
apprezzamenti sul nostro paese".
Successivamente, Il R.d. 6 novembre 1926, n. 1848 introdusse una prima forma specifica di tutela dei
minori: fu consentito vietare la visione dei film ai minori di anni 16, pur senza alcuna indicazione
sui motivi del possibile divieto. Un precedente si ritrova nella l. 10 dicembre 1925, n. 2277, art. 22:
"La commissione a cui spetta di autorizzare gli spettacoli cinematografici deciderà a quali di essi
possano assistere i fanciulli e adolescenti dell'uno e dell'altro sesso", che venne applicata con un
divieto ai minori di anni 15.
Con la L. 16 giugno 1927, n. 1121 Tra i parametri di valutazione di un'opera in sede di censura rientrò
anche la qualità artistica: un film poteva ora essere vietato quando non presenti "sufficienti requisiti
di dignità artistica così nella trama del soggetto, come nella esecuzione tecnica".
Tre iniziative: R.d. 9 aprile 1928, L. 24 giugno 1929, L. 18 giugno 1931; aumentarono
progressivamente la politicizzazione delle commissioni di revisione. Sia in quelle di primo che di
secondo grado, entrarono rappresentanti del Partito Nazionale Fascista e dei ministeri
dell'Educazione Nazionale, delle Corporazioni, delle Colonie e della Guerra (gli ultimi due
competenti solo per copioni e pellicole di carattere "militare o coloniale"). La presenza di
rappresentanti dell'Istituto Nazionale LUCE e dell'Ente nazionale per la cinematografia, introdotta
nel 1929, durò solo due anni: la legge più restrittiva del '31 ridusse di nuovo il numero dei censori
abolendo anche le persone "competenti in materia artistica, letteraria e tecnica cinematografica"
nominate dal Ministero dell'Educazione.
Il R.d. 28 settembre 1934, n. 1506 trasferì la responsabilità amministrativa della censura, non solo
cinematografica, dal Ministero dell'Interno al nuovo Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la
Propaganda (trasformato un anno dopo in Ministero, rinominato nel 1937 Ministero della Cultura
Popolare). Come sezione del Sottosegretariato nacque anche la Direzione generale della
cinematografia, che riunì le competenze sul cinema prima suddivise fra i vari ministeri e fu affidata
a Luigi Freddi, protagonista indiscusso della politica cinematografica italiana e convinto sostenitore
del rafforzamento del ruolo della censura, che da quel momento in poi non si limitò più a compiti di
mero controllo ma divenne anche attiva, "ispiratrice", propositiva. Tra le competenze della Direzione
generale vi era infatti quella di esaminare e revisionare i soggetti dei film di produzione nazionale:
cominciò così l'applicazione rigorosa del principio della censura preventiva, già formulato nel 1919.
La l. 10 gennaio 1935, n. 65, conversione del decreto precedente, uniformò la composizione delle
commissioni di primo grado e di appello fissando per entrambe a cinque il numero di membri: tre
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in rappresentanza dei ministeri dell'Interno, delle Corporazioni e della Guerra, uno del Partito
Nazionale Fascista e uno dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti), designato dal segretario del partito.
Il processo di assoggettamento al potere politico era completo: gli ultimi ad essere esclusi furono il
magistrato e la madre di famiglia. La presidenza spettava per legge a un funzionario del
Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda nelle commissioni di primo grado, direttamente al
Sottosegretario o per delega al Direttore generale della cinematografia in quelle di appello.
L. 29 maggio 1939, n. 926: A seguito della conquista dell'Etiopia, fu aggiunto in entrambe le
commissioni di controllo un rappresentante del Ministero dell'Africa Italiana, per stabilire "quali
delle pellicole, sia nazionali che estere, possono essere destinate alla proiezione nell'Africa Italiana".
Infine, Il R.d. 30 novembre 1939 ufficializzò la censura preventiva: "Chiunque intenda produrre una
pellicola cinematografica destinata alla rappresentazione nel Regno o all'esportazione, dovrà
ottenere, prima di iniziarne la lavorazione, il nulla osta del Ministero della Cultura Popolare. Sono
esenti dal nulla osta (...) le pellicole di attualità e i documenti eseguiti dall'Istituto Nazionale LUCE".
Concluso il Ventennio fascista, in sede di Assemblea costituente, in particolare su spinta della
Democrazia Cristiana, si riconobbe "l'opportunità di stabilire per la cinematografia un'eccezione al
divieto della censura preventiva, soprattutto a scopo di tutela della pubblica moralità".
In questo convincimento si ritrova quello che i giuristi hanno definito un "elemento di continuità
nella legislazione di settore, nel passaggio dal periodo liberale a quello fascista a quello
repubblicano": vale a dire, quell'"atteggiamento di particolare diffidenza" nei confronti della libertà
di espressione in ambito cinematografico e anche teatrale. Riguardo al cinema, ciò è dovuto
principalmente al fatto che in genere si riconosceva a questo mezzo espressivo una grande capacità
di influenza sullo spettatore, a livello sia quantitativo (perché fruibile da una vasta collettività) sia
qualitativo (la complessità del suo linguaggio permette di imporre allo spettatore, con particolare
potenza, una visione modificata della realtà). Con la L. 16 maggio 1947, n. 379, l’assemblea
costituente affidò il controllo preventivo sui film al nuovo Ufficio centrale per la cinematografia,
costituito presso la Presidenza del Consiglio, previo parere delle Commissioni di primo e secondo
grado, nuovamente mutate nella loro composizione. Si eliminava l'obbligo della revisione dei
copioni, ma per il resto vennero confermate tutte le disposizioni contenute nella legge del 1923,
compresa la casistica delle scene da proibire.
L'art. 21, comma VI, della Costituzione recitava: "Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli
spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti
adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni".
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La l. 29 dicembre 1949, n. 958 non apportò invece nessuna innovazione in materia. La necessità di un
aggiornamento della disciplina si realizzerà solo con la legge 161/1962, che in ogni caso, nonostante
le novità, manterrà il sistema della censura preventiva.
Tuttavia, a differenza del regime fascista, il cui operato era sostanzialmente finalizzato alla
repressione del dissenso politico, al mantenimento dell’ordine sociale e, solo in seconda battuta, ad
un’effettiva e pervasiva censura dei costumi e della morale dei cittadini, con l’inizio della Repubblica
si assistette ad un preciso cambio di rotta. La comunità cattolica e le relative istituzioni e associazioni
- capitanate dall’Azione Cattolica Italiana, già collaboratrice durante il Ventennio delle attività di
censura svolte dal regime – assunse l’onere di proseguire quell’opera di regolamentazione del
costume, della moralità e di rimozione di tutto ciò che era considerato “osceno” (in primis la
rappresentazione dell’omosessualità), già parzialmente impostata dal regime. Con una celebre
relazione, datata 30 settembre 1946, del Segretariato generale per la Moralità della stessa ACI,
quest’opera viene tratteggiata come una vera e propria missione civilizzatrice, una “bonifica
morale”7 impostata nel segno di una sostanziale continuità con l’operato della Chiesa durante il
Ventennio, a sostegno di un ideale almeno simbolico di famiglia tradizionale intesa a sancire la
disparità di ruoli (e di poteri) tra i coniugi e a contenere l’attività sessuale in funzione procreativa
all’interno del matrimonio8. Lo strumento con cui la cultura cattolica affrontò, in un primo momento
(almeno fino a metà degli anni Cinquanta), il “problema” dell’osceno all’interno della società, fu la
cosiddetta “strategia del silenzio”9. In perfetta coerenza con quella adottata dal fascismo, il cui
Codice Rocco del 1930 aveva acquisito le teorizzazioni del diritto di fine Settecento confluite nel
Codice Zanardelli del 1889, ovvero il rifiuto di mettere fuori legge ciò di cui si preferiva non parlare,
fosse anche per criminalizzarlo10. L’ambizione di una rimozione integrale è ben documentata proprio
dalle relazioni quindicinali del Segretariato generale per la Moralità, che tracciano con minuzia, e
impressionante inamovibilità negli anni, i contorni panottici di questo lavoro di controllo e
pressione. Per ciò che concerneva il cinema, tre erano i compiti che facevano da completamento
all’operato valutativo e censorio svolto dal Centro cattolico cinematografico: “controllare i
paratesti”, particolarmente le riviste, le foto-buste esposte all’ingresso del cinema, i manifesti, i trailer
di film proibiti, ma si arrivò persino a protestare con una fabbrica dolciaria per le figurine di attrici
allegate ai suoi prodotti11. Secondo compito era “sorvegliare le prassi concrete”, facendo ad esempio
7 Archivio dell’ISACEM, Fondo presidenza generale, Serie XII, busta 16 (DB: ISACEM 1084)
8 Anna Tonelli, Politica e amore. Storie dell’educazione nell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna, 2003
9 L. Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli, Milano, 2005,
pp. 106-116
10G. Dall’Orto, La tolleranza repressiva dell’omosessualità, in Arcigay nazionale (a cura di), Omosessuali e Stato,
Cassero, Bologna
11 Cfr. Segretariato generale per la Moralità, relazione del 15 febbraio 1953, Archivio dell’ISACEM, Fondo
presidenza generale, Serie XII, busta 17 (DB: ISACEM 1352).
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opera di “controllo immane”12 del rispetto dei divieti da parte dei gestori delle sale e della correttezza
delle copie circolanti rispetto alle indicazioni della censura. Infine, “valutare l’efficacia della censura
istituzionale”, cui eventualmente si poneva rimedio con segnalazioni e denunce. Tra il 1947 e il 1949
i primi sottosegretari con delega al teatro e allo spettacolo, Cappa e Andreotti, impostarono con
efficace rigore la rimozione dell’omosessualità dei palcoscenici di prosa13, tanto che il Segretariato,
commentando la bocciatura de “La governante” di Brancati, scrisse che l’opera “non sarebbe
peggiore di molte altre [...] se non fosse impostata su un caso di inversione sessuale, argomento su
cui – a quanto si sa – l’Ufficio di revisione teatrale non transige”14. Nonostante la pedissequa
attenzione dedicata al problema dell’osceno da questi organi di revisione e censura, le tensioni per
l’evidente insufficienza del controllo non tardarono ad arrivare. Testimone di queste incomprensioni
è la lettera di risposta, scritta e inviata da Andreotti nel 1951, alle accuse di lassismo nell’applicazione
delle leggi censorie rivoltegli dall’ACI di Varese. Questi rinviò, irritato, le accuse al mittente,
scaricando la responsabilità proprio sull’insufficiente azione di sorveglianza della stessa ACI,
precisando che “i lavori incriminati avevano girato moltissime città senza che insorgessero proteste
o deplorazioni: questo è un brutto sintomo, per quella vigilanza sussidiaria dell’azione dei pubblici
organi che noi cattolici non dobbiamo stancarci di fare attraverso i Segretariati moralità ed altri
strumenti qualificati”, una risposta che destava “stupore e disappunto” nel Segretariato di Milano,
sentitosi chiamato in causa15. Nonostante l’irrigidimento della prassi censoria, che seguì questo
episodio, nemmeno due anni più tardi il Segretariato lamentò che la censura cinematografica
risultava inadeguata perché nel definire i concetti di “immorale”, di “pudore” e di “contrario al buon
costume” non seguiva la “morale cattolica”16, intendendo in sostanza che non osservava (più) una
posizione di intransigenza di principio, ma appunto discriminava sul singolo caso, mediando tra
imperativi confessionali, pressioni ecclesiastiche e necessità pragmatiche di governo. A dispetto
della perseveranza dell’Azione cattolica, quella contro il cinema e contro il varietà – spettacolo che,
per via della performance live di cui si sostanziava, eludeva più di qualunque altro mezzo di
intrattenimento le maglie della censura – fu infatti una battaglia persa in partenza, anche per ragioni
di ordine banalmente pratico ed economico: le sedi locali non avevano i mezzi materiali per
controllare, come – solo in parte – erano in grado di fare col cinema, ogni singola replica, in cui gli
attori spesso improvvisavano. Appare dunque improbabile che fosse per semplice casualità che,
12 Ivi nota 24
13 M. Giori, Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti. 1935-1962, Libraccio, Milano, 2011, pp. 99-108
14 Segretariato generale per la Moralità, relazione del 30 giugno 1952. Archivio dell’ISACEM. Fondo presidenza
generale, Serie XII, busta 17 (DB: ISACEM 1337).
15 Segretariato generale per la Moralità, relazione del 15 maggio 1953, Archivio dell’ISACEM, Fondo presidenza
generale, Serie XII busta 18 (DB: ISACEM 1230).
16 Ivi nota 28
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all’inizio degli anni ’50, piccole e solitamente marginali figure di omosessuali iniziarono a proliferare
in film, nel mondo del varietà, della rivista e dell’avanspettacolo. Possiamo, ricorrendo a riflessioni
che Roland Barthes andava facendo in quegli stessi anni, intravedervi un tentativo di vaccinare il
cinema italiano e il suo pubblico: “S’immunizza l’immaginario collettivo mediante una piccola
inoculazione del male riconosciuto: lo si difende così dal rischio di un sovvertimento generalizzato.
[...] La borghesia non esita più a riconoscere certi sovvertimenti localizzati”17. Simili “sovvertimenti
localizzati”, attraverso personaggi nel complesso secondari e fortemente stereotipati, possono
sembrare di per sé innocui, in realtà finirono con l’essere una delle spinte che portarono
all’accantonamento dell’interdetto clericale, nella misura in cui ambiva a non ammettere eccezioni,
inizialmente fatto proprio con estrema convinzione della censura. Non va dunque sottovalutato il
divergere dei binari lungo i quali si muovevano da un lato la preoccupazione dottrinale, che rimase
immutata, e dall’altro le prassi dell’amministrazione politica, più disinvolte e compromesse con
problemi di ordine pragmatico18. Ne derivò un allentamento di quella “azione della lobby moralista
come pressure-group” impostata nell’immediato dopoguerra e articolata (come i documenti del
Segretariato comprovano ampiamente) “tanto attraverso canali riservati (tramite pressioni esercitate
nelle diverse sedi decisionali, la redazione di promemoria e la collaborazione alla formulazione di
progetti e testi legislativi) quanto attraverso canali pubblici (attraverso campagne di stampa,
petizioni, manifestazioni e proteste collettive)”19. Il fallimento si palesò gradualmente sul finire degli
anni Cinquanta, determinato dal concorso di spinte fondate su un diverso atteggiamento nei
confronti del tema sessuale, capaci di aumentare progressivamente la loro pressione. Anzitutto, vi
era un fronte laico variegato ma complessivamente maldisposto nei confronti delle censure del
pudore impostate dalla cultura cattolica. In secondo luogo, vi erano le pressioni dell’industria
cinematografica per monetizzare la trasgressione dei tabù, che usarono il “vaccino” per fare breccia
in un sistema censorio per varie ragioni (non ultima la sua burocrazia) fallibile. Non solo personalità
quali Visconti e Pasolini (sceneggiatore prima ancora che regista), a dispetto dei contrasti cui si
esposero con il PCI viceversa incline a osservare il silenzio, ma anche cattolici stessi, che dietro la
macchina da presa apparivano tutt’altro che indisponibili a scendere a compromessi con il mercato.
Due dei film che contribuirono a far crollare la diga, per parafrasare un’espressione di Cosulich20, a
fianco dei più noti “Europa di notte” (1959) di Alessandro Blasetti, “La dolce vita” (1960) di Federico
17 R. Barthes, Mythologies, Seuil, Paris; trad. it. Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1994.
18 G. Miccoli, La Chiesa di Pio XII nella società italiana del dopoguerra, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La
costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, Einaudi, Torino, 1994.
19 M. Barbanti, La “battaglia per la moralità” tra oriente, occidente e italocentrismo 1948-1960, in Pier Paolo D’Attorre
(a cura di), Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Franco Angeli, Milano,
1991.
20 C. Cosulich, La scalata al sesso, Immordino, Genova, 1969, p. 81
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Fellini e “Rocco e i suoi fratelli” (1960) di Visconti, furono infatti “Costa Azzurra” (1959) di Vittorio
Sala, ex critico cinematografico de “Il Popolo”, e “Le Signore” (1960) di Turi Vasile21. È all’insieme di
queste spinte che si deve la svolta determinatasi alla fine degli anni ’50, quando al silenzio si sostituì
gradualmente una moltitudine di discorsi plasmati secondo le convenzioni proprie del “panico
morale”22, che coinvolgeva l’intero sistema dei media. Ne presero presto atto le relazioni riservate
sulla Mostra di Venezia. In quella del 1961 si sottolineava la comparsa di un “filone produttivo che
tratta dell’argomento dell’omosessualità con intenti giustificativi”23. L’anno successivo, oltre a
rimarcare che “tra i cineasti ottiene sempre più diritto di onorata cittadinanza l’omosessualità”, si
deprecò inoltre che la mostra fosse occasione di pubbliche performance, come quella registrata alla
prima di “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini: “una specie di convegno nazionale di questi
poveretti, alcuni dei quali, alle ore piccole della notte, non si vergognavano di adescare i passanti;
uno poi si sarebbe mostrato nella hall del palazzo del Cinema con le labbra dipinte e gli orecchini”24.
È altresì rilevante che nel 1960 il Segretariato incluse gli incontri tra uomini che si svolgevano
all’interno di alcune sale cinematografiche nel novero di quanto fosse necessario monitorare: “gli
amici dei Segretariati tengano dunque presente che le sale cinematografiche possono servire anche
a commerci indegni”25.
Che all’inizio degli anni Sessanta la situazione fosse ormai compromessa lo implica anche un altro
documento del Segretariato, in cui non si lamentava solo che “il pubblico è, di continuo,
sessualmente sollecitato”, che “il ‘senso del peccato’, perfino in ambienti ove si fa professione di
apostolato, appare profondamente attenuato”, e che vi fosse un “profondo attenuarsi, o peggio, del
giudizio negativo nei confronti di uomini che addirittura ostentano il loro vizio omosessuale”, ma si
deprecava anche che “l’espressione ‘occasione, od occasione prossima, di peccato’ appare caduta
praticamente in disuso”26. Si percepiva, in altre parole, l’affievolirsi di tutti quei concetti sui quali si
era fondato, in termini generali, l’allarme nei confronti del cinema, e nel caso particolare del nostro
argomento, il rigore assoluto del divieto. Concetti che vennero richiamati, qualche anno più dopo,
21 Quest’ultimo già in un’inchiesta del 1953 aveva dichiarato candidamente: “Sono d’accordo che il cinema qualche
volta sfrutta gli istinti meno nobili degli spettatori. Però non vorrei che il timore di peccare generasse una produzione
eccessivamente preoccupata ed eccessivamente impacciata. [...] Vorrei ripetere ancora una volta che la produzione ha
bisogno proprio sul piano dell’arte di una sua certa libertà, una certa autonomia senza con questo arrivare alla licenza e al
malcostume”.
22 S. Cohen, Folks Devils and Moral Panics: The Creation of the Mods and Rockers, MacGibbon & Kee, London, 1972
23 F. Angelicchio, Nota informativa sulle iniziative cinematografiche estive svoltesi a Venezia, 1961, Archivio della CEI
(DB: ACEI 3).
24 E. Baragli, Relazione sulla XXIII Mostra internazionale d’Arte cinematografica, 8 ottobre 1962, Archivio della CEI
(DB: ACEI 3).
25 Segretariato generale per la Moralità, relazione del 15 novembre 1960, Archivio dell’ISACEM, Fondo
presidenza generale, serie XII, busta 20 (DB: ISACEM 1473).
26 Risposta al questionario 20 gennaio 1960: moralità pubblica in Italia, Archivio dell’ISACEM, Fondo presidenza
generale, serie XII, busta 38 (DB: ISACEM 1509).
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dal democristiano Vincenzo Gagliardini in un discorso in Parlamento sull’immoralità dilagante
congiuntamente dovuta (ancora una volta) a prostituzione e omosessualità, prendendo di mira
anzitutto le famiglie che “trascinano i bambini di uno, due o cinque anni al cinema, dove i piccoli
finiscono per addormentarsi, respirando aria viziata”27. Che per essere contaminati non servisse più
nemmeno osservare le immagini in movimento sullo schermo, ma bastasse esporsi agli afrori morali
della sala, era un’estremizzazione capace più di mettere a nudo l’inadeguatezza del sistema valoriale
di riferimento di fronte alle nuove sfide poste dalla società e dalle sue forme di comunicazione, che
non di proporne un efficace rilancio.
Venendo ai giorni nostri, il 5 aprile 2021 il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha firmato un
decreto che abolisce la censura cinematografica in Italia. Il decreto attuativo, che segue la cosiddetta
“Legge Cinema” del 2016, istituisce infatti una nuova Commissione per la classificazione delle opere
cinematografiche, la quale potrà al massimo vietare la visione di certi film ai minori di 18 anni. Essa
non potrà, però, come in teoria era possibile fino ad ora, vietare a certi film di uscire nelle sale
cinematografiche o imporre tagli e modifiche a determinate scene. Secondo il ministro è stato
“definitivamente superato quel sistema di controlli che consentiva allo Stato di intervenire sulla
libertà degli artisti”. Va detto, tuttavia, che sebbene in passato la censura sia stata usata spesso e
massicciamente, erano ormai passati decenni dall’ultimo caso minore, relativo al “piccolo horror
indipendente”, “Morituris” che, come ha scritto il professore de La Sapienza di Roma, Emiliano
Morreale, sfruttò “la pubblicità dell’interdizione per uscire direttamente in home video”. Diretto da
Raffaele Picchio il film fu bloccato dalla Commissione di revisione cinematografica “per motivi di
offesa al buon costume” e poiché considerato “un saggio di perversità e sadismo gratuiti”. Mentre
l’ultimo caso importante risale addirittura al 1998, in quel caso ad essere censurato fu il film “Totò
che visse due volte”, diretto da Daniele Ciprì e Franco Maresco. La pellicola fu bloccata in quanto
considerata “degradante per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità” e
contenente “disprezzo verso il sentimento religioso”, con scene “blasfeme e sacrileghe, intrise di
degrado morale”. Tornando alla legge del 2021, il nuovo decreto attuativo prevede che d’ora in poi
i film destinati ai cinema siano divisi in quattro categorie: quelli adatti ad ogni tipo di pubblico, e poi
quelli vietati ai minori di 6, 14 e 18 anni. In base alle nuove regole, a proporre la categoria ritenuta
più adeguata ad ogni film saranno direttamente i loro produttori e solo a quel punto la Commissione
per la classificazione delle opere cinematografiche potrà confermare la categoria o, al massimo,
proporne una diversa. Nicola Borrelli, direttore della Direzione generale Cinema e audiovisivo, ha
spiegato che di fatto “si mette in essere una sorta di autoregolamentazione” poiché “saranno i
produttori o i distributori ad auto-classificare l’opera cinematografica”. Come ha spiegato
27 V. Gagliardini, Atti parlamentari, Camera dei Deputati, seduta del 2 dicembre 1964, p.11623.
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Franceschini, la nuova Commissione risponderà alla Direzione generale Cinema del ministero della
Cultura, sarà presieduta da Alessandro Pajano (presidente emerito del Consiglio di Stato) e sarà
composta da 49 componenti “scelti tra esperti di comprovata professionalità e competenza nel
settore cinematografico e negli aspetti pedagogico-educativi connessi alla tutela dei minori e nella
comunicazione sociale, nonché designati dalle associazioni dei genitori e dalle associazioni per la
protezione animali”. La Commissione, che nella sua composizione attuale resterà in carica per tre
anni, sarà composta, tra gli altri, da “sociologi, pedagogisti, psicologi, studiosi, esperti di cinema,
educatori, magistrati, avvocati, rappresentanti delle associazioni di genitori e persino ambientalisti”.
E per confermare o modificare la classificazione di un film avrà a disposizione un massimo di venti
giorni.
Secondo un calcolo di ANSA, dal secondo dopoguerra in poi i film italiani in qualche modo
“sottoposti a censura” furono 274, 130 quelli statunitensi e oltre 300 quelli provenienti da altri paesi.
E furono inoltre migliaia i film controllati e ammessi al cinema “dopo modifiche”. Tra i casi più
famosi, tra loro diversi per modi e tipi di censura, vi sono “Ultimo tango a Parigi” (1972) di Bernardo
Bertolucci e “Le 120 giornate di Sodoma” di colui che, senza dubbio, fu il regista i cui film (e non
solo) ebbero più problemi con la censura, Pier Paolo Pasolini. La speranza, viva dentro ogni cinofilo
e, in generale, dentro ogni persona alla quale è caro il concetto di “libertà d’espressione”, è che con
questo decreto si sia scritta definitivamente la parola fine al tentativo di manipolare, indirizzare e
censurare l’unicità di ogni singola espressione umana, artistica e non.
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Capitolo secondo
Pasolini e il processo a “Ragazzi di vita”
1 Pasolini: da “piccolo profeta” a “poeta
maledetto”
Il più celebre protagonista, suo malgrado, della censura italiana nel dopo guerra è il poeta e
romanziere nato a Bologna il 5 marzo 1922: Pier Paolo Pasolini. La sua storia è, fin dall’inizio,
funestata da processi e scandali che avveleneranno l’intera parabola della sua esistenza, fino al
tragico epilogo che vi porrà fine la notte fra il 1° e il 2 novembre 1975.
Il primo dei tanti scandali è quello che lo costrinse, insieme alla madre, ad abbandonare la cittadina
di Casarsa negli ultimi mesi del 1949, a seguito della denuncia sporta dai Carabinieri per corruzione
di minori e atti osceni in luogo pubblico, dopo un incontro erotico con alcuni ragazzi in un prato nei
pressi di Ramuscello. Il fatto ha prodotto conseguenze ben più gravi del calo di prestigio del “piccolo
profeta” (soprannome affibbiatogli dalla comunità friulana) presso la cittadina materna. In un colpo
solo Pasolini – il quale, al tempo, aveva già pubblicato il suo primo libretto di poesie, intitolato
“Poesie a Casarsa” (1942) che gli era valso l’attenzione del mondo letterario dell’epoca, specie dopo
la lusinghiera recensione di Gianfranco Contini – si vide espulso, in data 26 ottobre, dal Partito
comunista di Udine e privato della cattedra di maestro di scuola media presso la comunità di
Valvasone28. Quel luogo e quelle persone, a lui tanto care e che per lungo tempo lo avevano
calorosamente accolto, gli si rivoltarono inesorabilmente contro. Ciò fu dovuto - secondo la
testimonianza ricavata da uno scambio epistolare fra il cugino del poeta, Nico Naldini e un suo
amico, tal Luca Cavazza29 - anche alla funesta intercessione di alcuni esponenti politici locali,
appartenenti alla Democrazia Cristiana e, pertanto, a lui ovviamente avversi. Questa, prima di tante
vicende giudiziarie, vedrà il suo epilogo, con conseguente assoluzione da tutte le accuse per il poeta,
solo nel 1952 a seguito del processo d’appello che stabilì la sua innocenza. All’epoca però egli già
viveva, più o meno stabilmente, a Roma, in un primo momento con la madre presso uno zio
antiquario, Gino Colussi, che si era offerto di aiutarli, poi in una camera in affitto in piazza Costaguti.
Qui, nei primi mesi, il suo più grande cruccio fu quello della ricerca di un lavoro, operazione non
28 Cfr. Silvia De Laude, I Due Pasolini. Ragazzi di Vita prima della censura, Roma, Carocci, 2018
29 Ivi nota 1 (pp. 15-16)
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facile visto la triste reputazione che lo precedeva a seguito dello scandalo. Solo dalla primavera
(dopo essersi iscritto al sindacato Comparse, aver corretto bozze ed aver venduto molti dei suoi
libri), riuscì a collocare qualche suo pezzo su giornali di destra come “Il Quotidiano”, “Il Popolo di
Roma”, “Il Giornale”, “Libertà d’Italia”, che non modificarono di molto la sua situazione e che
soprattutto non gli piacevano, anzi lo mettevano in imbarazzo. Celebre, a mo’ di esempio, è la
richiesta di Pasolini a Bertolucci di non leggere la prima pagina della recensione della “Capanna
Indiana” (apparsa su “Il Giornale”) che egli realizzò, giudicandola “orrenda” per i convenevoli di
matrice monarchica cui era obbligato dato lo schieramento politico del giornale30. Tuttavia, a fronte
delle molte difficoltà, sono questi anni di accesa furia sperimentale per il poeta. Anni in cui da un
lato, sul piano della narrativa, nascono i primi prototipi della “cosa” che sboccherà nel fiume di
“Ragazzi di Vita” e, dall’altro, sono riaperti, con la ferma intenzioni di rivoluzionarli, i cantieri dei
progetti friulani interrotti al momento della fuga.
Questo breve excursus, sui primi anni di vita del giovane Pasolini, può aiutarci facilmente a
comprendere quanto arduo sia stato, per lui e per il suo talento, affermarsi in un clima, quello
dell’immediato dopo guerra, così dichiaratamente ostile per un’artista ed una personalità tanto
eversiva. Fin da giovanissimo posto sotto i riflettori, non quelli del palcoscenico bensì quelli delle
inchieste giudiziarie - dalle accuse di oscenità alla corruzione di minori (favoreggiamento della
prostituzione minorile, lo chiameremmo oggi), fino all’accusa di “pornografia” a seguito della
pubblicazione del suo primo romanzo - da una società che non accettava l’omosessualità, giudicata
come una pratica oscena e perversa, del tutto contro natura. Prerequisito, l’essere omosessuale, che
influirà non poco nelle vicende che, nel giro di qualche anno, lo vedranno coinvolto nell’eclatante
censura del suo primo romanzo, “Ragazzi di Vita” (1955), e in un altro rocambolesco processo,
insieme con il suo editore Livio Garzanti. Da questo momento in poi, omosessualità, vicende
giudiziarie e censura costituiranno il leitmotiv costante dell’esistenza del poeta.
2 Quando il “Ferrobedò” era un trittico
Fin dal primo periodo romano, evidentemente, Pasolini pensa a qualcosa che assomiglia molto a un
romanzo, ma ha anche voglia di farsi conoscere come scrittore, e pubblica volentieri le pagine che ha
fra le mani, anche se sono estratti di progetti più ampi, come “Domenica al Collina Volpi”, “Il
palombo” e “Il Ferrobedò” – lo stesso che nella primigenia versione di “Ragazzi di Vita” figura come
30 Ivi nota 1 (pag. 17)
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prima parte di un trittico, ma su “Paragone” esce nel giugno del 1951 come testo autonomo, senza
che sia indicata in alcun modo la sua appartenenza ad un insieme narrativo più vasto. In questa fase,
corrispondente al biennio 1950-1951, il romanzo è costruito come una trilogia composta da parti
intitolate rispettivamente “Il Ferrobedò”, “Li belli pischelli” e “Terracina”, con il primo, ovviamente,
promosso a racconto eponimo. Si tratta, materialmente, del testo sopravvissuto in due stesure nella
cartella dell’Archivio contemporaneo del Gabinetto Vieusseux, con l’intestazione autografa: “Il
Ferrobedò (e altri romanzi e racconti, passati in parte in “Ragazzi di Vita”, 1950-51)”. La due stesure
che ci sono pervenute sono disposte nella cartella, in ordine cronologico: la fase più antica del trittico
precede la più avanzata. Intercalati fra le due stesure ci sono appunti, foglietti sparsi, anche i
dattiloscritti di testi pubblicati come racconti autonomi nel 1950 e nel 1951 – Una redazione del
“Palombo” (in “La Libertà d’Italia”, 20 settembre 1950) e due di “Domenica al Collina Volpi” (in “Il
Popolo”, 14 gennaio 1951)31: racconti, entrambi, che hanno fatto parte per qualche tempo della
nebulosa del romanzo. Il primo dei tre racconti, come detto, coincide sostanzialmente, nella sua
stesura più avanzata, con il pezzo uscito su “Paragone” nel giugno del 195132 . Nei pressi di quel
luogo favoloso che è il deposito della Ferro-Beton, a Monteverde Vecchio (nella poesia “Recit”,
chiamato col suo vero nome) cresce Luciano, che diventerà Riccetto nella versione definitiva del
romanzo33. Questo l'attacco, in cui fa la sua prima apparizione l'”immenso cortile, una prateria
recintata, in fondo a una valletta grande come una piazza d'armi o un mercato”:
“Era una caldissima giornata di luglio. Lucià che doveva fare la prima comunione e la cresima, si era alzato già
alle cinque col sole. Ma mentre scendeva giù per Via Donna Olimpia, più che un comunicando o un soldato di
Gesù, coi suoi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, aveva l'aria di un pischello acchittato che se ne va per
il lungotevere. [...]”
Il pezzo prosegue col racconto di episodi dell'infanzia di Luciano, che insieme all'amico Marcello
costituisce il filo conduttore del trittico. Introduce quindi all'ambiente della piccola malavita, e si
31 Gli appunti sono ai ff. 82-132. I dattiloscritti dei due racconti, Domenica al Collina Volpi (in due redazioni) e Il
Palombo, ai ff. 133-144. Oltre che nella cartella Il Ferrobedò, ff. 133-136 e 137-140, di Domenica al Collina Volpi un
dattiloscritto (frammentario) si trova nella cartella di AP con l’intestazione (Articoli, saggi ecc.) e racconti romani
1950 (f. 22): la stessa che ai ff. 2-5 conserva il dattiloscritto Il Palombo.
32 Il Ferrobedò segue nel numero di “Paragone” un poème en prose di Francis Poonge (Proème). Per una specie di
ironia della sorte, visto il ruolo che André Gide aveva avuto nello scandalo legai ai fatti di Ramuscello, lo stesso
fascicolo ospita un saggio dal titolo La lezione di Gide. L’autore è Carlo Bo, che sarà testimone della difesa nel
processo a Ragazzi di Vita.
33 La scelta del titolo deve qualcosa, forse – si è suggerita l’ipotesi – all’esempio del già classico Sciuscià di vittorio
De Sica (1946), deformazione di shoes-shine, e come Il Ferrobedò Pasolini penserà il suo romanzo fino alla soglia
della stampa, ancora nel 1955. Nell’epistolario, il titolo Ragazzi di vita si incontra per la prima volta il 7 aprile
1955 (LE II, p.52).
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chiude sull'episodio del salvataggio di una rondine, con Luciano che, già piccolo delinquente, si
butta in acqua per salvare una rondine sotto Ponte Sisto:
““Tornamo indietro” disse Marcè a quello che remava. Girarono. Lucià li aspettava seduto sull'erba sporca della
riva, con la rondine tra le mani. “E che l'hai sarvata a ffà - gli disse Marcè - era così bello vederla che moriva”.
Luciano non gli rispose subito, “E’ tutta fraccica - disse dopo un po' - aspettamo che s'asciughi”. Ci volle poco
perché s'asciugasse: dopo cinque minuti rivolava tra le compagne nel cielo del Tevere, e Lucià ormai non la
distingueva più dalle altre.”
Tutta visiva, senza neppure un riferimento al verso delle rondini, è la scena già incontrata nel
racconto friulano “La rondine del Pacher” e nel “Ferrobedò” racconto. In seguito, quando “Il Ferro-
bedò” si sarà sviluppato come una “cosa narrativa” più estesa - un testo più lungo, e una storia che
segue il protagonista dalla prima adolescenza alle soglie dell'età matura, anche se è sempre estate e
sembra che il tempo non passi mai -, Pasolini riprenderà l'episodio della rondine capovolgendolo:
alla fine della sua parabola esistenziale, il Riccetto “già quasi giovanotto” non muoverà un dito per
salvare il suo amico Genesio, sul punto di annegare nell'Aniene. Un parallelismo introdotto per
puntellare una struttura narrativa nata centrifuga, cercando un punto di stabilità in quello che
l'autore evidentemente avvertiva come nucleo pulsante e quasi cellula generativa della sua storia.
Che si tratti di un nodo importante nella laboriosa gestazione della “cosa narrativa” non ancora
entrata nell'orbita di quello che ne sarebbe stato l'editore, trova una conferma nella tenacia con cui
l'immagine torna a ripresentarsi. Ancora dopo l'uscita da Garzanti di “Ragazzi di vita”, la scena, così
centrale nell'officina del romanzo, riapparirà in un trattamento cinematografico pensato col titolo “I
morti di Roma”. Siamo nel 1959-60, e la posizione dell'episodio è sempre di massima evidenza: la
chiusa, secondo una tecnica caratteristica del racconto. Se il film si fosse fatto, l'immagine da cui
Pasolini era ossessionato da tanto tempo avrebbe trovato finalmente un "compimento" visivo. L'anta
centrale del trittico, “Li belli pischelli”, è la più estrovertita e narrativa, quella con maggiore gusto
dell'azione; diventerà in un secondo momento, con tagli e correzioni, il secondo capitolo di “Ragazzi
di vita” come noi lo conosciamo. Luciano e Marcello sono seguiti nelle truffe e nei piccoli espedienti
con cui si danno da fare per vivere. Pasolini - risulta da alcuni appunti - aveva pensato di intitolarla
“Le cicche” o “Furti e ricatti”, prima di fermarsi su “Li belli pischelli”. Entra in scena il Napoletano
e si annuncia il siparietto sul gioco della cartina. Tra le furberie con cui i ragazzi cercano di sbarcare
il lunario vi è il furto di un pesce marcio ai Mercati generali: Marcello lo trucca così che sembri fresco
e riesce a rivenderlo. L'episodio è immerso in “Li belli pischelli” nel flusso narrativo, ma si trova
anche ritagliato come racconto autonomo, e appare col titolo “Il palombo” su "La libertà d'Italia'' il
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20 settembre 1950. Nell' “Ur -Ragazzi di vita”34 (corrispondente alla fase embrionale del romanzo)
l'episodio del palombo si intreccia con un altro, del quale è una specie di intermezzo: il protagonista
è ancora Marcello, amico di Luciano, che fra la puntata ai Mercati generali e la vendita dei pesci
marci, fatti passare per freschi alla Maranella, perde la testa per il maglione azzurro esposto in una
vetrina di Campo dei Fiori (le "maglie", altro oggetto-feticcio del Pasolini narratore, anche questo
trapiantato dal Friuli a Trastevere). Come l'episodio della truffa al mercato, quello del maglione
azzurro si trova raccontato, oltre che nella seconda anta dell'”Ur-Ragazzi di vita”, in un testo
autonomo, uscito sul "Popolo" il 18 ottobre 1950 con il titolo “La passione del fusajaro”. Nel racconto,
a innamorarsi del maglione visto in un giorno di pioggia in un negozio chiuso - “Grande, era, per
un fusto da pugile. Vasto di spalle e di torace come un lembo di mare, stretto alla vita. E d'un celeste
discreto ma segretamente acceso: un po' di sole su Campo dei Fiori, e avrebbe abbagliato” -, è un
ragazzo “col ciuffo incollato sulla fronte”, non Marcello ma un certo Morbidone. Questi è lasciato a
fantasticare sul maglione, carissimo, in vetrina e, alla fine, riesce a possederlo, il “suo amore”, e se
ne va tutto allegro al mare con Luciano. Se “Il palombo” e “La passione del fusajaro” si possono
considerare a pieno titolo pagine scartate da “Ragazzi di vita” (escluse dall'autore, forse preoccupato
dell'eccessiva dispersione pulviscolare del romanzo che stava cercando di costruire), quasi alla stessa
stregua va inteso il già citato racconto “Domenica al Collina Volpi”, il cui dattiloscritto, preparato
per la stampa, si trova non per niente nella cartella che ospita l'”Ur -Ragazzi di vita”, del quale è
evidentemente una scheggia sfuggita all' insieme prima ancora degli episodi al centro degli altri due
racconti, ma della stessa grana. L’ultima anta del trittico, Il racconto “Terracina”, pubblicato integral-
mente nell'”Appendice a Ragazzi di vita” dei “Meridiani”, ha una storia più complicata ed è l’unica
parte dell’”Ur-Ragazzi di vita” ad essere completamente abbandonata nel seguito dell'elaborazione
del romanzo, nonostante la sua qualità di scrittura. Da un “piano di lavoro” del 1952 risulta che
Pasolini, naufragato il progetto del trittico, pensava di far confluire Terracina in una raccolta dal
titolo “Le notti calde”, che si sarebbe aperta con una dedica “all'ombra di Proust e alla persona di
C.E. Gadda” (singolare, strepitoso binomio). La raccolta avrebbe compreso fra l'altro “La Recherche
Sacilese” e “Primavera sul Po”: racconti, entrambi, derivati da “Operetta marina”, a sua volta relitto
dell'ambizioso e ingestibile progetto del “Romanzo del mare”, cui Pasolini aveva lavorato
intensamente nel 1951, riprendendo con ogni probabilità spunti friulani (magari il “romanzaccione
della sua infanzia sacilese” di cui parla il protagonista del bellissimo racconto “I parlanti”, che
34 Cit. S. De Laude, I due Pasolini. Ragazzi di vita prima della censura, Carocci, Roma, 2018, cit. pp. 28-53
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"all'ombra di Proust" lo è parecchio)35. Inimmaginabile se si guarda al risultato finale del romanzo
dato alle stampe da Garzanti nel 1955, la commistione prospettata nel “Piano di lavoro” del 1952 si
basa sull'idea della compatibilità tra una rievocazione autobiografica (gli esiti di “Operetta marina”)
e il racconto della parte più "marina” dell'”Ur -Ragazzi di vita”, che è in fondo un'autobiografia per
interposta persona, tanta è l'intensità dello sforzo messo per entrare nella testa e nel linguaggio dei
propri oggetti d'amore. Che l'esperimento non regga, nonostante risulti dal tormento dei materiali
preparatori quanto Pasolini si sia affannato a portarlo avanti, si può facilmente capire. Il prevedibile
esito del Romanzo del mare è, come in un esperimento chimico non riuscito, la separazione tra due
sostanze che avrebbero dovuto combinarsi: da una parte un racconto cosmico e cosmogonico (“Coleo
di Samo”), dall'altra una rievocazione di memorie infantili, con molti riferimenti al mare (“Operetta
marina”). Quanto al “Ferrobedò”, va per la sua strada. Pasolini sacrificherà “Terracina”, che avrebbe
dovuto chiudere il trittico nel segno dell'acqua, e dell'esperimento di affiancare “Terracina” alle altre
opere “acquatiche” di quegli anni non resta altra traccia nel romanzo finito che il titolo del “Piano di
lavoro” del 1952, trasmesso al capitolo quinto del romanzo uscito da Garzanti nel 1955.
3 L’incontro con Garzanti
Già nell'autunno del 1953, all'uscita su "Paragone" del secondo anticipo del romanzo, piaciuto così
poco ai funzionari del ministero, Pasolini era in parola con Anna Banti – direttrice e fondatrice (1950),
insieme al marito Roberto Longhi, della rivista “Paragone” - per pubblicare “Il Ferrobedò”, una volta
concluso, nella collana della rivista. All'inizio di giugno la Banti lo aveva sollecitato e Pasolini ne
aveva dato notizia al cugino, con la solita preoccupazione per il “pochissimo tempo” e le troppe cose
da fare36. In questa situazione, un fatto nuovo è determinato dall'incontro con Livio Garzanti,
35 Nella cartella Scartafaccio I954-I955, ff. 9-19. Carlo Emilio Gadda nel 1952 è una conoscenza recentissima per
Pasolini. Probabilmente l'incontro era avvenuto proprio in quell'anno, quando Pasolini aveva cominciato a
collaborare con la redazione letteraria del "Giornale Radio", dove Gadda aveva ricoperto vari incarichi a partire
dal 1950 (cfr. Sicilia no, 2005, p. 188). Bertolucci (1997, p. 1135) però ha un altro ricordo, che colloca forse già nel
1951: «Pasolini era molto povero, [...] ma volle che andassi a pranzo a casa sua, a Ponte Mammolo, dove ci sono
le carceri di Rebibbia [...]. Gli portai Carlo Emilio Gadda, che non conosceva e adorava».
36 Così il 1° giugno Anna Banti: «Ma per tornare a Lei: quando crede di aver pronto il libro di cui si parlò? Per
la Biblioteca di P. ci conterei l'anno prossimo» (AP, Corrispondenza, I, 45, 8).
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organizzato da Attilio Bertolucci nel 195437. Qualche tempo prima, Bertolucci aveva conosciuto Livio
Garzanti attraverso Pietrino Bianchi, allora critico cinematografico per "L'Illustrazione italiana”.
Aveva cominciato a lavorare per lui come talent scout e gli aveva segnalato - fra l'altro – “Il
Ferrobedò”, consegnandogli il fascicolo di "Paragone" sul quale ne era uscito il primo assaggio. Lo
stesso Garzanti ha raccontato in diverse occasioni il suo incontro con Pasolini. Così, per esempio,
nell'intervento a un convegno del 1977:
“A questo punto mi torna vivo il ricordo del nostro primo incontro. Avevo letto un capitolo di “Ragazzi di vita”
pubblicato da "Paragone"; il titolo allora era “Ferrobedò”, me l'aveva segnalato l'amico Bertolucci. Gli avevo
scritto una lettera molto secca di invito, Pasolini mi rispose con una lettera festosa, gioiosissima, dolce,
tenerissima. Poi venne a incontrarmi a Roma, nel mio albergo, un albergo abbastanza modesto. Ricordo che
c'era una luce al neon che raffreddava le nostre facce. Mi sono visto davanti un giovane mio coetaneo, in un
certo senso orrido, che mi aspettava seduto su una panchetta, le mascelle serrate, un volto nero di pelo, occhi
lucenti, le orbite erano incastonate in un volto magro di fame, una faccia quasi dantesca. Rimasi bloccato dal
personaggio, la mia sicurezza di editore venne a mancare e mi trovai quasi a non poter parlare. Si stabilirono i
termini di un contratto a mezze sillabe”38.
Al momento dell'incontro con Pasolini, Garzanti dirige da due anni la casa editrice fondata dal padre
Aldo. È intelligente, spregiudicato, capace di rischiare. Ama le scelte controcorrente. Si dimentica
spesso che era, al momento della campagna acquisti forse più strepitosa dell'editoria italiana del
Novecento, giovanissimo e di Pasolini quasi coetaneo (aveva, l'editore milanese, solo un anno in
più). Da quando è a capo dell'azienda, Garzanti figlio ha svecchiato energicamente le collane paterne,
inventando una linea che mette insieme (la formula è di Gian Carlo Ferretti) “trasgressività e
fatturato”. Quella che disegna col suo catalogo, secondo Piero Gelli, è una “risposta libertaria alla
progettualità ideologica della fortezza einaudiana”. Di certo il giovane editore, “in ostentato anta-
gonismo con altri editori politicizzati e impegnati, idolatri della cultura e dell'ideologia”, recita (ed
esibisce) il ruolo dell'”insensibile uomo d'affari, del capo d'azienda spicciativo e teso solo al profitto,
37 Bertolucci ricorda che l'incontro fra Pasolini e Garzanti era avvenuto nel 1954, Naldini nell'aprile o nel
dicembre del 1953 (cfr. la Cronologia premessa a RR I, p. CLXXIX; LE I, p. CXXVI; e ora Naldini, 2014, p. 201).
È più probabile che la data giusta sia il 1954, anno in cui anche Garzanti colloca l'inizio della sua collaborazione
con Bertolucci (cfr. Ferretti, 2004, p. 205).
38 Garzanti (1978, pp. 134-9). Il convegno è “Per conoscere Pasolini”, tenuto al Teatro Tenda di Roma il 5, 6, 7
dicembre 1977, i cui atti sono usciti l'anno dopo, con lo stesso titolo (cfr. Per conoscere Pasolini, 1978).
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all'utile al concreto”39. È determinato, rapido nelle decisioni, e sa accaparrarsi consulenti di
prim'ordine, fra i quali proprio Attilio Bertolucci da subito è il più ascoltato. Un po' per fiducia nel
suo consigliere e un po' per effetto del pezzo uscito su "Paragone", Garzanti si impegna subito (sia o
non sia in “un quarto d'ora”, com'è dichiarato nell'intervista) a pubblicare il romanzo di cui il pezzo
di "Paragone" è l'attacco. È una mossa a sorpresa, e si rivelerà un colpo clamoroso. L'opportunità
offerta da Garzanti si risolve, per Pasolini, in uno stimolo potente alla ripresa del romanzo, anche se
non nell'esclusivo concentrarsi su di esso che l'editore aveva sperato. Pur tenendo aperti altri fronti,
è il completamento del “Ferrobedò” che mette al centro del tavolo, trovando anche il modo di placare
la Banti dirottando sulla "Biblioteca di Paragone" la raccolta delle sue poesie friulane. Per ottenere
questo focus esclusivo, Garzanti metterà in pratica, anche con Pasolini, la sua nuova (e insieme
vecchissima, risalente addirittura alla pratica tardo-medievale e rinascimentale di raccogliere
intorno a sé scrittori “familiares”) “tecnica del libro-paga”. Il gesto, inaugurato con Gadda (un po'
diverso il caso di Parise, assunto nel 1963 a Milano come redattore in casa editrice) è replicato con
Pasolini all'inizio del 1955. Prima, si è visto, lo scrittore friulano aveva vissuto a lungo di
collaborazioni miserrime e di supplenze scolastiche a Ciampino, e solo da poco lavorava come
sceneggiatore cinematografico. La mossa è quella che aveva avuto successo nel convincere Gadda a
riprendere in mano il “Pasticciaccio”, e che Attilio Bertolucci, nel suo ricordo, anticipa al primo
incontro romano fra il giovane editore e il giovane scrittore: l'offerta di uno stipendio mensile nel
cambio del quale lasciare gli altri impegni, e concentrarsi nella conclusione del romanzo (il 4 agosto
del 1953, Gadda aveva parlato di un “regime di sovvenzione”, misurando in “almeno otto mesi di
pieno impegno” il tempo necessario a concludere il “Pasticciaccio”)40. Pasolini, dopo la prima lettera
inviata a Garzanti, nella quale lasciava trasparire un certo imbarazzo misto a senso di colpa per non
essersi più fatto vivo con l’editore, dopo quell’unico incontro romano che avevano avuto, riscrive a
Garzanti in un giorno imprecisato di novembre, e questa volta ci si mette d'impegno. Non discute i
dettagli economici della proposta (si riserva di farlo, probabilmente, con il tramite di Bertolucci), ma
quantifica in “circa cinque sei mesi” il tempo necessario per concludere il romanzo e dà finalmente
un resoconto preciso della forma che il “Ferrobedò” ha assunto in quella fase delle sue
39 Garboli (2003, p. 557). Su Livio Garzanti e i suoi autori, cfr. il ricco commento di D. Scarpa a Gadda, Parise
(2015).
40 Garboli (20 03, p. ss8). La lettera di Gadda a Garzanti è pubblicata integralmente ora in Gadda (2006, pp. 71-
4).
- 35 -
trasformazioni. La lettera è studiata per rassicurare l'editore circa la determinazione e la serietà con
cui lo scrivente si prepara a rispettare l'accordo. Pasolini, sembra, vuole convincere Garzanti che non
farà un cattivo affare (“è tutto chiarissimo nella mia testa”; “non sono pigro, badi”; “scusi la fretta
caotica con cui ho scritto: ma sono affogato nel lavoro”). L'insistenza sull'incapacità di rendere con
un riassunto la compattezza del romanzo (“è impossibile riassumere decentemente la trama”; “si
avrebbe l'impressione di un arazzo” ecc.) riflette forse alcune delle preoccupazioni espresse
dall'editore (forse a voce, già nel primo incontro, o attraverso Bertolucci): preoccupazioni, si direbbe,
relative in questa fase soprattutto alla tenuta del libro (al suo essere un vero romanzo, e non una
raccolta di racconti). Tra le lettere di Garzanti che si conservano all'Archivio Vieusseux manca
purtroppo la risposta alla lettera-resoconto citata sopra, che è anche una dichiarazione di poetica -
importante per quanto rivela sul "simbolismo" della struttura, oltre che sull'officina del romanzo
ancora in lavorazione, con tre dei nove capitoli previsti già pronti, altri quattro da finire e due “da
riscrivere quasi completamente”. Ci resta, però, la replica di Pasolini, del 28 novembre, che allude a
“consigli” a proposito del “Ferrobedò” espressi dall'editore sulla base della lettera-resoconto. Sono,
si può capire, consigli di due tipi: relativi alla lingua, con la raccomandazione di non usare troppe
parole di dialetto o gergo oscure per il lettore; e relativi, ancora, all'impianto generale del libro (alla
sua natura di romanzo o collettore di capitoli parsi evidentemente all'editore, sulla base del
riassunto, troppo autonomi, “a sé stanti”):
“[...] I suoi consigli a proposito del «Ferrobedò» mi paiono molto giusti e sensati, specie per quel che riguarda
la lingua: ne terrò conto non ora nello stendere il racconto (le parole dialettali, del gergo ecc. mi sono
assolutamente necessarie per scrivere : sono - forse - il sottoprodotto che deve nascere insieme al prodotto: sono
esse che mi danno l'allegria necessaria per capire e descrivere i miei personaggi) , ma ne terrò conto nel
correggere il libro quando sarà completo : allora le Inutili verranno cancellate, le utili resteranno (anche se
saranno un po' oscure: e qui stile e commercialità entreranno in polemica...). [...]”
Pasolini mostra di tenere in considerazione i consigli (“molto giusti sensati”), e non sospetta in alcun
modo che dalla lingua e dalla struttura del romanzo possano venire serie difficoltà alla sua
pubblicazione. Per ora, alla fine del 1954, le prospettive sono rosee. In dicembre, probabilmente,
scrittore e editore si incontrano ancora per mettere a punto i dettagli dell'accordo, come risulta da
questa lettera del 6 dicembre che si conclude con l'invito, da parte dell'editore, “a lavorare”:
“Caro Pasolini, non ho risposto alla Sua lettera perché pensavo proprio di poter essere a Roma in questi giorni,
invece ho dovuto rinviare ancora. Purtroppo questi giorni prima di Natale sono giorni di lavoro intenso. Non
- 36 -
ho persa però la speranza di poter arrivare a Roma tra 4-5 giorni. Le scrivo per dovere di cortesia e per incitarLa
a lavorare; non perda tempo; io posso fare il mio lavoro solo se Lei mi dà il lavoro al momento opportuno”41.
4 Bozze “da correggere e da castrare”: i giorni
dell’autocensura
Il dattiloscritto definitivo, almeno nelle intenzioni dell’autore, era stato mandato a Milano il 13 aprile
1955. Per un po' Pasolini non ne aveva saputo nulla. Il 17, aveva scritto a Franco Fortini di aver
spedito il malloppo e di sentirsi finalmente un po' libero, dopo i giorni convulsi delle ultime
correzioni. La quiete, tuttavia, dura poco. Nelle prime settimane di maggio, comincia una specie di
“incubo”. Il 9, Pasolini scrive a Sereni di essere alle prese “da vari giorni” con “bozze mezze morte”,
“da correggere e da castrare”. Garzanti è stato preso da “scrupoli moralistici”, “si è smontato”, e non
è più convinto del romanzo che prima aveva tanto voluto:
“Caro Sereni, sono vari giorni che di giorno in giorno rimando lo scriverti. Sai come succede. D'altra parte sono
vissuto in una specie di incubo (e ancora non ne sono del tutto fuori): Garzanti all'ultimo momento è stato preso
da scrupoli moralistici, e si è smontato. Così mi trovo con delle bozze mezze morte tra le mani, da correggere e
da castrare. Una vera disperazione, credo di non essermi trovato mai in un più brutto frangente letterario42...”
Se è esistita, la lettera in cui Garzanti ha comunicato a Pasolini le sue impressioni alla lettura del
romanzo non è tra quelle sopravvissute. Potrebbe essere stato Attilio Bertolucci il messaggero di
brutte notizie, come più volte all'”ascoltato e bistrattato Mazarino di Maison Garzanti”43 era capitato
durante la trattativa del Pasticciaccio, e come con Pasolini gli toccherà l'anno successivo, quando
trasmetterà all'amico l'accusa per oltraggio alla morale (è l'episodio intorno a cui Pasolini costruisce
la poesia “Recit”, identificando Bertolucci, secondo una persuasiva lettura di Giacomo Magrini44, col
41 P. P. Pasolini, Lettere 1955-1975, con una Cronologia della vita e delle opere a cura di N. Naldini, Einaudi,
Torino 1986.
42 Ivi. Nota 14, cit. p. 57
43 Espressione riferita ad Attilio Bertolucci da Piero Gelli (1995).
44 G. Magrini (1994), Pasolini, Spitzer, Bertolucci. Recit senza accento, in "Paragone",
XLV, n.s., 47-48, pp. 19-34.
- 37 -
messaggero delle tragedie di Jean Racine, il cui ruolo era stato indagato da Leo Spitzer nel saggio sul
“récit de Théramène” della “Phèdre”)45. Abbiamo, però, la lettera di accompagnamento alle bozze
corrette, nella quale Pasolini, a dimostrazione della “buona volontà” con la quale ha seguito le
indicazioni dell'editore, descrive minuziosamente il lavoro svolto. Gli interventi apportati per
rendere possibile la pubblicazione, se ne ricava, sono quattro di quattro tipi: interventi di censura
linguistica (la sostituzione con puntini di “tutte le brutte parole”, come Pasolini scrive a Garzanti);
interventi tesi ad "attenuare" gli episodi più spinti; "sfrondamenti"; e ritocchi strutturali, per rendere
più compatto il nucleo della storia, e più chiara la sua articolazione. Possiamo, a questo punro,
vedere alcuni esempi degli interventi in cui si è concretizzata l’autocensura coatta dell’aprile-maggio
del 1955, e poi tentare qualche conclusione. In primo luogo, la censura linguistica prende per lo più
la forma di singole parole che si nascondono dietro a puntini: un “vaffanculo” diventa “vaffan...”46;
un “cazzi tua”, un altrettanto riconoscibile “c... tua”; un ”Je trema er culo”, diventa “Je trema er c...”
e così via. Imparentati con questi sono i casi in cui parole che si teme urtino il lettore (le “brutte
parole” di cui Pasolini parla nella lettera a Garzanti) sono non occultate da puntini, ma sostituite da
sinonimi percepiti come più accettabili: un “cazzi” diventa “cavoli”; un “a stronzo”, “a coso”; tra i
nomi un “Cazzosecco” si trasforma in “Zinzello”. Nella lettera Pasolini dichiara di aver operato una
correzione sistematica delle “brutte parole”. Qualcuna, invece, per svista o estrema resistenza
all'edulcorazione forzata, rimane (nell'episodio del bagno sull'Aniene un “a stronzo”, altrove
censurato, si conserva). L'”attenuazione”, invece, riguarda episodi ritoccati e come messi in sordina,
ma non del tutto espunti. È il caso, ricordato nella lettera, della scena di Nadia a Ostia. Un altro
esempio chiarissimo è nel passo del capitolo 5, “Le notti calde”, che nella versione ancora non
“castrata”, racconta come il Lenzetta, tornato a casa ubriaco, cerchi di "imbrosarsi" il fratello
45 La poesia Récit (Recit nella grafia pasolinana) è apparsa per la prima volta su "Botteghe Oscure" nel settembre
del 1956, e confluita nelle Ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957 (ora in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di
W. Siti, Mondadori, Milano 2003). In una lettera del 12 gennaio 1956 Pasolini informa Garzanti di averla scritta
subito dopo la notizia della denuncia contro Ragazzi di vita. Il saggio a cui si fa riferimento è: G. Magrini. (1994),
Pasolini, Spitzer, Bertolucci. Recit senza accento, in "Paragone", XLV, n.s., 47-48, pp. 19-34.
46 Cito dal f. 189; la lezione apparsa a stampa è in: P. P. Pasolini, Romanzi e racconti 1946-1961, a cura di W. Siti,
S. De Laude, con due saggi di W. Siti e una Cronologia a cura di N. Naldini, Mondadori ("I Meridiani"), Milano
1998.
Tesi di Laurea
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Tesi di Laurea

  • 1. La censura e la morale sessuale nell’Italia del Boom economico Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Lettere e Culture moderne Corso di laurea in Letteratura Musica e Spettacolo Matteo Torella Matricola 1867316 Relatore Prof. Roberto Gigliucci A.A. 2020-2021
  • 2. - 2 - Ai miei genitori
  • 3. - 3 - INDICE - SOMMARIO Introduzione...................................................................................................6 Capitolo primo INTRODUZIONE STORICA 1. Definizione del concetto di censura.........................................14 1.2. Censura: evoluzione della disciplina normativa nel contesto italiano.............................................................................15 Capitolo secondo PASOLINI E IL PROCESSO A “RAGAZZI DI VITA” 1. Pasolini: da “piccolo profeta” a “poeta maledetto”........................27 2. Quando il “Ferrobedò” era un trittico..............................................28 3. L’incontro con Garzanti.....................................................................32 4. Bozze “da correggere e da castrare”: i giorni dell’autocensura....36 5. “Il mio libro letto dagli altri”: quando “Ragazzi di vita” è stampato e va per la sua strada.........................................................40 6. Il processo a “Ragazzi di vita”...........................................................42
  • 4. - 4 - Capitolo terzo GIORGIO GABER: LA CENSURA DI UN INTELLETTUALE 1. Giorgio Gaberscik....................................................................................52 1.2 Gaber e la “nuova canzone”..............................................................55 1.3 Genesi del “Signor G”........................................................................56 2 La metamorfosi........................................................................................61 2.1 Modelli e influenze del “Teatro canzone”............................................63 2.2 Gli anni Settanta......................................................................................66 2.3 “Io se fossi Dio”.......................................................................................72 Capitolo quarto DUE CASI DI CENSURA CINEMATOGRAFICA: “ULTIMO TANGO A PARIGI” E “SALO’ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA” 1. Bernardo Bertolucci............................................................................77 1.1 “Ultimo tango a Parigi”..........................................................................80
  • 5. - 5 - 1.2 Autocensura e processo.........................................................................84 2 Pasolini cineasta.......................................................................................89 2.1“Salò o la 120 giornate di Sodoma”........................................................92 2.2 La censura................................................................................................97 Osservazioni conclusive............................................................102 Bibliografia..................................................................................104
  • 6. - 6 - Introduzione In pochi anni la comunicazione, con l'avvento del digitale, è passata dall'era della scarsità a quella dell'abbondanza. Dalla nascita della tv, nel 1954, fino al 1961 in Italia l'etere era monopolizzato da una sola rete televisiva, il “Nazionale”, mentre oggi abbiamo centinaia di canali a portata di telecomando. Nel 2001 i siti web registrati in Italia erano circa 100.000, cinque anni dopo erano già diversi milioni. All'inizio del 2017, ogni minuto il motore di ricerca Google riceveva 3,8 milioni di richieste, Facebook circa 3,3 milioni di post e 1,8 milioni di Like, nascevano 571 nuovi siti e 70 nuovi domini, su YouTube venivano caricate 500 ore di video, su Twitter si cinguettava 488.000 volte. Questa alluvione incontrollata e incontrollabile di contenuti sembra rendere velleitario qualunque tentativo di controllo o censura, come svuotare l'oceano con una tazzina da caffè. Basta invece leggere con attenzione una qualunque rassegna stampa di politica internazionale per verificare che la censura è ancora pratica corrente in tutto il globo. In genere sembrano le ripicche goffe e inefficaci di un piccolo satrapo che non ha capito come funziona il mondo. In realtà, come tutte le forme di censura, la repressione serve da deterrente: colpirne uno per educarne cento. È la stessa logica con cui si muovono i poteri (e le mafie e le milizie) che minacciano, feriscono, uccidono i giornalisti scomodi: non tanto perché abbiano scoperto o stiano per scoprire quello che è già sotto gli occhi di tutti, ovvero che il potere è corrotto e corrompe, quanto per lanciare un avvertimento: se dici che il re è nudo, rischi di fare la stessa fine. Nei regimi totalitari la situazione è tragicamente chiara – oggi come un secolo fa -, come racconta l'ultimo saggio di Tzvetan Todorov: Il “sogno di un amore reciproco tra artisti e rivoluzionari”, il “fascino per l'ideale” e i “nobili obiettivi” vengono presto travolti dalle “conseguenze indesiderabili” fatte di “distruzioni, violenza, crudeltà”1. Il modus operandi delle dittature odierne è sostanzialmente lo stesso di quelle protagoniste del XX secolo: controllo assoluto dei mezzi di comunicazione, repressione del dissenso politico ed un costante tentativo di screditare il “way of life” e il sistema di valori su cui si basano le società politicamente avverse al regime di turno. Nel paese più popoloso del mondo, la Cina, vengono oscurati tra l'altro social come Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest, Tumblr, Snapchat, Picasa, WordPress.com, Blogspot, Blogger, Flickr, SoundCloud, Google+, Google Hangouts, Hootsuite; applicazioni come Google Play, Line, KaKao Talk, Telegram; motori di ricerca come Google, Duck Duck Go, oltre che diverse versioni estere di Baidu e Yahoo; tra i media non sono accessibili testate “sovversive” come “The New York Times”, 1 T. Todorov, L'arte nella tempesta. L'avventura di poeti, scrittori e pittori nella Rivoluzione russa, traduzione di Emanuele Lana, Garzanti, 2017.
  • 7. - 7 - “Financial Times”, “The Wall Street Journal”, “The Economist”, “Bloomberg”, “Reuters”, “Le Monde”, “L’Equipe”, Netflix, Youtube, Vimeo, Google News, Daily Motion, molte pagine di Wikipedia, Wikileaks; e sono bloccati anche quasi tutti i siti porno. In occasione del Congresso del Partito Comunista, dell'ottobre 2017, i censori cinesi hanno creato un curioso paradosso: hanno continuato a oscurare numerosi siti, ma non hanno censurato la notizia della BBC in cui si denunciava la censura “made in China”. Una distrazione? Forse un tentativo di dimostrare che la censura non esiste? Oppure la prova definitiva della potenza di un meccanismo talmente potente che si può permettere di farsi pubblicità attraverso la BBC?2. Innanzitutto, va sottolineato che la censura è un fenomeno umano e come tale va analizzato. Essa, come è facile riscontrare, è nata parallelamente alla nascita delle prime società antiche e, come ogni attività umana, si è evoluta per far fronte alle necessità di controllo riscontrate, di volta in volta, dai detentori del potere in quel dato sistema. Nell’antica Roma, i pontefici prima e gli imperatori poi, sovraintendevano al controllo dei costumi e all’espletamento da parte di tutti i cittadini di quei rituali fondamentali per garantire la pax deorum e quindi la prosperità della città stessa. La comprovata trasgressione del mos maiorum – il sistema di valori su cui si reggeva la società dell’antica Roma –, attuabile anche attraverso la realizzazione di opere che potessero in qualche modo sobillare il popolo e, in misura variabile, aizzarlo contro la Repubblica o l’imperatore, poteva comportare l’esilio o, nel peggiore dei casi, la condanna a morte: ne sanno qualcosa poeti come Cicerone, Seneca, Ovidio. Se scorriamo la linea del tempo, possiamo facilmente imbatterci in dinamiche simili nel quadro storico dell’Italia dei comuni. L’esilio di Dante dalla città di Firenze, nel contesto della guerra fra guelfi bianchi e guelfi neri, ne è un celebre esempio. Andando ancora più avanti ci imbattiamo nelle vicende legate alla figura di Niccolò Macchiavelli, poi di Ugo Foscolo e, per non limitarci al solo contesto italiano, possiamo menzionare Victor Hugo, ma anche compositori come Fryderyk Chopin, Richard Wagner e scienziati come Galileo Galilei, Albert Einstein e Sigmund Freud. Insomma, la censura ha agito e agisce tutt’ora seguendo una sola massima fondamentale: quando non si può contenere il danno attraverso la repressione, la causa di questo va identificata ed estirpata alla radice. E le dinamiche con le quali quest’opera di rimozione può essere condotta svariano, appunto, dall’eliminazione fisica dei personaggi ritenuti eversivi – attraverso, come detto, l’esilio o l’esecuzione capitale -, praticata di frequente quasi solo nei regimi dispotici; alla delegittimazione morale delle figure che si sono fatte portavoce di determinate istanze eversive, praticata spesso e volentieri anche nelle democrazie contemporanee. Non bisogna, difatti, commettere l’errore di credere che la censura sia un fenomeno legato esclusivamente ai regimi dispotici che si sono resi protagonisti dei più efferati crimini contro 2 Se Pechino censura la censura: per censurare di più, La Stampa, 25 ottobre 2017.
  • 8. - 8 - l’umanità nel corso del Novecento, e che quindi essa sia “crollata”, insieme con il muro di Berlino, quel fatidico 9 novembre 1989. La censura, come già ribadito, ha origine umana e pertanto capacità metamorfiche che le hanno consentito di sopravvivere e di rinnovarsi all’interno dei regimi democratici che sono sorti sulle ceneri delle dittature, fascista e nazista prima, sovietica poi. Basti pensare, per ciò che concerne l’Italia, che essa fu introdotta nel 1913 dal governo Giolitti per autorizzare “il governo del Re ad esercitare la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche, prodotte all’interno o importate dall’esterno”. Circa dieci anni prima della Marcia su Roma. Sarebbe pertanto errato voler confinare questo fenomeno all’interno di un singolo periodo e di un singolo sistema di governo che, per quanto possa aver portato all’esasperazione il concetto di censura estendendola a tutti gli aspetti della vita, financo privata delle persone, di fatto lo procede. Non solo, gli sopravvive. Infatti, La Repubblica italiana, sorta all’indomani del referendum del 2 giugno 1946, ereditando sostanzialmente la legislatura prodotta in epoca monarchica in materia di censura ha impostato il proprio operato nel segno della continuità tanto con l’Italia monarchica, quanto con quella fascista – anche a causa della permanenza, all’interno della macchina statale, di figure ampiamente compromesse con il regime. L’unico aggiustamento fatto fu quello relativo alla legge n. 161 del 21 aprile 1962, la quale, pur apportando alcuni cambiamenti, confermava il mantenimento di un sistema preventivo di censura e assoggettava al rilascio del nullaosta la proiezione pubblica dei film e la loro esportazione all’estero. Non bisogna, fra l’altro, lasciarsi ingannare dalla menzione della sola arte cinematografica, all’interno del testo della legge. Il motivo può essere ricondotto al “terrore” che questo nuovo mezzo incuteva, e al fatto che esso rappresentava appunto una novità, le cui potenzialità ancora dovevano essere del tutto esperite. Sebbene il regime fascista, e ancor più quello nazista, avessero già dato prova della potenza di questo medium, servendosene in maniera massiccia per veicolare le rispettive ideologie in maniera capillare fra la popolazione. Di fatto, le varie commissioni di censura hanno operato fin dal primo istante a macchia d’olio, passando al setaccio ogni forma di espressione artistica e intellettuale: dal romanzo alla pièce, dall’articolo di giornale alla canzone, dalla pellicola cinematografica alla performance televisiva. Inoltre, bisogna tenere ben presente che non vi sono differenze qualitative fra la censura attuata dal regime e quella messa in pratica dalla Repubblica, non esiste una censura cattiva e una buona. Se è vero che il regime la metteva in pratica anche attraverso la violenza fisica e materiale, cui abbiamo già accennato, nella presente trattazione verranno trattati casi emblematici relativi al periodo del dopoguerra che rendono bene l’idea di come non sia necessario imprigionare, esiliare o uccidere una persona per ridurla al silenzio. È proprio qui che emerge una delle differenze più evidenti fra la censura fascista e quella repubblicana, nel primo caso si tendeva a prediligere l’eliminazione fisica
  • 9. - 9 - dei personaggi ritenuti scomodi, mentre nel secondo – e ritorniamo al concetto di evoluzione della censura e dei mezzi per attuarla – si è progressivamente affermata la prassi della condanna morale, con conseguente svilimento dell’immagine pubblica dell’”eversivo” di turno, finalizzata ovviamente a minarne la credibilità presso l’opinione pubblica. Ne sa qualcosa l’autore che tratto nel primo capitolo della presente trattazione: Pier Paolo Pasolini. È senza ombra di dubbio lui l’intellettuale che è stato maggiormente vessato dal meccanismo della censura in Italia, fin dal suo primissimo romanzo, “Ragazzi di vita”. La pubblicazione dell’opera venne da subito osteggiata, a Pasolini furono consigliati (di fatto imposti) molti tagli e rimaneggiamenti, in primis dal suo editore Garzanti, soprattutto del lessico popolare ritenuto eccessivamente scurrile. Il problema del romanzo era proprio questo: Pasolini aveva deciso di portare sul proscenio della letteratura impegnata gli ultimi, i diseredati, i “borgatari” romani che, nell’immediato dopo guerra, vivevano in condizioni più che subalterne e sopravvivevano attraverso espedienti e piccoli crimini. E se per lui queste persone, e le loro storie, erano più che meritevoli di essere raccontati all’interno di un romanzo, non era della stessa opinione l’élite culturale, e soprattutto politica, dell’epoca. Per denunciare l’opera i vari censori si appellarono alla trivialità del lessico dei protagonisti e alla presunta oscenità di taluni episodi raccontati all’interno del racconto. La realtà è che per la coscienza borghese, intrisa di cattolicesimo, imperante all’epoca era inaccettabile che personaggi così umili, se pur così rispondenti alla realtà, trovassero spazio all’interno del pantheon della letteratura. Semplicemente non ne erano degni, e non ne era degno neanche l’autore che aveva avuto tale iniziativa. Fu proprio con Pasolini che si mise in atto, per la prima volta in maniera così eclatante, quel tentativo di condanna morale cui accennavo prima. Il processo che fu intentato ai suoi danni nel 1955 a seguito della pubblicazione del romanzo fu l’occasione per l’inizio di un altro processo, quello mediatico, che non prendeva di mira il suo operato in quanto romanziere o intellettuale bensì la sua persona. Pasolini era già finito in tribunale qualche anno prima, a seguito di una denuncia per corruzioni di minori e atti osceni in luogo pubblico e, sebbene ne fosse uscito assolto, quel precedente fu abilmente utilizzato dai suoi detrattori per minarne la credibilità agli occhi dell’opinione pubblica. Questo episodio ci fornisce la possibilità di prendere in considerazione un’altra differenza importante fra la censura fascista e quella post Seconda guerra mondiale. L’operato della prima era esclusivamente finalizzato all’eliminazione di qualsiasi forma di opposizione politica ma non nutriva reali velleità nel diffondere un modello unico di comportamento – eccezion fatta per quel machismo militarista in realtà proprio di ogni regime autoritario. Al contrario, nel secondo caso, la censura borghese – nell’accezione più Pasoliniana, quindi negativa, possibile – espressione, appunto, della classe sociale dominante, pretendeva che vi fosse un’omologazione assoluta al modello che essa condivideva e rappresentava. Venuto meno il problema della repressione del dissenso politico,
  • 10. - 10 - essa ha trovato una nuova missione nella regolamentazione, totale e pervasiva, della vita delle persone. Il fulcro dell’intero discorso è divenuto ora il senso del pudore, nel senso più cattolico e conservatore possibile, il rifiuto dell’oscenità, della nudità, dell’omosessualità. Il ruolo che prima era idealmente affidato al duce è stato presto ereditato dalle élite ecclesiastiche nell’Italia del dopoguerra e, di fatti, le commissioni di censura hanno sempre lavorato a stretto contatto con le associazioni cattoliche dislocate sull’intero territorio nazionale. Proprio da queste sono pervenute la maggior parte delle denunce ai danni dei più svariati artisti. Se ne trova facilmente testimonianza nelle lettere che cito, fra l’altro, nel primo capitolo: un botta e risposta fra l’allora sottosegretario con delega al teatro e allo spettacolo, Andreotti, e l’Azione Cattolica di Varese, in cui entrambe le parti si accusano reciprocamente di eccessivo lassismo nell’attuazione pratica della censura. Alla luce di ciò, chi potrebbe affermare che la dichiarata omosessualità di Pasolini non abbia minimamente influito nel renderlo ancor più antipatico al sistema? Esattamente, nessuno. Essa poi diverrà un argomento assolutamente scottante quando, vent’anni dopo, egli denuncerà attraverso il grande schermo tutta la depravazione a cui può condurre il potere, nel film più turbante che personalmente abbia mai visto: “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Purtroppo o per fortuna, Pasolini non visse abbastanza a lungo per subire l’ennesimo processo, giudiziario prima e mediatico poi, della sua vita. Certo, la tematica dell’omosessualità ha sempre scaldato gli animi dell’universo cattolico nel nostro bel paese, ma non è l’unica ad aver destato scandalo. Nel terzo capitolo della presente trattazione, insieme con il film di Pasolini appena menzionato, tratto anche un altro celebre caso di censura cinematografica, anzi, il caso più celebre in assoluto. Mi riferisco ovviamente al film che ha definitivamente proiettato nell’olimpo del cinema Bernardo Bertolucci: “Ultimo tango a Parigi”. Uscito nel 1972 - già a seguito di una autocensura imposta dalla Commissione che impose al regista il taglio di otto secondi della scena iniziale - il film divenne nel giro di poche settimane un caso a livello mondiale. Osannato alle première di Parigi e di New York, in Italia il film destò tanto scandalo da portare la Cassazione a disporre, a seguito della sentenza del 29 gennaio 1976, la distruzione di tutti i negativi esistenti, condannando di fatto all’oblio la pellicola del regista parmense. Qual era la sua colpa? Ancora una volta, nient’altro che aver avuto l’ardore di portare sul grande schermo una storia d’amore non convenzionale, una storia vera. Le poche scene di nudo che si registrano all’interno della pellicola – la tanto demonizzata “scena del burro”, in realtà, non mostra assolutamente nulla di osceno – furono in realtà utilizzate come puro pretesto. Il vero problema era che la pellicola operava una decostruzione del modello vigente di amore, portando in scena un rapporto che non si identificava in alcun modo nella “famiglia del mulino bianco”, che invece la cultura dominante voleva passare. Il rapporto morboso che si instaura fra il vedovo Paul e la giovane
  • 11. - 11 - Jeanne, fatto di rapporti estemporanei e violenti, consumati nello spazio di un appartamento squallido e semi vuoto in Rue Jules Verne, è in realtà una critica alla società alienante che il regista stesso vive e vede intorno a sé. Il film rappresenta il fallimento degli ideali rivoluzionari che avevano riempito gli anni immediatamente precedenti, quelli della contestazione giovanile del ’68 e delle successive lotte operaie. È la constatazione dell’impossibilità, per l’uomo comune inserito in società, di trovare uno spazio in cui essere pienamente sé stesso e pienamente appagato, ed è per questa ragione che il film si svolge tutto al di fuori della società stessa. Il regista inaugura in questa pellicola la sua poetica “in the box”, tutta la storia si dispiega all’interno delle quattro mura dell’appartamento sopra citato e non appena Paul tenterà di redimersi e di fuoriuscire da quella prigione, più mentale che fisica, l’esito sarà catastrofico. Nulla di quanto detto riguardo questo capolavoro avrebbe dovuto, in teoria, giustificare una condanna tanto severa, eppure quando parliamo di “Ultimo tango a Parigi”, parliamo del film il cui bando è durato più di qualunque altro nella storia della censura cinematografica italiana: in totale ben quindici anni, dal 1972 al 1987. L’ultimo campo che prendo in analisi è quello relativo al mondo discografico musicale. In questo caso il soggetto prediletto è il mitico Signor G. Voler ridurre la figura di Giorgio Gaber a quella di un cantante e basta sarebbe tanto errato quanto fuorviante. Egli è stato un intellettuale ed un artista a tutto tondo che ha scelto di rinunciare al successo facile e immediato per intraprendere una strada diversa, ridefinendo il concetto di canzone ma anche quello di teatro. Il punto di svolta è da cercare a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. Nel 1970, infatti, a seguito della pubblicazione del suo album meno famoso e certamente più particolare - “Sexus et Politica”, scritto dal deus ex machina del Quartetto Cetra, Virgilio Savona -, Gaber sceglie di abbandonare la televisione e la bagarre discografica per dedicarsi al suo personalissimo Teatro canzone. Ai fini della sua autoesclusione dal mondo del jet set discografico e televisivo, non sono stati certamente estranei i fatti relativi proprio al suo ultimo album. Questo, realizzato da Savona parafrasando, traducendo e riadattando brani di autori latini vissuti duemila anni fa – fra cui si annoverano fra gli altri Properzio, Catone, Ovidio e Marco Aurelio – risulta essere un album di uno spessore artistico e culturale impressionante. Ciò nonostante, la Commissione lettura della Rai lo bollò come “disco da trasmettere, per il suo contenuto, solo commentato da persona qualificata”, fornendo, con tutta probabilità, la spinta in più a Gaber per compiere definitivamente quel passo verso il teatro che meditava da tempo. Ed è proprio sul proscenio, sotto le luci della ribalta, che Gaber arriva alla piena maturità artistica. Fianco a fianco con Sandro Luporini egli realizza qualcosa che mai si era visto prima e mai si è più visto dopo. Il teatro canzone gaberiano, fondendo la canzone al recitativo, ha fornito al Signor G lo spazio di cui aveva bisogno per essere pienamente sé stesso, senza dover sottostare alle logiche di mercato che
  • 12. - 12 - premiavano le cosiddette “canzonette”, sul palco del festival di San Remo, a scapito di tutti quegli autori impegnati che sgomitavano per trovare uno spazio in cui affermarsi. Nel contesto del teatro, Gaber ha trovato il suo personalissimo modo per sottrarsi alla censura cui sarebbe certamente andato incontro se avesse deciso di trattare gli argomenti, su cui si sono basati tutti i suoi spettacoli, su palcoscenici più mainstream. Quando prendi di petto tutto e tutti però, poco conta dove tu lo faccia, se in tv o in teatro, specialmente se i tuoi spettacoli fanno registrare il tutto esaurito in ogni città d’Italia. Di fatti, quando Luporini e Gaber, sul finire degli anni Settanta, alzano la posta in palio divenendo sempre più espliciti e sempre più aggressivi contro tutto ciò che ritenevano ingiusto all’interno della società che vivevano, la censura bussa di nuovo alla sua porta. Il pretesto è fornito dalla realizzazione della canzone più celebre, veritiera, arrabbiata e spudorata, e per questo anche la più osteggiata, eseguita da Gaber: “Io se fossi Dio”. Si tratta di un’invettiva di quindici minuti in cui i due non risparmiano colpi a nessuno: politici di destra, di sinistra, radicali, borghesi, militanti, giovani, vecchi, democristiani, brigatisti, ce n’è per tutti. Ciò che proprio non gli venne perdonato però fu il riferimento ad Aldo Moro, assassinato due anni prima dai brigatisti. Come si evince dal testo, e dall’interpretazione di Gaber, egli non accettava che “un politico qualunque” divenisse “l’unico statista”, solo perché “gli ha sparato un brigatista”. Insomma, non accettava l’ipocrisia imperante e manifestò questa insofferenza accusando Moro, e tutta la Democrazia Cristiana, di essere il principale responsabile di “vent’anni di cancrena italiana”. Il risultato di tale iniziativa fu che quando Gaber decise di tornare in sala di registrazione, dopo dieci anni dall’ultima volta, proprio per registrare “Io se fossi Dio”, venne scaricato dalla sua casa discografica, la quale non voleva in alcun modo assumersi la responsabilità di pubblicare un disco tanto scomodo. Fu solo grazie ad una label minore, la F1 team di Sergio De Gennaro, che il disco alla fine venne inciso e iniziò a circolare. Di fatto questo disco rimase un “fantasma” nel panorama discografico, non fu ufficialmente censurato solo perché non ce ne fu bisogno, nessuna radio lo passò neanche per sbaglio, figuriamoci se godette di passaggi televisivi. Nel giro di poco tempo non venne più stampato e i pochi che riuscirono ad averne una copia lo conservano tutt’ora come un cimelio di inestimabile valore. Queste breve panoramica ci consente, spero, di tornare ai concetti espressi all’inizio di questo paragrafo con maggiore consapevolezza. Quanto è importante -in un’epoca come la nostra, dove ognuno è teoricamente libero di esprimere la propria opinione – interrogarsi e riflettere sulla qualità effettiva di questa libertà? Noi oggi viviamo in un mondo in cui con due click vieni “profilato”, in cui gli stati d’animo vengono espressi nello spazio di 140 caratteri e nel quale il valore di una persona è strettamente commisurato alla quantità di Like e Follower presenti sul suo profilo. Senza voler fare
  • 13. - 13 - i “complottisti”, è evidente agli occhi di tutti la situazione della Cina, ma siamo così sicuri – noi occidentali – di non essere vittime della stessa sorte? Questa tesi, ideata a seguito dell’abolizione, da parte del ministro della Cultura Dario Franceschini, della censura cinematografica – con il decreto del 5 aprile 2021 - ha la pretesa di rispondere a questa domanda: Nel 2021 è ancora possibile avere un pensiero libero, autonomo e allo stesso tempo critico, svincolato dai parametri che la società, oggi più che mai, in maniera ben più subdola di qualsiasi regime, cerca di imporci?
  • 14. - 14 - Capitolo primo Introduzione storica 1 Definizione del concetto di censura La censura è una forma di controllo sociale che limita la libertà di espressione e di accesso all’informazione, basata sul principio secondo cui determinate informazioni e le idee e le opinioni da esse generate possono minare la stabilità dell’ordine sociale, politico e morale vigente. Applicare la censura significa esercitare un controllo autoritario sulla creazione e sulla diffusione di informazioni, idee e opinioni. È ormai un uso consolidato suddividere la censura, secondo l’oggetto e il tipo di autorità che la esercita, in religiosa, politica e morale. Quando è la religione l’istituzione sociale predominante, eresia ed empietà costituiscono i bersagli principali della censura; la formazione degli Stati nazionali orienta la censura contro il tradimento e le idee politicamente sovversive; la censura morale, infine, è diretta contro l’oscenità e la pornografia e può essere esercitata sia dalle autorità statali che da gruppi di pressione volontari3. Queste distinzioni sono utili in quanto mettono in relazione la censura con la forma di potere predominante, responsabile dell’osservanza della tradizione e della stabilità interna di una società; non vanno però sopravvalutate poiché, la varie forma di censura, si sovrappongono e si rafforzano a vicenda, tant’è vero che, in genere, il compito assegnato alla censura è quello di impedire ogni pubblicazione che contenga ciò che è – per citare, a titolo di esempio, la legge sulla censura promulgata da Caterina II di Russia – “contrario alle leggi di Dio o al potere supremo, o che corrompe i costumi”. L’estensione e i metodi della censura variano sia secondo l’ordine sociale che essa cerca di difendere, sia secondo i mezzi di comunicazione che prevalgono in una data società. Alcuni metodi hanno dimostrato una considerevole stabilità. Nelle società basate sulla comunicazione orale, dove erano i discorsi a venir censurati, l’espulsione dalla comunità rappresentava un metodo coercitivo assai efficace. Ovidio fu mandato in esilio sul Mar Nero da Augusto e lo stessa sistema viene ancora adottato nelle società industriali a partito unico, come è stato dimostrato dalle espulsioni di Trockij e di Solzenicyn dall’Unione Sovietica. In ogni caso, la censura come pratica istituzionalizzata è apparsa in seguito all’invenzione della stampa; essa è, quindi, una delle più antiche istituzioni sociali e la sua analisi, pertanto, richiede un approccio storico. 3 Vd. Victor Zaslavsky, Censura. Alfabeto Treccani, Enciclopedia delle scienze sociali in enciclopedia italiana Treccani, 2014, pp. 1-2
  • 15. - 15 - 1.2 Censura: evoluzione della disciplina normativa nel contesto italiano Di norma, si pensa al Ventennio fascista come momento cruciale nella storia della censura italiana, eppure le radici della legislazione censoria, sul cinema in primis - in quanto ritenuto, all’epoca, un nuovo medium dalle capacità comunicative ancora in parte sconosciute e, pertanto, particolarmente temuto - e, a seguire, su tutti gli altri mezzi di espressione del pensiero, risiedono nell’Italia liberale. La nascita di una legislazione specifica in materia risale all’epoca giolittiana e trova il suo humus in un forte movimento d’opinione favorevole all’introduzione della censura, animato soprattutto dal quotidiano conservatore “Il Giornale d’Italia”. Il 20 febbraio 1913, il presidente del Consiglio Giolitti diramò ai prefetti una circolare che colpisce “le rappresentazioni dei famosi atti di sangue, di adulteri, di rapine, di altri delitti” e i film che “rendono odiosi i rappresentanti della pubblica forza e simpatici i rei; gli ignobili eccitamenti al sensualismo (…) ed altri film da cui scaturisce un eccitamento all’odio tra le classi sociali ovvero di offesa al decoro nazionale”4. Il 25 giugno dello stesso anno, il primo provvedimento legislativo registrato in materia di censura (n. 785) autorizzava “il governo del Re ad esercitare la vigilanza sulla produzione delle pellicole cinematografiche, prodotte all’interno o importate dall’esterno”. È questa la data che, a tutti gli effetti, segnò la nascita e l’entrata in funzione, in Italia, di un apparato di revisione cinematografica, ovvero della censura. Il regolamento esecutivo della legge (Regio decreto 31 maggio 1914, n. 532) è di grande importanza, poiché introdusse quella casistica di argomenti suscettibili di rientrare nell'ambito della censura che verrà ripresa fedelmente, adattata e ampliata, non solo nel periodo fascista ma anche in età repubblicana. • Obiettivo della legge era vietare al pubblico la visione di: "spettacoli offensivi della morale, del buon costume, della pubblica decenza e dei privati cittadini; spettacoli contrari alla reputazione e al decoro nazionale o all'ordine pubblico, ovvero che possano turbare i buoni rapporti internazionali; spettacoli offensivi del decoro e del 4 P. Carretti, Diritto pubblico dell’informazione, Bologna, il Mulino, 1994
  • 16. - 16 - prestigio delle istituzioni e autorità pubbliche, dei funzionari e degli agenti della forza pubblica; scene truci, ripugnanti o di crudeltà, anche se a danno di animali; delitti o suicidi impressionanti e in generale azioni perverse o fatti che possano essere scuola o incentivo al delitto, ovvero turbare gli animi o eccitare al male". • La legge accennava anche alla questione della lingua straniera: "I titoli, i sottotitoli e le scritture (...) debbono essere in corretta lingua italiana. Possono tuttavia essere espressi anche in lingua straniera, purché riprodotti fedelmente e correttamente anche in lingua italiana". • La censura sui film era esercitata dal ministro dell'Interno, cui spetta concedere o negare il nulla osta "in conformità al giudizio del revisore" (ed eventualmente imporre una nuova revisione a film già muniti di nulla osta). Erano previsti due gradi di giudizio per la revisione delle pellicole: in primo grado il revisore era un funzionario della Direzione Generale della Pubblica Sicurezza o un commissario di polizia, in secondo grado una commissione composta dal vicedirettore generale e da due capi divisione della Direzione Generale della P.S. A seguire, il R.d. 9 ottobre 1919, n. 1953, introdusse il controllo preventivo sul "copione o scenario": perché una pellicola potesse accedere al procedimento di revisione, prima dell'inizio delle riprese il soggetto doveva essere "in massima riconosciuto rappresentabile" dalla censura. Nella pratica, tuttavia, il copione veniva sempre presentato alla commissione di primo grado insieme al film finito: il controllo preventivo fu applicato con rigore solo a partire dal 1935. Il R.d. 22 aprile 1920, n. 531 (a firma del ministro dell'Interno F. S. Nitti) aggiungeva che anche la revisione di primo grado era affidata a una commissione, che non aveva più una natura solo repressiva ma si allargava ad altri soggetti, seppur sempre di nomina ministeriale: oltre a due funzionari della Pubblica Sicurezza, "un magistrato, una madre di famiglia, un membro da scegliersi fra educatori e rappresentanti di associazioni umanitarie che si propongono la protezione morale del popolo e della gioventù, una persona competente in materia artistica e letteraria e un pubblicista". Alla casistica censoria si aggiungevano ora l'offesa al "pudore", l'offesa al "Regio esercito e alla Regia armata", "l'apologia di un fatto che la legge prevede come reato" e "le operazioni chirurgiche e i fenomeni ipnotici e medianici". Il Fascismo confermò in toto l’impianto legislativo del periodo precedente: vennero mantenuti il controllo accentrato presso un ministero (dapprima quello dell'Interno, dal 1934 quello della Cultura Popolare nelle sue varie denominazioni) e il parere vincolante delle commissioni di revisione di primo e secondo grado. All’attenzione, quasi esclusiva, dedicata dalla legislazione in materia di
  • 17. - 17 - censura al mondo del cinema, però, come ben sappiamo, il regime fascista aggiunse una cura particolare per gli organi di stampa e, più in generale, per qualsiasi mezzo di comunicazione esistente. Il governo Mussolini introdusse la politica dell’epurazione dubito dopo la presa del potere. L’eliminazione di ogni reale opposizione antifascista nel paese doveva cominciare dalle comunicazioni di massa: la prima legge contro la libertà di stampa fu adottata dal governo fascista già nel 1923, anche se entrò in vigore l’anno dopo. Secondo questa legge i prefetti, in quanto detentori del potere esecutivo, avevano la facoltà di diffidare il direttore di un giornale – pena l’immediata soppressione della testata – dal pubblicare quel quotidiano o quel periodico che “con articoli, commenti, note, illustrazioni o vignette ecciti [...] all’odio di classe o alla disobbedienza alle leggi e agli ordini delle autorità”5. Inizialmente il processo di fascistizzazione della stampa italiana procedette a passo lento e si attuò attraverso i sequestri e le repressioni della stampa di opposizione, fino ad aperte violenze contro giornalisti, distributori e acquirenti. Dopo l’assassinio Matteotti, invece, lo smantellamento delle vecchie strutture del periodo liberale assunse un ritmo accelerato. La fascistizzazione della stampa seguì due linee generali6. I quotidiani più influenti che godevano di notorietà e prestigio all’estero, come il “Corriere della Sera” e “La Stampa”, furono fascistizzati dall’interno con un radicale cambio di proprietà e l’allontanamento dei vecchi direttori. Per quanto riguarda gli altri giornali dell’opposizione, il governo Mussolini si pose come obiettivo la loro radicale eliminazione; applicò la legge del 1923 e, procedendo con sequestri e diffide a ritmo crescente, cominciò a far devastare le sedi di giornali dei partiti dell’opposizione. Nello stesso tempo la Federazione della stampa italiana, che era essenzialmente antifascista, venne sciolta e fusa con il sindacato fascista dei giornalisti in una nuova organizzazione, che nel 1927 divenne parte della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti. Questa tattica permise al regime, verso la fine del decennio, di epurare la categoria dei giornalisti e altri circoli intellettuali da elementi antifascisti. La durissima repressione, che si abbatté sugli oppositori politici del regime, fu istituzionalizzata attraverso la promulgazione delle “Leggi eccezionali” del 1926. Istituito dapprima per cinque anni, il Tribunale speciale fu prorogato fino al 1943, comminando 42 condanne a morte e condannando 4596 antifascisti ad un totale di 27.735 anni di carcere (fra loro vi fu anche il leader comunista Antonio Gramsci, che morì nel 1937 dopo 9 anni di detenzione). Circa 15.000 oppositori furono, inoltre, condannati al confino di polizia. Lo Stato fascista, sin dall’inizio, individuò le possibilità dei nuovi mezzi di comunicazione, come radio e cinema – celebre, in tal senso, è la scritta che campeggiava all’ingresso di Cinecittà (inaugurata nel 1937 proprio dal regime fascista) che recitava “la cinematografia è l’arma più forte” 5 Vd. Lazzaro, G., La libertà di stampa in Italia dell’editto albertino alle norme vigenti, Milano 1969, pp. 101-102 6 Vd. Castronovo, V., La stampa italiana dall’Unità al Fascismo, Bari 1976, pp.312-340
  • 18. - 18 - – per la propaganda di massa e si sforzò di porli sotto il suo pieno controllo. Per esempio, un decreto riservava allo Stato gli impianti per le comunicazioni radiofoniche, e il governo poteva affidarli in concessione a società private, revocando il permesso in caso di emissione di notizie dannose al regime. Un Comitato superiore di vigilanza sulle radiodiffusioni, che diventò in seguito la direzione speciale del Ministero per la Propaganda, esaminava i testi dei programmi, censurava quelli che non si conformavano alla politica del governo e introduceva programmi politici come “Le cronache del regime”. Per rafforzare il controllo fu persino posto un limite alla durata degli annunci pubblicitari, che nel 1937 furono definitivamente soppressi. Di fatto, La censura mantenne un ruolo essenzialmente burocratico fino al 1934, quando la creazione della Direzione generale della cinematografia portò a un ampliamento delle sue funzioni (in primo luogo rendendo effettivo il controllo preventivo sui copioni) ed a un irrigidimento complessivo del sistema, almeno fino all'allontanamento di Luigi Freddi dal vertice della Direzione generale nel marzo 1939. Nel frattempo, attraverso il progressivo snaturamento della loro concezione originaria, le commissioni di revisione vennero sempre più inquadrate all'interno dell'apparato dirigenziale fascista: nella pratica, il vero potere censoriale era esercitato non tanto dalle commissioni ma dai funzionari di grado superiore: i Direttori generali della cinematografia, i Ministri della Cultura Popolare e lo stesso Duce. Come detto in precedenza, è la cinematografia e il suo controllo che interessarono principalmente al regime fascista: passione per il grande schermo palesata anche dal numero di decreti e leggi ad esso dedicati durante il Ventennio. Il via ci fu con il R.d. 24 settembre 1923, n. 3287: • La composizione delle commissioni di revisione venne trasformata in senso rigidamente burocratico. Quella di primo grado si riduceva a "singoli funzionari di prima categoria dell'Amministrazione dell'Interno appartenenti alla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza", ma venne ripristinata un anno dopo (R.d. 18 settembre 1924, n. 1682) e contava tre membri: un funzionario di polizia, un magistrato e una madre di famiglia. In quella di secondo grado o di appello, che rimase di sette membri, l'educatore fu sostituito con un professore e la "persona competente in materia artistica e letteraria" fu prima eliminata e poi reintegrata. • L'elenco delle scene da proibire riprendeva fedelmente quello del 1920 (a sua volta ricalcato su quello del 1914), con l'aggiunta di una sola frase sulle "scene, fatti e soggetti" che "incitino all'odio fra le varie classi sociali", tuttavia già presente nella circolare del 1913.
  • 19. - 19 - • Fu stabilita un'apposita revisione per le pellicole destinate all'esportazione: erano da vietare quelle che potessero, tra l'altro, "ingenerare, all'estero, errati o dannosi apprezzamenti sul nostro paese". Successivamente, Il R.d. 6 novembre 1926, n. 1848 introdusse una prima forma specifica di tutela dei minori: fu consentito vietare la visione dei film ai minori di anni 16, pur senza alcuna indicazione sui motivi del possibile divieto. Un precedente si ritrova nella l. 10 dicembre 1925, n. 2277, art. 22: "La commissione a cui spetta di autorizzare gli spettacoli cinematografici deciderà a quali di essi possano assistere i fanciulli e adolescenti dell'uno e dell'altro sesso", che venne applicata con un divieto ai minori di anni 15. Con la L. 16 giugno 1927, n. 1121 Tra i parametri di valutazione di un'opera in sede di censura rientrò anche la qualità artistica: un film poteva ora essere vietato quando non presenti "sufficienti requisiti di dignità artistica così nella trama del soggetto, come nella esecuzione tecnica". Tre iniziative: R.d. 9 aprile 1928, L. 24 giugno 1929, L. 18 giugno 1931; aumentarono progressivamente la politicizzazione delle commissioni di revisione. Sia in quelle di primo che di secondo grado, entrarono rappresentanti del Partito Nazionale Fascista e dei ministeri dell'Educazione Nazionale, delle Corporazioni, delle Colonie e della Guerra (gli ultimi due competenti solo per copioni e pellicole di carattere "militare o coloniale"). La presenza di rappresentanti dell'Istituto Nazionale LUCE e dell'Ente nazionale per la cinematografia, introdotta nel 1929, durò solo due anni: la legge più restrittiva del '31 ridusse di nuovo il numero dei censori abolendo anche le persone "competenti in materia artistica, letteraria e tecnica cinematografica" nominate dal Ministero dell'Educazione. Il R.d. 28 settembre 1934, n. 1506 trasferì la responsabilità amministrativa della censura, non solo cinematografica, dal Ministero dell'Interno al nuovo Sottosegretariato di Stato per la Stampa e la Propaganda (trasformato un anno dopo in Ministero, rinominato nel 1937 Ministero della Cultura Popolare). Come sezione del Sottosegretariato nacque anche la Direzione generale della cinematografia, che riunì le competenze sul cinema prima suddivise fra i vari ministeri e fu affidata a Luigi Freddi, protagonista indiscusso della politica cinematografica italiana e convinto sostenitore del rafforzamento del ruolo della censura, che da quel momento in poi non si limitò più a compiti di mero controllo ma divenne anche attiva, "ispiratrice", propositiva. Tra le competenze della Direzione generale vi era infatti quella di esaminare e revisionare i soggetti dei film di produzione nazionale: cominciò così l'applicazione rigorosa del principio della censura preventiva, già formulato nel 1919. La l. 10 gennaio 1935, n. 65, conversione del decreto precedente, uniformò la composizione delle commissioni di primo grado e di appello fissando per entrambe a cinque il numero di membri: tre
  • 20. - 20 - in rappresentanza dei ministeri dell'Interno, delle Corporazioni e della Guerra, uno del Partito Nazionale Fascista e uno dei GUF (Gruppi Universitari Fascisti), designato dal segretario del partito. Il processo di assoggettamento al potere politico era completo: gli ultimi ad essere esclusi furono il magistrato e la madre di famiglia. La presidenza spettava per legge a un funzionario del Sottosegretariato per la Stampa e la Propaganda nelle commissioni di primo grado, direttamente al Sottosegretario o per delega al Direttore generale della cinematografia in quelle di appello. L. 29 maggio 1939, n. 926: A seguito della conquista dell'Etiopia, fu aggiunto in entrambe le commissioni di controllo un rappresentante del Ministero dell'Africa Italiana, per stabilire "quali delle pellicole, sia nazionali che estere, possono essere destinate alla proiezione nell'Africa Italiana". Infine, Il R.d. 30 novembre 1939 ufficializzò la censura preventiva: "Chiunque intenda produrre una pellicola cinematografica destinata alla rappresentazione nel Regno o all'esportazione, dovrà ottenere, prima di iniziarne la lavorazione, il nulla osta del Ministero della Cultura Popolare. Sono esenti dal nulla osta (...) le pellicole di attualità e i documenti eseguiti dall'Istituto Nazionale LUCE". Concluso il Ventennio fascista, in sede di Assemblea costituente, in particolare su spinta della Democrazia Cristiana, si riconobbe "l'opportunità di stabilire per la cinematografia un'eccezione al divieto della censura preventiva, soprattutto a scopo di tutela della pubblica moralità". In questo convincimento si ritrova quello che i giuristi hanno definito un "elemento di continuità nella legislazione di settore, nel passaggio dal periodo liberale a quello fascista a quello repubblicano": vale a dire, quell'"atteggiamento di particolare diffidenza" nei confronti della libertà di espressione in ambito cinematografico e anche teatrale. Riguardo al cinema, ciò è dovuto principalmente al fatto che in genere si riconosceva a questo mezzo espressivo una grande capacità di influenza sullo spettatore, a livello sia quantitativo (perché fruibile da una vasta collettività) sia qualitativo (la complessità del suo linguaggio permette di imporre allo spettatore, con particolare potenza, una visione modificata della realtà). Con la L. 16 maggio 1947, n. 379, l’assemblea costituente affidò il controllo preventivo sui film al nuovo Ufficio centrale per la cinematografia, costituito presso la Presidenza del Consiglio, previo parere delle Commissioni di primo e secondo grado, nuovamente mutate nella loro composizione. Si eliminava l'obbligo della revisione dei copioni, ma per il resto vennero confermate tutte le disposizioni contenute nella legge del 1923, compresa la casistica delle scene da proibire. L'art. 21, comma VI, della Costituzione recitava: "Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni".
  • 21. - 21 - La l. 29 dicembre 1949, n. 958 non apportò invece nessuna innovazione in materia. La necessità di un aggiornamento della disciplina si realizzerà solo con la legge 161/1962, che in ogni caso, nonostante le novità, manterrà il sistema della censura preventiva. Tuttavia, a differenza del regime fascista, il cui operato era sostanzialmente finalizzato alla repressione del dissenso politico, al mantenimento dell’ordine sociale e, solo in seconda battuta, ad un’effettiva e pervasiva censura dei costumi e della morale dei cittadini, con l’inizio della Repubblica si assistette ad un preciso cambio di rotta. La comunità cattolica e le relative istituzioni e associazioni - capitanate dall’Azione Cattolica Italiana, già collaboratrice durante il Ventennio delle attività di censura svolte dal regime – assunse l’onere di proseguire quell’opera di regolamentazione del costume, della moralità e di rimozione di tutto ciò che era considerato “osceno” (in primis la rappresentazione dell’omosessualità), già parzialmente impostata dal regime. Con una celebre relazione, datata 30 settembre 1946, del Segretariato generale per la Moralità della stessa ACI, quest’opera viene tratteggiata come una vera e propria missione civilizzatrice, una “bonifica morale”7 impostata nel segno di una sostanziale continuità con l’operato della Chiesa durante il Ventennio, a sostegno di un ideale almeno simbolico di famiglia tradizionale intesa a sancire la disparità di ruoli (e di poteri) tra i coniugi e a contenere l’attività sessuale in funzione procreativa all’interno del matrimonio8. Lo strumento con cui la cultura cattolica affrontò, in un primo momento (almeno fino a metà degli anni Cinquanta), il “problema” dell’osceno all’interno della società, fu la cosiddetta “strategia del silenzio”9. In perfetta coerenza con quella adottata dal fascismo, il cui Codice Rocco del 1930 aveva acquisito le teorizzazioni del diritto di fine Settecento confluite nel Codice Zanardelli del 1889, ovvero il rifiuto di mettere fuori legge ciò di cui si preferiva non parlare, fosse anche per criminalizzarlo10. L’ambizione di una rimozione integrale è ben documentata proprio dalle relazioni quindicinali del Segretariato generale per la Moralità, che tracciano con minuzia, e impressionante inamovibilità negli anni, i contorni panottici di questo lavoro di controllo e pressione. Per ciò che concerneva il cinema, tre erano i compiti che facevano da completamento all’operato valutativo e censorio svolto dal Centro cattolico cinematografico: “controllare i paratesti”, particolarmente le riviste, le foto-buste esposte all’ingresso del cinema, i manifesti, i trailer di film proibiti, ma si arrivò persino a protestare con una fabbrica dolciaria per le figurine di attrici allegate ai suoi prodotti11. Secondo compito era “sorvegliare le prassi concrete”, facendo ad esempio 7 Archivio dell’ISACEM, Fondo presidenza generale, Serie XII, busta 16 (DB: ISACEM 1084) 8 Anna Tonelli, Politica e amore. Storie dell’educazione nell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna, 2003 9 L. Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli, Milano, 2005, pp. 106-116 10G. Dall’Orto, La tolleranza repressiva dell’omosessualità, in Arcigay nazionale (a cura di), Omosessuali e Stato, Cassero, Bologna 11 Cfr. Segretariato generale per la Moralità, relazione del 15 febbraio 1953, Archivio dell’ISACEM, Fondo presidenza generale, Serie XII, busta 17 (DB: ISACEM 1352).
  • 22. - 22 - opera di “controllo immane”12 del rispetto dei divieti da parte dei gestori delle sale e della correttezza delle copie circolanti rispetto alle indicazioni della censura. Infine, “valutare l’efficacia della censura istituzionale”, cui eventualmente si poneva rimedio con segnalazioni e denunce. Tra il 1947 e il 1949 i primi sottosegretari con delega al teatro e allo spettacolo, Cappa e Andreotti, impostarono con efficace rigore la rimozione dell’omosessualità dei palcoscenici di prosa13, tanto che il Segretariato, commentando la bocciatura de “La governante” di Brancati, scrisse che l’opera “non sarebbe peggiore di molte altre [...] se non fosse impostata su un caso di inversione sessuale, argomento su cui – a quanto si sa – l’Ufficio di revisione teatrale non transige”14. Nonostante la pedissequa attenzione dedicata al problema dell’osceno da questi organi di revisione e censura, le tensioni per l’evidente insufficienza del controllo non tardarono ad arrivare. Testimone di queste incomprensioni è la lettera di risposta, scritta e inviata da Andreotti nel 1951, alle accuse di lassismo nell’applicazione delle leggi censorie rivoltegli dall’ACI di Varese. Questi rinviò, irritato, le accuse al mittente, scaricando la responsabilità proprio sull’insufficiente azione di sorveglianza della stessa ACI, precisando che “i lavori incriminati avevano girato moltissime città senza che insorgessero proteste o deplorazioni: questo è un brutto sintomo, per quella vigilanza sussidiaria dell’azione dei pubblici organi che noi cattolici non dobbiamo stancarci di fare attraverso i Segretariati moralità ed altri strumenti qualificati”, una risposta che destava “stupore e disappunto” nel Segretariato di Milano, sentitosi chiamato in causa15. Nonostante l’irrigidimento della prassi censoria, che seguì questo episodio, nemmeno due anni più tardi il Segretariato lamentò che la censura cinematografica risultava inadeguata perché nel definire i concetti di “immorale”, di “pudore” e di “contrario al buon costume” non seguiva la “morale cattolica”16, intendendo in sostanza che non osservava (più) una posizione di intransigenza di principio, ma appunto discriminava sul singolo caso, mediando tra imperativi confessionali, pressioni ecclesiastiche e necessità pragmatiche di governo. A dispetto della perseveranza dell’Azione cattolica, quella contro il cinema e contro il varietà – spettacolo che, per via della performance live di cui si sostanziava, eludeva più di qualunque altro mezzo di intrattenimento le maglie della censura – fu infatti una battaglia persa in partenza, anche per ragioni di ordine banalmente pratico ed economico: le sedi locali non avevano i mezzi materiali per controllare, come – solo in parte – erano in grado di fare col cinema, ogni singola replica, in cui gli attori spesso improvvisavano. Appare dunque improbabile che fosse per semplice casualità che, 12 Ivi nota 24 13 M. Giori, Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti. 1935-1962, Libraccio, Milano, 2011, pp. 99-108 14 Segretariato generale per la Moralità, relazione del 30 giugno 1952. Archivio dell’ISACEM. Fondo presidenza generale, Serie XII, busta 17 (DB: ISACEM 1337). 15 Segretariato generale per la Moralità, relazione del 15 maggio 1953, Archivio dell’ISACEM, Fondo presidenza generale, Serie XII busta 18 (DB: ISACEM 1230). 16 Ivi nota 28
  • 23. - 23 - all’inizio degli anni ’50, piccole e solitamente marginali figure di omosessuali iniziarono a proliferare in film, nel mondo del varietà, della rivista e dell’avanspettacolo. Possiamo, ricorrendo a riflessioni che Roland Barthes andava facendo in quegli stessi anni, intravedervi un tentativo di vaccinare il cinema italiano e il suo pubblico: “S’immunizza l’immaginario collettivo mediante una piccola inoculazione del male riconosciuto: lo si difende così dal rischio di un sovvertimento generalizzato. [...] La borghesia non esita più a riconoscere certi sovvertimenti localizzati”17. Simili “sovvertimenti localizzati”, attraverso personaggi nel complesso secondari e fortemente stereotipati, possono sembrare di per sé innocui, in realtà finirono con l’essere una delle spinte che portarono all’accantonamento dell’interdetto clericale, nella misura in cui ambiva a non ammettere eccezioni, inizialmente fatto proprio con estrema convinzione della censura. Non va dunque sottovalutato il divergere dei binari lungo i quali si muovevano da un lato la preoccupazione dottrinale, che rimase immutata, e dall’altro le prassi dell’amministrazione politica, più disinvolte e compromesse con problemi di ordine pragmatico18. Ne derivò un allentamento di quella “azione della lobby moralista come pressure-group” impostata nell’immediato dopoguerra e articolata (come i documenti del Segretariato comprovano ampiamente) “tanto attraverso canali riservati (tramite pressioni esercitate nelle diverse sedi decisionali, la redazione di promemoria e la collaborazione alla formulazione di progetti e testi legislativi) quanto attraverso canali pubblici (attraverso campagne di stampa, petizioni, manifestazioni e proteste collettive)”19. Il fallimento si palesò gradualmente sul finire degli anni Cinquanta, determinato dal concorso di spinte fondate su un diverso atteggiamento nei confronti del tema sessuale, capaci di aumentare progressivamente la loro pressione. Anzitutto, vi era un fronte laico variegato ma complessivamente maldisposto nei confronti delle censure del pudore impostate dalla cultura cattolica. In secondo luogo, vi erano le pressioni dell’industria cinematografica per monetizzare la trasgressione dei tabù, che usarono il “vaccino” per fare breccia in un sistema censorio per varie ragioni (non ultima la sua burocrazia) fallibile. Non solo personalità quali Visconti e Pasolini (sceneggiatore prima ancora che regista), a dispetto dei contrasti cui si esposero con il PCI viceversa incline a osservare il silenzio, ma anche cattolici stessi, che dietro la macchina da presa apparivano tutt’altro che indisponibili a scendere a compromessi con il mercato. Due dei film che contribuirono a far crollare la diga, per parafrasare un’espressione di Cosulich20, a fianco dei più noti “Europa di notte” (1959) di Alessandro Blasetti, “La dolce vita” (1960) di Federico 17 R. Barthes, Mythologies, Seuil, Paris; trad. it. Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1994. 18 G. Miccoli, La Chiesa di Pio XII nella società italiana del dopoguerra, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. I, La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, Einaudi, Torino, 1994. 19 M. Barbanti, La “battaglia per la moralità” tra oriente, occidente e italocentrismo 1948-1960, in Pier Paolo D’Attorre (a cura di), Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, Franco Angeli, Milano, 1991. 20 C. Cosulich, La scalata al sesso, Immordino, Genova, 1969, p. 81
  • 24. - 24 - Fellini e “Rocco e i suoi fratelli” (1960) di Visconti, furono infatti “Costa Azzurra” (1959) di Vittorio Sala, ex critico cinematografico de “Il Popolo”, e “Le Signore” (1960) di Turi Vasile21. È all’insieme di queste spinte che si deve la svolta determinatasi alla fine degli anni ’50, quando al silenzio si sostituì gradualmente una moltitudine di discorsi plasmati secondo le convenzioni proprie del “panico morale”22, che coinvolgeva l’intero sistema dei media. Ne presero presto atto le relazioni riservate sulla Mostra di Venezia. In quella del 1961 si sottolineava la comparsa di un “filone produttivo che tratta dell’argomento dell’omosessualità con intenti giustificativi”23. L’anno successivo, oltre a rimarcare che “tra i cineasti ottiene sempre più diritto di onorata cittadinanza l’omosessualità”, si deprecò inoltre che la mostra fosse occasione di pubbliche performance, come quella registrata alla prima di “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini: “una specie di convegno nazionale di questi poveretti, alcuni dei quali, alle ore piccole della notte, non si vergognavano di adescare i passanti; uno poi si sarebbe mostrato nella hall del palazzo del Cinema con le labbra dipinte e gli orecchini”24. È altresì rilevante che nel 1960 il Segretariato incluse gli incontri tra uomini che si svolgevano all’interno di alcune sale cinematografiche nel novero di quanto fosse necessario monitorare: “gli amici dei Segretariati tengano dunque presente che le sale cinematografiche possono servire anche a commerci indegni”25. Che all’inizio degli anni Sessanta la situazione fosse ormai compromessa lo implica anche un altro documento del Segretariato, in cui non si lamentava solo che “il pubblico è, di continuo, sessualmente sollecitato”, che “il ‘senso del peccato’, perfino in ambienti ove si fa professione di apostolato, appare profondamente attenuato”, e che vi fosse un “profondo attenuarsi, o peggio, del giudizio negativo nei confronti di uomini che addirittura ostentano il loro vizio omosessuale”, ma si deprecava anche che “l’espressione ‘occasione, od occasione prossima, di peccato’ appare caduta praticamente in disuso”26. Si percepiva, in altre parole, l’affievolirsi di tutti quei concetti sui quali si era fondato, in termini generali, l’allarme nei confronti del cinema, e nel caso particolare del nostro argomento, il rigore assoluto del divieto. Concetti che vennero richiamati, qualche anno più dopo, 21 Quest’ultimo già in un’inchiesta del 1953 aveva dichiarato candidamente: “Sono d’accordo che il cinema qualche volta sfrutta gli istinti meno nobili degli spettatori. Però non vorrei che il timore di peccare generasse una produzione eccessivamente preoccupata ed eccessivamente impacciata. [...] Vorrei ripetere ancora una volta che la produzione ha bisogno proprio sul piano dell’arte di una sua certa libertà, una certa autonomia senza con questo arrivare alla licenza e al malcostume”. 22 S. Cohen, Folks Devils and Moral Panics: The Creation of the Mods and Rockers, MacGibbon & Kee, London, 1972 23 F. Angelicchio, Nota informativa sulle iniziative cinematografiche estive svoltesi a Venezia, 1961, Archivio della CEI (DB: ACEI 3). 24 E. Baragli, Relazione sulla XXIII Mostra internazionale d’Arte cinematografica, 8 ottobre 1962, Archivio della CEI (DB: ACEI 3). 25 Segretariato generale per la Moralità, relazione del 15 novembre 1960, Archivio dell’ISACEM, Fondo presidenza generale, serie XII, busta 20 (DB: ISACEM 1473). 26 Risposta al questionario 20 gennaio 1960: moralità pubblica in Italia, Archivio dell’ISACEM, Fondo presidenza generale, serie XII, busta 38 (DB: ISACEM 1509).
  • 25. - 25 - dal democristiano Vincenzo Gagliardini in un discorso in Parlamento sull’immoralità dilagante congiuntamente dovuta (ancora una volta) a prostituzione e omosessualità, prendendo di mira anzitutto le famiglie che “trascinano i bambini di uno, due o cinque anni al cinema, dove i piccoli finiscono per addormentarsi, respirando aria viziata”27. Che per essere contaminati non servisse più nemmeno osservare le immagini in movimento sullo schermo, ma bastasse esporsi agli afrori morali della sala, era un’estremizzazione capace più di mettere a nudo l’inadeguatezza del sistema valoriale di riferimento di fronte alle nuove sfide poste dalla società e dalle sue forme di comunicazione, che non di proporne un efficace rilancio. Venendo ai giorni nostri, il 5 aprile 2021 il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha firmato un decreto che abolisce la censura cinematografica in Italia. Il decreto attuativo, che segue la cosiddetta “Legge Cinema” del 2016, istituisce infatti una nuova Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche, la quale potrà al massimo vietare la visione di certi film ai minori di 18 anni. Essa non potrà, però, come in teoria era possibile fino ad ora, vietare a certi film di uscire nelle sale cinematografiche o imporre tagli e modifiche a determinate scene. Secondo il ministro è stato “definitivamente superato quel sistema di controlli che consentiva allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti”. Va detto, tuttavia, che sebbene in passato la censura sia stata usata spesso e massicciamente, erano ormai passati decenni dall’ultimo caso minore, relativo al “piccolo horror indipendente”, “Morituris” che, come ha scritto il professore de La Sapienza di Roma, Emiliano Morreale, sfruttò “la pubblicità dell’interdizione per uscire direttamente in home video”. Diretto da Raffaele Picchio il film fu bloccato dalla Commissione di revisione cinematografica “per motivi di offesa al buon costume” e poiché considerato “un saggio di perversità e sadismo gratuiti”. Mentre l’ultimo caso importante risale addirittura al 1998, in quel caso ad essere censurato fu il film “Totò che visse due volte”, diretto da Daniele Ciprì e Franco Maresco. La pellicola fu bloccata in quanto considerata “degradante per la dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità” e contenente “disprezzo verso il sentimento religioso”, con scene “blasfeme e sacrileghe, intrise di degrado morale”. Tornando alla legge del 2021, il nuovo decreto attuativo prevede che d’ora in poi i film destinati ai cinema siano divisi in quattro categorie: quelli adatti ad ogni tipo di pubblico, e poi quelli vietati ai minori di 6, 14 e 18 anni. In base alle nuove regole, a proporre la categoria ritenuta più adeguata ad ogni film saranno direttamente i loro produttori e solo a quel punto la Commissione per la classificazione delle opere cinematografiche potrà confermare la categoria o, al massimo, proporne una diversa. Nicola Borrelli, direttore della Direzione generale Cinema e audiovisivo, ha spiegato che di fatto “si mette in essere una sorta di autoregolamentazione” poiché “saranno i produttori o i distributori ad auto-classificare l’opera cinematografica”. Come ha spiegato 27 V. Gagliardini, Atti parlamentari, Camera dei Deputati, seduta del 2 dicembre 1964, p.11623.
  • 26. - 26 - Franceschini, la nuova Commissione risponderà alla Direzione generale Cinema del ministero della Cultura, sarà presieduta da Alessandro Pajano (presidente emerito del Consiglio di Stato) e sarà composta da 49 componenti “scelti tra esperti di comprovata professionalità e competenza nel settore cinematografico e negli aspetti pedagogico-educativi connessi alla tutela dei minori e nella comunicazione sociale, nonché designati dalle associazioni dei genitori e dalle associazioni per la protezione animali”. La Commissione, che nella sua composizione attuale resterà in carica per tre anni, sarà composta, tra gli altri, da “sociologi, pedagogisti, psicologi, studiosi, esperti di cinema, educatori, magistrati, avvocati, rappresentanti delle associazioni di genitori e persino ambientalisti”. E per confermare o modificare la classificazione di un film avrà a disposizione un massimo di venti giorni. Secondo un calcolo di ANSA, dal secondo dopoguerra in poi i film italiani in qualche modo “sottoposti a censura” furono 274, 130 quelli statunitensi e oltre 300 quelli provenienti da altri paesi. E furono inoltre migliaia i film controllati e ammessi al cinema “dopo modifiche”. Tra i casi più famosi, tra loro diversi per modi e tipi di censura, vi sono “Ultimo tango a Parigi” (1972) di Bernardo Bertolucci e “Le 120 giornate di Sodoma” di colui che, senza dubbio, fu il regista i cui film (e non solo) ebbero più problemi con la censura, Pier Paolo Pasolini. La speranza, viva dentro ogni cinofilo e, in generale, dentro ogni persona alla quale è caro il concetto di “libertà d’espressione”, è che con questo decreto si sia scritta definitivamente la parola fine al tentativo di manipolare, indirizzare e censurare l’unicità di ogni singola espressione umana, artistica e non.
  • 27. - 27 - Capitolo secondo Pasolini e il processo a “Ragazzi di vita” 1 Pasolini: da “piccolo profeta” a “poeta maledetto” Il più celebre protagonista, suo malgrado, della censura italiana nel dopo guerra è il poeta e romanziere nato a Bologna il 5 marzo 1922: Pier Paolo Pasolini. La sua storia è, fin dall’inizio, funestata da processi e scandali che avveleneranno l’intera parabola della sua esistenza, fino al tragico epilogo che vi porrà fine la notte fra il 1° e il 2 novembre 1975. Il primo dei tanti scandali è quello che lo costrinse, insieme alla madre, ad abbandonare la cittadina di Casarsa negli ultimi mesi del 1949, a seguito della denuncia sporta dai Carabinieri per corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico, dopo un incontro erotico con alcuni ragazzi in un prato nei pressi di Ramuscello. Il fatto ha prodotto conseguenze ben più gravi del calo di prestigio del “piccolo profeta” (soprannome affibbiatogli dalla comunità friulana) presso la cittadina materna. In un colpo solo Pasolini – il quale, al tempo, aveva già pubblicato il suo primo libretto di poesie, intitolato “Poesie a Casarsa” (1942) che gli era valso l’attenzione del mondo letterario dell’epoca, specie dopo la lusinghiera recensione di Gianfranco Contini – si vide espulso, in data 26 ottobre, dal Partito comunista di Udine e privato della cattedra di maestro di scuola media presso la comunità di Valvasone28. Quel luogo e quelle persone, a lui tanto care e che per lungo tempo lo avevano calorosamente accolto, gli si rivoltarono inesorabilmente contro. Ciò fu dovuto - secondo la testimonianza ricavata da uno scambio epistolare fra il cugino del poeta, Nico Naldini e un suo amico, tal Luca Cavazza29 - anche alla funesta intercessione di alcuni esponenti politici locali, appartenenti alla Democrazia Cristiana e, pertanto, a lui ovviamente avversi. Questa, prima di tante vicende giudiziarie, vedrà il suo epilogo, con conseguente assoluzione da tutte le accuse per il poeta, solo nel 1952 a seguito del processo d’appello che stabilì la sua innocenza. All’epoca però egli già viveva, più o meno stabilmente, a Roma, in un primo momento con la madre presso uno zio antiquario, Gino Colussi, che si era offerto di aiutarli, poi in una camera in affitto in piazza Costaguti. Qui, nei primi mesi, il suo più grande cruccio fu quello della ricerca di un lavoro, operazione non 28 Cfr. Silvia De Laude, I Due Pasolini. Ragazzi di Vita prima della censura, Roma, Carocci, 2018 29 Ivi nota 1 (pp. 15-16)
  • 28. - 28 - facile visto la triste reputazione che lo precedeva a seguito dello scandalo. Solo dalla primavera (dopo essersi iscritto al sindacato Comparse, aver corretto bozze ed aver venduto molti dei suoi libri), riuscì a collocare qualche suo pezzo su giornali di destra come “Il Quotidiano”, “Il Popolo di Roma”, “Il Giornale”, “Libertà d’Italia”, che non modificarono di molto la sua situazione e che soprattutto non gli piacevano, anzi lo mettevano in imbarazzo. Celebre, a mo’ di esempio, è la richiesta di Pasolini a Bertolucci di non leggere la prima pagina della recensione della “Capanna Indiana” (apparsa su “Il Giornale”) che egli realizzò, giudicandola “orrenda” per i convenevoli di matrice monarchica cui era obbligato dato lo schieramento politico del giornale30. Tuttavia, a fronte delle molte difficoltà, sono questi anni di accesa furia sperimentale per il poeta. Anni in cui da un lato, sul piano della narrativa, nascono i primi prototipi della “cosa” che sboccherà nel fiume di “Ragazzi di Vita” e, dall’altro, sono riaperti, con la ferma intenzioni di rivoluzionarli, i cantieri dei progetti friulani interrotti al momento della fuga. Questo breve excursus, sui primi anni di vita del giovane Pasolini, può aiutarci facilmente a comprendere quanto arduo sia stato, per lui e per il suo talento, affermarsi in un clima, quello dell’immediato dopo guerra, così dichiaratamente ostile per un’artista ed una personalità tanto eversiva. Fin da giovanissimo posto sotto i riflettori, non quelli del palcoscenico bensì quelli delle inchieste giudiziarie - dalle accuse di oscenità alla corruzione di minori (favoreggiamento della prostituzione minorile, lo chiameremmo oggi), fino all’accusa di “pornografia” a seguito della pubblicazione del suo primo romanzo - da una società che non accettava l’omosessualità, giudicata come una pratica oscena e perversa, del tutto contro natura. Prerequisito, l’essere omosessuale, che influirà non poco nelle vicende che, nel giro di qualche anno, lo vedranno coinvolto nell’eclatante censura del suo primo romanzo, “Ragazzi di Vita” (1955), e in un altro rocambolesco processo, insieme con il suo editore Livio Garzanti. Da questo momento in poi, omosessualità, vicende giudiziarie e censura costituiranno il leitmotiv costante dell’esistenza del poeta. 2 Quando il “Ferrobedò” era un trittico Fin dal primo periodo romano, evidentemente, Pasolini pensa a qualcosa che assomiglia molto a un romanzo, ma ha anche voglia di farsi conoscere come scrittore, e pubblica volentieri le pagine che ha fra le mani, anche se sono estratti di progetti più ampi, come “Domenica al Collina Volpi”, “Il palombo” e “Il Ferrobedò” – lo stesso che nella primigenia versione di “Ragazzi di Vita” figura come 30 Ivi nota 1 (pag. 17)
  • 29. - 29 - prima parte di un trittico, ma su “Paragone” esce nel giugno del 1951 come testo autonomo, senza che sia indicata in alcun modo la sua appartenenza ad un insieme narrativo più vasto. In questa fase, corrispondente al biennio 1950-1951, il romanzo è costruito come una trilogia composta da parti intitolate rispettivamente “Il Ferrobedò”, “Li belli pischelli” e “Terracina”, con il primo, ovviamente, promosso a racconto eponimo. Si tratta, materialmente, del testo sopravvissuto in due stesure nella cartella dell’Archivio contemporaneo del Gabinetto Vieusseux, con l’intestazione autografa: “Il Ferrobedò (e altri romanzi e racconti, passati in parte in “Ragazzi di Vita”, 1950-51)”. La due stesure che ci sono pervenute sono disposte nella cartella, in ordine cronologico: la fase più antica del trittico precede la più avanzata. Intercalati fra le due stesure ci sono appunti, foglietti sparsi, anche i dattiloscritti di testi pubblicati come racconti autonomi nel 1950 e nel 1951 – Una redazione del “Palombo” (in “La Libertà d’Italia”, 20 settembre 1950) e due di “Domenica al Collina Volpi” (in “Il Popolo”, 14 gennaio 1951)31: racconti, entrambi, che hanno fatto parte per qualche tempo della nebulosa del romanzo. Il primo dei tre racconti, come detto, coincide sostanzialmente, nella sua stesura più avanzata, con il pezzo uscito su “Paragone” nel giugno del 195132 . Nei pressi di quel luogo favoloso che è il deposito della Ferro-Beton, a Monteverde Vecchio (nella poesia “Recit”, chiamato col suo vero nome) cresce Luciano, che diventerà Riccetto nella versione definitiva del romanzo33. Questo l'attacco, in cui fa la sua prima apparizione l'”immenso cortile, una prateria recintata, in fondo a una valletta grande come una piazza d'armi o un mercato”: “Era una caldissima giornata di luglio. Lucià che doveva fare la prima comunione e la cresima, si era alzato già alle cinque col sole. Ma mentre scendeva giù per Via Donna Olimpia, più che un comunicando o un soldato di Gesù, coi suoi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, aveva l'aria di un pischello acchittato che se ne va per il lungotevere. [...]” Il pezzo prosegue col racconto di episodi dell'infanzia di Luciano, che insieme all'amico Marcello costituisce il filo conduttore del trittico. Introduce quindi all'ambiente della piccola malavita, e si 31 Gli appunti sono ai ff. 82-132. I dattiloscritti dei due racconti, Domenica al Collina Volpi (in due redazioni) e Il Palombo, ai ff. 133-144. Oltre che nella cartella Il Ferrobedò, ff. 133-136 e 137-140, di Domenica al Collina Volpi un dattiloscritto (frammentario) si trova nella cartella di AP con l’intestazione (Articoli, saggi ecc.) e racconti romani 1950 (f. 22): la stessa che ai ff. 2-5 conserva il dattiloscritto Il Palombo. 32 Il Ferrobedò segue nel numero di “Paragone” un poème en prose di Francis Poonge (Proème). Per una specie di ironia della sorte, visto il ruolo che André Gide aveva avuto nello scandalo legai ai fatti di Ramuscello, lo stesso fascicolo ospita un saggio dal titolo La lezione di Gide. L’autore è Carlo Bo, che sarà testimone della difesa nel processo a Ragazzi di Vita. 33 La scelta del titolo deve qualcosa, forse – si è suggerita l’ipotesi – all’esempio del già classico Sciuscià di vittorio De Sica (1946), deformazione di shoes-shine, e come Il Ferrobedò Pasolini penserà il suo romanzo fino alla soglia della stampa, ancora nel 1955. Nell’epistolario, il titolo Ragazzi di vita si incontra per la prima volta il 7 aprile 1955 (LE II, p.52).
  • 30. - 30 - chiude sull'episodio del salvataggio di una rondine, con Luciano che, già piccolo delinquente, si butta in acqua per salvare una rondine sotto Ponte Sisto: ““Tornamo indietro” disse Marcè a quello che remava. Girarono. Lucià li aspettava seduto sull'erba sporca della riva, con la rondine tra le mani. “E che l'hai sarvata a ffà - gli disse Marcè - era così bello vederla che moriva”. Luciano non gli rispose subito, “E’ tutta fraccica - disse dopo un po' - aspettamo che s'asciughi”. Ci volle poco perché s'asciugasse: dopo cinque minuti rivolava tra le compagne nel cielo del Tevere, e Lucià ormai non la distingueva più dalle altre.” Tutta visiva, senza neppure un riferimento al verso delle rondini, è la scena già incontrata nel racconto friulano “La rondine del Pacher” e nel “Ferrobedò” racconto. In seguito, quando “Il Ferro- bedò” si sarà sviluppato come una “cosa narrativa” più estesa - un testo più lungo, e una storia che segue il protagonista dalla prima adolescenza alle soglie dell'età matura, anche se è sempre estate e sembra che il tempo non passi mai -, Pasolini riprenderà l'episodio della rondine capovolgendolo: alla fine della sua parabola esistenziale, il Riccetto “già quasi giovanotto” non muoverà un dito per salvare il suo amico Genesio, sul punto di annegare nell'Aniene. Un parallelismo introdotto per puntellare una struttura narrativa nata centrifuga, cercando un punto di stabilità in quello che l'autore evidentemente avvertiva come nucleo pulsante e quasi cellula generativa della sua storia. Che si tratti di un nodo importante nella laboriosa gestazione della “cosa narrativa” non ancora entrata nell'orbita di quello che ne sarebbe stato l'editore, trova una conferma nella tenacia con cui l'immagine torna a ripresentarsi. Ancora dopo l'uscita da Garzanti di “Ragazzi di vita”, la scena, così centrale nell'officina del romanzo, riapparirà in un trattamento cinematografico pensato col titolo “I morti di Roma”. Siamo nel 1959-60, e la posizione dell'episodio è sempre di massima evidenza: la chiusa, secondo una tecnica caratteristica del racconto. Se il film si fosse fatto, l'immagine da cui Pasolini era ossessionato da tanto tempo avrebbe trovato finalmente un "compimento" visivo. L'anta centrale del trittico, “Li belli pischelli”, è la più estrovertita e narrativa, quella con maggiore gusto dell'azione; diventerà in un secondo momento, con tagli e correzioni, il secondo capitolo di “Ragazzi di vita” come noi lo conosciamo. Luciano e Marcello sono seguiti nelle truffe e nei piccoli espedienti con cui si danno da fare per vivere. Pasolini - risulta da alcuni appunti - aveva pensato di intitolarla “Le cicche” o “Furti e ricatti”, prima di fermarsi su “Li belli pischelli”. Entra in scena il Napoletano e si annuncia il siparietto sul gioco della cartina. Tra le furberie con cui i ragazzi cercano di sbarcare il lunario vi è il furto di un pesce marcio ai Mercati generali: Marcello lo trucca così che sembri fresco e riesce a rivenderlo. L'episodio è immerso in “Li belli pischelli” nel flusso narrativo, ma si trova anche ritagliato come racconto autonomo, e appare col titolo “Il palombo” su "La libertà d'Italia'' il
  • 31. - 31 - 20 settembre 1950. Nell' “Ur -Ragazzi di vita”34 (corrispondente alla fase embrionale del romanzo) l'episodio del palombo si intreccia con un altro, del quale è una specie di intermezzo: il protagonista è ancora Marcello, amico di Luciano, che fra la puntata ai Mercati generali e la vendita dei pesci marci, fatti passare per freschi alla Maranella, perde la testa per il maglione azzurro esposto in una vetrina di Campo dei Fiori (le "maglie", altro oggetto-feticcio del Pasolini narratore, anche questo trapiantato dal Friuli a Trastevere). Come l'episodio della truffa al mercato, quello del maglione azzurro si trova raccontato, oltre che nella seconda anta dell'”Ur-Ragazzi di vita”, in un testo autonomo, uscito sul "Popolo" il 18 ottobre 1950 con il titolo “La passione del fusajaro”. Nel racconto, a innamorarsi del maglione visto in un giorno di pioggia in un negozio chiuso - “Grande, era, per un fusto da pugile. Vasto di spalle e di torace come un lembo di mare, stretto alla vita. E d'un celeste discreto ma segretamente acceso: un po' di sole su Campo dei Fiori, e avrebbe abbagliato” -, è un ragazzo “col ciuffo incollato sulla fronte”, non Marcello ma un certo Morbidone. Questi è lasciato a fantasticare sul maglione, carissimo, in vetrina e, alla fine, riesce a possederlo, il “suo amore”, e se ne va tutto allegro al mare con Luciano. Se “Il palombo” e “La passione del fusajaro” si possono considerare a pieno titolo pagine scartate da “Ragazzi di vita” (escluse dall'autore, forse preoccupato dell'eccessiva dispersione pulviscolare del romanzo che stava cercando di costruire), quasi alla stessa stregua va inteso il già citato racconto “Domenica al Collina Volpi”, il cui dattiloscritto, preparato per la stampa, si trova non per niente nella cartella che ospita l'”Ur -Ragazzi di vita”, del quale è evidentemente una scheggia sfuggita all' insieme prima ancora degli episodi al centro degli altri due racconti, ma della stessa grana. L’ultima anta del trittico, Il racconto “Terracina”, pubblicato integral- mente nell'”Appendice a Ragazzi di vita” dei “Meridiani”, ha una storia più complicata ed è l’unica parte dell’”Ur-Ragazzi di vita” ad essere completamente abbandonata nel seguito dell'elaborazione del romanzo, nonostante la sua qualità di scrittura. Da un “piano di lavoro” del 1952 risulta che Pasolini, naufragato il progetto del trittico, pensava di far confluire Terracina in una raccolta dal titolo “Le notti calde”, che si sarebbe aperta con una dedica “all'ombra di Proust e alla persona di C.E. Gadda” (singolare, strepitoso binomio). La raccolta avrebbe compreso fra l'altro “La Recherche Sacilese” e “Primavera sul Po”: racconti, entrambi, derivati da “Operetta marina”, a sua volta relitto dell'ambizioso e ingestibile progetto del “Romanzo del mare”, cui Pasolini aveva lavorato intensamente nel 1951, riprendendo con ogni probabilità spunti friulani (magari il “romanzaccione della sua infanzia sacilese” di cui parla il protagonista del bellissimo racconto “I parlanti”, che 34 Cit. S. De Laude, I due Pasolini. Ragazzi di vita prima della censura, Carocci, Roma, 2018, cit. pp. 28-53
  • 32. - 32 - "all'ombra di Proust" lo è parecchio)35. Inimmaginabile se si guarda al risultato finale del romanzo dato alle stampe da Garzanti nel 1955, la commistione prospettata nel “Piano di lavoro” del 1952 si basa sull'idea della compatibilità tra una rievocazione autobiografica (gli esiti di “Operetta marina”) e il racconto della parte più "marina” dell'”Ur -Ragazzi di vita”, che è in fondo un'autobiografia per interposta persona, tanta è l'intensità dello sforzo messo per entrare nella testa e nel linguaggio dei propri oggetti d'amore. Che l'esperimento non regga, nonostante risulti dal tormento dei materiali preparatori quanto Pasolini si sia affannato a portarlo avanti, si può facilmente capire. Il prevedibile esito del Romanzo del mare è, come in un esperimento chimico non riuscito, la separazione tra due sostanze che avrebbero dovuto combinarsi: da una parte un racconto cosmico e cosmogonico (“Coleo di Samo”), dall'altra una rievocazione di memorie infantili, con molti riferimenti al mare (“Operetta marina”). Quanto al “Ferrobedò”, va per la sua strada. Pasolini sacrificherà “Terracina”, che avrebbe dovuto chiudere il trittico nel segno dell'acqua, e dell'esperimento di affiancare “Terracina” alle altre opere “acquatiche” di quegli anni non resta altra traccia nel romanzo finito che il titolo del “Piano di lavoro” del 1952, trasmesso al capitolo quinto del romanzo uscito da Garzanti nel 1955. 3 L’incontro con Garzanti Già nell'autunno del 1953, all'uscita su "Paragone" del secondo anticipo del romanzo, piaciuto così poco ai funzionari del ministero, Pasolini era in parola con Anna Banti – direttrice e fondatrice (1950), insieme al marito Roberto Longhi, della rivista “Paragone” - per pubblicare “Il Ferrobedò”, una volta concluso, nella collana della rivista. All'inizio di giugno la Banti lo aveva sollecitato e Pasolini ne aveva dato notizia al cugino, con la solita preoccupazione per il “pochissimo tempo” e le troppe cose da fare36. In questa situazione, un fatto nuovo è determinato dall'incontro con Livio Garzanti, 35 Nella cartella Scartafaccio I954-I955, ff. 9-19. Carlo Emilio Gadda nel 1952 è una conoscenza recentissima per Pasolini. Probabilmente l'incontro era avvenuto proprio in quell'anno, quando Pasolini aveva cominciato a collaborare con la redazione letteraria del "Giornale Radio", dove Gadda aveva ricoperto vari incarichi a partire dal 1950 (cfr. Sicilia no, 2005, p. 188). Bertolucci (1997, p. 1135) però ha un altro ricordo, che colloca forse già nel 1951: «Pasolini era molto povero, [...] ma volle che andassi a pranzo a casa sua, a Ponte Mammolo, dove ci sono le carceri di Rebibbia [...]. Gli portai Carlo Emilio Gadda, che non conosceva e adorava». 36 Così il 1° giugno Anna Banti: «Ma per tornare a Lei: quando crede di aver pronto il libro di cui si parlò? Per la Biblioteca di P. ci conterei l'anno prossimo» (AP, Corrispondenza, I, 45, 8).
  • 33. - 33 - organizzato da Attilio Bertolucci nel 195437. Qualche tempo prima, Bertolucci aveva conosciuto Livio Garzanti attraverso Pietrino Bianchi, allora critico cinematografico per "L'Illustrazione italiana”. Aveva cominciato a lavorare per lui come talent scout e gli aveva segnalato - fra l'altro – “Il Ferrobedò”, consegnandogli il fascicolo di "Paragone" sul quale ne era uscito il primo assaggio. Lo stesso Garzanti ha raccontato in diverse occasioni il suo incontro con Pasolini. Così, per esempio, nell'intervento a un convegno del 1977: “A questo punto mi torna vivo il ricordo del nostro primo incontro. Avevo letto un capitolo di “Ragazzi di vita” pubblicato da "Paragone"; il titolo allora era “Ferrobedò”, me l'aveva segnalato l'amico Bertolucci. Gli avevo scritto una lettera molto secca di invito, Pasolini mi rispose con una lettera festosa, gioiosissima, dolce, tenerissima. Poi venne a incontrarmi a Roma, nel mio albergo, un albergo abbastanza modesto. Ricordo che c'era una luce al neon che raffreddava le nostre facce. Mi sono visto davanti un giovane mio coetaneo, in un certo senso orrido, che mi aspettava seduto su una panchetta, le mascelle serrate, un volto nero di pelo, occhi lucenti, le orbite erano incastonate in un volto magro di fame, una faccia quasi dantesca. Rimasi bloccato dal personaggio, la mia sicurezza di editore venne a mancare e mi trovai quasi a non poter parlare. Si stabilirono i termini di un contratto a mezze sillabe”38. Al momento dell'incontro con Pasolini, Garzanti dirige da due anni la casa editrice fondata dal padre Aldo. È intelligente, spregiudicato, capace di rischiare. Ama le scelte controcorrente. Si dimentica spesso che era, al momento della campagna acquisti forse più strepitosa dell'editoria italiana del Novecento, giovanissimo e di Pasolini quasi coetaneo (aveva, l'editore milanese, solo un anno in più). Da quando è a capo dell'azienda, Garzanti figlio ha svecchiato energicamente le collane paterne, inventando una linea che mette insieme (la formula è di Gian Carlo Ferretti) “trasgressività e fatturato”. Quella che disegna col suo catalogo, secondo Piero Gelli, è una “risposta libertaria alla progettualità ideologica della fortezza einaudiana”. Di certo il giovane editore, “in ostentato anta- gonismo con altri editori politicizzati e impegnati, idolatri della cultura e dell'ideologia”, recita (ed esibisce) il ruolo dell'”insensibile uomo d'affari, del capo d'azienda spicciativo e teso solo al profitto, 37 Bertolucci ricorda che l'incontro fra Pasolini e Garzanti era avvenuto nel 1954, Naldini nell'aprile o nel dicembre del 1953 (cfr. la Cronologia premessa a RR I, p. CLXXIX; LE I, p. CXXVI; e ora Naldini, 2014, p. 201). È più probabile che la data giusta sia il 1954, anno in cui anche Garzanti colloca l'inizio della sua collaborazione con Bertolucci (cfr. Ferretti, 2004, p. 205). 38 Garzanti (1978, pp. 134-9). Il convegno è “Per conoscere Pasolini”, tenuto al Teatro Tenda di Roma il 5, 6, 7 dicembre 1977, i cui atti sono usciti l'anno dopo, con lo stesso titolo (cfr. Per conoscere Pasolini, 1978).
  • 34. - 34 - all'utile al concreto”39. È determinato, rapido nelle decisioni, e sa accaparrarsi consulenti di prim'ordine, fra i quali proprio Attilio Bertolucci da subito è il più ascoltato. Un po' per fiducia nel suo consigliere e un po' per effetto del pezzo uscito su "Paragone", Garzanti si impegna subito (sia o non sia in “un quarto d'ora”, com'è dichiarato nell'intervista) a pubblicare il romanzo di cui il pezzo di "Paragone" è l'attacco. È una mossa a sorpresa, e si rivelerà un colpo clamoroso. L'opportunità offerta da Garzanti si risolve, per Pasolini, in uno stimolo potente alla ripresa del romanzo, anche se non nell'esclusivo concentrarsi su di esso che l'editore aveva sperato. Pur tenendo aperti altri fronti, è il completamento del “Ferrobedò” che mette al centro del tavolo, trovando anche il modo di placare la Banti dirottando sulla "Biblioteca di Paragone" la raccolta delle sue poesie friulane. Per ottenere questo focus esclusivo, Garzanti metterà in pratica, anche con Pasolini, la sua nuova (e insieme vecchissima, risalente addirittura alla pratica tardo-medievale e rinascimentale di raccogliere intorno a sé scrittori “familiares”) “tecnica del libro-paga”. Il gesto, inaugurato con Gadda (un po' diverso il caso di Parise, assunto nel 1963 a Milano come redattore in casa editrice) è replicato con Pasolini all'inizio del 1955. Prima, si è visto, lo scrittore friulano aveva vissuto a lungo di collaborazioni miserrime e di supplenze scolastiche a Ciampino, e solo da poco lavorava come sceneggiatore cinematografico. La mossa è quella che aveva avuto successo nel convincere Gadda a riprendere in mano il “Pasticciaccio”, e che Attilio Bertolucci, nel suo ricordo, anticipa al primo incontro romano fra il giovane editore e il giovane scrittore: l'offerta di uno stipendio mensile nel cambio del quale lasciare gli altri impegni, e concentrarsi nella conclusione del romanzo (il 4 agosto del 1953, Gadda aveva parlato di un “regime di sovvenzione”, misurando in “almeno otto mesi di pieno impegno” il tempo necessario a concludere il “Pasticciaccio”)40. Pasolini, dopo la prima lettera inviata a Garzanti, nella quale lasciava trasparire un certo imbarazzo misto a senso di colpa per non essersi più fatto vivo con l’editore, dopo quell’unico incontro romano che avevano avuto, riscrive a Garzanti in un giorno imprecisato di novembre, e questa volta ci si mette d'impegno. Non discute i dettagli economici della proposta (si riserva di farlo, probabilmente, con il tramite di Bertolucci), ma quantifica in “circa cinque sei mesi” il tempo necessario per concludere il romanzo e dà finalmente un resoconto preciso della forma che il “Ferrobedò” ha assunto in quella fase delle sue 39 Garboli (2003, p. 557). Su Livio Garzanti e i suoi autori, cfr. il ricco commento di D. Scarpa a Gadda, Parise (2015). 40 Garboli (20 03, p. ss8). La lettera di Gadda a Garzanti è pubblicata integralmente ora in Gadda (2006, pp. 71- 4).
  • 35. - 35 - trasformazioni. La lettera è studiata per rassicurare l'editore circa la determinazione e la serietà con cui lo scrivente si prepara a rispettare l'accordo. Pasolini, sembra, vuole convincere Garzanti che non farà un cattivo affare (“è tutto chiarissimo nella mia testa”; “non sono pigro, badi”; “scusi la fretta caotica con cui ho scritto: ma sono affogato nel lavoro”). L'insistenza sull'incapacità di rendere con un riassunto la compattezza del romanzo (“è impossibile riassumere decentemente la trama”; “si avrebbe l'impressione di un arazzo” ecc.) riflette forse alcune delle preoccupazioni espresse dall'editore (forse a voce, già nel primo incontro, o attraverso Bertolucci): preoccupazioni, si direbbe, relative in questa fase soprattutto alla tenuta del libro (al suo essere un vero romanzo, e non una raccolta di racconti). Tra le lettere di Garzanti che si conservano all'Archivio Vieusseux manca purtroppo la risposta alla lettera-resoconto citata sopra, che è anche una dichiarazione di poetica - importante per quanto rivela sul "simbolismo" della struttura, oltre che sull'officina del romanzo ancora in lavorazione, con tre dei nove capitoli previsti già pronti, altri quattro da finire e due “da riscrivere quasi completamente”. Ci resta, però, la replica di Pasolini, del 28 novembre, che allude a “consigli” a proposito del “Ferrobedò” espressi dall'editore sulla base della lettera-resoconto. Sono, si può capire, consigli di due tipi: relativi alla lingua, con la raccomandazione di non usare troppe parole di dialetto o gergo oscure per il lettore; e relativi, ancora, all'impianto generale del libro (alla sua natura di romanzo o collettore di capitoli parsi evidentemente all'editore, sulla base del riassunto, troppo autonomi, “a sé stanti”): “[...] I suoi consigli a proposito del «Ferrobedò» mi paiono molto giusti e sensati, specie per quel che riguarda la lingua: ne terrò conto non ora nello stendere il racconto (le parole dialettali, del gergo ecc. mi sono assolutamente necessarie per scrivere : sono - forse - il sottoprodotto che deve nascere insieme al prodotto: sono esse che mi danno l'allegria necessaria per capire e descrivere i miei personaggi) , ma ne terrò conto nel correggere il libro quando sarà completo : allora le Inutili verranno cancellate, le utili resteranno (anche se saranno un po' oscure: e qui stile e commercialità entreranno in polemica...). [...]” Pasolini mostra di tenere in considerazione i consigli (“molto giusti sensati”), e non sospetta in alcun modo che dalla lingua e dalla struttura del romanzo possano venire serie difficoltà alla sua pubblicazione. Per ora, alla fine del 1954, le prospettive sono rosee. In dicembre, probabilmente, scrittore e editore si incontrano ancora per mettere a punto i dettagli dell'accordo, come risulta da questa lettera del 6 dicembre che si conclude con l'invito, da parte dell'editore, “a lavorare”: “Caro Pasolini, non ho risposto alla Sua lettera perché pensavo proprio di poter essere a Roma in questi giorni, invece ho dovuto rinviare ancora. Purtroppo questi giorni prima di Natale sono giorni di lavoro intenso. Non
  • 36. - 36 - ho persa però la speranza di poter arrivare a Roma tra 4-5 giorni. Le scrivo per dovere di cortesia e per incitarLa a lavorare; non perda tempo; io posso fare il mio lavoro solo se Lei mi dà il lavoro al momento opportuno”41. 4 Bozze “da correggere e da castrare”: i giorni dell’autocensura Il dattiloscritto definitivo, almeno nelle intenzioni dell’autore, era stato mandato a Milano il 13 aprile 1955. Per un po' Pasolini non ne aveva saputo nulla. Il 17, aveva scritto a Franco Fortini di aver spedito il malloppo e di sentirsi finalmente un po' libero, dopo i giorni convulsi delle ultime correzioni. La quiete, tuttavia, dura poco. Nelle prime settimane di maggio, comincia una specie di “incubo”. Il 9, Pasolini scrive a Sereni di essere alle prese “da vari giorni” con “bozze mezze morte”, “da correggere e da castrare”. Garzanti è stato preso da “scrupoli moralistici”, “si è smontato”, e non è più convinto del romanzo che prima aveva tanto voluto: “Caro Sereni, sono vari giorni che di giorno in giorno rimando lo scriverti. Sai come succede. D'altra parte sono vissuto in una specie di incubo (e ancora non ne sono del tutto fuori): Garzanti all'ultimo momento è stato preso da scrupoli moralistici, e si è smontato. Così mi trovo con delle bozze mezze morte tra le mani, da correggere e da castrare. Una vera disperazione, credo di non essermi trovato mai in un più brutto frangente letterario42...” Se è esistita, la lettera in cui Garzanti ha comunicato a Pasolini le sue impressioni alla lettura del romanzo non è tra quelle sopravvissute. Potrebbe essere stato Attilio Bertolucci il messaggero di brutte notizie, come più volte all'”ascoltato e bistrattato Mazarino di Maison Garzanti”43 era capitato durante la trattativa del Pasticciaccio, e come con Pasolini gli toccherà l'anno successivo, quando trasmetterà all'amico l'accusa per oltraggio alla morale (è l'episodio intorno a cui Pasolini costruisce la poesia “Recit”, identificando Bertolucci, secondo una persuasiva lettura di Giacomo Magrini44, col 41 P. P. Pasolini, Lettere 1955-1975, con una Cronologia della vita e delle opere a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1986. 42 Ivi. Nota 14, cit. p. 57 43 Espressione riferita ad Attilio Bertolucci da Piero Gelli (1995). 44 G. Magrini (1994), Pasolini, Spitzer, Bertolucci. Recit senza accento, in "Paragone", XLV, n.s., 47-48, pp. 19-34.
  • 37. - 37 - messaggero delle tragedie di Jean Racine, il cui ruolo era stato indagato da Leo Spitzer nel saggio sul “récit de Théramène” della “Phèdre”)45. Abbiamo, però, la lettera di accompagnamento alle bozze corrette, nella quale Pasolini, a dimostrazione della “buona volontà” con la quale ha seguito le indicazioni dell'editore, descrive minuziosamente il lavoro svolto. Gli interventi apportati per rendere possibile la pubblicazione, se ne ricava, sono quattro di quattro tipi: interventi di censura linguistica (la sostituzione con puntini di “tutte le brutte parole”, come Pasolini scrive a Garzanti); interventi tesi ad "attenuare" gli episodi più spinti; "sfrondamenti"; e ritocchi strutturali, per rendere più compatto il nucleo della storia, e più chiara la sua articolazione. Possiamo, a questo punro, vedere alcuni esempi degli interventi in cui si è concretizzata l’autocensura coatta dell’aprile-maggio del 1955, e poi tentare qualche conclusione. In primo luogo, la censura linguistica prende per lo più la forma di singole parole che si nascondono dietro a puntini: un “vaffanculo” diventa “vaffan...”46; un “cazzi tua”, un altrettanto riconoscibile “c... tua”; un ”Je trema er culo”, diventa “Je trema er c...” e così via. Imparentati con questi sono i casi in cui parole che si teme urtino il lettore (le “brutte parole” di cui Pasolini parla nella lettera a Garzanti) sono non occultate da puntini, ma sostituite da sinonimi percepiti come più accettabili: un “cazzi” diventa “cavoli”; un “a stronzo”, “a coso”; tra i nomi un “Cazzosecco” si trasforma in “Zinzello”. Nella lettera Pasolini dichiara di aver operato una correzione sistematica delle “brutte parole”. Qualcuna, invece, per svista o estrema resistenza all'edulcorazione forzata, rimane (nell'episodio del bagno sull'Aniene un “a stronzo”, altrove censurato, si conserva). L'”attenuazione”, invece, riguarda episodi ritoccati e come messi in sordina, ma non del tutto espunti. È il caso, ricordato nella lettera, della scena di Nadia a Ostia. Un altro esempio chiarissimo è nel passo del capitolo 5, “Le notti calde”, che nella versione ancora non “castrata”, racconta come il Lenzetta, tornato a casa ubriaco, cerchi di "imbrosarsi" il fratello 45 La poesia Récit (Recit nella grafia pasolinana) è apparsa per la prima volta su "Botteghe Oscure" nel settembre del 1956, e confluita nelle Ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957 (ora in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Mondadori, Milano 2003). In una lettera del 12 gennaio 1956 Pasolini informa Garzanti di averla scritta subito dopo la notizia della denuncia contro Ragazzi di vita. Il saggio a cui si fa riferimento è: G. Magrini. (1994), Pasolini, Spitzer, Bertolucci. Recit senza accento, in "Paragone", XLV, n.s., 47-48, pp. 19-34. 46 Cito dal f. 189; la lezione apparsa a stampa è in: P. P. Pasolini, Romanzi e racconti 1946-1961, a cura di W. Siti, S. De Laude, con due saggi di W. Siti e una Cronologia a cura di N. Naldini, Mondadori ("I Meridiani"), Milano 1998.