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FILOSOFIA DELLA GUERRA
UN APPROCCIO EPISTEMOLOGICO
DI STE FANO BE RNINI
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al partigiano piero
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IN D I C E
- Introduzione .................................................................................... …..6
PARTE PRIMA
LA GUERRA TRA POLITICA E MORALE
SI VIS PACEM, PARA BELLUM
CAPIT OL O I
GUER RA E P OLITI CA
§.1 La guerra non è che la continuazione della politica con
altri mezzi ........................................................................................ 9
§.2 La politica non è che la continuazione della guerra
con altri mezzi .................................................................................. 18
§.3 Guerra e politica: i due volti del conflitto............................................. 22
CAPIT OL O II
GUER RA E M OR ALE
§.1 La guerra tra “giustizia” e “opportunità” .............................................. 27
§.2 Dal realismo all’etica. La guerra nel pensiero politico
di Max Weber ................................................................................... 32
PARTE SECONDA
4
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TE ORIA GE NE RALE DEL LA GUE RRA.
UN AP PROCCIO EPIST EM OL OGICO
HOMO P UGNANS
CAPIT OL O I
TRA FILOS OFI A E SCIE NZ A:
VERS O UNA EP ISTEM OL OGI A DELLA GUERR A .................................................. 41
CAPIT OL O II
LINEAME NTI DI EPIST EMOLOGIA DELL A GUERR A
§.1 Assiomatica della guerra: Jomini ......................................................... 45
§.2 Empirismo razionalistico: Clausewitz................................................... 47
CAPIT OL O III
PERCHÉ LA GUE RR A? LA GUER RA VIST A
AL MACR OSC OPI O DEL L’ANTR OPOL OGIA........................................................ 51
§.1 Perché la guerra – che cosa è la guerra: due chiavi
di lettura. La guerra tra natura, cultura e struttura .................................. 53
§.2 Perché la guerra? La natura ................................................................ 54
§.3 La cultura ....................................................................................... 57
§.4 Casi clinici ...................................................................................... 63
5
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CAPIT OL O IV
CHE C OS A È LA GUERR A? MET AFISI CA DEL CONF LITT O
§.1 Ontologia della guerra ....................................................................... 68
§.2 La struttura: i Nuer ........................................................................... 71
PARTE TE RZ A
CONCL USIONI
MORS TUA, VITA MEA
CAPITOLOI
LA META-STR UTT UR A: IL GI OC O DI OZIER I ................................................... 77
CAPITOLOII
TRA LA VIT A E LA M OR TE: IL CONFLIT TO ...................................................... 79
- Bibliografia ........................................................................................ 82
6
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INTRODUZIONE
Sebbene l’espressione filosofia della guerra sia in circolazione da vari decenni presso chi si
occupa di guerra non solo da un punto di vista strettamente tecnico-militare, di fatto non c’è stata
una istituzionalizzazione, come è avvenuto per la filosofia della scienza, del linguaggio, della storia.
La filosofia della guerra sembra esistere soltanto in via ufficiosa.
Se l’ufficializzazione della filosofia della guerra è ancora di là da venire, con
l’epistemologia della guerra siamo alla latitanza più assoluta; al di là del Libro Secondo del Della
guerra di Clausewitz – peraltro il meno conosciuto di tutto il trattato – chiunque voglia occuparsi di
epistemologia della guerra deve “lavorare in proprio”.
Dal momento che non esiste un corpus definito di opere sulla filosofia della guerra, questa
va “ricavata” a partire da altri settori di indagine. Primo tra tutti, la politica.
Partiamo dal quesito se sia la guerra la continuazione della politica con altri mezzi, o
viceversa. Per definire il rapporto tra guerra e politica possiamo ricorrere alla metafora della
chirurgia e del suo rapporto con la medicina: quale delle due è la continuazione dell’altra? Poiché
qui non ci occupiamo né di politica, nell’accezione corrente del termine, né di medicina, per
sciogliere il dilemma converrà adottare quello strumento squisitamente filosofico che è l’astrazione:
come la medicina e la chirurgia sono due applicazioni diverse della “terapia” (più rispettosa
dell’integrità del paziente la prima, più invasiva la seconda), così la guerra e la politica sono due
espressioni di una stessa realtà soggiacente: il conflitto. Per usare i termini propri della mineralogia,
si potrebbe dire che la politica sta all’aggregato come la guerra sta al cristallo.
L’abbinamento guerra-chirurgia ha dei precedenti. In relazione, per esempio, ai conflitti più
recenti si sente parlare sempre più spesso di “armi chirurgiche”, come i missili a testata intelligente,
a guida satellitare e così via.
Perfettamente consapevole del fatto che l’obiettivo centrato da un’arma chirurgica ricorda
più una macelleria a cielo aperto che una sala operatoria, e che i peggiori criminali che hanno
insanguinato la storia hanno spesso giustificato i loro crimini come operazioni chirurgiche su vasta
scala, ritengo tuttavia che l’abuso intenzionale e interessato di questa metafora non ne infirmi la
validità teorica.
Un altro tema caro a chi si occupa di guerra in maniera periferica è il suo rapporto con la
morale; e solitamente il problema viene risolto con una criminalizzazione della guerra. Uno dei
compiti della mia analisi è dimostrare che si può parlare di guerra senza parlare di morale, e senza
per questo dover chiedere scusa.
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Per quanto riguarda l’epistemologia della guerra, questa è tutta da costruire. Clausewitz ha
lanciato il sasso nello stagno, ma la sua voce, almeno in questo settore, è rimasta inascoltata.
Tra le varie chiavi di lettura con cui è possibile avvicinarsi alla guerra da un punto di vista
epistemologico, quella eziologica e quella ontologica sono, a mio avviso, le più idonee a rendere
conto per un verso della complessità, e per l’altro, dell’intima natura del fenomeno.
I risultati della loro applicazione potranno fornire lo spunto per nuove riflessioni.
Potrà sorprendere che nel corso di questo lavoro si incontrino pochissimi riferimenti alle
guerre che solitamente si studiano sui libri di storia. In effetti, questi riferimenti servono
esclusivamente a suffragare delle considerazioni astratte. Il compito di questa analisi non è
comprendere la singola guerra, ma fornire degli strumenti per comprenderle tutte.
L’oggetto di questa indagine non è dunque una guerra, ma la guerra.
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PARTE PRIMA
LA GUERRA TRA POLITICA E MORALE
SI VIS PACEM, PARA BELLUM
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CAPITOL O I
GUERRA E P OL ITICA
§.1. La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi.
Di tutte le persone che, a vario titolo, in occasione di eventi bellici, citano questa massima, quasi
fosse uno slogan, poche sanno che l’autore è Karl von Clausewitz, e ancora meno sono quelle che
conoscono, o immaginano, la portata teorica e le conseguenze pratiche che questa frase comporta.
Vediamo allora di entrare nel merito della questione considerando l’analisi che lo stesso Clausewitz
fa al riguardo.
Clausewitz è ben consapevole della complementarità che lega guerra e politica e avverte subito la
pochezza, l’inconsistenza teorica di quelle posizioni che tradizionalmente consideravano – e
considerano tuttora – questi due termini in opposizione dialettica; frasi del tipo: “la guerra
interviene allorquando la politica fallisce”, o “la politica tace, ora la parola passa alle armi”,
infarciscono la prosa di giornalisti, saggisti, opinionisti e quant’altri che, per professione o per
vocazione – ma accomunati sempre dalla medesima incompetenza e ignoranza – pontificano
sull’intima natura della politica, della guerra, e dei rapporti che tra esse intercorrono. La posizione
di Clausewitz al riguardo è quanto mai esplicita: “[…] ordinariamente si pensa che con essa [la
guerra] venga a cessare il lavoro politico, e che subentri uno stato di cose del tutto diverso, regolato
soltanto da proprie leggi. Affermiamo invece che la guerra non è se non la continuazione del lavoro
politico, al quale si frammischiano altri mezzi. Diciamo: si frammischiano altri mezzi per affermare
in pari tempo che il lavoro politico non cessa per effetto della guerra, non si trasforma in una cosa
completamente diversa, ma continua a svolgersi nella sua essenza, qualunque sia la forma dei mezzi
di cui si vale […] L’interruzione delle note diplomatiche fa mai cessare i rapporti politici tra le varie
nazioni e i vari governi?”1
.
La massima di Clausewitz, che costituisce il titolo di questo paragrafo, e che rappresenta in qualche
modo la sintesi, la summa del suo pensiero in proposito, stabilisce esplicitamente una priorità
teorica (ma, come vedremo più avanti, anche pratica) della politica sulla guerra, e quindi una
subordinazione, ribadita nel corso di tutta l’opera, della seconda alla prima. Anche il brano testé
riportato si allinea su queste posizioni, ma sembra altresì suggerire un rapporto che va al di là della
mera relazione di contiguità e continuità tra guerra e politica; termini come frammischiare,
svolgersi nella sua essenza lasciano trasparire, dietro una apparente diversità, o alterità fenomenica,
una sorta di consustanzialità, una medesima tipologia sottesa tra guerra e politica. In questa
operazione di superamento dell’opposizione dialettica tra guerra e politica, Clausewitz di fatto
10
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oscilla tra la subordinazione–prosecuzione dell’una rispetto all’altra, e l’identità che le accomuna;
va anche osservato che queste due relazioni non sono necessariamente in contraddizione: la stessa
frase “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”2
implica, al di là, o al di
sotto, della continuazione, una identità di fondo.
L’analisi che Clausewitz fa del rapporto tra guerra e politica parte dalla considerazione della guerra
come ente autonomo, dotato di propri scopi e propri mezzi.
La guerra, considerata, in quest’ottica, “di per sè”, si configura come un binomio fine-mezzo: “la
guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla
nostra volontà”3
. Potremmo rappresentare questo binomio come un sistema di assi cartesiani, in cui
considerare, arbitrariamente, l’asse delle ascisse come il fine, e l’asse delle ordinate come il mezzo,
dal momento che, se lo scopo è “imporre” la nostra volontà al nemico, non c’è altro mezzo che
l’uso della forza4
.
Per raggiungere questo fine, la forza deve conseguire un obiettivo più immediato: porre il nemico
nell’impossibilità di difendersi; è questo, “per definizione”, come afferma Clausewitz, “il vero
obiettivo dell’atto di guerra”, lo scopo dell’atto di forza, all’uso della quale non c’è limite. Dal
fatto che entrambi i contendenti cercano d’imporsi reciprocamente la propria volontà tramite un uso
illimitato della forza, ne consegue una tendenza “all’estremo”, una tensione intrinseca alla guerra
che la conduce verso la sua forma assoluta, che si concretizza nella cosiddetta “guerra di
sterminio” o di annientamento. È questo il tipo di guerra volta a “ridurre il nemico all’impotenza”5
,
ovvero ad “abbatterlo”.
In quest’ottica, gli assi cartesiani che avevamo considerato poc’anzi, tendono ad avvicinarsi fino a
congiungersi per costituire un unico vettore che conduce all’annientamento reciproco dei due
contendenti.
Ma quante sono le guerre di questo genere che si possono contare nella storia? In effetti, quella che
Clausewitz sta considerando è la guerra nella sua dimensione “astratta”, totalmente scevra dal
contesto storico e dall’obiettivo politico che la determina; e anzi la guerra considera quest’ultimo
come “altro” da sé, e lo respinge come estraneo alla sua natura. È difficile rintracciare nella storia
guerre di annientamento, in cui i contendenti mirino al reciproco sterminio.
La ragione di questa difficoltà consiste nel fatto che il sistema di assi cartesiani che abbiamo
considerato, e che definisce uno spazio “bidimensionale”, seppure valido a rappresentare la guerra
nella sua dimensione astratta, risulta insufficiente per rappresentare la guerra reale, storicamente
1 Karl von Clausewitz, Vom Kriege, trad. it. Della Guerra, Roma, 1970, p ag. 811.
2 Il corsivo è mio.
3 Op. cit., pag. 19.
4 Si tratta, come Clausew itz afferma esplicitamente, della forza fisica, “poichè all’infuori
dell’ idea d i S tato e di Legge non v i è forza mo rale”, op. cit., pag . 20.
11
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riscontrabile e concretamente combattuta, che per sua natura si muove in uno spazio
“tridimensionale”. L’asse mancante, che garantisce la tridimensionalità al sistema, è quello dello
scopo politico, in assenza del quale la guerra è un non-senso: “[…] il disegno politico è lo scopo, la
guerra il mezzo, ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi”6
. Se volessimo esprimerci con i
termini della teoria della causalità di Aristotele, potremmo dire che, data la guerra, la politica ne
rappresenta la causa efficiente e la causa finale, con il combattimento che, non necessariamente
spinto fino al totale annientamento del nemico, funge da causa materiale.
Con l’inserimento di questo nuovo asse, rappresentante lo scopo politico, si capisce perché il
combattimento non debba essere “necessariamente” spinto fino alla distruzione del nemico: è la
politica che, generando dal suo grembo la guerra, ne definisce l’obiettivo e gli sforzi necessari per
raggiungerlo7
. Ora, quanto più grande, grave e irrinunciabile è lo scopo politico, tanto più esso
tenderà a coincidere con lo scopo puramente bellico; pertanto il vettore che parte dall’origine degli
assi, tenderà ad orientarsi verso la guerra di sterminio8
. Quanto più invece lo scopo politico è
circoscritto, moderato, limitato, tanto più la guerra tenderà ad allontanarsi dalla sua forma assoluta
per risolversi addirittura in una incruenta “osservazione armata”9
. In questo caso lo scopo
propriamente bellico è pressoché assente e il vettore tende ad allinearsi sull’asse dello scopo
politico. È quest’ultimo che, grazie alle sue infinite gradazioni, ora smussa gli aspri contorni della
guerra assoluta fino a risolverla in quella “mezza misura”10
che abitualmente abbiamo sotto gli
occhi, ora la riconduce fino alle sue tanto estreme quanto rare tendenze all’assoluto.
Ne consegue l’infinita varietà di forme che la guerra può assumere; ed è proprio la scelta tra queste
– in relazione all’obiettivo politico che entrambi i contendenti si prefiggono – a rappresentare il
compito più grave e importante del Capo di Stato, un “calcolo” che, a detta di Napoleone, “darebbe
luogo ad un problema d’algebra capace di spaventare un Newton”11
.
Ma vi è un altro fattore che, al di là dello scopo politico, contribuisce ad arginare le tendenze
assolutistiche della guerra: la comunicazione tra i nemici. Proprio nella comunicazione che, nella
nostra epoca, sembra essere assurta al ruolo di parola d’ordine, di emblema della civiltà occidentale
5
Op. cit., pag. 22.
6
Op. cit., pag. 38.
7
Op. cit., pag. 28.
8
Vedi, ad esempio, la Terza Guerra Punica, in cui non solo l’esercito punico fu
sbaragliato dai Romani, ma la stessa Cartagine fu rasa al suolo, in ottemperanza al
precetto catoniano: “Carthago delenda est”.
9
Op. cit., pag. 29. Vedi in proposito le attuali operazioni di polizia internazionale
e di “ingerenza umanitaria”; ma anche in questi casi il rischio di escalation è
sempre in agguato, come ci insegna la cronaca dei nostri giorni. Va tuttavia
rilevato che, in linea di principio, un grande obiettivo politico può essere
conseguito anche tramite una operazione militare limitata.
10
Op. cit., pag., 812.
11
Op. cit., pag. 783.
12
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contemporanea, Raymond Aron rintraccia “la condizione necessaria per la moderazione dei
conflitti”12
. È evidente (anche se Aron non lo rileva esplicitamente) che, in tempo di guerra, la
comunicazione tra le parti in lotta può non essere esplicita e manifesta come ordinariamente ci si
aspetterebbe; eppure è proprio questa forma di comunicazione latente che garantisce quella
reciproca conoscenza delle rispettive intenzioni che fa sì che ciascuno sappia che cosa deve temere
dall’altro. È nel momento in cui questa comunicazione, questa reciproca conoscenza viene meno,
che si fa strada la paura incondizionata di un nemico dal quale oramai ci si può aspettare di tutto, e
che deve essere pertanto annientato. È lo spettro di questa eventualità che spinge Aron ad affermare
che “la comunicazione non è sufficiente a garantire la moderazione, ma ne rappresenta la
condizione necessaria”13
. Potremmo dire, in quest’ottica, che il nemico peggiore è “l’ignoto”.
La funzione della comunicazione si rivela determinante, più che in qualsiasi altro contesto, nelle
singolari e, per certi aspetti, paradossali dinamiche di quella straordinaria forma di strategia
politico-militare che è la strategia nucleare, probabilmente l’unica forma di strategia volta (almeno
in alcune fasi della sua evoluzione) ad evitare il conflitto più che a risolverlo con una vittoria
militare. È singolare che Aron affronti il tema della guerra nucleare scollegandolo dal problema
della comunicazione, che egli stesso ha portato alla luce, dal momento che, se la guerra nucleare è
rimasta uno spettro, il merito, in parte, è stato proprio delle reciproche rassicurazioni che Stati Uniti
e Unione Sovietica si sono scambiate riguardo la non-volontà di aggredire e la finalità prettamente
difensiva di taluni sistemi d’arma nucleari, soprattutto quando alcune innovazioni tecnologiche in
questo settore hanno dato la sensazione di infrangere il precario equilibrio del terrore, facendo
pendere il piatto della bilancia a favore di una delle due super-potenze, e ingenerando nell’altra una
pericolosa percezione di pericolo che avrebbe potuto indurla a far scattare quella misura difensiva
che è l’“attacco preventivo”14
. Ai fini del mantenimento di una pace che si regge sull’equilibrio
delle rispettive potenzialità offensivo-difensive, e - almeno sulla carta – sull’intenzione di ricorrere
alla deterrenza nucleare solo come rappresaglia difensiva, la funzione di una comunicazione volta a
tranquillizzare l’avversario sul mantenimento dell’equilibrio e sulla mancanza d’intenzioni
aggressive, risulta evidentemente imprescindibile e inalienabile.
È interessante notare come proprio la guerra nucleare, ovvero l’unica forma di guerra che per la
prima volta sembra realizzare nella storia la formulazione astratta della guerra assoluta, e che anzi la
supera in “assolutezza”, giacchè si risolve non nell’abbattimento di uno dei due contendenti, ma
12
Raymond Aron, Pensare la guerra, Clausewitz, Paris, 1973, pag. 116.
13
Op. cit., pag. 116.
14
Per una attenta analisi storica della strategia nucleare occidentale, cfr. il saggio
di Lawrence Freedman, “Le prime due generazioni di strateghi nucleari”, in
Guerra e strategia nell’età contemporanea, a cura di Peter Paret, Genova, 1992;
trad. it. di Ma kers of Modern S trategy, Prin ceton, N.J., 1986.
13
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nello sterminio di entrambi, rappresenti invece la prova più inconfutabile della subordinazione della
guerra alla politica.
Fino ad oggi, la guerra nucleare è stata preparata, simulata, minacciata, ma, di fatto, non è stata
ancora combattuta15
.
Il motivo – che Aron questa volta non manca di considerare – è che la guerra nucleare, “grazie” al
suo esito univocamente apocalittico, ha messo l’uomo davanti a una alternativa, che si risolve poi in
una scelta obbligata: lo sterminio reciproco da una parte, l’opzione politico-diplomatica dall’altra16
.
L’“ombrello nucleare” ha garantito – anche ai suoi detrattori – quarant’anni di pace. Alla sua ombra
hanno proliferato schiere di pacifisti di varia natura, che lo hanno fatto oggetto delle loro invettive,
ignorando (o facendo finta di ignorare) che il privilegio di stare in una piazza a sventolare simboli
di pace, invece che in una trincea a imbracciare un fucile, è stato garantito loro proprio
dall’esistenza delle armi atomiche e dallo spettro dell’olocausto nucleare che queste evocano.
È innegabile che questa “pax atomica”, o “guerra fredda”, sia stata una prerogativa dell’Occidente
(oltre che dell’Unione Sovietica e degli altri paesi che si sono dotati di armi nucleari), e che quella
guerra che i due blocchi hanno evitato a se stessi, l’abbiano fatta combattere al Terzo Mondo – le
guerre che io definisco “per interposta persona”, note anche come “guerre per procura”, ma non è
un caso che, all’indomani della caduta del blocco sovietico, con il conseguente allontanamento del
rischio di un conflitto nucleare, la guerra “fredda” sia divenuta improvvisamente “calda” anche in
Occidente, in un’area peraltro storicamente nevralgica come la regione balcanica.
Come la caduta del blocco sovietico non ha rappresentato la “fine della storia”17
, così l’avvento
dell’arma atomica non ha rappresentato la fine della guerra; e tuttavia, alla luce delle decine di
milioni di morti dei due conflitti mondiali, ne ha rappresentato un ridimensionamento.
A fronte dei facili entusiasmi con cui sono stati accolti gli accordi di non-proliferazione nucleare, la
caduta del sistema bipolare internazionale, la messa al bando (sulla carta) degli esperimenti
nucleari, converrà tenere sempre presente la lucida constatazione che Robert Oppenheimer, il padre
della bomba atomica americana, ebbe a fare all’alba di quella era nucleare che egli stesso aveva
contribuito a far sorgere: una invenzione non può essere “disinventata”18
.
15
Con questo non intendo natur almen te cancellare la memoria d ella tr agica esp erienza
delle bombe ato miche su Hiroshima e Nag asak i, che, come è stato giustamente osservato,
più che rappresentare l’atto f inale della Secon da Guerra Mondiale, hanno rappresentato
l’atto di in izio della “gu erra fredda”; lungi d al costituir e uno stru mento p er piegare un
Giappone ormai irrimed iabilmente in g inocch io, sono state una dimostr azione di for za
rivolta all’Un ione Sovietica, che g ià n el ’43 v eniva iden tif icata come il v ero nemico con
cui confrontarsi.
16
Ray mond Aron, op. cit., p agg. 116-118.
17
Come invece pretend eva F. Fukujama in un articolo omon imo, pubblicato in “Th e
Nato inal Interest”, n. 16, 1989.
18
C’è una strana coincidenza che merita di essere considerata. Pochi anni dopo la
fine della Seconda Guerra Mondiale, quindi all’indomani degli straordinari
14
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Al contrario di quanti ritengono che, con l’avvento delle armi nucleari, la guerra abbia cessato di
essere la continuazione della politica con altri mezzi, la conclusione che si evince da quella
paradossale forma di pace che è stata la guerra fredda, è che la guerra, o meglio, la minaccia
nucleare, lungi dal provocare il reciproco annientamento, ha rilanciato il primato della politica.
É questo primato che Aron intende ribadire – polemizzando con quanti ritengo che, in realtà, sia la
politica la continuazione della guerra con altri mezzi – quando nega la possibilità di ribaltare la
massima clausewitziana in virtù del fattore discriminante che distingue la guerra: “La politica tende
agli stessi fini in pace e in guerra: essa non può essere la continuazione della guerra con altri mezzi,
perché la guerra non si caratterizza che per la specificità del proprio mezzo, la violenza”19
. Per usare
una formula mutuata dal lessico matematico, potremmo dire che quello che Aron vuole negare ai
concetti di politica e di guerra è la “proprietà commutativa”.
Questa affermazione di Aron è densa di implicazioni che, nell’arco della storia militare, e quindi
politica, hanno prodotto un dibattito serio e dagli esiti talvolta altalenanti; il concetto di specificità
del mezzo, in particolare, ha indotto alcuni militari a mettere in discussione il primato della politica
sulla guerra.
Il problema, oltre che serio, è sempre attuale, e merita pertanto un sia pur breve approfondimento.
Il tema è caro allo stesso Clausewitz, che lo affronta direttamente, ma per poterlo considerare, per
così dire, da tutte e due le parti della barricata, occorre introdurre la figura di un altro uomo d’armi
che ha contribuito a fare la storia del pensiero militare: Antoine Henry Jomini. La sua concezione
della guerra20
ha spesso costituito il supporto teorico, o forse sarebbe meglio dire l’alibi, addotto
talvolta da quei militari che hanno cercato di scrollarsi di dosso il controllo della politica.
Possiamo considerare quattro fattori, dalla convergenza dei quali deriva il fondamento del problema
in questione: i primi due rappresentano i vettori di spinta, gli altri due lo sfondo; o, se si preferisce, i
successi conseguiti con la realizzazione della prima bomba all’uranio,
Oppenheimer rimase vittima di quella triste pagina della storia americana nota
come la “caccia alle streghe”: accusato di “collaborazionismo” con i sovietici e
di essere egli stesso comunista, fu allontanato dall’incarico di presidente della
commissione consultiva sull’energia atomica. In Unione Sovietica, quello che può
essere considerato il quasi-omologo di Oppenheimer (“quasi”, perché il padre
della bomba H americana è Edward Teller), Andrey Sacharov, il padre della
bomba H sovietica (all’idrogeno, o “termonucleare”), per la sua attività di
dissidente fu allontanato dai centri di ricerca e perseguitato.
Al di là del fatto che le accuse ad Oppenheimer sono tutte da dimostrare, un
singolare destino di emarginazione ha accomunato questi due scienziati, che più
degli altri hanno contribuito a condurre le rispettive nazioni ai vertici del potere
nucleare.
19
Op. cit. pag. 128.
20
Considereremo più attentamente il pensiero di Jomini nella Seconda Parte di
questo lavoro, nel capitolo dedicato all’assiomatica della guerra. Per il momento
ci basta considerare una delle conseguenze pratiche che la sua teorizzazione ha
avuto.
15
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primi due rappresentano il seme, e gli altri il terreno, l’humus che permette al fenomeno di
“germogliare”.
Il primo fattore è costituito dalla natura stessa della teorizzazione di Jomini, che raggiunge la sua
espressione più alta nel Prècis de l’art de la guerre: la guerra, vista in un’ottica a-storica, consta di
un insieme di regole e principi astratti, la cui conoscenza pertanto è preclusa ai non-iniziati all’arte
della guerra, quali sono invece i militari di professione.
Il secondo fattore è di carattere storico-culturale: nell’Ottocento tutti i campi del sapere –
probabilmente in base all’eredità del razionalismo illuministico – tendono a “scientificizzarsi” e a
“tecnologizzarsi”, cessando di essere oggetto di studio da parte di dilettanti, sia pure talvolta geniali,
per diventare appannaggio di specialisti.
L’arte della guerra non può naturalmente rimanere esclusa da questa linea di tendenza; questi due
fattori sono pertanto già sufficienti a definire una casta di iniziati, specialisti nella teoria e nella
tecnica della guerra: i militari di professione.
Questi due primi fattori si innestano sugli altri due, che ne costituiscono in qualche modo lo sfondo,
o il terreno di coltura.
Il terzo fattore è di carattere storico-politico: fino all’Ottocento, la casta militare partecipava “di
diritto” alla spartizione del potere dominata dall’aristocrazia, di cui peraltro rappresentava una
costola. Con l’avvento delle prime costituzioni repubblicane, e quindi con la democrazia, i militari
videro compromessa la propria autorità, e si videro relegati al ruolo di “burocrati”, amministratori di
uno dei tanti settori della cosa pubblica.
Il quarto fattore è una “invarianza meta-storica”, una sorta di malattia ereditaria da cui sono
atavicamente afflitti molti militari a tutte le latitudini: una ipertrofica percezione dell’identità
collettiva, alimentata specularmente da un fortissimo senso di “alterità” rispetto a ciò che militare
non è, cioè il mondo dei civili, che si concretizza in una congenita insofferenza nei confronti della
supervisione che la politica, in mano ai civili, esercita sulla sfera militare.
Con la fusione di questi quattro fattori il quadro è completo: “In Jomini i militari trovarono proprio
ciò che cercavano: buoni argomenti contro la stretta subordinazione all’autorità politica…… La
lezione era chiara: un governo dovrebbe scegliere il suo più abile comandante militare, e quindi
lasciarlo libero di condurre la guerra secondo i principi scientifici. I governi non dovrebbero
dimenticare le proprie forze armate, ma non devono immischiarsi in questioni che solo colti ed
esperti ufficiali comprendono. La professione militare naturalmente ha preso a cuore questa lezione,
e l’ha insegnata ai suoi allievi […]”21
.
21
Cfr. Jhon Shy, Jomini, in Guerra e strategia nell’età contemporanea, Genova,
1992, pagg. 75-76
16
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Il quesito riguardo quale di questi due elementi, guerra e politica, debba essere subordinato all’altro,
viene posto dallo stesso Clausewitz22
. Considerate le posizioni da cui muove, la domanda suona, in
un certo senso, retorica, e nondimeno Clausewitz risponde esplicitamente, e la risposta, come ovvio,
è univoca: “Sarebbe dunque assurdo subordinare le vedute politiche al punto di vista militare,
poiché la politica ha generato la guerra: essa è l’intelligenza, mentre la guerra non è che lo
strumento; l’inverso urterebbe il buonsenso.
Non resta, dunque, che subordinare il punto di vista militare a quello politico […]. In una parola,
“l’arte della guerra, considerata dal suo punto di vista più elevato, si cambia in politica; ma questa
politica si manifesta con battaglie anziché con note diplomatiche”23
.
E tuttavia Clausewitz non manca di sottolineare, in virtù di quella “specificità del mezzo, la
violenza”, che abbiamo considerato in precedenza con Aron, l’autonomia della guerra rispetto alla
politica: “Ma non perciò lo scopo politico assume il carattere di un legislatore dispotico: deve
adattarsi alla natura del mezzo, donde risulta che sovente esso si modifichi profondamente; ma è pur
sempre l’elemento da tenersi soprattutto in considerazione […].
L’arte della guerra può esigere, in linea di massima, che le tendenze e i disegni della politica non
vengano in contraddizione con tali mezzi, e il comandante in capo può esigerlo in ogni caso. Tale
condizione non è certo lieve: ma qualunque sia, anche in casi particolari, la sua reazione sui disegni
politici, essa non può andare al di là di una semplice modificazione dei medesimi […]”24
.
È interessante (e incoraggiante) che sia proprio il generale prussiano Karl von Clausewitz, nemico
di Napoleone sul campo di battaglia, ma suo strenuo sostenitore e ammiratore sul campo della
speculazione teorica sulla guerra, l’alfiere del primato della politica sulla guerra, nella polemica a
distanza, o meglio indiretta (visto che non hanno mai avuto modo di polemizzare direttamente su
questo tema, come invece è capitato loro di fare su altri), che lo ha visto contrapposto al generale
elvetico Antoine Henry Jomini, portavoce, in tempo di guerra, del primato della guerra sulla
politica.
In questo si risolve, pertanto, il valore pragmatico della formulazione teorica clausewitziana sul
rapporto tra guerra e politica, ereditato dalla politica militare: il controllo teorico della politica sulla
guerra implica il controllo pratico dei politici sui guerrieri. È questa la lezione pratica di Clausewitz
che, più delle altre, i militari hanno spesso fatto finta di ignorare. “Ripetiamo dunque un’ultima
volta: la guerra è uno strumento della politica; essa ne deve necessariamente assumere il carattere,
deve commisurarsi alla sua medesima scala; la condotta della guerra, nelle sue linee fondamentali,
22
Karl von Clausewitz, Della guerra, Roma, 1970, p. 814.
23
Op. cit., pagg. 814-815.
24
Op. cit., pagg. 37-38.
17
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altro non è che la politica stessa, che depone la penna ed impugna la spada, ma non cessa perciò di
regolarsi conformemente alle proprie leggi”25
.
Abbiamo visto, anche in questo frangente, come Clausewitz, non appena ha affermato il legame
inscindibile tra guerra e politica, si preoccupi di riaffermare l’autonomia della prima rispetto alla
seconda. Questo ci rimanda al tema con cui abbiamo aperto questo paragrafo, e cioè la continua
oscillazione che si riscontra nel Della guerra tra la subordinazione della guerra alla politica, e la sua
autonomia; una oscillazione che tende sempre di più ad orientarsi verso il superamento di ogni
eventuale opposizione dialettica, per rintracciare in esse un denominatore comune.
É un percorso che sembra seguire le tappe dell’opera stessa: se nel Libro Primo i due termini si
trovano ancora in una nebulosa, che rende la guerra al tempo stesso un atto politico e uno strumento
della politica26
, nel Libro Secondo ogni nebbia residua si è ormai dileguata, facendo emergere
quella “consustanzialità” di cui parlavo all’inizio del paragrafo: “[…] è dal grembo della politica
che la guerra trae origine, è nella politica che i caratteri principali della guerra sono già contenuti
allo stadio rudimentale, come le proprietà degli esseri viventi lo sono nei rispettivi embrioni”27
. La
metafora dell’embrione è particolarmente evocativa di un rapporto che, se da un lato sottolinea la
continuità cronologica e la diversità morfologica tra l’individuo adulto e la rispettiva fase larvale,
dall’altro sancisce l’identità genetica che li lega.
Ma è nel Libro Ottavo, l’ultimo, come a sottolineare il compimento di un cammino, che questa
tipologia sottesa viene espressa in termini di una straordinaria attualità: “La guerra è forse altra
cosa che una specie di scrittura o di linguaggio nuovo per esprimere il pensiero politico? Questa
lingua ha senza dubbio la propria grammatica, ma non una logica propria”28
. Si potrebbe dire che
è un brano di evidente ispirazione chomskiana, se non fosse per il fatto che Noam Chomsky ha
formulato la sua teoria linguistica un secolo e mezzo dopo la produzione teorica di Clausewitz.
É questa identità di fondo tra guerra e politica che mi preme sottolineare, e che affronterò più avanti
nel terzo paragrafo.
C’è chi ha sostenuto, tuttavia, e non senza ragione, che sia la politica una continuazione della guerra
con altri mezzi. L’ipotesi, sebbene capovolga completamente la massima di Clausewitz e
contraddica apertamente la posizione di Aron, è tutt’altro che peregrina, e merita pertanto di essere
analizzata.
25
Op. cit. p. 819.
26
Op. cit., p. 38.
27
Op. cit., p. 130. Il corsivo è mio
28
Op. cit., p. 811.
18
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§.2. La politica non è che la continuazione della guerra con altri mezzi.
Se della massima con cui ho intitolato il primo paragrafo conosciamo l’autore, di questa è
certamente più difficile accertare la paternità. In essa si riconoscono vari orientamenti di indagine,
come il darwinismo sociale o, per altri aspetti, la psicoanalisi, che riconduce un po’ tutte le forme di
mediazione simbolica che costituiscono la civiltà - e con esse quindi anche la politica, che altro non
è se non la mediazione del conflitto – ad una sorta di “nevrosi collettiva”, risultato di un processo di
rimozione e sublimazione tramite il quale l’uomo si riapproprierebbe di quelle pulsioni, o istanze
inconsce, che coscientemente non vuole riconoscere29
.
Per tornare con i piedi per terra, potremmo adottare un criterio darwiniano e recuperare
quell’opposizione dialettica tra guerra e politica che con l’analisi di Clausewitz avevamo visto
vacillare. La domanda che in quest’ottica potremmo porci è la seguente: quale di queste due attività
– la guerra e la pace, che è garantita dalla politica – svolge le migliori funzioni adattive?30
. La
domanda ci pone dinanzi a due orizzonti antropologico-politici, e, alla luce di questi, può essere
così riformulata: anthropos politikon zoon oppure homo homini lupus ? Ovvero: l’uomo, per sua
natura, è un animale politico o anarchico ?31
Quello che qui vogliamo contrapporre ad Aristotele non è Plauto, ma il più grande interprete della
sua massima che abbia prodotto l’età moderna: Thomas Hobbes.
La rottura di Hobbes con la concezione politico-sociale di Aristotele è netta ed esplicita. Egli muove
da una posizione minimalista: vi è un ipotetico “stato di natura”, fuori dal tempo, e quindi privo di
condizionamenti storici e culturali, in cui la conflittualità tra gli individui si manifesta nella sua
forma, per così dire, cristallina: “La natura ha fatto gli uomini così eguali, nelle facoltà del corpo e
dello spirito […]. Da questa eguaglianza dell’abilità sorge l’eguaglianza nelle speranze di
conseguire i nostri scopi, e perciò, se due uomini desiderano la stesa cosa, che non possono
entrambi ottenere, divengono nemici, e, per conseguire il proprio fine – che è principalmente la
propria conservazione, e spesso il proprio piacere – tentano di distruggersi e di sottomettersi l’un
29
Cfr. Sigmund Freud , Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, 1976.
30
Più che attività potremmo definirle “condizioni”, che garantiscono lo svolgimento
di attività. Questo vale soprattutto per la pace, dal momento che la guerra è stata
talvolta vista come un “monumento all’azione”. La pace è stata addirittura
considerata non come “condizione” per l’azione, ma come “negazione”
dell’azione. Al riguardo, risuona su tutti il perentorio giudizio di Hegel :<<…la
pace… è un ristagno per gli uomini; le loro singolarità divengono sempre più fisse
e si irrigidiscono. Ma, alla salute, appartiene sempre l’unità del corpo, e, se le
parti divengono rigide in sé, è la morte>>.Cfr. Georg Wilhelm Friedrick Hegel,
Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari, 1974,pag.445.
31
Non faccio riferimento, naturalmente, all’Anarchia, quale è uscita dalla Prima
Internazionale.
19
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l’altro”32
. È questa la forma di guerra primordiale e minimale che viene sintetizzata nella formula
bellum omnium contra omnes.
Hobbes è pienamente consapevole che questa condizione di guerra di tutti contro tutti non si è mai
verificata concretamente nella storia; tuttavia le relazioni tra gli stati, quando non sono di aperta
ostilità, sono improntate ad una forma di ostilità latente, fatta di spionaggio e di “corsa agli
armamenti”, quella che noi oggi definiremmo “guerra fredda”, o pace armata, “la quale è una
posizione guerresca”33
. Infatti sarebbe riduttivo indicare con la parola “guerra” esclusivamente uno
scontro sanguinoso; nell’accezione del termine va inclusa anche quell’intenzione ostile che si dilata
nel tempo, anche quando i contendenti non sono ai “ferri corti”: “e perciò la nozione del tempo deve
essere considerata nella natura della guerra, come nella natura di una tempesta. Infatti, come la
natura di una procella non consiste solo in un rovescio o due di grandine, ma nella disposizione
dell’atmosfera ad essere cattiva per molti giorni insieme, così la natura della guerra non consiste in
questo o in quel combattimento, ma nella disposizione manifestamente ostile, durante la quale non
v’è sicurezza per l’avversario. Ogni altro tempo è pace ”34
.
C’è da chiedersi a quale altro tempo per la pace faccia riferimento Hobbes, visto che la storia non
conosce altra alternativa che quella tra guerra effettiva e guerra latente. A confronto con la
posizione di Hobbes, quella hegeliana della guerra come necessità storica, artefice della potenza
degli stati e della dinamica della storia stessa35
, in cui la pace si risolve in quella porzione di tempo
che va da un bagno di sangue all’altro, risulta addirittura una posizione moderata.
A questo punto dell’indagine, per Hobbes, di fatto, la pace non esiste .
Tuttavia Hobbes avverte la necessità di recuperare il concetto di pace, e lo fa in un’ottica
darwiniana. Come avevamo fatto con Clausewitz, anche con Hobbes possiamo adottare un sistema
di assi cartesiani attraverso il quale definire il rapporto tra la guerra e la pace: e allora sia l’asse
delle ascisse il “diritto di natura”, e l’asse delle ordinate le “leggi di natura”.
“Il diritto di natura, che gli scrittori comunemente chiamano jus naturale, è la libertà che ciascun
uomo ha, di usare il suo potere, come egli vuole, per preservare la sua natura, cioè la sua vita, e di
fare perciò qualunque cosa, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli crederà sia il mezzo più
adatto per quello scopo. . . .Una legge di natura – lex naturalis - è un processo o una regola
generale, ricavata dalla ragione, per cui ad un uomo è vietato di fare quello, che distruggerebbe la
sua vita o di togliere i modi, per preservarla, di omettere quello, con cui egli pensa che sarebbe
preservarla”36
.
32
Thomas Hobbes, Leviatano , Bari, 1974, Volume I pagg. 106-107
33
Op.cit., pag. . 111
34
Op. cit., pag. 109
35
Cfr. G.W.F.Hegel , Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari, 1974, pag.456.
36
Thomas Hobbes, Leviatano, Bari ,1974, Volume I, pagg. 112-113
20
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Nello “stato di natura” , dove ciascuno accampa diritti su tutto e su tutti, il diritto alla vita è
evidentemente un concetto aleatorio, e la precarietà regna sovrana. È in questo ambito che non solo
la guerra, ma anche la pace si trova a svolgere una funzione adattiva. Infatti la guerra e la pace sono
determinate sia dalle rispettive passioni (“competizione, diffidenza e gloria” per la guerra, “ il
timore della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie alla vita, e la speranza di ottenerle
mediante la loro industria” per la pace), sia dalla ragione, ed è la ragione che impone all’uomo di
cercare la pace, quando è possibile, altrimenti ricorrere alla guerra: “La prima parte di questa regola
contiene la prima e fondamentale legge di natura, che è: cercare la pace, e conseguirla; la seconda
parte il sommo dei diritti di natura, che è: difendersi con tutti i mezzi possibili”37
.
Come si vede, il vettore che parte dall’origine degli assi, procedendo con una traiettoria di 45°,
equidistante dagli assi stessi, sta definendo dei punti importanti; ed è seguendo il suo percorso che
incontriamo il punto più importante che stavamo cercando: la politica.
La seconda legge di natura, che deriva direttamente dalla prima, prevede che un uomo rinunci ai
suoi diritti sulle cose, qualora anche gli altri facciano altrettanto. Questa rinuncia viene formalizzata
tramite patti e contratti. Ora, Hobbes è troppo realista per accettare l’ingenua credenza che gli
uomini rispettino i patti in virtù di un innato spirito di giustizia: “Tali sono i vincoli, con i quali gli
uomini si legano e si obbligano, vincoli, che hanno la loro forza non dalla propria natura – perché
niente è più facile a rompere che la parola di un uomo - ma dal timore di qualche cattiva
conseguenza di quella rottura”38
. Infatti “se un patto è concluso senza che nessuna delle due parti
l’esegua, ma l’una si fida dell’altra, nel puro stato di natura - che è uno stato di guerra di tutti contro
tutti -, ad ogni ragionevole sospetto resta vano; ma, se vi è un potere comune ad ambo le parti, con
diritto e forza sufficienti per costringerle ad eseguirlo, allora non resta vano” 39
.
“Il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni
degli stranieri e dalle offese scambievoli […] è di conferire tutto il proprio potere e la propria forza
ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri, con la pluralità di
voti, ad un volere solo […]. Ciò fatto, la moltitudine così unita in una persona è detta uno stato, in
latino civitas. Questa è l’origine di quel grande Leviatano, o piuttosto - per parlare con più
reverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace
e la nostra difesa, poiché, a causa di quest’autorità datagli da ogni singolo uomo nello stato, esso
usa di tanto potere e di tanta forza, a lui conferita, che col terrore è capace di disciplinare la volontà
di tutti alla pace interna ed al mutuo aiuto contro i nemici esterni. Ed in esso è l’essenza dello stato,
che – per definirlo – è una persona, dei cui atti ciascun individuo di una gran moltitudine, con patti
37
Op.cit., pag. 114
38
Op.cit., pag. 115
39
Op.cit,, pag.120, il corsivo è mio.
21
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vicendevoli, si è fatto autore, affinchè possa usare la forza ed i mezzi di tutti loro, secondo che
crederà opportuno, per la loro pace e per la comune difesa ”40
.
Ecco la nascita della politica formalizzata41
, e, con essa , dello Stato.
Ma, ai fini della nostra indagine, è giunto il momento di stabilire in cosa si risolva questo stato
“politico” (come lo definisce lo stesso Hobbes).
Di fatto, il Leviatano baratta la pace interna con la guerra, trasferendo quest’ultima dal piano inter-
individuale al piano inter-statale; per scongiurare il rischio della guerra civile, Hobbes deve
trasferire il conflitto al di fuori dei confini dello stato, sicchè, in ambito politico-internazionale,
continua a sussistere lo stato di natura 42
.
È una lezione che Hegel non ha mancato di fare sua, sia pure in versione idealistica, quando, nella
Filosofia del Diritto, afferma: “anche se un certo numero di Stati si costituisce a famiglia,
quest’unione, in quanto individualità, deve crearsi un’antitesi e generare un nemico . . . . e così la
condotta internazionale, in base a questa, si modifica in una situazione in cui, peraltro, ciò che
domina è il reciproco arrecamento di danni. Il rapporto di Stati e Stati è vacillante e non esiste
pretore che lo componga. Il più elevato pretore è, unicamente, lo spirito universale, che è in sé e per
sé: lo spirito del mondo” 43
.
Il vecchio Aristotele, che si era voluto cacciare dalla finestra, alla fine rientra dalla porta principale:
lo stato politico altro non è, in definitiva, che lo stato di natura, in cui la guerra non avviene tra
animali solitari, ma tra animali “politici”, sociali, che si riuniscono in stati contrapposti 44
. La
differenza è che mentre per Aristotele l’uomo è un animale “politico” per vocazione, per Hobbes lo
è per necessità.
Si potrebbe essere tentati di dire che, come in Clausewitz, anche in Hobbes assistiamo ad un
superamento della dialettica tra guerra e politica; e così è, ma la soluzione del filosofo inglese è
diametralmente opposta a quella che abbiamo visto nel generale prussiano. Hobbes, al contrario di
Clausewitz, non cerca mai il superamento in termini di consustanzialità, ma sempre e soltanto in
termini di continuazione. Il diritto naturale rappresenta lo sfondo su cui si stagliano le leggi naturali;
queste possono arginarlo, attenuarne i toni, ma non possono mai contraddirlo.
40
Op. cit., pagg. 151 – 152.
41
Dico formalizzata , perché qualcuno potrebbe obiettare che anche nello stato di
natura vige la politica; una politica regolata non da norme scritte nei codici, ma
dal diritto naturale.
42
L’anarchia internazionale, secondo la dottrina del realismo politico.
43
Incontreremo una dinamica simile più avanti, nella Seconda Parte di questo
lavoro, quando affronteremo la funzione che la guerra esterna svolge nella società
dei Nuer.
44
La socialità della guerra è un tema su cui insiste spesso lo stesso Clausewitz.
22
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La risoluzione della dialettica in chiave bellicistica proposta da Hobbes si contrappone a quella
proposta da Clausewitz - che è invece politica – perché i loro presupposti si trovano agli antipodi. In
Hobbes è la guerra che genera la politica; la guerra è l’embrione in cui l’individuo adulto, la
politica, riconosce il suo patrimonio genetico; lo stato di natura è il paradigma e lo stato politico la
sua forma applicativa.
Ma c’è una differenza macroscopica che, alla luce del mio criterio d’indagine, emerge tra questi due
pensatori: mentre nel sistema di assi cartesiani, che avevamo adottato per interpretare la teoria di
Clausewitz, la politica costituisce un asse del sistema stesso – assumendo pertanto una valenza
strutturale -, nel sistema di assi costruito per la teoria di Hobbes, la politica rappresenta solo un
punto del piano definito dagli assi, un punto incontrato dal vettore lungo la sua traiettoria, definita
dai punti precedenti – rappresenta così solo la conseguenza di istanze strutturali pregresse.
Se lo stato politico si configura pertanto come la continuazione “terapeutica” dello stato di natura, la
politica altro non è se non la continuazione della guerra con altri mezzi.
§.3. Guerra e politica: i due volti del conflitto.
Abbiamo visto, nei due paragrafi precedenti, come l’analisi del rapporto guerra-politica, e i tentativi
di superare l’opposizione dialettica che tradizionalmente le vede contrapposte, si siano risolti nella
considerazione che una sia la continuazione dell’altra , ovvero nel ridurre l’una all’altra.
Esistono, però, a mio avviso, altre due strade che portano al superamento di questa dialettica:
1) rintracciare un fenomeno empirico in cui sia impossibile definire il rapporto guerra-politica in
termini di mera continuazione o riduzione di una all’altra; 2) adottare quella procedura
epistemologica che più di ogni altra contraddistingue il pensiero filosofico dalle altre forme di
conoscenza (e che lo stesso Clausewitz sembrava aver adottato quando identificava, al di là delle
diverse grammatiche, un’unica logica sottesa alla guerra e alla politica): l’astrazione.
Dal momento che le due strade sono perfettamente compatibili, ed anzi si corroborano a vicenda,
converrà percorrerle entrambe.
Visto che l’approccio al nostro oggetto d’indagine è epistemologico, e visto che i risultati di un
processo di astrazione rappresentano il punto di arrivo dell’indagine, in relazione al livello di
astrazione a cui ci si muove, inizieremo con l’analisi del dato empirico, per poi ricondurlo e
rileggerlo alla luce della formulazione astratta.
In genere si è soliti considerare la guerra e la politica come termini antitetici; in quest’ottica la
guerra è il regno della violenza, mentre la politica troverebbe il suo terreno di coltura nella pace. È
anche alla luce di questo principio superficiale che si tende a considerarle in termini di alternanza e
di continuazione sia ontologica che cronologica, visto che non sembrano poter coesistere.
23
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Eppure la storia ci dimostra che questo semplice schema non è sempre applicabile: mi riferisco a
tutte quelle forme di conflittualità, come la guerra non-convenzionale, la guerra psicologica, la
propaganda, il terrorismo, che difficilmente sono riconducibili ad uno solo dei due termini, e che si
sarebbe tentati di confinare in una sorta di terra di nessuno.
Consideriamo quello straordinario esempio di strategia “stabilizzante” che è la strategia della
tensione. Il principio base della strategia della tensione prevede che in particolari momenti di crisi
di una nazione, in concomitanza con il rischio che il governo possa finire in mano alle forze di
opposizione, si debbano colpire (leggi “eliminare”) particolari categorie di persone - ivi compresa la
gente comune – in maniera tale da creare nella popolazione uno stato di tensione, quando non di
vero e proprio terrore, che induce la collettività a raccogliersi intorno alla classe dirigente e a
sostenerla, invece di abbatterla.
Prendiamo, a puro titolo di esempio, il caso di una bomba che esplode in una stazione ferroviaria,
provocando decine di morti. Come dovremmo considerare questo evento: un atto politico o un atto
di guerra? Si potrebbe rispondere – e a ragione – che si tratta di un atto criminale; ma anche alla
luce di questa considerazione, la domanda può cambiare formulazione, ma non sostanza: chi ha
messo la bomba (e soprattutto chi l’ha commissionata) deve essere considerato un criminale politico
o un criminale di guerra ?
Stando a quanto sostiene Clausewitz - secondo il quale anche il semplice invio di pattuglie può
essere ricondotto ad attività politica – si tratta di un atto politico; ma dobbiamo ammettere che ci
troviamo di fronte ad una attività politica ben diversa da quella che siamo soliti constatare, ad
esempio, durante una trattativa tra le parti sociali sul costo di lavoro.
Se invece consideriamo la bomba come fattore discriminante, dovremmo concludere che si tratta di
un’azione di guerra; ma si tratterebbe certamente di una condotta bellica a dir poco eterodossa, dal
momento che né gli autori né le vittime dell’attentato sono militari (gli autori, al più, potrebbero
ricondursi a strutture paramilitari occulte).
Questa efficacissima “tecnica di persuasione” collettiva è fortemente evocativa delle
argomentazioni svolte da Carl Schmitt in un saggio del 1938. Partendo dalla critica di quelle
posizioni semplicistiche che, assumendo come parametro la pace, considerano la guerra una non-
pace, e assumendo invece la guerra, considerano la pace una non-guerra, egli si chiede se sia
proprio vera la massima di Cicerone: “Inter pacem et bellum nihil est medium”. La risposta non si
fa attendere: “Si tratterebbe naturalmente di una abnormità, ma esistono anche situazioni abnormi.
Di fatto oggi esiste una situazione intermedia abnorme del genere fra guerra e pace, nella quale i
due termini sembrano mischiati fra loro […] l’estensione dell’idea di guerra anche a manifestazioni
non militari (economiche, propagandistiche ecc.) di ostilità. Quelle imposizioni di pace miravano
infatti a fare della pace una “prosecuzione della guerra con altri mezzi ”. Essi hanno spinto così
24
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lontano il concetto di nemico che in tal modo è stata superata non solo la distinzione fra combattenti
e non combattenti, ma anche quella tra guerra e pace […]. In una simile situazione intermedia fra
guerra e pace cade ogni ragionevole senso di una determinazione di uno dei due concetti in base
all’altro, della pace in base alla guerra o della guerra in base alla pace”.45
È sorprendente come l’analisi schmittiana sull’impossibilità – o la non volontà – di distinguere i
combattenti dai non combattenti, conseguente alla indeterminatezza che può sussistere tra pace e
guerra, sia efficace per definire la condizione delle vittime di una strage terroristica.
Ma l’origine di questa indeterminatezza tra guerra e pace può essere rintracciata anche in un ambito
meta-storico. Infatti, dal momento che la scelta della guerra o della pace come parametro è
puramente arbitraria (“un bastone a due versi”, che si può impugnare per un capo o per un altro)
“[…] Tutti i tentativi di dare una definizione della guerra devono allora concludersi, nei migliori dei
casi, in un decisionismo del tutto soggettivistico e volontaristico: la guerra sussiste quando un
partito che diventa attivo vuole la guerra […]. Ma cosa significa ciò per il nostro problema del
rapporto fra guerra e pace? Mostra che l’ostilità, l’animus hostilis, è diventato il concetto primario;
e ciò ha, nell’attuale situazione intermedia tra guerra e pace, una portata del tutto diversa dalle
precedenti “teorie soggettive” o “fondate sulla volontà” del concetto di guerra”46
.
Questo ci permette di definire meglio il concetto di “stato di guerra”, con cui Schmitt apre il suo
saggio.
Possiamo distinguere la “guerra come azione” e la “guerra come stato”. Ciò che distingue la guerra
come stato dalla guerra come azione è l’esistenza del nemico anche in assenza di combattimenti:
“Bellum manet, pugna cessat”. Qui, manifestamente, l’ostilità (la presenza del nemico) è
presupposto dello stato di guerra”47
.
Come si vede, l’analisi di Schmitt mette in risalto come la conflittualità possa esprimersi attraverso
forme altre rispetto all’ortodossia militare: “Per coloro che possono imporre la loro volontà e
piegare la volontà dell’avversario con strumenti di coazione e di dominio extramilitari, ad esempio
economici, è un gioco da ragazzi evitare la guerra militare vecchio stile, e a loro volta coloro che
procedono con azione militare hanno solo bisogno di far presente in modo sufficientemente
energico che sono sprovvisti di qualsiasi volontà di guerra, di ogni animus belligerandi”. 48
La
conflittualità, in quest’ottica, sta facendo un salto di qualità: l’emancipazione dal monopolio
militare le apre nuovi scenari e nuovi campi d’azione; infatti, i concetti di animus hostilis e di stato
di guerra ci forniscono le coordinate per definire, o meglio, ri-definire, un concetto che, come
45
Cfr. Carl Schmitt, Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di
nemico, in Le categorie del politico, Bologna, 1972, pagg. 198-199.
46
Op.cit. pagg. 199-200.
47
Op.cit., pag. 193.
48
Op. cit., pag. 101.
25
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abbiamo visto nel primo paragrafo, era molto caro già a Clausewitz: il concetto di guerra assoluta o
“guerra totale”. E, fatto singolare, la “guerra totale” di Schmitt ha una connotazione più
marcatamente politica rispetto a quella di Clausewitz, che invece la identificava con la
squisitamente militare guerra di sterminio: “La cosiddetta guerra totale supera la distinzione fra
combattenti e non combattenti e, accanto alla guerra militare, ne conosce anche una non militare
(guerra economica, di propaganda e così via), sempre come sbocco dell’ostilità. Il superamento
della distinzione fra combattenti e non combattenti è però qui di tipo dialettico (in senso hegeliano):
di conseguenza esso non significa certamente che coloro che prima non erano combattenti si siano
ora semplicemente trasformati in combattenti di vecchio stile. È invece vero che sono mutati
entrambi i termini della questione e che la guerra viene ora condotta su un nuovo, più solido
terreno, come attuazione non più semplicemente militare di ostilità. La sua totalizzazione consiste
nel fatto che anche settori extramilitari (l’economia, la propaganda, le energie psichiche e morali dei
non combattenti) vengono coinvolti nella contrapposizione di ostilità. Il superamento del dato
puramente militare comporta non soltanto un ampliamento quantitativo, ma anche un rafforzamento
qualitativo; esso non significa perciò un’attenuazione, bensì un’intensificazione dell’ostilità. Con la
semplice possibilità di un simile aumento di intensità, anche i concetti di amico e nemico tornano da
sé nuovamente politici e si liberano, anche dove il loro carattere politico era completamente
sbiadito, dalla sfera delle argomentazioni private e psicologiche”49
.
Le parole di Schmitt sono di una sconcertante attualità.
Due sono le forme che, in età contemporanea, la guerra totale (sia nell’accezione clausewitziana
che schmittiana del termine) può assumere: la guerra nucleare e il terrorismo politico, di cui la
strategia della tensione rappresenta la versione più “conservatrice” (dal momento che tende a
“conservare” il potere nelle mani di chi già lo detiene).
Un punto di vista fenomenologico ci presenterebbe queste due forme di conflittualità
diametralmente opposte; ma se facciamo astrazione dall’evidenza, ci accorgiamo che condividono
due denominatori comuni: 1) l’indeterminatezza nella selezione delle vittime: un missile
termonucleare su una città o una bomba al tritolo in una stazione uccidono indistintamente chiunque
si trovi nel loro raggio d’azione; la differenza è solo di carattere quantitativo in relazione al
potenziale distruttivo; 2) il carattere eminentemente politico che le informa: la strategia nucleare ha
rilanciato la politica anziché congelarla (vedi il primo paragrafo); quanto alla valenza politica della
strategia della tensione, questa è sotto gli occhi di tutti: il mantenimento del potere da parte di una
fazione, a scapito della fazione opposta. La strategia della tensione, pertanto, dati i parametri della
guerra e della politica, lungi dal trovarsi nella terra di nessuno, si trova nella terra di entrambe.
49
Op.cit., pagg. 201-202.
26
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L’immanenza della conflittualità al di là dello scontro militare, e la “comproprietà” che la
conflittualità stessa presenta rispetto alla guerra e alla politica, costituiscono il trampolino da cui
ormai possiamo spiccare quel salto di astrazione di cui parlavo all’inizio di questo paragrafo .
Al di là delle contingenze storiche e delle differenze fenomeniche, un comune denominatore
soggiace alla guerra e alla politica : il conflitto.
Dalle analisi di Clausewitz, Hobbes, Hegel e Schmitt emerge la valenza strutturale che il conflitto
assume nella storia; da concetti come ostilità e guerra totale si evince la sua ineliminabilità .
Il conflitto può presentarsi nella sua forma mediata, con la politica, o immediata, con la guerra; la
mediazione operata dalla politica tuttavia può spostare e diluire il conflitto, ma non può mai
eliminarlo.
Il conflitto si estende in tutta la fantasmagoria delle sue tonalità, dalla pace - in apparenza – più
serena alla guerra assoluta, senza mai raggiungere però i suoi estremi: la totale assenza di
conflittualità infatti apparterrebbe soltanto ad una mitica “età dell’oro”, e si collocherebbe pertanto
al di fuori della storia; la guerra assoluta di sterminio su scala planetaria invece rappresenterebbe la
fine della storia, non nel senso in cui questa espressione viene usata da Fukujama, ma nel senso che
questa “tragicommedia “ che è la vicenda umana finirebbe per mancanza di attori.
Dall’indagine che seguirà emergerà la dimensione storica e meta-storica del conflitto .
L’obbiettivo dell’analisi svolta fin qui è dimostrare l’inconsistenza dell’opposizione dialettica tra
guerra e politica; al contrario, esse partecipano di una stessa natura.
Nell’ottica in cui ho affrontato il rapporto guerra-politica, continuare a chiedersi quale delle due sia
la continuazione dell’altra – sia da un punto di vista storico che ontologico- rappresenterebbe
soltanto un esercizio speculativo: lungi dall’inseguirsi a vicenda, per dirla con Clausewitz,
rispondono entrambe ad una stessa logica: il conflitto.
Guerra e politica si configurano pertanto come due facce di una stessa medaglia, e questa medaglia
è il conflitto. Come una moneta, possiamo lanciarla in aria, e una volta caduta a terra potrebbe
presentarci la faccia della politica. Potremmo rilanciarla, e questa volta potrebbe presentarci la
faccia della guerra. Potremmo rilanciarla ancora, e constatare che può rimanere addirittura in
equilibrio, come nel caso della strategia della tensione. Ma non potremo mai farne a meno, perché è
con questa moneta che paghiamo il prezzo della storia.
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CAPITOLO II
GUERRA E M ORAL E
§.1. La guerra tra giustizia e opportunità.
Due sono, a mio avviso, i criteri con cui il concetto di giustizia può essere messo in rapporto
con la guerra: intrinseco ed estrinseco.
Secondo il criterio intrinseco, i valori di giustizia della guerra vanno cercati nella guerra in
sé; secondo il criterio estrinseco, vanno cercati negli obiettivi che, attraverso la guerra, ci si propone
di conseguire (gli stessi criteri valgono anche per la valutazione dei mezzi che si usano in guerra).
Norberto Bobbio ha proposto una suddivisione simile in relazione alle teorie della giustificazione
delle guerre: le teorie del primo gruppo giustificano tutte le guerre, le teorie del secondo gruppo le
condannano tutte, le teorie del terzo si riservano di esprimere giudizi se non in rapporto alle cause
della guerra. Le prime teorie possono essere definite belliciste, le seconde coincidono con il
pacifismo attivo, le ultime costituiscono la dottrina della guerra giusta50
. Stando alla mia
ripartizione, i primi due gruppi di teorie rispondono ad un criterio intrinseco di giustizia, l’ultimo
gruppo ad un criterio estrinseco.
Questa distinzione corrisponde a quella operata da Thomas Nagel tra le categorie utilitariste
e assolutiste: “L’utilitarismo assegna un primato all’interesse per quello che accadrà. L’assolutismo
assegna un primato all’interesse per quello che si fa. Il conflitto tra essi si produce perché le
alternative che affrontiamo sono raramente soltanto scelte tra risultati totali: sono anche scelte tra
linee di condotta o misure alternative da prendere. Quando una delle scelte consiste nel fare cose
terribili a un’altra persona il problema è fondamentalmente alterato; non si tratta più semplicemente
della questione di quale risultato sarebbe peggiore”.51
Queste categorie sono perfettamente applicabili anche alla guerra.
La posizione che Nagel assume nei confronti di queste teorie non è netta, e non è scevra, per sua
stessa ammissione, da una certa ambiguità. Egli si dichiara scettico sulla possibilità di poter
scegliere in maniera univoca quale delle due sposare. Vorrebbe abbracciare la posizione assolutista,
ma avverte subito il rischio di indifendibilità dell’assolutismo di fronte ad alcune situazioni
concrete; pertanto, quella che egli tenta , dell’assolutismo, è una difesa “abbastanza ristretta”52
.
50
Cfr. Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna,
1984, pag. 57.
51
Cfr. Thomas Nagel, Guerra e massacro, in Questioni mortali, Milano, 1986, pag.
58
52
Op.cit., pag. 60.
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Nagel prende spunto dalle circostanze – tragicamente inevitabili, quando non
deliberatamente provocate, nella guerra moderna – in cui rimangono uccisi dei civili, e che egli
definisce, con una formula che oggi riscuote molto successo presso i portavoce militari, “effetti
collaterali”.53
“Sarebbe anche possibile adottare una posizione deontologica meno rigorosa
dell’assolutismo, senza cadere nell’utilitarismo. Ci sono due modi in cui qualcuno potrebbe
riconoscere la rilevanza morale della distinzione tra uccisioni deliberate e non deliberate, senza
essere un assolutista. Uno sarebbe quello di considerare l’assassinio come una voce particolarmente
negativa nel catalogo dei mali, molto più negativa di una morte accidentale o di un assassinio non
deliberato. Ma l’altro sarebbe quello di affermare che l’uccisione deliberata di un innocente è
inammissibile a meno che costituisca il solo modo per prevenire qualche male molto grave (per
esempio, la morte di cinquanta persone innocenti). Si denomina questa la soglia a cui la proibizione
contro l’omicidio è superata. La posizione non è assolutista, naturalmente, ma non è neppure
equivalente ad assegnare all’assassinio un disvalore utilitarista eguale al disvalore della soglia”.54
Al di là dei disvalori e delle soglie, quella che Nagel sta qui riproponendo è la vecchia
politica del male minore, contro cui egli stesso si scaglia in questo saggio.
Questa ambiguità emerge anche nell’analisi che egli fa della distinzione tra combattenti e
non combattenti – una distinzione che rivestiva un ruolo fondamentale anche nell’analisi di Schmitt,
come abbiamo visto nel capitolo precedente.
Nagel afferma che in guerra, come in tutti i tipi di competizione, il nemico dovrebbe essere
colpito in maniera diretta e non indiretta; in sostanza, per indebolire il nemico, non è lecito colpire
la popolazione civile e in generale tutte quelle infrastrutture non direttamente riconducibili alla sfera
militare: “Questo modo di guardare il problema ci aiuta anche a capire l’importanza della
distinzione tra combattenti e non combattenti, e l’irrilevanza di gran parte delle critiche rivolte alla
sua incomprensibilità e significatività morale. Secondo una posizione assolutista, l’uccisione
deliberata di innocenti è omicidio, e in guerra il ruolo dell’innocente è ricoperto dai non
combattenti. Si è ritenuto che questo sollevi due tipi di problemi: primo, la difficoltà – che è facile
immaginare – di tracciare una divisione, nel conflitto moderno, tra combattenti e non combattenti;
secondo, problemi che derivano dalla connotazione della parola “innocente” […]. Dobbiamo quindi
distinguere i combattenti dai non combattenti sulla base della loro immediata capacità di minaccia o
nocività. Non sostengo che la linea di demarcazione sia netta, ma non è così difficile, come spesso
si è supposto, collocare individui da una parte o dall’altra. I bambini non sono combattenti anche se
53
Op. cit., pag. 64 . Va ricordato che questo saggio è stato scritto nel 1971, in piena
Guerra del Vietnam.
54
Op. cit., pag. 65.
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possono entrare a far parte delle forze armate, se è permesso loro di crescere. Le donne non sono
combattenti proprio perché generano bambini o offrono assistenza ai soldati. Più problematico è il
caso del personale sussidiario, in uniforme e non, dagli autisti di carri di munizioni e cuochi
dell’esercito agli operai civili in fabbriche di munizioni e agli agricoltori. Credo che essi possano
essere plausibilmente classificati applicando la condizione che la prosecuzione del conflitto deve
essere rivolta contro la causa del pericolo, e non contro ciò che è periferico. La minaccia
rappresentata da un esercito e dai suoi membri non consiste semplicemente nel fatto che sono
uomini, ma nel fatto che sono armati e stanno usando le loro armi per perseguire certi obiettivi. I
contributi alle loro armi e alla loro logistica sono contributi a questa minaccia; i contributi alla loro
semplice esistenza in quanto uomini no. È quindi sbagliato rivolgere un attacco contro coloro che
provvedono semplicemente ai bisogni dei combattenti in quanto esseri umani, come gli agricoltori e
coloro che forniscono cibo, anche se la sopravvivenza di un essere umano è una condizione
necessaria del suo efficiente funzionamento di soldato”55
.
Si ha l’impressione che quelle che Nagel sta definendo non siano le regole di una guerra ma di una
competizione sportiva. La confusione che egli fa non è tra combattenti e non combattenti, ma tra
guerra e conflittualità ordinaria. Una delle eredità più importanti della teoria di Clausewitz è che il
nemico deve essere colpito “al cuore”, qualunque esso sia: esercito, apparato politico, sistema
finanziario, morale della popolazione. L’unico parametro valido in guerra è la sopravvivenza, che
deriva dalla vittoria. È questo che sostiene Clausewitz quando teorizza l’“impiego assoluto della
forza”: “Essa è accompagnata da restrizioni insignificanti, che meritano appena di essere
menzionate, alle quali si da il nome di diritto delle genti, ma che non hanno capacità di affievolirne
l’energia . . . . Gli spiriti umanitari potrebbero immaginare che esistano metodi tecnici per disarmare
o abbattere l’avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalità autentica dell’arte
militare. Per quanto seducente ne sia l’apparenza, occorre distruggere tale errore poiché, in
questioni così pericolose come la guerra, sono appunto gli errori risultanti da bontà d’animo quelli
maggiormente perniciosi”56
.
Sono parole a cui Nagel sembra non essere più sordo quando, in una nota, ammette: “Forse
la tecnologia e l’organizzazione della guerra moderna sono tali da rendere impossibile il conflitto
come una forma accettabile di ostilità interpersonale o anche internazionale. Forse la guerra è
troppo impersonale e su larga scala per quello”57
.
Le acrobazie speculative di Nagel hanno una loro validità nella rassicurante tranquillità delle
torri d’avorio accademiche e nell’iperuranio da cui i pacifisti assolutisti sembrano giudicare il
55
Op. cit., pagg. 72 – 73.
56
Karl von Clausewitz, op.cit., pag. 20.
57
Thomas Nagel, op.cit., pag. 75.
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mondo, ma franano inevitabilmente quando scendono dalla cattedra per misurarsi con la realtà della
guerra. In nessun ambito come nella filosofia della guerra vige il principio: primum vivere, deinde
filosofare. Il suo imbarazzo appare evidente quando afferma: “Non intendo rendere la guerra
romantica. È sufficientemente utopico suggerire che quando nazioni entrano in conflitto possano
elevarsi al livello di barbarie limitata che caratterizza tipicamente un conflitto violento tra individui,
piuttosto che sguazzare nella fossa morale in cui sembrano essersi sistemate, circondate da enormi
arsenali”58
.
É un’argomentazione che trovo francamente insufficiente sia nello spessore teorico che nella
sua eventuale realizzazione pratica.
La teoria di Nagel appare ambigua sotto un duplice aspetto: 1) si avvicina per molti versi
alla gesuitica ambiguità della teologia morale cattolica (citata dallo stesso Nagel)59
, camaleontica e
manipolabile quanto basta per scagliare l’anatema contro la violenza, quando praticata dai “nemici
della fede”, ma per santificarla quando praticata “nel nome di Dio”; 2) sembra una scappatoia
sofistica per arrivare a giustificare, per altra via, quelle misure violente che l’utilitarismo ammette in
partenza.
L’inconsistenza teorica e l’inapplicabilità pratica delle posizioni assolutistiche, messe a
confronto con quelle utilitaristiche, sono tali da costringere Nagel ad ammetterle esplicitamente:
“L’assolutismo […] opera come una limitazione del ragionamento utilitarista, non come un
sostituto di esso”60
.
Non è preferibile allora, a questa “mezza misura”, la meno cerebrale ma più coerente
formulazione di Hobbes, quando risolveva la prima legge di natura nel cercare la pace, e il primo
diritto di natura nel difendersi con tutti i mezzi?61
.
In conclusione del saggio Nagel sembra riscoprire che il mondo può “anche essere un posto
cattivo”62
, e che vi è una incommensurabilità di fondo tra le teorie morali, e tra la ragione morale e
la realtà . Ma quello che Nagel, dal suo punto di vista, non riesce a vedere, è che questa
incommensurabilità può essere superata se si prendono come parametri non dei valori morali, tanto
nobili quanto opinabili, ma dei valori assoluti (non nell’ottica dell’assolutismo affrontato da Nagel)
antropologico-darwiniani, come la vita, individuale e collettiva, e la sua espressione minimale, che
è la sopravvivenza.
58
Op. cit., pag. 75.
59
Op. cit., pagg. 63 – 64 .
60
Op. cit., pag. 62.
61
Thomas Hobbes , op. cit., pag. 114.
62
Thomas Nagel, op. cit., pag. 77.
31
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È singolare che un teorico come Nagel abbracci una causa in maniera così tentennante e,
torno a dirlo, ambigua; proprio su un argomento come questo sarebbe stato auspicabile, da parte sua
più che di chiunque altro, uno sguardo da nessun luogo.
Uno sguardo da nessun luogo, o quanto meno da un luogo “altro” rispetto alle prese di
posizione precedenti, sul rapporto tra guerra e giustizia, è certamente quello di Hobbes, e questo,
per tornare alla distinzione che ho introdotto all’inizio di questo paragrafo, si verifica sia a livello
intrinseco che estrinseco.
Dal punto di vista intrinseco, Hobbes osserva come all’interno della guerra di tutti contro
tutti, nulla possa essere ingiusto: “La nozione del diritto e del torto, della giustizia e dell’ingiustizia
non v’ha luogo. Dove non esiste legge, non esiste ingiustizia. Forza e frode sono in guerra le due
virtù cardinali”63
.
Come Hobbes afferma esplicitamente, in guerra il concetto di giustizia non ha diritto di
cittadinanza. Dal momento che la giustizia serve a definire anche ciò che non è conforme ai suoi
parametri, cioè l’ingiustizia, quando tutto diventa giusto, il concetto di giustizia crolla per
“ipertrofia”; unico parametro dell’agire umano, non ha più motivo di essere applicato: in un mondo
in cui tutto è giusto, che bisogno c’è di tribunali? La totale assenza di discriminazione morale porta
alla fine della giustizia: se tutto è giusto, niente è giusto.
Dal punto di vista estrinseco, Hobbes assume quei criteri antropologico-darwiniani, o
“assoluti”, che opponevo poc’anzi allo scetticismo di Nagel, e che abbiamo già incontrato nel
secondo paragrafo del primo capitolo: la guerra è “giusta” nel momento in cui, nella lotta per la
sopravvivenza, garantisce la vita al vincitore; è “ingiusta” nel momento in cui la guerra di tutti
contro tutti mette a repentaglio la vita di ciascuno. Il fattore discriminante nell’attribuzione di valore
morale alla guerra consiste nella sua funzione adattiva.
Lo stesso schema può essere applicato all’analisi che Clausewitz svolge del rapporto guerra-
giustizia. Dal punto di vista intrinseco, abbiamo già visto come egli non ponga alcun argine
all’impiego della forza; non esistono vincoli morali nelle azioni di guerra. Questa posizione, di
fatto, lo pone molto vicino alla teoria di Hobbes.
Per quanto riguarda il punto di vista estrinseco, dobbiamo recuperare quel fattore che,
insieme alla guerra, rappresenta il cardine della teoria clausewitziana: la politica. Dalla
considerazione che la politica è “l’intelligenza della guerra”, e la guerra è il mezzo per conseguire i
suoi scopi, deriva che non si possono imputare al mezzo le colpe commesse da chi lo utilizza:
“Com’è naturale, si deve partire dal concetto che la politica concentra in sé e persegue tutti gli
interessi di governo, compresi quelli umanitari e in genere tutti quegli altri di cui si possa
63
Thomas Hobbes, op.cit., pagg. 111 – 112.
32
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razionalmente parlare. Ed in vero la politica altro non è se non una mandataria di questi vari
interessi per i loro rapporti con l’estero. Qui non ci interessa il fatto che essa possa essere male
orientata, che possa servire all’ambizione, agli interessi privati e alla vanità dei governanti, più che
ai veri interessi della nazione; giacchè in nessun caso l’arte di guerra può assumere il compito di
precettore della politica, e nel nostro studio dobbiamo considerare la politica come rappresentante
tutti gli interessi dell’intero organismo sociale […]. Non è questa influenza, bensì la politica stessa,
che bisognerebbe biasimare. Se la politica è sana, se cioè risponde allo scopo, non può agire nel suo
campo che a favore della guerra: e quando la sua influenza allontana la guerra dai suoi obbiettivi, la
ragione sta nell’errata politica seguita”.64
Le argomentazioni di Hobbes, e soprattutto di Clausewitz,
ci permettono di introdurre un concetto che era implicito già nell’analisi della teoria di Nagel: il
concetto di amoralità del mezzo. Un mezzo non ha una connotazione morale, e se proprio si vuole
dargliene una, questa gli deriva dal fine per il conseguimento del quale viene impiegato; il luogo
comune, di falsa attribuzione machiavelliana, secondo cui il fine giustifica i mezzi, ha senso se
viene letto come: è il fine, e solo il fine, che giustifica il mezzo; da che altro un mezzo può trarre la
sua giustificazione, se non dal fine per cui è impiegato?
Da quanto precede si evince la necessità di abbandonare la tradizionale distinzione tra
guerre giuste e guerre ingiuste, per adottare nuovi criteri di valutazioni. La morale, almeno
nell’accezione corrente del termine, non ha diritto di cittadinanza in guerra.
Il criterio emergente è quello dell’opportunità.
Alla consueta opposizione guerre giuste – guerre ingiuste converrà pertanto sostituire l’opposizione
guerre opportune – guerre inopportune.
È questo uno dei cardini della più amorale delle concezioni politiche: il realismo.
Converrà analizzarlo allora anche attraverso le categorie assolutistiche e utilitaristiche
introdotte da Nagel e le risposte che ad esse si possono dare tramite le categorie introdotte da Max
Weber. Vedremo pure, con Weber, se e come, all’interno del realismo, sia possibile un recupero
dell’etica.
§.2 Dal realismo all’etica. La guerra tra morale e politica in Max Weber.
Nelle opere politiche di Max Weber, di cui “La politica come professione” rappresenta forse la
sintesi (e, perché no, la “summa” in cui vengono tratte le principali conclusioni), mi pare di poter
rilevare due fili conduttori, due trame sottese, un massimo comune denominatore, se si preferisce,
su cui Weber sviluppa la dinamica del suo pensiero politico: il Realismo e l’Etica.
64
Karl von Clausewitz, op.cit., pagg. 813 – 816.
33
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Se rileggiamo le sue opere politiche alla luce di questo binomio arriveremo, come nelle pagine
finali de La politica come professione, a considerare se e come sia possibile che due approcci alla
politica così diversi (non dimentichiamo che il realismo è la concezione politica “amorale” per
antonomasia), due linee così apparentemente parallele, possano trovare un punto di convergenza, in
virtù del quale procedere su una sola nuova strada; arriveremo in sostanza a considerare se, con
Max Weber, si possa cominciare a parlare di una “etica del realismo”, ovvero, di un’autentica “etica
politica”.
Seguiamo la traccia che lo stesso Weber ci suggerisce e cominciamo col considerare che cosa egli
intenda per politica.
Partendo dal teorema di Trockij, secondo cui “ogni stato è fondato sulla forza”, Weber definisce lo
stato come “quella comunità umana che nei limiti di un determinato territorio esige per sé il
monopolio della forza fisica”65
.
La politica si configura quindi come aspirazione, o come Weber scriverà altrove, lotta66
per il
potere sia tra i vari stati che tra le classi all’interno di ogni singolo stato.
Come rileva Norberto Bobbio67
, Max Weber opera una sintesi tra la concezione dei rapporti di
potenza tra gli stati di Hegel, e quella dei rapporti di forza tra le classi di Marx – sintesi che era già
stata svolta peraltro tre secoli prima di questi due filosofi dal primo grande scienziato della politica,
che è Niccolò Machiavelli68
.
Emergono dunque i binomi stato–forza, politica–lotta, sintomi di una conflittualità strutturale nella
storia (di machiavelliana memoria) che sfocia nella Machtpolitik (politica di potenza), di cui Weber
è un strenuo sostenitore.
Raymond Aron, in un suo saggio dedicato a questo tema69
, mette in luce, tra gli altri aspetti, la
tensione nazionalistica – legata al periodo storico che stava attraversando la Germania – che
pervade questa concezione politica, quasi ne fosse la causa; sottolinea, in chiave anche polemica, il
65
Vedi La politica come professione in Il lavoro intellettuale come professione,
Einaudi, pag. 48.
66
Vedi Parlamento e Governo in Parlamento o Governo e altri scritti politici,
Einaudi, pag. 164: “…tutta la politica è, nella sua essenza, lotta”.
67
Vedi La teoria dello stato e del potere in Max Weber e l’analisi del mondo
moderno, Einaudi, pagg. 222 – 223.
68
Ritroveremo spesso l’influenza del “segretario fiorentino” sul pensiero di Weber,
influenza peraltro mai esplicitamente dichiarata, come d’abitudine, da Weber (ne
La politica come professione c’è solo un fugace riferimento al “machiavellismo” e
al Principe, che non viene svolto, tuttavia, in maniera critica), il quale con molta
parsimonia cita i suoi referenti teorici (basti considerare, a puro titolo di esempio,
che egli non cita mai Karl Marx, il quale, insieme con i cosiddetti “letterati” – sia
pure con atteggiamento intellettuale completamente diverso – è uno dei suoi idoli
polemici).
69
Vedi Max Weber e la politica di potenza in Le tappe del pensiero sociologico,
Mondatori pagg. 581 – 595.
34
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legame che Weber stabilisce tra cultura e potenza, considerando la seconda come veicolo di
propagazione della prima70
; contestualizza la Machtpolitik in una “visione darwiniana-nietzscheana
del mondo”, e a giustificazione di questa riporta quel passo di “Politische Schriften” che risuona
come il decalogo del Machtpolitiker: “non è la pace e la felicità degli uomini che dobbiamo
procurare ai nostri discendenti ma la lotta eterna per conservare ed edificare il nostro carattere
nazionale […]. I nostri discendenti, davanti alla storia, non ci renderanno responsabili in primo
luogo del genere di organizzazione economica che gli avremo lasciato in eredità, ma dell’estensione
di spazio libero che gli avremo conquistato e trasmesso. In ultima analisi, i processi di sviluppo
sono anch’essi lotte per la potenza […]. Così la ragion di stato per noi è la misura ultima dei valori,
anche nella sfera delle considerazioni economiche”. Mai del realismo politico è stata fatta una
sintesi così perfetta; Max Weber travalica i limiti della politica, per conferire ad essa una
connotazione antropologica.
Nella dinamica della formazione dello stato moderno assistiamo ad un “processo di espropriazione
politica” tale che i rappresentanti dei “ceti” (sorta di caste amministrative di notabili da cui il
sovrano spesso dipende) vengono delegittimati dall’amministrare il potere a vantaggio di un capo71
.
È durante, e in virtù, di questo processo che comincia ad emergere la figura del “politico di
professione”.
L’analisi che Weber compie di questa nuova “categoria professionale” la ritroviamo in quasi tutte le
sue opere politiche: da Diritto elettorale e democrazia a Parlamento e Governo a La politica come
professione.
Si può vivere “di” politica o “per” la politica; sebbene le due cose spesso coincidano, da questa
dicotomia derivano due diverse tipologie di professionisti: chi vive “di” politica dipende
economicamente da questa attività – il funzionario o burocrate di partito; chi vive “per” la politica
trae i suoi proventi da altre attività – da quest’ultima categoria emerge in genere il capo, il leader
carismatico, il demagogo – termine privato, da Weber, dell’accezione negativa con cui noi oggi,
comunemente, lo usiamo.
70
Me è vero anche il contrario, vedi il ruolo svolto dalla Coca-Cola e dal fast food
di Mc Donald’s nel processo di americanizzazione del mondo, eufemisticamente
definito “globalizzazione”.
71
Non si può non pensare a questo proposito, alla figura del Principe popolare di
Machiavelli, che fonda il suo potere sul popolo a discapito dell’aristocrazia, vedi
in proposito La politica come professione in Il lavoro intellettuale come
professione, Einaudi, pagg. 53 – 54.
35
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Ma che cos’è che fa del demagogo weberiano un capo politico e non un semplice trascina-popolo
ambizioso e assetato di potere? Risponde Max Weber: la dedizione a una “causa” intesa come etica
politica72
.
Ci troviamo dunque ad affrontare il secondo dei due assi portanti su cui si regge, come si era detto
in apertura di questo paragrafo, l’intera costruzione teorico-politica di Max Weber: l’etica. In
particolare, questa tematica va ben al di là della sua concezione politica, per costituire il leit motiv
della sua intera produzione intellettuale.
Weber avverte immediatamente il rischio di ambiguità che grava sulla nozione di “ethos della
politica in quanto "causa” (Sache)”, e sente la necessità di fare chiarezza. Non è un caso che usi,
come argomento chiarificatore, proprio la guerra, fenomeno che, per il suo brutale minimalismo,
ben si presta come strumento per sgombrare il campo da orpelli sovrastrutturali e, più spesso, da
giustificazioni ipocrite.
“Sgombriamo innanzitutto il terreno da una deformazione di bassa lega. L’etica può cioè assumere
in primo luogo un ufficio che moralmente è deleterio al massimo grado. Facciamo qualche esempio.
È raro che un uomo il quale si stacchi da una donna per essersi innamorato di un’altra, non senta il
bisogno di giustificarsi davanti a se stesso col dire che la prima non era più degna del suo amore o
che lo aveva ingannato, o adducendo altri “motivi” del genere. Si tratta di una scortesia con cui si
cerca di dare una indoratura di “leggittimità” al semplice fatto ineluttabile che non si ama più e che
la donna deve sopportarne le conseguenze, cosicché si accampa pure un diritto, e, oltre all’infelicità,
si cerca di addossare alla donna anche un torto. In modo identico si comporta il concorrente
fortunato in amore: il rivale deve per forza valere di meno, altrimenti non sarebbe rimasto
soccombente. Ma si ha lo stesso genere di evidenza quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il
vincitore proclama con tracotanza priva di ogni dignità: “Ho vinto perché avevo ragione”. Oppure
quando l’animo viene meno di fronte agli orrori della guerra e invece di dire francamente: “Era
troppo”, si sente il bisogno di giustificare davanti ai propri occhi la stanchezza della guerra,
sostituendovi questo sentimento: “Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa
immorale”. E così pure nel caso dei vinti. Dopo una guerra, anziché andare in cerca del “colpevole”,
con mentalità da donnicciole – laddove è stata la struttura della società a determinare la guerra -, un
atteggiamento virile e austero detta queste parole: “Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta.
Questa è cosa fatta: parliamo ora di quali conseguenze bisogna trarne in relazione agli interessi
concreti che erano in gioco, e – questo è l’essenziale – in vista della responsabilità di fronte
all’avvenire, la quale grava specialmente sul vincitore”. Tutto il resto manca di dignità e si sconta
più tardi. Una nazione perdona una lesione dei propri interessi, non l’offesa al proprio onore, meno
72
Vedi La politica come professione in Il lavoro intellettuale come professione,
36
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che mai quando questa è perpetrata con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla
luce dopo decenni attizza nuovamente l’indegno accanimento, l’odio e lo sdegno, mentre la guerra,
una volta finita, dovrebbe esser sepolta almeno sul piano morale. Ciò è possibile solo mediante
l’oggettività e la cavalleria, ma soprattutto mediante la dignità. Non mai mediante una “etica”, la
quale in realtà significa mancanza di dignità da ambo le parti. Invece di preoccuparsi di quel che
deve interessare l’uomo politico, ossia il futuro e le possibilità di fronte ad esso, quella persegue la
questione – politicamente sterile perché insolubile – della colpa commessa nel passato. Se mai ve
n’è una, questa è colpa politica73
. E inoltre l’inevitabile travisamento dell’intero problema viene
occultato da interessi crudamente materiali: gli interessi del vincitore a trarre il massimo guadagno
– morale e materiale -, le speranze del vinto di ricavar qualche vantaggio riconoscendo la propria
colpa; se vi è qualcosa di “abietto”, è appunto questo, ed è la conseguenza di quel modo di valersi
dell’“etica” come mezzo per la “soperchieria”74
.
L’analisi del tema, che conclude La politica come professione, prende le mosse dalla distinzione tra
due tipi di etica: “l’etica della convinzione”, e “l’etica della responsabilità”. L’etica della
convinzione, o etica assoluta, tipica della religione cattolica, considera la moralità di un’azione “di
per sé”, senza considerare cioè, il contesto in cui essa si svolge e soprattutto le conseguenze che da
essa derivano; come afferma Weber: “il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di
Dio”. L’etica della responsabilità, o etica delle conseguenze, valuta la moralità di un’azione in
relazione alle conseguenze che da essa derivano e al grado di responsabilità che l’agente si assume
di fronte ad esse.
Qual è l’etica da adottare in politica?
Seguiamo ancora l’argomentazione di Weber. “[…] l’etica assoluta del Vangelo. Un’etica della
mancanza di dignità – a meno che non si tratti di un santo solo allora quell’etica ha un senso e una
dignità. Altrimenti no. Infatti, laddove in conseguenza dell’etica dell’amore si comanda: “Non
resistere al male con la violenza”, il precetto che vale viceversa per il politico è il seguente: “devi
resistere al male con la violenza, altrimenti sarai responsabile se esso prevale” […]. Il pacifista che
agisca secondo il Vangelo rifiuterà di prendere le armi oppure le getterà via, come veniva
raccomandato in Germania, ritenendolo un dovere morale, allo scopo di por fine alla guerra e con
ciò a ogni guerra. Il politico dirà: “L’unico mezzo sicuro per screditare la guerra per un avvenire
entro i limiti delle nostre previsioni, sarebbe stata una pace di statu quo”. I popoli infatti si
Einaudi, pag. 104.
73
È l’ennesima conferma – come se ce ne fosse bisogno - della straordinaria abilità
della politica di “scaricare” la responsabilità dei propri fallimenti su altre
discipline: in questo caso sull’etica, in precedenza, come denunciava Clausewitz,
sulla guerra. Vedi in proposito il primo paragrafo del primo capitolo [NdR].
74
Op. cit., pagg. 104, 105, 106.
37
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sarebbero chiesti: a che scopo questa guerra? Essa sarebbe stata ridotta ad absurdum: cosa che ora
non è più possibile. Infatti, per i vincitori – o almeno per una parte di essi – la guerra è stata
politicamente proficua. E di ciò è responsabile quell’atteggiamento che ci ha reso impossibile ogni
resistenza. Ma allora – quando sarà passata l’epoca dell’avvilimento – non la guerra, bensì la pace
sarà discreditata: conseguenza, questa, dell’etica assoluta […]. Ma nemmeno con ciò il problema è
esaurito. Nessuna etica del mondo può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini “buoni” è
il più delle volte accompagnato dall’uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi e dalla
possibilità o anche dalla probabilità del concorso di altre conseguenze cattive, e nessuna etica può
determinare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifichi” i mezzi e le altre
conseguenze moralmente pericolose […]. Per la politica, il mezzo decisivo è la forza […]. Qui, su
questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l’etica della convinzione in
genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logicamente altra via che quella di rifiutare
ogni azione che operi con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logicamente. Senza dubbio, nel
mondo della realtà noi facciamo continuamente l’esperienza che il fautore dell’etica della
convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chiliastico, e che per esempio coloro i quali
hanno testè predicato di opporre “l’amore alla forza”, un istante dopo fanno appello alla forza – alla
forza ultima, la quale dovrebbe portare all’abolizione di ogni possibile forza, così come i nostri capi
militari ad ogni nuova offensiva dicevano ai soldati: “Questa è l’ultima, ci porterà alla vittoria e
quindi alla pace”. Chi segue l’etica della convinzione non sopporta l’irrazionalismo etico del
mondo. Egli è un “razionalista” cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ricorderà
l’episodio del Grande Inquisitore dove il problema è discusso con estrema acutezza. Non è possibile
ridurre a un comune denominatore l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità, o
decretare, sul piano morale, quale fine debba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia
fatta qualche concessione in generale a tale principio […]. È il mezzo specifico della violenza
legittima, semplicemente, come tale, messo a disposizione delle associazioni umane, quello che
determina la particolarità di ogni problema etico della politica […]. Chiunque scenda a parti con
tale mezzo, per qualsiasi fine – e nessun politico può farne a meno – si espone alle specifiche
conseguenze che ne derivano. Ciò vale in modo particolare per chi combatta per una fede, tanto
religiosa quanto rivoluzionaria […]. Chi voglia occuparsi di politica in generale, ma specialmente il
politico di professione, deve esser consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità
di fronte a ciò che egli può divenire per effetto di quelli […]. Invero, la politica si fa con il cervello
ma non con esso solamente. In ciò l’etica della convinzione ha pienamente ragione. Ma se si debba
38
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seguire l’etica della convinzione o quella della responsabilità, e quando l’una o quando l’altra,
nessuno è in grado di determinarlo”75
.
Come si vede, anche questa volta Max Weber si trova di fronte ad una scelta tra due opzioni
antitetiche, e neanche questa volta si astiene dal tentare una difficile congiunzione. E in effetti
questo problema è antico come la filosofia politica; emerso in tutta la sua drammaticità nell’opera di
Machiavelli, nonostante i tentativi di risoluzione da parte di quest’ultimo, il risultato era rimasto il
medesimo: la assoluta incommensurabilità tra azione etica e azione politica; chiunque intraprenda la
strada della politica per percorrerla fino in fondo, deve sacrificare l’etica (intesa come ethos
morale); con le parole di Weber: “chi si immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della
violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto
il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo
capisce, in politica non è che un fanciullo”76
. Appare evidente da queste parole per quale delle due
etiche Max Weber propenda, e appare anche evidente come il pensiero di Machiavelli sia quanto
mai presente nelle sue argomentazioni. Anche per Weber lo strumento, il mezzo per eccellenza
della politica è la forza, e alla luce di questo teorema si capisce come l’interpretazione gesuitica del
pensiero di Machiavelli, sintetizzata nel luogo comune: il fine giustifica i mezzi, si risolva nel più
laico e razionale: il fine necessita di determinati mezzi, e si capisce anche come Weber non possa
non fare sua la conclusione a cui giunge il segretario fiorentino. Per entrambi, l’uomo (politico in
particolare) non fa il male perché cattivo, ma perché, costretto dalla realtà e dalla storia, non può
non farlo.
Anche le invettive di Weber contro quei “modelli di carità e bontà […] nati a Nazareth o ad Assisi”
che “hanno operato in questo mondo” pur mantenendo un’ottica ultramondana, ricordano fin troppo
esplicitamente gli strali lanciati da Machiavelli contro quegli utopisti (“letterati” avrebbe detto forse
Weber) che non riescono a distinguere il mondo come è da come vorrebbero che fosse.
L’utilizzo della forza per il raggiungimento di un obiettivo e il patto con le potenze demoniache che
da esso deriva sono dunque una condizione imprescindibile per l’uomo politico; ed è alla luce di
queste considerazioni che torniamo ad allacciarci al tema del realismo e della potenza che avevamo
considerato nelle prime pagine. Per Weber, come per Machiavelli, la priorità assoluta è la
sopravvivenza dello stato; la potenza dello stato è la conditio sine qua non perché questa necessità
venga soddisfatta. È in questa ottica che si comprende come questi due teorici prediligano lo stato
repubblicano: non perché esso sia moralmente più giusto, ma perché politicamente più potente77
.
75
Op. cit., pagg. 107-118
76
Op. cit., pagg. 112-113.
77
Consente infatti una miglior selezione dei capi. A questo proposito Weber, in
Parlamento e Governo, cita l’esempio del sistema parlamentare inglese, che ha
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  • 3. 3 www.sintesidialettica.it IN D I C E - Introduzione .................................................................................... …..6 PARTE PRIMA LA GUERRA TRA POLITICA E MORALE SI VIS PACEM, PARA BELLUM CAPIT OL O I GUER RA E P OLITI CA §.1 La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi ........................................................................................ 9 §.2 La politica non è che la continuazione della guerra con altri mezzi .................................................................................. 18 §.3 Guerra e politica: i due volti del conflitto............................................. 22 CAPIT OL O II GUER RA E M OR ALE §.1 La guerra tra “giustizia” e “opportunità” .............................................. 27 §.2 Dal realismo all’etica. La guerra nel pensiero politico di Max Weber ................................................................................... 32 PARTE SECONDA
  • 4. 4 www.sintesidialettica.it TE ORIA GE NE RALE DEL LA GUE RRA. UN AP PROCCIO EPIST EM OL OGICO HOMO P UGNANS CAPIT OL O I TRA FILOS OFI A E SCIE NZ A: VERS O UNA EP ISTEM OL OGI A DELLA GUERR A .................................................. 41 CAPIT OL O II LINEAME NTI DI EPIST EMOLOGIA DELL A GUERR A §.1 Assiomatica della guerra: Jomini ......................................................... 45 §.2 Empirismo razionalistico: Clausewitz................................................... 47 CAPIT OL O III PERCHÉ LA GUE RR A? LA GUER RA VIST A AL MACR OSC OPI O DEL L’ANTR OPOL OGIA........................................................ 51 §.1 Perché la guerra – che cosa è la guerra: due chiavi di lettura. La guerra tra natura, cultura e struttura .................................. 53 §.2 Perché la guerra? La natura ................................................................ 54 §.3 La cultura ....................................................................................... 57 §.4 Casi clinici ...................................................................................... 63
  • 5. 5 www.sintesidialettica.it CAPIT OL O IV CHE C OS A È LA GUERR A? MET AFISI CA DEL CONF LITT O §.1 Ontologia della guerra ....................................................................... 68 §.2 La struttura: i Nuer ........................................................................... 71 PARTE TE RZ A CONCL USIONI MORS TUA, VITA MEA CAPITOLOI LA META-STR UTT UR A: IL GI OC O DI OZIER I ................................................... 77 CAPITOLOII TRA LA VIT A E LA M OR TE: IL CONFLIT TO ...................................................... 79 - Bibliografia ........................................................................................ 82
  • 6. 6 www.sintesidialettica.it INTRODUZIONE Sebbene l’espressione filosofia della guerra sia in circolazione da vari decenni presso chi si occupa di guerra non solo da un punto di vista strettamente tecnico-militare, di fatto non c’è stata una istituzionalizzazione, come è avvenuto per la filosofia della scienza, del linguaggio, della storia. La filosofia della guerra sembra esistere soltanto in via ufficiosa. Se l’ufficializzazione della filosofia della guerra è ancora di là da venire, con l’epistemologia della guerra siamo alla latitanza più assoluta; al di là del Libro Secondo del Della guerra di Clausewitz – peraltro il meno conosciuto di tutto il trattato – chiunque voglia occuparsi di epistemologia della guerra deve “lavorare in proprio”. Dal momento che non esiste un corpus definito di opere sulla filosofia della guerra, questa va “ricavata” a partire da altri settori di indagine. Primo tra tutti, la politica. Partiamo dal quesito se sia la guerra la continuazione della politica con altri mezzi, o viceversa. Per definire il rapporto tra guerra e politica possiamo ricorrere alla metafora della chirurgia e del suo rapporto con la medicina: quale delle due è la continuazione dell’altra? Poiché qui non ci occupiamo né di politica, nell’accezione corrente del termine, né di medicina, per sciogliere il dilemma converrà adottare quello strumento squisitamente filosofico che è l’astrazione: come la medicina e la chirurgia sono due applicazioni diverse della “terapia” (più rispettosa dell’integrità del paziente la prima, più invasiva la seconda), così la guerra e la politica sono due espressioni di una stessa realtà soggiacente: il conflitto. Per usare i termini propri della mineralogia, si potrebbe dire che la politica sta all’aggregato come la guerra sta al cristallo. L’abbinamento guerra-chirurgia ha dei precedenti. In relazione, per esempio, ai conflitti più recenti si sente parlare sempre più spesso di “armi chirurgiche”, come i missili a testata intelligente, a guida satellitare e così via. Perfettamente consapevole del fatto che l’obiettivo centrato da un’arma chirurgica ricorda più una macelleria a cielo aperto che una sala operatoria, e che i peggiori criminali che hanno insanguinato la storia hanno spesso giustificato i loro crimini come operazioni chirurgiche su vasta scala, ritengo tuttavia che l’abuso intenzionale e interessato di questa metafora non ne infirmi la validità teorica. Un altro tema caro a chi si occupa di guerra in maniera periferica è il suo rapporto con la morale; e solitamente il problema viene risolto con una criminalizzazione della guerra. Uno dei compiti della mia analisi è dimostrare che si può parlare di guerra senza parlare di morale, e senza per questo dover chiedere scusa.
  • 7. 7 www.sintesidialettica.it Per quanto riguarda l’epistemologia della guerra, questa è tutta da costruire. Clausewitz ha lanciato il sasso nello stagno, ma la sua voce, almeno in questo settore, è rimasta inascoltata. Tra le varie chiavi di lettura con cui è possibile avvicinarsi alla guerra da un punto di vista epistemologico, quella eziologica e quella ontologica sono, a mio avviso, le più idonee a rendere conto per un verso della complessità, e per l’altro, dell’intima natura del fenomeno. I risultati della loro applicazione potranno fornire lo spunto per nuove riflessioni. Potrà sorprendere che nel corso di questo lavoro si incontrino pochissimi riferimenti alle guerre che solitamente si studiano sui libri di storia. In effetti, questi riferimenti servono esclusivamente a suffragare delle considerazioni astratte. Il compito di questa analisi non è comprendere la singola guerra, ma fornire degli strumenti per comprenderle tutte. L’oggetto di questa indagine non è dunque una guerra, ma la guerra.
  • 8. 8 www.sintesidialettica.it PARTE PRIMA LA GUERRA TRA POLITICA E MORALE SI VIS PACEM, PARA BELLUM
  • 9. 9 www.sintesidialettica.it CAPITOL O I GUERRA E P OL ITICA §.1. La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. Di tutte le persone che, a vario titolo, in occasione di eventi bellici, citano questa massima, quasi fosse uno slogan, poche sanno che l’autore è Karl von Clausewitz, e ancora meno sono quelle che conoscono, o immaginano, la portata teorica e le conseguenze pratiche che questa frase comporta. Vediamo allora di entrare nel merito della questione considerando l’analisi che lo stesso Clausewitz fa al riguardo. Clausewitz è ben consapevole della complementarità che lega guerra e politica e avverte subito la pochezza, l’inconsistenza teorica di quelle posizioni che tradizionalmente consideravano – e considerano tuttora – questi due termini in opposizione dialettica; frasi del tipo: “la guerra interviene allorquando la politica fallisce”, o “la politica tace, ora la parola passa alle armi”, infarciscono la prosa di giornalisti, saggisti, opinionisti e quant’altri che, per professione o per vocazione – ma accomunati sempre dalla medesima incompetenza e ignoranza – pontificano sull’intima natura della politica, della guerra, e dei rapporti che tra esse intercorrono. La posizione di Clausewitz al riguardo è quanto mai esplicita: “[…] ordinariamente si pensa che con essa [la guerra] venga a cessare il lavoro politico, e che subentri uno stato di cose del tutto diverso, regolato soltanto da proprie leggi. Affermiamo invece che la guerra non è se non la continuazione del lavoro politico, al quale si frammischiano altri mezzi. Diciamo: si frammischiano altri mezzi per affermare in pari tempo che il lavoro politico non cessa per effetto della guerra, non si trasforma in una cosa completamente diversa, ma continua a svolgersi nella sua essenza, qualunque sia la forma dei mezzi di cui si vale […] L’interruzione delle note diplomatiche fa mai cessare i rapporti politici tra le varie nazioni e i vari governi?”1 . La massima di Clausewitz, che costituisce il titolo di questo paragrafo, e che rappresenta in qualche modo la sintesi, la summa del suo pensiero in proposito, stabilisce esplicitamente una priorità teorica (ma, come vedremo più avanti, anche pratica) della politica sulla guerra, e quindi una subordinazione, ribadita nel corso di tutta l’opera, della seconda alla prima. Anche il brano testé riportato si allinea su queste posizioni, ma sembra altresì suggerire un rapporto che va al di là della mera relazione di contiguità e continuità tra guerra e politica; termini come frammischiare, svolgersi nella sua essenza lasciano trasparire, dietro una apparente diversità, o alterità fenomenica, una sorta di consustanzialità, una medesima tipologia sottesa tra guerra e politica. In questa operazione di superamento dell’opposizione dialettica tra guerra e politica, Clausewitz di fatto
  • 10. 10 www.sintesidialettica.it oscilla tra la subordinazione–prosecuzione dell’una rispetto all’altra, e l’identità che le accomuna; va anche osservato che queste due relazioni non sono necessariamente in contraddizione: la stessa frase “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”2 implica, al di là, o al di sotto, della continuazione, una identità di fondo. L’analisi che Clausewitz fa del rapporto tra guerra e politica parte dalla considerazione della guerra come ente autonomo, dotato di propri scopi e propri mezzi. La guerra, considerata, in quest’ottica, “di per sè”, si configura come un binomio fine-mezzo: “la guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”3 . Potremmo rappresentare questo binomio come un sistema di assi cartesiani, in cui considerare, arbitrariamente, l’asse delle ascisse come il fine, e l’asse delle ordinate come il mezzo, dal momento che, se lo scopo è “imporre” la nostra volontà al nemico, non c’è altro mezzo che l’uso della forza4 . Per raggiungere questo fine, la forza deve conseguire un obiettivo più immediato: porre il nemico nell’impossibilità di difendersi; è questo, “per definizione”, come afferma Clausewitz, “il vero obiettivo dell’atto di guerra”, lo scopo dell’atto di forza, all’uso della quale non c’è limite. Dal fatto che entrambi i contendenti cercano d’imporsi reciprocamente la propria volontà tramite un uso illimitato della forza, ne consegue una tendenza “all’estremo”, una tensione intrinseca alla guerra che la conduce verso la sua forma assoluta, che si concretizza nella cosiddetta “guerra di sterminio” o di annientamento. È questo il tipo di guerra volta a “ridurre il nemico all’impotenza”5 , ovvero ad “abbatterlo”. In quest’ottica, gli assi cartesiani che avevamo considerato poc’anzi, tendono ad avvicinarsi fino a congiungersi per costituire un unico vettore che conduce all’annientamento reciproco dei due contendenti. Ma quante sono le guerre di questo genere che si possono contare nella storia? In effetti, quella che Clausewitz sta considerando è la guerra nella sua dimensione “astratta”, totalmente scevra dal contesto storico e dall’obiettivo politico che la determina; e anzi la guerra considera quest’ultimo come “altro” da sé, e lo respinge come estraneo alla sua natura. È difficile rintracciare nella storia guerre di annientamento, in cui i contendenti mirino al reciproco sterminio. La ragione di questa difficoltà consiste nel fatto che il sistema di assi cartesiani che abbiamo considerato, e che definisce uno spazio “bidimensionale”, seppure valido a rappresentare la guerra nella sua dimensione astratta, risulta insufficiente per rappresentare la guerra reale, storicamente 1 Karl von Clausewitz, Vom Kriege, trad. it. Della Guerra, Roma, 1970, p ag. 811. 2 Il corsivo è mio. 3 Op. cit., pag. 19. 4 Si tratta, come Clausew itz afferma esplicitamente, della forza fisica, “poichè all’infuori dell’ idea d i S tato e di Legge non v i è forza mo rale”, op. cit., pag . 20.
  • 11. 11 www.sintesidialettica.it riscontrabile e concretamente combattuta, che per sua natura si muove in uno spazio “tridimensionale”. L’asse mancante, che garantisce la tridimensionalità al sistema, è quello dello scopo politico, in assenza del quale la guerra è un non-senso: “[…] il disegno politico è lo scopo, la guerra il mezzo, ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi”6 . Se volessimo esprimerci con i termini della teoria della causalità di Aristotele, potremmo dire che, data la guerra, la politica ne rappresenta la causa efficiente e la causa finale, con il combattimento che, non necessariamente spinto fino al totale annientamento del nemico, funge da causa materiale. Con l’inserimento di questo nuovo asse, rappresentante lo scopo politico, si capisce perché il combattimento non debba essere “necessariamente” spinto fino alla distruzione del nemico: è la politica che, generando dal suo grembo la guerra, ne definisce l’obiettivo e gli sforzi necessari per raggiungerlo7 . Ora, quanto più grande, grave e irrinunciabile è lo scopo politico, tanto più esso tenderà a coincidere con lo scopo puramente bellico; pertanto il vettore che parte dall’origine degli assi, tenderà ad orientarsi verso la guerra di sterminio8 . Quanto più invece lo scopo politico è circoscritto, moderato, limitato, tanto più la guerra tenderà ad allontanarsi dalla sua forma assoluta per risolversi addirittura in una incruenta “osservazione armata”9 . In questo caso lo scopo propriamente bellico è pressoché assente e il vettore tende ad allinearsi sull’asse dello scopo politico. È quest’ultimo che, grazie alle sue infinite gradazioni, ora smussa gli aspri contorni della guerra assoluta fino a risolverla in quella “mezza misura”10 che abitualmente abbiamo sotto gli occhi, ora la riconduce fino alle sue tanto estreme quanto rare tendenze all’assoluto. Ne consegue l’infinita varietà di forme che la guerra può assumere; ed è proprio la scelta tra queste – in relazione all’obiettivo politico che entrambi i contendenti si prefiggono – a rappresentare il compito più grave e importante del Capo di Stato, un “calcolo” che, a detta di Napoleone, “darebbe luogo ad un problema d’algebra capace di spaventare un Newton”11 . Ma vi è un altro fattore che, al di là dello scopo politico, contribuisce ad arginare le tendenze assolutistiche della guerra: la comunicazione tra i nemici. Proprio nella comunicazione che, nella nostra epoca, sembra essere assurta al ruolo di parola d’ordine, di emblema della civiltà occidentale 5 Op. cit., pag. 22. 6 Op. cit., pag. 38. 7 Op. cit., pag. 28. 8 Vedi, ad esempio, la Terza Guerra Punica, in cui non solo l’esercito punico fu sbaragliato dai Romani, ma la stessa Cartagine fu rasa al suolo, in ottemperanza al precetto catoniano: “Carthago delenda est”. 9 Op. cit., pag. 29. Vedi in proposito le attuali operazioni di polizia internazionale e di “ingerenza umanitaria”; ma anche in questi casi il rischio di escalation è sempre in agguato, come ci insegna la cronaca dei nostri giorni. Va tuttavia rilevato che, in linea di principio, un grande obiettivo politico può essere conseguito anche tramite una operazione militare limitata. 10 Op. cit., pag., 812. 11 Op. cit., pag. 783.
  • 12. 12 www.sintesidialettica.it contemporanea, Raymond Aron rintraccia “la condizione necessaria per la moderazione dei conflitti”12 . È evidente (anche se Aron non lo rileva esplicitamente) che, in tempo di guerra, la comunicazione tra le parti in lotta può non essere esplicita e manifesta come ordinariamente ci si aspetterebbe; eppure è proprio questa forma di comunicazione latente che garantisce quella reciproca conoscenza delle rispettive intenzioni che fa sì che ciascuno sappia che cosa deve temere dall’altro. È nel momento in cui questa comunicazione, questa reciproca conoscenza viene meno, che si fa strada la paura incondizionata di un nemico dal quale oramai ci si può aspettare di tutto, e che deve essere pertanto annientato. È lo spettro di questa eventualità che spinge Aron ad affermare che “la comunicazione non è sufficiente a garantire la moderazione, ma ne rappresenta la condizione necessaria”13 . Potremmo dire, in quest’ottica, che il nemico peggiore è “l’ignoto”. La funzione della comunicazione si rivela determinante, più che in qualsiasi altro contesto, nelle singolari e, per certi aspetti, paradossali dinamiche di quella straordinaria forma di strategia politico-militare che è la strategia nucleare, probabilmente l’unica forma di strategia volta (almeno in alcune fasi della sua evoluzione) ad evitare il conflitto più che a risolverlo con una vittoria militare. È singolare che Aron affronti il tema della guerra nucleare scollegandolo dal problema della comunicazione, che egli stesso ha portato alla luce, dal momento che, se la guerra nucleare è rimasta uno spettro, il merito, in parte, è stato proprio delle reciproche rassicurazioni che Stati Uniti e Unione Sovietica si sono scambiate riguardo la non-volontà di aggredire e la finalità prettamente difensiva di taluni sistemi d’arma nucleari, soprattutto quando alcune innovazioni tecnologiche in questo settore hanno dato la sensazione di infrangere il precario equilibrio del terrore, facendo pendere il piatto della bilancia a favore di una delle due super-potenze, e ingenerando nell’altra una pericolosa percezione di pericolo che avrebbe potuto indurla a far scattare quella misura difensiva che è l’“attacco preventivo”14 . Ai fini del mantenimento di una pace che si regge sull’equilibrio delle rispettive potenzialità offensivo-difensive, e - almeno sulla carta – sull’intenzione di ricorrere alla deterrenza nucleare solo come rappresaglia difensiva, la funzione di una comunicazione volta a tranquillizzare l’avversario sul mantenimento dell’equilibrio e sulla mancanza d’intenzioni aggressive, risulta evidentemente imprescindibile e inalienabile. È interessante notare come proprio la guerra nucleare, ovvero l’unica forma di guerra che per la prima volta sembra realizzare nella storia la formulazione astratta della guerra assoluta, e che anzi la supera in “assolutezza”, giacchè si risolve non nell’abbattimento di uno dei due contendenti, ma 12 Raymond Aron, Pensare la guerra, Clausewitz, Paris, 1973, pag. 116. 13 Op. cit., pag. 116. 14 Per una attenta analisi storica della strategia nucleare occidentale, cfr. il saggio di Lawrence Freedman, “Le prime due generazioni di strateghi nucleari”, in Guerra e strategia nell’età contemporanea, a cura di Peter Paret, Genova, 1992; trad. it. di Ma kers of Modern S trategy, Prin ceton, N.J., 1986.
  • 13. 13 www.sintesidialettica.it nello sterminio di entrambi, rappresenti invece la prova più inconfutabile della subordinazione della guerra alla politica. Fino ad oggi, la guerra nucleare è stata preparata, simulata, minacciata, ma, di fatto, non è stata ancora combattuta15 . Il motivo – che Aron questa volta non manca di considerare – è che la guerra nucleare, “grazie” al suo esito univocamente apocalittico, ha messo l’uomo davanti a una alternativa, che si risolve poi in una scelta obbligata: lo sterminio reciproco da una parte, l’opzione politico-diplomatica dall’altra16 . L’“ombrello nucleare” ha garantito – anche ai suoi detrattori – quarant’anni di pace. Alla sua ombra hanno proliferato schiere di pacifisti di varia natura, che lo hanno fatto oggetto delle loro invettive, ignorando (o facendo finta di ignorare) che il privilegio di stare in una piazza a sventolare simboli di pace, invece che in una trincea a imbracciare un fucile, è stato garantito loro proprio dall’esistenza delle armi atomiche e dallo spettro dell’olocausto nucleare che queste evocano. È innegabile che questa “pax atomica”, o “guerra fredda”, sia stata una prerogativa dell’Occidente (oltre che dell’Unione Sovietica e degli altri paesi che si sono dotati di armi nucleari), e che quella guerra che i due blocchi hanno evitato a se stessi, l’abbiano fatta combattere al Terzo Mondo – le guerre che io definisco “per interposta persona”, note anche come “guerre per procura”, ma non è un caso che, all’indomani della caduta del blocco sovietico, con il conseguente allontanamento del rischio di un conflitto nucleare, la guerra “fredda” sia divenuta improvvisamente “calda” anche in Occidente, in un’area peraltro storicamente nevralgica come la regione balcanica. Come la caduta del blocco sovietico non ha rappresentato la “fine della storia”17 , così l’avvento dell’arma atomica non ha rappresentato la fine della guerra; e tuttavia, alla luce delle decine di milioni di morti dei due conflitti mondiali, ne ha rappresentato un ridimensionamento. A fronte dei facili entusiasmi con cui sono stati accolti gli accordi di non-proliferazione nucleare, la caduta del sistema bipolare internazionale, la messa al bando (sulla carta) degli esperimenti nucleari, converrà tenere sempre presente la lucida constatazione che Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica americana, ebbe a fare all’alba di quella era nucleare che egli stesso aveva contribuito a far sorgere: una invenzione non può essere “disinventata”18 . 15 Con questo non intendo natur almen te cancellare la memoria d ella tr agica esp erienza delle bombe ato miche su Hiroshima e Nag asak i, che, come è stato giustamente osservato, più che rappresentare l’atto f inale della Secon da Guerra Mondiale, hanno rappresentato l’atto di in izio della “gu erra fredda”; lungi d al costituir e uno stru mento p er piegare un Giappone ormai irrimed iabilmente in g inocch io, sono state una dimostr azione di for za rivolta all’Un ione Sovietica, che g ià n el ’43 v eniva iden tif icata come il v ero nemico con cui confrontarsi. 16 Ray mond Aron, op. cit., p agg. 116-118. 17 Come invece pretend eva F. Fukujama in un articolo omon imo, pubblicato in “Th e Nato inal Interest”, n. 16, 1989. 18 C’è una strana coincidenza che merita di essere considerata. Pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quindi all’indomani degli straordinari
  • 14. 14 www.sintesidialettica.it Al contrario di quanti ritengono che, con l’avvento delle armi nucleari, la guerra abbia cessato di essere la continuazione della politica con altri mezzi, la conclusione che si evince da quella paradossale forma di pace che è stata la guerra fredda, è che la guerra, o meglio, la minaccia nucleare, lungi dal provocare il reciproco annientamento, ha rilanciato il primato della politica. É questo primato che Aron intende ribadire – polemizzando con quanti ritengo che, in realtà, sia la politica la continuazione della guerra con altri mezzi – quando nega la possibilità di ribaltare la massima clausewitziana in virtù del fattore discriminante che distingue la guerra: “La politica tende agli stessi fini in pace e in guerra: essa non può essere la continuazione della guerra con altri mezzi, perché la guerra non si caratterizza che per la specificità del proprio mezzo, la violenza”19 . Per usare una formula mutuata dal lessico matematico, potremmo dire che quello che Aron vuole negare ai concetti di politica e di guerra è la “proprietà commutativa”. Questa affermazione di Aron è densa di implicazioni che, nell’arco della storia militare, e quindi politica, hanno prodotto un dibattito serio e dagli esiti talvolta altalenanti; il concetto di specificità del mezzo, in particolare, ha indotto alcuni militari a mettere in discussione il primato della politica sulla guerra. Il problema, oltre che serio, è sempre attuale, e merita pertanto un sia pur breve approfondimento. Il tema è caro allo stesso Clausewitz, che lo affronta direttamente, ma per poterlo considerare, per così dire, da tutte e due le parti della barricata, occorre introdurre la figura di un altro uomo d’armi che ha contribuito a fare la storia del pensiero militare: Antoine Henry Jomini. La sua concezione della guerra20 ha spesso costituito il supporto teorico, o forse sarebbe meglio dire l’alibi, addotto talvolta da quei militari che hanno cercato di scrollarsi di dosso il controllo della politica. Possiamo considerare quattro fattori, dalla convergenza dei quali deriva il fondamento del problema in questione: i primi due rappresentano i vettori di spinta, gli altri due lo sfondo; o, se si preferisce, i successi conseguiti con la realizzazione della prima bomba all’uranio, Oppenheimer rimase vittima di quella triste pagina della storia americana nota come la “caccia alle streghe”: accusato di “collaborazionismo” con i sovietici e di essere egli stesso comunista, fu allontanato dall’incarico di presidente della commissione consultiva sull’energia atomica. In Unione Sovietica, quello che può essere considerato il quasi-omologo di Oppenheimer (“quasi”, perché il padre della bomba H americana è Edward Teller), Andrey Sacharov, il padre della bomba H sovietica (all’idrogeno, o “termonucleare”), per la sua attività di dissidente fu allontanato dai centri di ricerca e perseguitato. Al di là del fatto che le accuse ad Oppenheimer sono tutte da dimostrare, un singolare destino di emarginazione ha accomunato questi due scienziati, che più degli altri hanno contribuito a condurre le rispettive nazioni ai vertici del potere nucleare. 19 Op. cit. pag. 128. 20 Considereremo più attentamente il pensiero di Jomini nella Seconda Parte di questo lavoro, nel capitolo dedicato all’assiomatica della guerra. Per il momento ci basta considerare una delle conseguenze pratiche che la sua teorizzazione ha avuto.
  • 15. 15 www.sintesidialettica.it primi due rappresentano il seme, e gli altri il terreno, l’humus che permette al fenomeno di “germogliare”. Il primo fattore è costituito dalla natura stessa della teorizzazione di Jomini, che raggiunge la sua espressione più alta nel Prècis de l’art de la guerre: la guerra, vista in un’ottica a-storica, consta di un insieme di regole e principi astratti, la cui conoscenza pertanto è preclusa ai non-iniziati all’arte della guerra, quali sono invece i militari di professione. Il secondo fattore è di carattere storico-culturale: nell’Ottocento tutti i campi del sapere – probabilmente in base all’eredità del razionalismo illuministico – tendono a “scientificizzarsi” e a “tecnologizzarsi”, cessando di essere oggetto di studio da parte di dilettanti, sia pure talvolta geniali, per diventare appannaggio di specialisti. L’arte della guerra non può naturalmente rimanere esclusa da questa linea di tendenza; questi due fattori sono pertanto già sufficienti a definire una casta di iniziati, specialisti nella teoria e nella tecnica della guerra: i militari di professione. Questi due primi fattori si innestano sugli altri due, che ne costituiscono in qualche modo lo sfondo, o il terreno di coltura. Il terzo fattore è di carattere storico-politico: fino all’Ottocento, la casta militare partecipava “di diritto” alla spartizione del potere dominata dall’aristocrazia, di cui peraltro rappresentava una costola. Con l’avvento delle prime costituzioni repubblicane, e quindi con la democrazia, i militari videro compromessa la propria autorità, e si videro relegati al ruolo di “burocrati”, amministratori di uno dei tanti settori della cosa pubblica. Il quarto fattore è una “invarianza meta-storica”, una sorta di malattia ereditaria da cui sono atavicamente afflitti molti militari a tutte le latitudini: una ipertrofica percezione dell’identità collettiva, alimentata specularmente da un fortissimo senso di “alterità” rispetto a ciò che militare non è, cioè il mondo dei civili, che si concretizza in una congenita insofferenza nei confronti della supervisione che la politica, in mano ai civili, esercita sulla sfera militare. Con la fusione di questi quattro fattori il quadro è completo: “In Jomini i militari trovarono proprio ciò che cercavano: buoni argomenti contro la stretta subordinazione all’autorità politica…… La lezione era chiara: un governo dovrebbe scegliere il suo più abile comandante militare, e quindi lasciarlo libero di condurre la guerra secondo i principi scientifici. I governi non dovrebbero dimenticare le proprie forze armate, ma non devono immischiarsi in questioni che solo colti ed esperti ufficiali comprendono. La professione militare naturalmente ha preso a cuore questa lezione, e l’ha insegnata ai suoi allievi […]”21 . 21 Cfr. Jhon Shy, Jomini, in Guerra e strategia nell’età contemporanea, Genova, 1992, pagg. 75-76
  • 16. 16 www.sintesidialettica.it Il quesito riguardo quale di questi due elementi, guerra e politica, debba essere subordinato all’altro, viene posto dallo stesso Clausewitz22 . Considerate le posizioni da cui muove, la domanda suona, in un certo senso, retorica, e nondimeno Clausewitz risponde esplicitamente, e la risposta, come ovvio, è univoca: “Sarebbe dunque assurdo subordinare le vedute politiche al punto di vista militare, poiché la politica ha generato la guerra: essa è l’intelligenza, mentre la guerra non è che lo strumento; l’inverso urterebbe il buonsenso. Non resta, dunque, che subordinare il punto di vista militare a quello politico […]. In una parola, “l’arte della guerra, considerata dal suo punto di vista più elevato, si cambia in politica; ma questa politica si manifesta con battaglie anziché con note diplomatiche”23 . E tuttavia Clausewitz non manca di sottolineare, in virtù di quella “specificità del mezzo, la violenza”, che abbiamo considerato in precedenza con Aron, l’autonomia della guerra rispetto alla politica: “Ma non perciò lo scopo politico assume il carattere di un legislatore dispotico: deve adattarsi alla natura del mezzo, donde risulta che sovente esso si modifichi profondamente; ma è pur sempre l’elemento da tenersi soprattutto in considerazione […]. L’arte della guerra può esigere, in linea di massima, che le tendenze e i disegni della politica non vengano in contraddizione con tali mezzi, e il comandante in capo può esigerlo in ogni caso. Tale condizione non è certo lieve: ma qualunque sia, anche in casi particolari, la sua reazione sui disegni politici, essa non può andare al di là di una semplice modificazione dei medesimi […]”24 . È interessante (e incoraggiante) che sia proprio il generale prussiano Karl von Clausewitz, nemico di Napoleone sul campo di battaglia, ma suo strenuo sostenitore e ammiratore sul campo della speculazione teorica sulla guerra, l’alfiere del primato della politica sulla guerra, nella polemica a distanza, o meglio indiretta (visto che non hanno mai avuto modo di polemizzare direttamente su questo tema, come invece è capitato loro di fare su altri), che lo ha visto contrapposto al generale elvetico Antoine Henry Jomini, portavoce, in tempo di guerra, del primato della guerra sulla politica. In questo si risolve, pertanto, il valore pragmatico della formulazione teorica clausewitziana sul rapporto tra guerra e politica, ereditato dalla politica militare: il controllo teorico della politica sulla guerra implica il controllo pratico dei politici sui guerrieri. È questa la lezione pratica di Clausewitz che, più delle altre, i militari hanno spesso fatto finta di ignorare. “Ripetiamo dunque un’ultima volta: la guerra è uno strumento della politica; essa ne deve necessariamente assumere il carattere, deve commisurarsi alla sua medesima scala; la condotta della guerra, nelle sue linee fondamentali, 22 Karl von Clausewitz, Della guerra, Roma, 1970, p. 814. 23 Op. cit., pagg. 814-815. 24 Op. cit., pagg. 37-38.
  • 17. 17 www.sintesidialettica.it altro non è che la politica stessa, che depone la penna ed impugna la spada, ma non cessa perciò di regolarsi conformemente alle proprie leggi”25 . Abbiamo visto, anche in questo frangente, come Clausewitz, non appena ha affermato il legame inscindibile tra guerra e politica, si preoccupi di riaffermare l’autonomia della prima rispetto alla seconda. Questo ci rimanda al tema con cui abbiamo aperto questo paragrafo, e cioè la continua oscillazione che si riscontra nel Della guerra tra la subordinazione della guerra alla politica, e la sua autonomia; una oscillazione che tende sempre di più ad orientarsi verso il superamento di ogni eventuale opposizione dialettica, per rintracciare in esse un denominatore comune. É un percorso che sembra seguire le tappe dell’opera stessa: se nel Libro Primo i due termini si trovano ancora in una nebulosa, che rende la guerra al tempo stesso un atto politico e uno strumento della politica26 , nel Libro Secondo ogni nebbia residua si è ormai dileguata, facendo emergere quella “consustanzialità” di cui parlavo all’inizio del paragrafo: “[…] è dal grembo della politica che la guerra trae origine, è nella politica che i caratteri principali della guerra sono già contenuti allo stadio rudimentale, come le proprietà degli esseri viventi lo sono nei rispettivi embrioni”27 . La metafora dell’embrione è particolarmente evocativa di un rapporto che, se da un lato sottolinea la continuità cronologica e la diversità morfologica tra l’individuo adulto e la rispettiva fase larvale, dall’altro sancisce l’identità genetica che li lega. Ma è nel Libro Ottavo, l’ultimo, come a sottolineare il compimento di un cammino, che questa tipologia sottesa viene espressa in termini di una straordinaria attualità: “La guerra è forse altra cosa che una specie di scrittura o di linguaggio nuovo per esprimere il pensiero politico? Questa lingua ha senza dubbio la propria grammatica, ma non una logica propria”28 . Si potrebbe dire che è un brano di evidente ispirazione chomskiana, se non fosse per il fatto che Noam Chomsky ha formulato la sua teoria linguistica un secolo e mezzo dopo la produzione teorica di Clausewitz. É questa identità di fondo tra guerra e politica che mi preme sottolineare, e che affronterò più avanti nel terzo paragrafo. C’è chi ha sostenuto, tuttavia, e non senza ragione, che sia la politica una continuazione della guerra con altri mezzi. L’ipotesi, sebbene capovolga completamente la massima di Clausewitz e contraddica apertamente la posizione di Aron, è tutt’altro che peregrina, e merita pertanto di essere analizzata. 25 Op. cit. p. 819. 26 Op. cit., p. 38. 27 Op. cit., p. 130. Il corsivo è mio 28 Op. cit., p. 811.
  • 18. 18 www.sintesidialettica.it §.2. La politica non è che la continuazione della guerra con altri mezzi. Se della massima con cui ho intitolato il primo paragrafo conosciamo l’autore, di questa è certamente più difficile accertare la paternità. In essa si riconoscono vari orientamenti di indagine, come il darwinismo sociale o, per altri aspetti, la psicoanalisi, che riconduce un po’ tutte le forme di mediazione simbolica che costituiscono la civiltà - e con esse quindi anche la politica, che altro non è se non la mediazione del conflitto – ad una sorta di “nevrosi collettiva”, risultato di un processo di rimozione e sublimazione tramite il quale l’uomo si riapproprierebbe di quelle pulsioni, o istanze inconsce, che coscientemente non vuole riconoscere29 . Per tornare con i piedi per terra, potremmo adottare un criterio darwiniano e recuperare quell’opposizione dialettica tra guerra e politica che con l’analisi di Clausewitz avevamo visto vacillare. La domanda che in quest’ottica potremmo porci è la seguente: quale di queste due attività – la guerra e la pace, che è garantita dalla politica – svolge le migliori funzioni adattive?30 . La domanda ci pone dinanzi a due orizzonti antropologico-politici, e, alla luce di questi, può essere così riformulata: anthropos politikon zoon oppure homo homini lupus ? Ovvero: l’uomo, per sua natura, è un animale politico o anarchico ?31 Quello che qui vogliamo contrapporre ad Aristotele non è Plauto, ma il più grande interprete della sua massima che abbia prodotto l’età moderna: Thomas Hobbes. La rottura di Hobbes con la concezione politico-sociale di Aristotele è netta ed esplicita. Egli muove da una posizione minimalista: vi è un ipotetico “stato di natura”, fuori dal tempo, e quindi privo di condizionamenti storici e culturali, in cui la conflittualità tra gli individui si manifesta nella sua forma, per così dire, cristallina: “La natura ha fatto gli uomini così eguali, nelle facoltà del corpo e dello spirito […]. Da questa eguaglianza dell’abilità sorge l’eguaglianza nelle speranze di conseguire i nostri scopi, e perciò, se due uomini desiderano la stesa cosa, che non possono entrambi ottenere, divengono nemici, e, per conseguire il proprio fine – che è principalmente la propria conservazione, e spesso il proprio piacere – tentano di distruggersi e di sottomettersi l’un 29 Cfr. Sigmund Freud , Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, 1976. 30 Più che attività potremmo definirle “condizioni”, che garantiscono lo svolgimento di attività. Questo vale soprattutto per la pace, dal momento che la guerra è stata talvolta vista come un “monumento all’azione”. La pace è stata addirittura considerata non come “condizione” per l’azione, ma come “negazione” dell’azione. Al riguardo, risuona su tutti il perentorio giudizio di Hegel :<<…la pace… è un ristagno per gli uomini; le loro singolarità divengono sempre più fisse e si irrigidiscono. Ma, alla salute, appartiene sempre l’unità del corpo, e, se le parti divengono rigide in sé, è la morte>>.Cfr. Georg Wilhelm Friedrick Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari, 1974,pag.445. 31 Non faccio riferimento, naturalmente, all’Anarchia, quale è uscita dalla Prima Internazionale.
  • 19. 19 www.sintesidialettica.it l’altro”32 . È questa la forma di guerra primordiale e minimale che viene sintetizzata nella formula bellum omnium contra omnes. Hobbes è pienamente consapevole che questa condizione di guerra di tutti contro tutti non si è mai verificata concretamente nella storia; tuttavia le relazioni tra gli stati, quando non sono di aperta ostilità, sono improntate ad una forma di ostilità latente, fatta di spionaggio e di “corsa agli armamenti”, quella che noi oggi definiremmo “guerra fredda”, o pace armata, “la quale è una posizione guerresca”33 . Infatti sarebbe riduttivo indicare con la parola “guerra” esclusivamente uno scontro sanguinoso; nell’accezione del termine va inclusa anche quell’intenzione ostile che si dilata nel tempo, anche quando i contendenti non sono ai “ferri corti”: “e perciò la nozione del tempo deve essere considerata nella natura della guerra, come nella natura di una tempesta. Infatti, come la natura di una procella non consiste solo in un rovescio o due di grandine, ma nella disposizione dell’atmosfera ad essere cattiva per molti giorni insieme, così la natura della guerra non consiste in questo o in quel combattimento, ma nella disposizione manifestamente ostile, durante la quale non v’è sicurezza per l’avversario. Ogni altro tempo è pace ”34 . C’è da chiedersi a quale altro tempo per la pace faccia riferimento Hobbes, visto che la storia non conosce altra alternativa che quella tra guerra effettiva e guerra latente. A confronto con la posizione di Hobbes, quella hegeliana della guerra come necessità storica, artefice della potenza degli stati e della dinamica della storia stessa35 , in cui la pace si risolve in quella porzione di tempo che va da un bagno di sangue all’altro, risulta addirittura una posizione moderata. A questo punto dell’indagine, per Hobbes, di fatto, la pace non esiste . Tuttavia Hobbes avverte la necessità di recuperare il concetto di pace, e lo fa in un’ottica darwiniana. Come avevamo fatto con Clausewitz, anche con Hobbes possiamo adottare un sistema di assi cartesiani attraverso il quale definire il rapporto tra la guerra e la pace: e allora sia l’asse delle ascisse il “diritto di natura”, e l’asse delle ordinate le “leggi di natura”. “Il diritto di natura, che gli scrittori comunemente chiamano jus naturale, è la libertà che ciascun uomo ha, di usare il suo potere, come egli vuole, per preservare la sua natura, cioè la sua vita, e di fare perciò qualunque cosa, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli crederà sia il mezzo più adatto per quello scopo. . . .Una legge di natura – lex naturalis - è un processo o una regola generale, ricavata dalla ragione, per cui ad un uomo è vietato di fare quello, che distruggerebbe la sua vita o di togliere i modi, per preservarla, di omettere quello, con cui egli pensa che sarebbe preservarla”36 . 32 Thomas Hobbes, Leviatano , Bari, 1974, Volume I pagg. 106-107 33 Op.cit., pag. . 111 34 Op. cit., pag. 109 35 Cfr. G.W.F.Hegel , Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari, 1974, pag.456. 36 Thomas Hobbes, Leviatano, Bari ,1974, Volume I, pagg. 112-113
  • 20. 20 www.sintesidialettica.it Nello “stato di natura” , dove ciascuno accampa diritti su tutto e su tutti, il diritto alla vita è evidentemente un concetto aleatorio, e la precarietà regna sovrana. È in questo ambito che non solo la guerra, ma anche la pace si trova a svolgere una funzione adattiva. Infatti la guerra e la pace sono determinate sia dalle rispettive passioni (“competizione, diffidenza e gloria” per la guerra, “ il timore della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie alla vita, e la speranza di ottenerle mediante la loro industria” per la pace), sia dalla ragione, ed è la ragione che impone all’uomo di cercare la pace, quando è possibile, altrimenti ricorrere alla guerra: “La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura, che è: cercare la pace, e conseguirla; la seconda parte il sommo dei diritti di natura, che è: difendersi con tutti i mezzi possibili”37 . Come si vede, il vettore che parte dall’origine degli assi, procedendo con una traiettoria di 45°, equidistante dagli assi stessi, sta definendo dei punti importanti; ed è seguendo il suo percorso che incontriamo il punto più importante che stavamo cercando: la politica. La seconda legge di natura, che deriva direttamente dalla prima, prevede che un uomo rinunci ai suoi diritti sulle cose, qualora anche gli altri facciano altrettanto. Questa rinuncia viene formalizzata tramite patti e contratti. Ora, Hobbes è troppo realista per accettare l’ingenua credenza che gli uomini rispettino i patti in virtù di un innato spirito di giustizia: “Tali sono i vincoli, con i quali gli uomini si legano e si obbligano, vincoli, che hanno la loro forza non dalla propria natura – perché niente è più facile a rompere che la parola di un uomo - ma dal timore di qualche cattiva conseguenza di quella rottura”38 . Infatti “se un patto è concluso senza che nessuna delle due parti l’esegua, ma l’una si fida dell’altra, nel puro stato di natura - che è uno stato di guerra di tutti contro tutti -, ad ogni ragionevole sospetto resta vano; ma, se vi è un potere comune ad ambo le parti, con diritto e forza sufficienti per costringerle ad eseguirlo, allora non resta vano” 39 . “Il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni degli stranieri e dalle offese scambievoli […] è di conferire tutto il proprio potere e la propria forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri, con la pluralità di voti, ad un volere solo […]. Ciò fatto, la moltitudine così unita in una persona è detta uno stato, in latino civitas. Questa è l’origine di quel grande Leviatano, o piuttosto - per parlare con più reverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, al di sotto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa, poiché, a causa di quest’autorità datagli da ogni singolo uomo nello stato, esso usa di tanto potere e di tanta forza, a lui conferita, che col terrore è capace di disciplinare la volontà di tutti alla pace interna ed al mutuo aiuto contro i nemici esterni. Ed in esso è l’essenza dello stato, che – per definirlo – è una persona, dei cui atti ciascun individuo di una gran moltitudine, con patti 37 Op.cit., pag. 114 38 Op.cit., pag. 115 39 Op.cit,, pag.120, il corsivo è mio.
  • 21. 21 www.sintesidialettica.it vicendevoli, si è fatto autore, affinchè possa usare la forza ed i mezzi di tutti loro, secondo che crederà opportuno, per la loro pace e per la comune difesa ”40 . Ecco la nascita della politica formalizzata41 , e, con essa , dello Stato. Ma, ai fini della nostra indagine, è giunto il momento di stabilire in cosa si risolva questo stato “politico” (come lo definisce lo stesso Hobbes). Di fatto, il Leviatano baratta la pace interna con la guerra, trasferendo quest’ultima dal piano inter- individuale al piano inter-statale; per scongiurare il rischio della guerra civile, Hobbes deve trasferire il conflitto al di fuori dei confini dello stato, sicchè, in ambito politico-internazionale, continua a sussistere lo stato di natura 42 . È una lezione che Hegel non ha mancato di fare sua, sia pure in versione idealistica, quando, nella Filosofia del Diritto, afferma: “anche se un certo numero di Stati si costituisce a famiglia, quest’unione, in quanto individualità, deve crearsi un’antitesi e generare un nemico . . . . e così la condotta internazionale, in base a questa, si modifica in una situazione in cui, peraltro, ciò che domina è il reciproco arrecamento di danni. Il rapporto di Stati e Stati è vacillante e non esiste pretore che lo componga. Il più elevato pretore è, unicamente, lo spirito universale, che è in sé e per sé: lo spirito del mondo” 43 . Il vecchio Aristotele, che si era voluto cacciare dalla finestra, alla fine rientra dalla porta principale: lo stato politico altro non è, in definitiva, che lo stato di natura, in cui la guerra non avviene tra animali solitari, ma tra animali “politici”, sociali, che si riuniscono in stati contrapposti 44 . La differenza è che mentre per Aristotele l’uomo è un animale “politico” per vocazione, per Hobbes lo è per necessità. Si potrebbe essere tentati di dire che, come in Clausewitz, anche in Hobbes assistiamo ad un superamento della dialettica tra guerra e politica; e così è, ma la soluzione del filosofo inglese è diametralmente opposta a quella che abbiamo visto nel generale prussiano. Hobbes, al contrario di Clausewitz, non cerca mai il superamento in termini di consustanzialità, ma sempre e soltanto in termini di continuazione. Il diritto naturale rappresenta lo sfondo su cui si stagliano le leggi naturali; queste possono arginarlo, attenuarne i toni, ma non possono mai contraddirlo. 40 Op. cit., pagg. 151 – 152. 41 Dico formalizzata , perché qualcuno potrebbe obiettare che anche nello stato di natura vige la politica; una politica regolata non da norme scritte nei codici, ma dal diritto naturale. 42 L’anarchia internazionale, secondo la dottrina del realismo politico. 43 Incontreremo una dinamica simile più avanti, nella Seconda Parte di questo lavoro, quando affronteremo la funzione che la guerra esterna svolge nella società dei Nuer. 44 La socialità della guerra è un tema su cui insiste spesso lo stesso Clausewitz.
  • 22. 22 www.sintesidialettica.it La risoluzione della dialettica in chiave bellicistica proposta da Hobbes si contrappone a quella proposta da Clausewitz - che è invece politica – perché i loro presupposti si trovano agli antipodi. In Hobbes è la guerra che genera la politica; la guerra è l’embrione in cui l’individuo adulto, la politica, riconosce il suo patrimonio genetico; lo stato di natura è il paradigma e lo stato politico la sua forma applicativa. Ma c’è una differenza macroscopica che, alla luce del mio criterio d’indagine, emerge tra questi due pensatori: mentre nel sistema di assi cartesiani, che avevamo adottato per interpretare la teoria di Clausewitz, la politica costituisce un asse del sistema stesso – assumendo pertanto una valenza strutturale -, nel sistema di assi costruito per la teoria di Hobbes, la politica rappresenta solo un punto del piano definito dagli assi, un punto incontrato dal vettore lungo la sua traiettoria, definita dai punti precedenti – rappresenta così solo la conseguenza di istanze strutturali pregresse. Se lo stato politico si configura pertanto come la continuazione “terapeutica” dello stato di natura, la politica altro non è se non la continuazione della guerra con altri mezzi. §.3. Guerra e politica: i due volti del conflitto. Abbiamo visto, nei due paragrafi precedenti, come l’analisi del rapporto guerra-politica, e i tentativi di superare l’opposizione dialettica che tradizionalmente le vede contrapposte, si siano risolti nella considerazione che una sia la continuazione dell’altra , ovvero nel ridurre l’una all’altra. Esistono, però, a mio avviso, altre due strade che portano al superamento di questa dialettica: 1) rintracciare un fenomeno empirico in cui sia impossibile definire il rapporto guerra-politica in termini di mera continuazione o riduzione di una all’altra; 2) adottare quella procedura epistemologica che più di ogni altra contraddistingue il pensiero filosofico dalle altre forme di conoscenza (e che lo stesso Clausewitz sembrava aver adottato quando identificava, al di là delle diverse grammatiche, un’unica logica sottesa alla guerra e alla politica): l’astrazione. Dal momento che le due strade sono perfettamente compatibili, ed anzi si corroborano a vicenda, converrà percorrerle entrambe. Visto che l’approccio al nostro oggetto d’indagine è epistemologico, e visto che i risultati di un processo di astrazione rappresentano il punto di arrivo dell’indagine, in relazione al livello di astrazione a cui ci si muove, inizieremo con l’analisi del dato empirico, per poi ricondurlo e rileggerlo alla luce della formulazione astratta. In genere si è soliti considerare la guerra e la politica come termini antitetici; in quest’ottica la guerra è il regno della violenza, mentre la politica troverebbe il suo terreno di coltura nella pace. È anche alla luce di questo principio superficiale che si tende a considerarle in termini di alternanza e di continuazione sia ontologica che cronologica, visto che non sembrano poter coesistere.
  • 23. 23 www.sintesidialettica.it Eppure la storia ci dimostra che questo semplice schema non è sempre applicabile: mi riferisco a tutte quelle forme di conflittualità, come la guerra non-convenzionale, la guerra psicologica, la propaganda, il terrorismo, che difficilmente sono riconducibili ad uno solo dei due termini, e che si sarebbe tentati di confinare in una sorta di terra di nessuno. Consideriamo quello straordinario esempio di strategia “stabilizzante” che è la strategia della tensione. Il principio base della strategia della tensione prevede che in particolari momenti di crisi di una nazione, in concomitanza con il rischio che il governo possa finire in mano alle forze di opposizione, si debbano colpire (leggi “eliminare”) particolari categorie di persone - ivi compresa la gente comune – in maniera tale da creare nella popolazione uno stato di tensione, quando non di vero e proprio terrore, che induce la collettività a raccogliersi intorno alla classe dirigente e a sostenerla, invece di abbatterla. Prendiamo, a puro titolo di esempio, il caso di una bomba che esplode in una stazione ferroviaria, provocando decine di morti. Come dovremmo considerare questo evento: un atto politico o un atto di guerra? Si potrebbe rispondere – e a ragione – che si tratta di un atto criminale; ma anche alla luce di questa considerazione, la domanda può cambiare formulazione, ma non sostanza: chi ha messo la bomba (e soprattutto chi l’ha commissionata) deve essere considerato un criminale politico o un criminale di guerra ? Stando a quanto sostiene Clausewitz - secondo il quale anche il semplice invio di pattuglie può essere ricondotto ad attività politica – si tratta di un atto politico; ma dobbiamo ammettere che ci troviamo di fronte ad una attività politica ben diversa da quella che siamo soliti constatare, ad esempio, durante una trattativa tra le parti sociali sul costo di lavoro. Se invece consideriamo la bomba come fattore discriminante, dovremmo concludere che si tratta di un’azione di guerra; ma si tratterebbe certamente di una condotta bellica a dir poco eterodossa, dal momento che né gli autori né le vittime dell’attentato sono militari (gli autori, al più, potrebbero ricondursi a strutture paramilitari occulte). Questa efficacissima “tecnica di persuasione” collettiva è fortemente evocativa delle argomentazioni svolte da Carl Schmitt in un saggio del 1938. Partendo dalla critica di quelle posizioni semplicistiche che, assumendo come parametro la pace, considerano la guerra una non- pace, e assumendo invece la guerra, considerano la pace una non-guerra, egli si chiede se sia proprio vera la massima di Cicerone: “Inter pacem et bellum nihil est medium”. La risposta non si fa attendere: “Si tratterebbe naturalmente di una abnormità, ma esistono anche situazioni abnormi. Di fatto oggi esiste una situazione intermedia abnorme del genere fra guerra e pace, nella quale i due termini sembrano mischiati fra loro […] l’estensione dell’idea di guerra anche a manifestazioni non militari (economiche, propagandistiche ecc.) di ostilità. Quelle imposizioni di pace miravano infatti a fare della pace una “prosecuzione della guerra con altri mezzi ”. Essi hanno spinto così
  • 24. 24 www.sintesidialettica.it lontano il concetto di nemico che in tal modo è stata superata non solo la distinzione fra combattenti e non combattenti, ma anche quella tra guerra e pace […]. In una simile situazione intermedia fra guerra e pace cade ogni ragionevole senso di una determinazione di uno dei due concetti in base all’altro, della pace in base alla guerra o della guerra in base alla pace”.45 È sorprendente come l’analisi schmittiana sull’impossibilità – o la non volontà – di distinguere i combattenti dai non combattenti, conseguente alla indeterminatezza che può sussistere tra pace e guerra, sia efficace per definire la condizione delle vittime di una strage terroristica. Ma l’origine di questa indeterminatezza tra guerra e pace può essere rintracciata anche in un ambito meta-storico. Infatti, dal momento che la scelta della guerra o della pace come parametro è puramente arbitraria (“un bastone a due versi”, che si può impugnare per un capo o per un altro) “[…] Tutti i tentativi di dare una definizione della guerra devono allora concludersi, nei migliori dei casi, in un decisionismo del tutto soggettivistico e volontaristico: la guerra sussiste quando un partito che diventa attivo vuole la guerra […]. Ma cosa significa ciò per il nostro problema del rapporto fra guerra e pace? Mostra che l’ostilità, l’animus hostilis, è diventato il concetto primario; e ciò ha, nell’attuale situazione intermedia tra guerra e pace, una portata del tutto diversa dalle precedenti “teorie soggettive” o “fondate sulla volontà” del concetto di guerra”46 . Questo ci permette di definire meglio il concetto di “stato di guerra”, con cui Schmitt apre il suo saggio. Possiamo distinguere la “guerra come azione” e la “guerra come stato”. Ciò che distingue la guerra come stato dalla guerra come azione è l’esistenza del nemico anche in assenza di combattimenti: “Bellum manet, pugna cessat”. Qui, manifestamente, l’ostilità (la presenza del nemico) è presupposto dello stato di guerra”47 . Come si vede, l’analisi di Schmitt mette in risalto come la conflittualità possa esprimersi attraverso forme altre rispetto all’ortodossia militare: “Per coloro che possono imporre la loro volontà e piegare la volontà dell’avversario con strumenti di coazione e di dominio extramilitari, ad esempio economici, è un gioco da ragazzi evitare la guerra militare vecchio stile, e a loro volta coloro che procedono con azione militare hanno solo bisogno di far presente in modo sufficientemente energico che sono sprovvisti di qualsiasi volontà di guerra, di ogni animus belligerandi”. 48 La conflittualità, in quest’ottica, sta facendo un salto di qualità: l’emancipazione dal monopolio militare le apre nuovi scenari e nuovi campi d’azione; infatti, i concetti di animus hostilis e di stato di guerra ci forniscono le coordinate per definire, o meglio, ri-definire, un concetto che, come 45 Cfr. Carl Schmitt, Sulla relazione intercorrente fra i concetti di guerra e di nemico, in Le categorie del politico, Bologna, 1972, pagg. 198-199. 46 Op.cit. pagg. 199-200. 47 Op.cit., pag. 193. 48 Op. cit., pag. 101.
  • 25. 25 www.sintesidialettica.it abbiamo visto nel primo paragrafo, era molto caro già a Clausewitz: il concetto di guerra assoluta o “guerra totale”. E, fatto singolare, la “guerra totale” di Schmitt ha una connotazione più marcatamente politica rispetto a quella di Clausewitz, che invece la identificava con la squisitamente militare guerra di sterminio: “La cosiddetta guerra totale supera la distinzione fra combattenti e non combattenti e, accanto alla guerra militare, ne conosce anche una non militare (guerra economica, di propaganda e così via), sempre come sbocco dell’ostilità. Il superamento della distinzione fra combattenti e non combattenti è però qui di tipo dialettico (in senso hegeliano): di conseguenza esso non significa certamente che coloro che prima non erano combattenti si siano ora semplicemente trasformati in combattenti di vecchio stile. È invece vero che sono mutati entrambi i termini della questione e che la guerra viene ora condotta su un nuovo, più solido terreno, come attuazione non più semplicemente militare di ostilità. La sua totalizzazione consiste nel fatto che anche settori extramilitari (l’economia, la propaganda, le energie psichiche e morali dei non combattenti) vengono coinvolti nella contrapposizione di ostilità. Il superamento del dato puramente militare comporta non soltanto un ampliamento quantitativo, ma anche un rafforzamento qualitativo; esso non significa perciò un’attenuazione, bensì un’intensificazione dell’ostilità. Con la semplice possibilità di un simile aumento di intensità, anche i concetti di amico e nemico tornano da sé nuovamente politici e si liberano, anche dove il loro carattere politico era completamente sbiadito, dalla sfera delle argomentazioni private e psicologiche”49 . Le parole di Schmitt sono di una sconcertante attualità. Due sono le forme che, in età contemporanea, la guerra totale (sia nell’accezione clausewitziana che schmittiana del termine) può assumere: la guerra nucleare e il terrorismo politico, di cui la strategia della tensione rappresenta la versione più “conservatrice” (dal momento che tende a “conservare” il potere nelle mani di chi già lo detiene). Un punto di vista fenomenologico ci presenterebbe queste due forme di conflittualità diametralmente opposte; ma se facciamo astrazione dall’evidenza, ci accorgiamo che condividono due denominatori comuni: 1) l’indeterminatezza nella selezione delle vittime: un missile termonucleare su una città o una bomba al tritolo in una stazione uccidono indistintamente chiunque si trovi nel loro raggio d’azione; la differenza è solo di carattere quantitativo in relazione al potenziale distruttivo; 2) il carattere eminentemente politico che le informa: la strategia nucleare ha rilanciato la politica anziché congelarla (vedi il primo paragrafo); quanto alla valenza politica della strategia della tensione, questa è sotto gli occhi di tutti: il mantenimento del potere da parte di una fazione, a scapito della fazione opposta. La strategia della tensione, pertanto, dati i parametri della guerra e della politica, lungi dal trovarsi nella terra di nessuno, si trova nella terra di entrambe. 49 Op.cit., pagg. 201-202.
  • 26. 26 www.sintesidialettica.it L’immanenza della conflittualità al di là dello scontro militare, e la “comproprietà” che la conflittualità stessa presenta rispetto alla guerra e alla politica, costituiscono il trampolino da cui ormai possiamo spiccare quel salto di astrazione di cui parlavo all’inizio di questo paragrafo . Al di là delle contingenze storiche e delle differenze fenomeniche, un comune denominatore soggiace alla guerra e alla politica : il conflitto. Dalle analisi di Clausewitz, Hobbes, Hegel e Schmitt emerge la valenza strutturale che il conflitto assume nella storia; da concetti come ostilità e guerra totale si evince la sua ineliminabilità . Il conflitto può presentarsi nella sua forma mediata, con la politica, o immediata, con la guerra; la mediazione operata dalla politica tuttavia può spostare e diluire il conflitto, ma non può mai eliminarlo. Il conflitto si estende in tutta la fantasmagoria delle sue tonalità, dalla pace - in apparenza – più serena alla guerra assoluta, senza mai raggiungere però i suoi estremi: la totale assenza di conflittualità infatti apparterrebbe soltanto ad una mitica “età dell’oro”, e si collocherebbe pertanto al di fuori della storia; la guerra assoluta di sterminio su scala planetaria invece rappresenterebbe la fine della storia, non nel senso in cui questa espressione viene usata da Fukujama, ma nel senso che questa “tragicommedia “ che è la vicenda umana finirebbe per mancanza di attori. Dall’indagine che seguirà emergerà la dimensione storica e meta-storica del conflitto . L’obbiettivo dell’analisi svolta fin qui è dimostrare l’inconsistenza dell’opposizione dialettica tra guerra e politica; al contrario, esse partecipano di una stessa natura. Nell’ottica in cui ho affrontato il rapporto guerra-politica, continuare a chiedersi quale delle due sia la continuazione dell’altra – sia da un punto di vista storico che ontologico- rappresenterebbe soltanto un esercizio speculativo: lungi dall’inseguirsi a vicenda, per dirla con Clausewitz, rispondono entrambe ad una stessa logica: il conflitto. Guerra e politica si configurano pertanto come due facce di una stessa medaglia, e questa medaglia è il conflitto. Come una moneta, possiamo lanciarla in aria, e una volta caduta a terra potrebbe presentarci la faccia della politica. Potremmo rilanciarla, e questa volta potrebbe presentarci la faccia della guerra. Potremmo rilanciarla ancora, e constatare che può rimanere addirittura in equilibrio, come nel caso della strategia della tensione. Ma non potremo mai farne a meno, perché è con questa moneta che paghiamo il prezzo della storia.
  • 27. 27 www.sintesidialettica.it CAPITOLO II GUERRA E M ORAL E §.1. La guerra tra giustizia e opportunità. Due sono, a mio avviso, i criteri con cui il concetto di giustizia può essere messo in rapporto con la guerra: intrinseco ed estrinseco. Secondo il criterio intrinseco, i valori di giustizia della guerra vanno cercati nella guerra in sé; secondo il criterio estrinseco, vanno cercati negli obiettivi che, attraverso la guerra, ci si propone di conseguire (gli stessi criteri valgono anche per la valutazione dei mezzi che si usano in guerra). Norberto Bobbio ha proposto una suddivisione simile in relazione alle teorie della giustificazione delle guerre: le teorie del primo gruppo giustificano tutte le guerre, le teorie del secondo gruppo le condannano tutte, le teorie del terzo si riservano di esprimere giudizi se non in rapporto alle cause della guerra. Le prime teorie possono essere definite belliciste, le seconde coincidono con il pacifismo attivo, le ultime costituiscono la dottrina della guerra giusta50 . Stando alla mia ripartizione, i primi due gruppi di teorie rispondono ad un criterio intrinseco di giustizia, l’ultimo gruppo ad un criterio estrinseco. Questa distinzione corrisponde a quella operata da Thomas Nagel tra le categorie utilitariste e assolutiste: “L’utilitarismo assegna un primato all’interesse per quello che accadrà. L’assolutismo assegna un primato all’interesse per quello che si fa. Il conflitto tra essi si produce perché le alternative che affrontiamo sono raramente soltanto scelte tra risultati totali: sono anche scelte tra linee di condotta o misure alternative da prendere. Quando una delle scelte consiste nel fare cose terribili a un’altra persona il problema è fondamentalmente alterato; non si tratta più semplicemente della questione di quale risultato sarebbe peggiore”.51 Queste categorie sono perfettamente applicabili anche alla guerra. La posizione che Nagel assume nei confronti di queste teorie non è netta, e non è scevra, per sua stessa ammissione, da una certa ambiguità. Egli si dichiara scettico sulla possibilità di poter scegliere in maniera univoca quale delle due sposare. Vorrebbe abbracciare la posizione assolutista, ma avverte subito il rischio di indifendibilità dell’assolutismo di fronte ad alcune situazioni concrete; pertanto, quella che egli tenta , dell’assolutismo, è una difesa “abbastanza ristretta”52 . 50 Cfr. Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, 1984, pag. 57. 51 Cfr. Thomas Nagel, Guerra e massacro, in Questioni mortali, Milano, 1986, pag. 58 52 Op.cit., pag. 60.
  • 28. 28 www.sintesidialettica.it Nagel prende spunto dalle circostanze – tragicamente inevitabili, quando non deliberatamente provocate, nella guerra moderna – in cui rimangono uccisi dei civili, e che egli definisce, con una formula che oggi riscuote molto successo presso i portavoce militari, “effetti collaterali”.53 “Sarebbe anche possibile adottare una posizione deontologica meno rigorosa dell’assolutismo, senza cadere nell’utilitarismo. Ci sono due modi in cui qualcuno potrebbe riconoscere la rilevanza morale della distinzione tra uccisioni deliberate e non deliberate, senza essere un assolutista. Uno sarebbe quello di considerare l’assassinio come una voce particolarmente negativa nel catalogo dei mali, molto più negativa di una morte accidentale o di un assassinio non deliberato. Ma l’altro sarebbe quello di affermare che l’uccisione deliberata di un innocente è inammissibile a meno che costituisca il solo modo per prevenire qualche male molto grave (per esempio, la morte di cinquanta persone innocenti). Si denomina questa la soglia a cui la proibizione contro l’omicidio è superata. La posizione non è assolutista, naturalmente, ma non è neppure equivalente ad assegnare all’assassinio un disvalore utilitarista eguale al disvalore della soglia”.54 Al di là dei disvalori e delle soglie, quella che Nagel sta qui riproponendo è la vecchia politica del male minore, contro cui egli stesso si scaglia in questo saggio. Questa ambiguità emerge anche nell’analisi che egli fa della distinzione tra combattenti e non combattenti – una distinzione che rivestiva un ruolo fondamentale anche nell’analisi di Schmitt, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Nagel afferma che in guerra, come in tutti i tipi di competizione, il nemico dovrebbe essere colpito in maniera diretta e non indiretta; in sostanza, per indebolire il nemico, non è lecito colpire la popolazione civile e in generale tutte quelle infrastrutture non direttamente riconducibili alla sfera militare: “Questo modo di guardare il problema ci aiuta anche a capire l’importanza della distinzione tra combattenti e non combattenti, e l’irrilevanza di gran parte delle critiche rivolte alla sua incomprensibilità e significatività morale. Secondo una posizione assolutista, l’uccisione deliberata di innocenti è omicidio, e in guerra il ruolo dell’innocente è ricoperto dai non combattenti. Si è ritenuto che questo sollevi due tipi di problemi: primo, la difficoltà – che è facile immaginare – di tracciare una divisione, nel conflitto moderno, tra combattenti e non combattenti; secondo, problemi che derivano dalla connotazione della parola “innocente” […]. Dobbiamo quindi distinguere i combattenti dai non combattenti sulla base della loro immediata capacità di minaccia o nocività. Non sostengo che la linea di demarcazione sia netta, ma non è così difficile, come spesso si è supposto, collocare individui da una parte o dall’altra. I bambini non sono combattenti anche se 53 Op. cit., pag. 64 . Va ricordato che questo saggio è stato scritto nel 1971, in piena Guerra del Vietnam. 54 Op. cit., pag. 65.
  • 29. 29 www.sintesidialettica.it possono entrare a far parte delle forze armate, se è permesso loro di crescere. Le donne non sono combattenti proprio perché generano bambini o offrono assistenza ai soldati. Più problematico è il caso del personale sussidiario, in uniforme e non, dagli autisti di carri di munizioni e cuochi dell’esercito agli operai civili in fabbriche di munizioni e agli agricoltori. Credo che essi possano essere plausibilmente classificati applicando la condizione che la prosecuzione del conflitto deve essere rivolta contro la causa del pericolo, e non contro ciò che è periferico. La minaccia rappresentata da un esercito e dai suoi membri non consiste semplicemente nel fatto che sono uomini, ma nel fatto che sono armati e stanno usando le loro armi per perseguire certi obiettivi. I contributi alle loro armi e alla loro logistica sono contributi a questa minaccia; i contributi alla loro semplice esistenza in quanto uomini no. È quindi sbagliato rivolgere un attacco contro coloro che provvedono semplicemente ai bisogni dei combattenti in quanto esseri umani, come gli agricoltori e coloro che forniscono cibo, anche se la sopravvivenza di un essere umano è una condizione necessaria del suo efficiente funzionamento di soldato”55 . Si ha l’impressione che quelle che Nagel sta definendo non siano le regole di una guerra ma di una competizione sportiva. La confusione che egli fa non è tra combattenti e non combattenti, ma tra guerra e conflittualità ordinaria. Una delle eredità più importanti della teoria di Clausewitz è che il nemico deve essere colpito “al cuore”, qualunque esso sia: esercito, apparato politico, sistema finanziario, morale della popolazione. L’unico parametro valido in guerra è la sopravvivenza, che deriva dalla vittoria. È questo che sostiene Clausewitz quando teorizza l’“impiego assoluto della forza”: “Essa è accompagnata da restrizioni insignificanti, che meritano appena di essere menzionate, alle quali si da il nome di diritto delle genti, ma che non hanno capacità di affievolirne l’energia . . . . Gli spiriti umanitari potrebbero immaginare che esistano metodi tecnici per disarmare o abbattere l’avversario senza infliggergli troppe ferite e che sia questa la finalità autentica dell’arte militare. Per quanto seducente ne sia l’apparenza, occorre distruggere tale errore poiché, in questioni così pericolose come la guerra, sono appunto gli errori risultanti da bontà d’animo quelli maggiormente perniciosi”56 . Sono parole a cui Nagel sembra non essere più sordo quando, in una nota, ammette: “Forse la tecnologia e l’organizzazione della guerra moderna sono tali da rendere impossibile il conflitto come una forma accettabile di ostilità interpersonale o anche internazionale. Forse la guerra è troppo impersonale e su larga scala per quello”57 . Le acrobazie speculative di Nagel hanno una loro validità nella rassicurante tranquillità delle torri d’avorio accademiche e nell’iperuranio da cui i pacifisti assolutisti sembrano giudicare il 55 Op. cit., pagg. 72 – 73. 56 Karl von Clausewitz, op.cit., pag. 20. 57 Thomas Nagel, op.cit., pag. 75.
  • 30. 30 www.sintesidialettica.it mondo, ma franano inevitabilmente quando scendono dalla cattedra per misurarsi con la realtà della guerra. In nessun ambito come nella filosofia della guerra vige il principio: primum vivere, deinde filosofare. Il suo imbarazzo appare evidente quando afferma: “Non intendo rendere la guerra romantica. È sufficientemente utopico suggerire che quando nazioni entrano in conflitto possano elevarsi al livello di barbarie limitata che caratterizza tipicamente un conflitto violento tra individui, piuttosto che sguazzare nella fossa morale in cui sembrano essersi sistemate, circondate da enormi arsenali”58 . É un’argomentazione che trovo francamente insufficiente sia nello spessore teorico che nella sua eventuale realizzazione pratica. La teoria di Nagel appare ambigua sotto un duplice aspetto: 1) si avvicina per molti versi alla gesuitica ambiguità della teologia morale cattolica (citata dallo stesso Nagel)59 , camaleontica e manipolabile quanto basta per scagliare l’anatema contro la violenza, quando praticata dai “nemici della fede”, ma per santificarla quando praticata “nel nome di Dio”; 2) sembra una scappatoia sofistica per arrivare a giustificare, per altra via, quelle misure violente che l’utilitarismo ammette in partenza. L’inconsistenza teorica e l’inapplicabilità pratica delle posizioni assolutistiche, messe a confronto con quelle utilitaristiche, sono tali da costringere Nagel ad ammetterle esplicitamente: “L’assolutismo […] opera come una limitazione del ragionamento utilitarista, non come un sostituto di esso”60 . Non è preferibile allora, a questa “mezza misura”, la meno cerebrale ma più coerente formulazione di Hobbes, quando risolveva la prima legge di natura nel cercare la pace, e il primo diritto di natura nel difendersi con tutti i mezzi?61 . In conclusione del saggio Nagel sembra riscoprire che il mondo può “anche essere un posto cattivo”62 , e che vi è una incommensurabilità di fondo tra le teorie morali, e tra la ragione morale e la realtà . Ma quello che Nagel, dal suo punto di vista, non riesce a vedere, è che questa incommensurabilità può essere superata se si prendono come parametri non dei valori morali, tanto nobili quanto opinabili, ma dei valori assoluti (non nell’ottica dell’assolutismo affrontato da Nagel) antropologico-darwiniani, come la vita, individuale e collettiva, e la sua espressione minimale, che è la sopravvivenza. 58 Op. cit., pag. 75. 59 Op. cit., pagg. 63 – 64 . 60 Op. cit., pag. 62. 61 Thomas Hobbes , op. cit., pag. 114. 62 Thomas Nagel, op. cit., pag. 77.
  • 31. 31 www.sintesidialettica.it È singolare che un teorico come Nagel abbracci una causa in maniera così tentennante e, torno a dirlo, ambigua; proprio su un argomento come questo sarebbe stato auspicabile, da parte sua più che di chiunque altro, uno sguardo da nessun luogo. Uno sguardo da nessun luogo, o quanto meno da un luogo “altro” rispetto alle prese di posizione precedenti, sul rapporto tra guerra e giustizia, è certamente quello di Hobbes, e questo, per tornare alla distinzione che ho introdotto all’inizio di questo paragrafo, si verifica sia a livello intrinseco che estrinseco. Dal punto di vista intrinseco, Hobbes osserva come all’interno della guerra di tutti contro tutti, nulla possa essere ingiusto: “La nozione del diritto e del torto, della giustizia e dell’ingiustizia non v’ha luogo. Dove non esiste legge, non esiste ingiustizia. Forza e frode sono in guerra le due virtù cardinali”63 . Come Hobbes afferma esplicitamente, in guerra il concetto di giustizia non ha diritto di cittadinanza. Dal momento che la giustizia serve a definire anche ciò che non è conforme ai suoi parametri, cioè l’ingiustizia, quando tutto diventa giusto, il concetto di giustizia crolla per “ipertrofia”; unico parametro dell’agire umano, non ha più motivo di essere applicato: in un mondo in cui tutto è giusto, che bisogno c’è di tribunali? La totale assenza di discriminazione morale porta alla fine della giustizia: se tutto è giusto, niente è giusto. Dal punto di vista estrinseco, Hobbes assume quei criteri antropologico-darwiniani, o “assoluti”, che opponevo poc’anzi allo scetticismo di Nagel, e che abbiamo già incontrato nel secondo paragrafo del primo capitolo: la guerra è “giusta” nel momento in cui, nella lotta per la sopravvivenza, garantisce la vita al vincitore; è “ingiusta” nel momento in cui la guerra di tutti contro tutti mette a repentaglio la vita di ciascuno. Il fattore discriminante nell’attribuzione di valore morale alla guerra consiste nella sua funzione adattiva. Lo stesso schema può essere applicato all’analisi che Clausewitz svolge del rapporto guerra- giustizia. Dal punto di vista intrinseco, abbiamo già visto come egli non ponga alcun argine all’impiego della forza; non esistono vincoli morali nelle azioni di guerra. Questa posizione, di fatto, lo pone molto vicino alla teoria di Hobbes. Per quanto riguarda il punto di vista estrinseco, dobbiamo recuperare quel fattore che, insieme alla guerra, rappresenta il cardine della teoria clausewitziana: la politica. Dalla considerazione che la politica è “l’intelligenza della guerra”, e la guerra è il mezzo per conseguire i suoi scopi, deriva che non si possono imputare al mezzo le colpe commesse da chi lo utilizza: “Com’è naturale, si deve partire dal concetto che la politica concentra in sé e persegue tutti gli interessi di governo, compresi quelli umanitari e in genere tutti quegli altri di cui si possa 63 Thomas Hobbes, op.cit., pagg. 111 – 112.
  • 32. 32 www.sintesidialettica.it razionalmente parlare. Ed in vero la politica altro non è se non una mandataria di questi vari interessi per i loro rapporti con l’estero. Qui non ci interessa il fatto che essa possa essere male orientata, che possa servire all’ambizione, agli interessi privati e alla vanità dei governanti, più che ai veri interessi della nazione; giacchè in nessun caso l’arte di guerra può assumere il compito di precettore della politica, e nel nostro studio dobbiamo considerare la politica come rappresentante tutti gli interessi dell’intero organismo sociale […]. Non è questa influenza, bensì la politica stessa, che bisognerebbe biasimare. Se la politica è sana, se cioè risponde allo scopo, non può agire nel suo campo che a favore della guerra: e quando la sua influenza allontana la guerra dai suoi obbiettivi, la ragione sta nell’errata politica seguita”.64 Le argomentazioni di Hobbes, e soprattutto di Clausewitz, ci permettono di introdurre un concetto che era implicito già nell’analisi della teoria di Nagel: il concetto di amoralità del mezzo. Un mezzo non ha una connotazione morale, e se proprio si vuole dargliene una, questa gli deriva dal fine per il conseguimento del quale viene impiegato; il luogo comune, di falsa attribuzione machiavelliana, secondo cui il fine giustifica i mezzi, ha senso se viene letto come: è il fine, e solo il fine, che giustifica il mezzo; da che altro un mezzo può trarre la sua giustificazione, se non dal fine per cui è impiegato? Da quanto precede si evince la necessità di abbandonare la tradizionale distinzione tra guerre giuste e guerre ingiuste, per adottare nuovi criteri di valutazioni. La morale, almeno nell’accezione corrente del termine, non ha diritto di cittadinanza in guerra. Il criterio emergente è quello dell’opportunità. Alla consueta opposizione guerre giuste – guerre ingiuste converrà pertanto sostituire l’opposizione guerre opportune – guerre inopportune. È questo uno dei cardini della più amorale delle concezioni politiche: il realismo. Converrà analizzarlo allora anche attraverso le categorie assolutistiche e utilitaristiche introdotte da Nagel e le risposte che ad esse si possono dare tramite le categorie introdotte da Max Weber. Vedremo pure, con Weber, se e come, all’interno del realismo, sia possibile un recupero dell’etica. §.2 Dal realismo all’etica. La guerra tra morale e politica in Max Weber. Nelle opere politiche di Max Weber, di cui “La politica come professione” rappresenta forse la sintesi (e, perché no, la “summa” in cui vengono tratte le principali conclusioni), mi pare di poter rilevare due fili conduttori, due trame sottese, un massimo comune denominatore, se si preferisce, su cui Weber sviluppa la dinamica del suo pensiero politico: il Realismo e l’Etica. 64 Karl von Clausewitz, op.cit., pagg. 813 – 816.
  • 33. 33 www.sintesidialettica.it Se rileggiamo le sue opere politiche alla luce di questo binomio arriveremo, come nelle pagine finali de La politica come professione, a considerare se e come sia possibile che due approcci alla politica così diversi (non dimentichiamo che il realismo è la concezione politica “amorale” per antonomasia), due linee così apparentemente parallele, possano trovare un punto di convergenza, in virtù del quale procedere su una sola nuova strada; arriveremo in sostanza a considerare se, con Max Weber, si possa cominciare a parlare di una “etica del realismo”, ovvero, di un’autentica “etica politica”. Seguiamo la traccia che lo stesso Weber ci suggerisce e cominciamo col considerare che cosa egli intenda per politica. Partendo dal teorema di Trockij, secondo cui “ogni stato è fondato sulla forza”, Weber definisce lo stato come “quella comunità umana che nei limiti di un determinato territorio esige per sé il monopolio della forza fisica”65 . La politica si configura quindi come aspirazione, o come Weber scriverà altrove, lotta66 per il potere sia tra i vari stati che tra le classi all’interno di ogni singolo stato. Come rileva Norberto Bobbio67 , Max Weber opera una sintesi tra la concezione dei rapporti di potenza tra gli stati di Hegel, e quella dei rapporti di forza tra le classi di Marx – sintesi che era già stata svolta peraltro tre secoli prima di questi due filosofi dal primo grande scienziato della politica, che è Niccolò Machiavelli68 . Emergono dunque i binomi stato–forza, politica–lotta, sintomi di una conflittualità strutturale nella storia (di machiavelliana memoria) che sfocia nella Machtpolitik (politica di potenza), di cui Weber è un strenuo sostenitore. Raymond Aron, in un suo saggio dedicato a questo tema69 , mette in luce, tra gli altri aspetti, la tensione nazionalistica – legata al periodo storico che stava attraversando la Germania – che pervade questa concezione politica, quasi ne fosse la causa; sottolinea, in chiave anche polemica, il 65 Vedi La politica come professione in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, pag. 48. 66 Vedi Parlamento e Governo in Parlamento o Governo e altri scritti politici, Einaudi, pag. 164: “…tutta la politica è, nella sua essenza, lotta”. 67 Vedi La teoria dello stato e del potere in Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Einaudi, pagg. 222 – 223. 68 Ritroveremo spesso l’influenza del “segretario fiorentino” sul pensiero di Weber, influenza peraltro mai esplicitamente dichiarata, come d’abitudine, da Weber (ne La politica come professione c’è solo un fugace riferimento al “machiavellismo” e al Principe, che non viene svolto, tuttavia, in maniera critica), il quale con molta parsimonia cita i suoi referenti teorici (basti considerare, a puro titolo di esempio, che egli non cita mai Karl Marx, il quale, insieme con i cosiddetti “letterati” – sia pure con atteggiamento intellettuale completamente diverso – è uno dei suoi idoli polemici). 69 Vedi Max Weber e la politica di potenza in Le tappe del pensiero sociologico, Mondatori pagg. 581 – 595.
  • 34. 34 www.sintesidialettica.it legame che Weber stabilisce tra cultura e potenza, considerando la seconda come veicolo di propagazione della prima70 ; contestualizza la Machtpolitik in una “visione darwiniana-nietzscheana del mondo”, e a giustificazione di questa riporta quel passo di “Politische Schriften” che risuona come il decalogo del Machtpolitiker: “non è la pace e la felicità degli uomini che dobbiamo procurare ai nostri discendenti ma la lotta eterna per conservare ed edificare il nostro carattere nazionale […]. I nostri discendenti, davanti alla storia, non ci renderanno responsabili in primo luogo del genere di organizzazione economica che gli avremo lasciato in eredità, ma dell’estensione di spazio libero che gli avremo conquistato e trasmesso. In ultima analisi, i processi di sviluppo sono anch’essi lotte per la potenza […]. Così la ragion di stato per noi è la misura ultima dei valori, anche nella sfera delle considerazioni economiche”. Mai del realismo politico è stata fatta una sintesi così perfetta; Max Weber travalica i limiti della politica, per conferire ad essa una connotazione antropologica. Nella dinamica della formazione dello stato moderno assistiamo ad un “processo di espropriazione politica” tale che i rappresentanti dei “ceti” (sorta di caste amministrative di notabili da cui il sovrano spesso dipende) vengono delegittimati dall’amministrare il potere a vantaggio di un capo71 . È durante, e in virtù, di questo processo che comincia ad emergere la figura del “politico di professione”. L’analisi che Weber compie di questa nuova “categoria professionale” la ritroviamo in quasi tutte le sue opere politiche: da Diritto elettorale e democrazia a Parlamento e Governo a La politica come professione. Si può vivere “di” politica o “per” la politica; sebbene le due cose spesso coincidano, da questa dicotomia derivano due diverse tipologie di professionisti: chi vive “di” politica dipende economicamente da questa attività – il funzionario o burocrate di partito; chi vive “per” la politica trae i suoi proventi da altre attività – da quest’ultima categoria emerge in genere il capo, il leader carismatico, il demagogo – termine privato, da Weber, dell’accezione negativa con cui noi oggi, comunemente, lo usiamo. 70 Me è vero anche il contrario, vedi il ruolo svolto dalla Coca-Cola e dal fast food di Mc Donald’s nel processo di americanizzazione del mondo, eufemisticamente definito “globalizzazione”. 71 Non si può non pensare a questo proposito, alla figura del Principe popolare di Machiavelli, che fonda il suo potere sul popolo a discapito dell’aristocrazia, vedi in proposito La politica come professione in Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, pagg. 53 – 54.
  • 35. 35 www.sintesidialettica.it Ma che cos’è che fa del demagogo weberiano un capo politico e non un semplice trascina-popolo ambizioso e assetato di potere? Risponde Max Weber: la dedizione a una “causa” intesa come etica politica72 . Ci troviamo dunque ad affrontare il secondo dei due assi portanti su cui si regge, come si era detto in apertura di questo paragrafo, l’intera costruzione teorico-politica di Max Weber: l’etica. In particolare, questa tematica va ben al di là della sua concezione politica, per costituire il leit motiv della sua intera produzione intellettuale. Weber avverte immediatamente il rischio di ambiguità che grava sulla nozione di “ethos della politica in quanto "causa” (Sache)”, e sente la necessità di fare chiarezza. Non è un caso che usi, come argomento chiarificatore, proprio la guerra, fenomeno che, per il suo brutale minimalismo, ben si presta come strumento per sgombrare il campo da orpelli sovrastrutturali e, più spesso, da giustificazioni ipocrite. “Sgombriamo innanzitutto il terreno da una deformazione di bassa lega. L’etica può cioè assumere in primo luogo un ufficio che moralmente è deleterio al massimo grado. Facciamo qualche esempio. È raro che un uomo il quale si stacchi da una donna per essersi innamorato di un’altra, non senta il bisogno di giustificarsi davanti a se stesso col dire che la prima non era più degna del suo amore o che lo aveva ingannato, o adducendo altri “motivi” del genere. Si tratta di una scortesia con cui si cerca di dare una indoratura di “leggittimità” al semplice fatto ineluttabile che non si ama più e che la donna deve sopportarne le conseguenze, cosicché si accampa pure un diritto, e, oltre all’infelicità, si cerca di addossare alla donna anche un torto. In modo identico si comporta il concorrente fortunato in amore: il rivale deve per forza valere di meno, altrimenti non sarebbe rimasto soccombente. Ma si ha lo stesso genere di evidenza quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il vincitore proclama con tracotanza priva di ogni dignità: “Ho vinto perché avevo ragione”. Oppure quando l’animo viene meno di fronte agli orrori della guerra e invece di dire francamente: “Era troppo”, si sente il bisogno di giustificare davanti ai propri occhi la stanchezza della guerra, sostituendovi questo sentimento: “Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa immorale”. E così pure nel caso dei vinti. Dopo una guerra, anziché andare in cerca del “colpevole”, con mentalità da donnicciole – laddove è stata la struttura della società a determinare la guerra -, un atteggiamento virile e austero detta queste parole: “Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta. Questa è cosa fatta: parliamo ora di quali conseguenze bisogna trarne in relazione agli interessi concreti che erano in gioco, e – questo è l’essenziale – in vista della responsabilità di fronte all’avvenire, la quale grava specialmente sul vincitore”. Tutto il resto manca di dignità e si sconta più tardi. Una nazione perdona una lesione dei propri interessi, non l’offesa al proprio onore, meno 72 Vedi La politica come professione in Il lavoro intellettuale come professione,
  • 36. 36 www.sintesidialettica.it che mai quando questa è perpetrata con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni attizza nuovamente l’indegno accanimento, l’odio e lo sdegno, mentre la guerra, una volta finita, dovrebbe esser sepolta almeno sul piano morale. Ciò è possibile solo mediante l’oggettività e la cavalleria, ma soprattutto mediante la dignità. Non mai mediante una “etica”, la quale in realtà significa mancanza di dignità da ambo le parti. Invece di preoccuparsi di quel che deve interessare l’uomo politico, ossia il futuro e le possibilità di fronte ad esso, quella persegue la questione – politicamente sterile perché insolubile – della colpa commessa nel passato. Se mai ve n’è una, questa è colpa politica73 . E inoltre l’inevitabile travisamento dell’intero problema viene occultato da interessi crudamente materiali: gli interessi del vincitore a trarre il massimo guadagno – morale e materiale -, le speranze del vinto di ricavar qualche vantaggio riconoscendo la propria colpa; se vi è qualcosa di “abietto”, è appunto questo, ed è la conseguenza di quel modo di valersi dell’“etica” come mezzo per la “soperchieria”74 . L’analisi del tema, che conclude La politica come professione, prende le mosse dalla distinzione tra due tipi di etica: “l’etica della convinzione”, e “l’etica della responsabilità”. L’etica della convinzione, o etica assoluta, tipica della religione cattolica, considera la moralità di un’azione “di per sé”, senza considerare cioè, il contesto in cui essa si svolge e soprattutto le conseguenze che da essa derivano; come afferma Weber: “il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio”. L’etica della responsabilità, o etica delle conseguenze, valuta la moralità di un’azione in relazione alle conseguenze che da essa derivano e al grado di responsabilità che l’agente si assume di fronte ad esse. Qual è l’etica da adottare in politica? Seguiamo ancora l’argomentazione di Weber. “[…] l’etica assoluta del Vangelo. Un’etica della mancanza di dignità – a meno che non si tratti di un santo solo allora quell’etica ha un senso e una dignità. Altrimenti no. Infatti, laddove in conseguenza dell’etica dell’amore si comanda: “Non resistere al male con la violenza”, il precetto che vale viceversa per il politico è il seguente: “devi resistere al male con la violenza, altrimenti sarai responsabile se esso prevale” […]. Il pacifista che agisca secondo il Vangelo rifiuterà di prendere le armi oppure le getterà via, come veniva raccomandato in Germania, ritenendolo un dovere morale, allo scopo di por fine alla guerra e con ciò a ogni guerra. Il politico dirà: “L’unico mezzo sicuro per screditare la guerra per un avvenire entro i limiti delle nostre previsioni, sarebbe stata una pace di statu quo”. I popoli infatti si Einaudi, pag. 104. 73 È l’ennesima conferma – come se ce ne fosse bisogno - della straordinaria abilità della politica di “scaricare” la responsabilità dei propri fallimenti su altre discipline: in questo caso sull’etica, in precedenza, come denunciava Clausewitz, sulla guerra. Vedi in proposito il primo paragrafo del primo capitolo [NdR]. 74 Op. cit., pagg. 104, 105, 106.
  • 37. 37 www.sintesidialettica.it sarebbero chiesti: a che scopo questa guerra? Essa sarebbe stata ridotta ad absurdum: cosa che ora non è più possibile. Infatti, per i vincitori – o almeno per una parte di essi – la guerra è stata politicamente proficua. E di ciò è responsabile quell’atteggiamento che ci ha reso impossibile ogni resistenza. Ma allora – quando sarà passata l’epoca dell’avvilimento – non la guerra, bensì la pace sarà discreditata: conseguenza, questa, dell’etica assoluta […]. Ma nemmeno con ciò il problema è esaurito. Nessuna etica del mondo può prescindere dal fatto che il raggiungimento di fini “buoni” è il più delle volte accompagnato dall’uso di mezzi sospetti o per lo meno pericolosi e dalla possibilità o anche dalla probabilità del concorso di altre conseguenze cattive, e nessuna etica può determinare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifichi” i mezzi e le altre conseguenze moralmente pericolose […]. Per la politica, il mezzo decisivo è la forza […]. Qui, su questo problema della giustificazione dei mezzi mediante il fine, anche l’etica della convinzione in genere sembra destinata a fallire. E in effetti essa non ha logicamente altra via che quella di rifiutare ogni azione che operi con mezzi pericolosi dal punto di vista etico. Logicamente. Senza dubbio, nel mondo della realtà noi facciamo continuamente l’esperienza che il fautore dell’etica della convinzione si trasforma improvvisamente nel profeta chiliastico, e che per esempio coloro i quali hanno testè predicato di opporre “l’amore alla forza”, un istante dopo fanno appello alla forza – alla forza ultima, la quale dovrebbe portare all’abolizione di ogni possibile forza, così come i nostri capi militari ad ogni nuova offensiva dicevano ai soldati: “Questa è l’ultima, ci porterà alla vittoria e quindi alla pace”. Chi segue l’etica della convinzione non sopporta l’irrazionalismo etico del mondo. Egli è un “razionalista” cosmico-etico. Chiunque di voi conosca Dostoevskij ricorderà l’episodio del Grande Inquisitore dove il problema è discusso con estrema acutezza. Non è possibile ridurre a un comune denominatore l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità, o decretare, sul piano morale, quale fine debba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia fatta qualche concessione in generale a tale principio […]. È il mezzo specifico della violenza legittima, semplicemente, come tale, messo a disposizione delle associazioni umane, quello che determina la particolarità di ogni problema etico della politica […]. Chiunque scenda a parti con tale mezzo, per qualsiasi fine – e nessun politico può farne a meno – si espone alle specifiche conseguenze che ne derivano. Ciò vale in modo particolare per chi combatta per una fede, tanto religiosa quanto rivoluzionaria […]. Chi voglia occuparsi di politica in generale, ma specialmente il politico di professione, deve esser consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità di fronte a ciò che egli può divenire per effetto di quelli […]. Invero, la politica si fa con il cervello ma non con esso solamente. In ciò l’etica della convinzione ha pienamente ragione. Ma se si debba
  • 38. 38 www.sintesidialettica.it seguire l’etica della convinzione o quella della responsabilità, e quando l’una o quando l’altra, nessuno è in grado di determinarlo”75 . Come si vede, anche questa volta Max Weber si trova di fronte ad una scelta tra due opzioni antitetiche, e neanche questa volta si astiene dal tentare una difficile congiunzione. E in effetti questo problema è antico come la filosofia politica; emerso in tutta la sua drammaticità nell’opera di Machiavelli, nonostante i tentativi di risoluzione da parte di quest’ultimo, il risultato era rimasto il medesimo: la assoluta incommensurabilità tra azione etica e azione politica; chiunque intraprenda la strada della politica per percorrerla fino in fondo, deve sacrificare l’etica (intesa come ethos morale); con le parole di Weber: “chi si immischia nella politica, ossia si serve della potenza e della violenza, stringe un patto con potenze diaboliche e, riguardo alla sua azione, non è vero che soltanto il bene possa derivare dal bene e il male dal male, bensì molto spesso il contrario. Chi non lo capisce, in politica non è che un fanciullo”76 . Appare evidente da queste parole per quale delle due etiche Max Weber propenda, e appare anche evidente come il pensiero di Machiavelli sia quanto mai presente nelle sue argomentazioni. Anche per Weber lo strumento, il mezzo per eccellenza della politica è la forza, e alla luce di questo teorema si capisce come l’interpretazione gesuitica del pensiero di Machiavelli, sintetizzata nel luogo comune: il fine giustifica i mezzi, si risolva nel più laico e razionale: il fine necessita di determinati mezzi, e si capisce anche come Weber non possa non fare sua la conclusione a cui giunge il segretario fiorentino. Per entrambi, l’uomo (politico in particolare) non fa il male perché cattivo, ma perché, costretto dalla realtà e dalla storia, non può non farlo. Anche le invettive di Weber contro quei “modelli di carità e bontà […] nati a Nazareth o ad Assisi” che “hanno operato in questo mondo” pur mantenendo un’ottica ultramondana, ricordano fin troppo esplicitamente gli strali lanciati da Machiavelli contro quegli utopisti (“letterati” avrebbe detto forse Weber) che non riescono a distinguere il mondo come è da come vorrebbero che fosse. L’utilizzo della forza per il raggiungimento di un obiettivo e il patto con le potenze demoniache che da esso deriva sono dunque una condizione imprescindibile per l’uomo politico; ed è alla luce di queste considerazioni che torniamo ad allacciarci al tema del realismo e della potenza che avevamo considerato nelle prime pagine. Per Weber, come per Machiavelli, la priorità assoluta è la sopravvivenza dello stato; la potenza dello stato è la conditio sine qua non perché questa necessità venga soddisfatta. È in questa ottica che si comprende come questi due teorici prediligano lo stato repubblicano: non perché esso sia moralmente più giusto, ma perché politicamente più potente77 . 75 Op. cit., pagg. 107-118 76 Op. cit., pagg. 112-113. 77 Consente infatti una miglior selezione dei capi. A questo proposito Weber, in Parlamento e Governo, cita l’esempio del sistema parlamentare inglese, che ha