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in your eyes ezine
ANNUARIO
01/13
1
PRIMAVERA SOUND 2013
INTERVISTA AI DRIVIN MRS SATAN
SIMONE SARASSO - IL PAESE CHE AMO
VARAZZERS
FANZINE E ANNI NOVANTA
MASSIMO VOLUME, GAZEBO PENGUINS, SALMO
5MDR, IVENUS, FOUR TET, TOKIO SEX DESTRUCTION
iye
2
Directed by:
Simone Benerecetti
Web: http://www.iyezine.com
E-mail:	 info@iyezine.com
Collaboratori:
Massimo Argo, Il Santo, Francesco Cerisola, Stefano Cavanna, Nicolas Gasco, Marco
Appioli, Davide Siri, Ilaria Maietta, Gianluca Perata, Gianluca Camogli, Giovanni Sciuto,
Kaosleo, Marco Repetto, Pietro Caviglia, Luca Fazio, Alessandro Bonetti, Alberto Cente-
nari, Freddi Koratella, Mauro Francioni, Francesco Orazzini, Marini Yolima.
N. 1/2013
Dal 2006 abbiamo avuto da 124.216 persone sul sito con 372.875 pagine viste.Grazie.
3
Editoriale
In Your Eyes è nata nel 1999 e io
stavo per finire le scuole medie. Es-
cluse le band più note e commerciali
del periodo conoscevo ben poco di
musica. Sicuramente non conoscevo
In Your Eyes (nonostante fosse fatta
da gente che dista da casa mia solo
20 Kilometri). Questo è quello che
solitamente succede in provincia, in
piccole città come Savona, chiuse su
sé stesse e, spesso, prive di curiosità
e voglia di scoperta. Nessuno si
preoccupa di quello che succede a
un palmo dal proprio naso, nessuno
fa attenzione al fatto che chi ci sta
di fronte potrebbe avere le nostre
stesse idee, i nostri stessi gusti e che,
insieme si potrebbe fare qualcosa di
molto più grosso del solito far niente.
Nessuno si accorge che città come
Genova, Torino, Milano sono lontane,
ma non così lontane da essere con-
cepite come irraggiungibili. Nessuno
fa caso al fatto che dietro al progetto
più grande che si possa immaginare
ci saranno sempre persone in carne
ed ossa, uguali a noi in ogni più pic-
cola parte. Nessuno ha mai voglia di
provare a fare un passo in più ris-
petto al dovuto.
Io stesso facevo parte di questa cat-
egoria di persone.
Può capitare, però, che un qualcosa,
un momento, una situazione, un’idea,
in maniera improvvisa, ti prenda e ti
rivolti come un calzino, piantandoti
dentro al petto una voglia irrefrena-
bile di fare quello che credevi fosse
impossibile fare. Per me è stato il
parlare, dopo molte birre, con un mio
amico, il quale, a un certo punto, con
tono incazzato mi ha semplicemente
chiesto “Ma perché porti quel paio
di scarpe?”. Sembra stupido, ma non
sapevo rispondere.
Ci ho pensato giorni interi a quella
domanda e alla fine ho deciso di
cambiare (non solo le scarpe) e met-
termi a fare cose che sentivo vera-
mente mie, a cui avrei potuto dare
sempre e comunque una spiegazi-
one nel caso qualcuno me l’avesse
chiesto. Ho costruito un’etichetta che
fa dischi e ho cominciato a scrivere
recensioni.
Ho guardato lontanissimo non ba-
dando mai a quel che avevo vicino
(la cultura della provincia è dura da
eliminare) e, solo dopo 10 anni, ho
scoperto che dietro l’angolo c’era
quello che più mi interessava, uno
spazio dove parlare liberamente della
musica che più mi prendeva, senza
aver pressioni, scadenze e ansie.
In Your Eyes è questo, una piccola
webzine, dura e pura, che fregan-
dosene di tutto e tutti, parla di quel
che gli pare, quando gli pare. Pochi
ragazzi (con ormai quarant’anni sulle
spalle) che, con una passione infinita,
portano avanti un progetto che non
ha altro obiettivo se non quello di
diffondere (soprattutto a chi gli sta
vicino, ma anche a chi è lontanissimo)
musica, idee e contenuti.
Una sorta di monolite che ha su-
perato indenne tutti gli anni ‘00 e che,
invece di sprofondare nella stagnazi-
one, ha preferito costruire un lento e
costante sviluppo, fatto di piccole ma
importanti cose.
4
Ora, a quasi quindici anni di distanza
dal primo click, In Your Eyes vuole
provare a fare un ulteriore piccolo
passo, fare qualcosa che la ricolleghi
al suo passato, a quando, prima del
1999 e con altro nome, girava di
mano in mano sotto forma di fanzine
cartacea autoprodotta: ritornare, per
una volta, oggetto fisico, concreto
e tangibile. Abbiamo voluto creare
queste 50 pagine (circa) per raccon-
tarvi quali sono stati per noi i dischi,
le band, i libri e i concerti più interes-
santi di questo 2013, ma non solo.
L’altro obiettivo che ci siamo posti
è stato quello di fornirvi una prova
incontrovertibile del fatto che le
cose, se si vuole, si possono fare, che
anche nel posto più arido possono
nascere iniziative che valga la pena
supportare, che non si è soli, che
dietro a ogni lavoro ci sono sempre
delle persone e che, interagendo
con questi lavori, è un po’ come
comunicare con queste persone, che
costruirsi da soli è molto meglio che
adeguarsi ad uno standard o a uno
stereotipo, che la crisi è monetaria,
ma che i progetti, prima di tutto,
sono fatti di idee.
Francesco Cerisola.
comunicazione
5
PRIMAVERA FESTIVALMemorabile in termini di numeri, con
oltre 170 mila presenze in tre giorni.
In termini di cambio di sponsor
principale (il passaggio da San Miguel
ad Heineken, con evidente vantaggio
per le casse del festival). Ma in par-
ticolare nel fatto che sia il gran Galà
di presentazione in streaming live
mondiale che la campagna di market-
ing successiva abbiano creato una
aspettativa a dir poco virale intorno
all’evento. Più degli anni scorsi, se
possibile, il Primavera Sound era “il
festival in cui bisognava andare”.
Per noi, per fortuna, il Primavera
Sound rimane ancora una benefica
esplosione di suoni distillata in
cinque giorni e 230 concerti. Poco
ci importa della ruota panoramica
plagiata dal Coachella, su cui non
saliremo mai. Delle inconsuete tem-
perature autunnali, brillantemente
combattute saltando sempre in zona
transenna. Delle voci basse dei My
Bloody Valentine, che devono essere
basse, e se non sapete il perché peg-
gio per voi.
GIOVEDI 23 MAGGIO
Il pop east-coast dei Wild Nothing
apre le danze quando ancora il sole
è alto. E’ un bell’ascoltare, sebbene
i brani eseguiti troppo pedissequa-
mente rispetto ai due album non
destino particolari sussulti.
Sul palco ATP invece compare la vera
sorpresa del giorno: i White Fence.
Il progetto solista di Tim Presley,
intriso di cavalcate psichedeliche
dall’incedere garage, si spinge su
territori già esplorati dai conterranei
Oh Sees, e grazie ad un songwriting
intenso quanto spigoloso riesce ad
ammaliare e convincere.
I Tame Impala non lasciano spazio
all’immaginazione: un muro di suoni
anni ’60 si abbatte sul palco prin-
cipale, tappeti di synth fanno vol-
are una sezione ritmica a dir poco
scioccante: rullate dimezzate aprono
come dighe delle cavalcate di delay
chitarristici in cui è impossibile non
perdersi. Il bassista dei Pond è alla
sua prima uscita dopo l’abbandono
di Nick Allbrook, ma poco cambia: i
brani funzionano molto meglio che
da studio, sono più incisivi e i fuzz
dilatati delle Rickenbacker la fanno
da padrona. Un concerto capolavoro,
il migliore del giovedì.
I Dinosaur Jr., anche con Kyle Spence
alla batteria, regalano sempre grandi
gioie: “Feel the Pain”, “Out There”, e
“Freakscene” autorizzano J Mascis a
comparire nei dizionari musicali alla
voce “Wah-Wah”.
Poco dopo i Deerhunter presen-
tano live il capolavoro lo-fi dell’anno,
l’acclamato “Monomania”. Bradford
Cox distilla in musica la spirale di
disperazione, ossessioni, desideri
e conquiste di una creatura di due
metri, filiforme al punto di spezzarsi.
E’ un pugno allo stomaco, e il coinvol-
gimento del pubblico è sentito.
I due artisti successivi, Grizzly Bear e
Phoenix, non rappresentano alcuna
novità per chi già ha avuto la fortuna
di apprezzarli. I primi, meravigliosa-
mente soporiferi, ormai suonano
6
7
più come un’orchestra che come
una band, perfettamente inseriti
in uno scenario di calde lanterne
ondeggianti in sottofondo. Le
armonizzazioni di voce che cullano
l’intero show sono magistralmente
sorrette da un basso “acquoso” e
dei timidi quanto efficaci contrap-
punti di tastiere.
Pare che la band di Brooklyn tenda
quasi a nascondere propria smisu-
rata classe, senza proporre leader
né cadere in ostentazioni, ponendo
al centro della scena solo la deli-
catezza delle proprie composizioni.
I Phoenix, d’altro canto, reduci
da un album appena sufficiente,
riescono a non deludere grazie
soprattutto allo sporco lavoro di
frontman di Thomas Mars. Il con-
certo non è certo fallimentare, ma
la loro sfortuna è proprio quella di
suonare dopo i Grizzly Bear: non
si possono decisamente azzardare
paragoni.
La serata termina con la pessima
performance degli Animal Collec-
tive, che due anni fa proprio al
Primavera Sound avevano fatto “il
concerto”. Oggi invece sono mosci,
svogliati, a tratti perfino fastidiosi.
Un gran peccato.
VENERDI 24 MAGGIO
E’ inutile negarlo, per buona parte
del pubblico il venerdì è il giorno
dei Blur. Il concerto che tutti aspet-
tano, gli headliner degli headliners,
il live che a Barcellona manca da
dieci anni. Nel frattempo, fino alle
01:30, sono tanti gli artisti che deli-
ziano le nostre orecchie. Esclusi gli
iniziali Merchandise, i quali presen-
tano brani copiati male dai Killers
e di una banalità imbarazzante. Il
contorno di voci alla Morrissey e
il repertorio di faccette proposte
dal cantante chiudono il cerchio di
questa superflua esibizione. Kurt
Vile invece propone un piacevole
set incentrato su “Wakin on a Pretty
Daze”, la sua ultima fatica.
L’unica pecca è il dover suonare con
la luce ancora alta e in uno spazio
ancora troppo grande (Heineken
stage). Se i Django Django, di bi-
anco vestiti, mostrano una ottima
affinità dal vivo presentando il loro
acclamato album d’esordio, gli on-
nipresenti Shellac di Steve Albini
appaiono sempre più violenti ed
affiatati, con dei suoni al limite della
perfezione.
E’ l’ora dei Jesus and Mary Chain
che, a sentire i rumors, non fanno
nulla per coinvolgere il pubblico
(gli hipster della zona vip, almeno).
In compenso si limitano a suon-
are pezzi di storia come “Just Like
Honey” con Blinda Butcher dei
My Bloody Valentine, “Head On” e
“Happy When it Rains”. E a me basta
e avanza per trattenere a stento
l’emozione. Cosa che non succede
poco più tardi, coi Blur, sullo stesso
palco.
Damon Albarn, indicando il cielo,
saluta il pubblico con un “So Hola to
la luna”. Non guardo il dito, e Gra-
ham Coxon attacca con “Girls and
8
Boys” quello che sarà il concerto
più emozionante dell’ intero festi-
val, per i tanti che hanno passato
un’adolescenza legata a doppio filo
col britpop.
La band londinese alterna sapiente-
mente momenti più movimentati
come “Country House” e “Parklife”
(purtroppo orfana di Phil Daniels)
alle melanconiche “Out of time”,
“Tender” e “This is a Low”, in cui mo-
menti di estasi collettiva uniscono
il pubblico in un lungo singalong
con il quartetto di coristi di colore
presente sul palco. “Coffe and TV”
esalta la grazia chitarristica e la
flebile voce di Graham Coxon, men-
tre Albarn si tuffa sulle prime file
guardandoci in faccia uno per uno.
“Under the Westway” sembra ormai
un classico, seppur uscita da non
più di un anno, “The Universal” è
maestosa e catartica, e nel suo “it
really really really happened” fa
ridestare dal torpore e realizzare
quello che è appena trascorso. I
Blur danno tutto ciò che hanno, e
in termini di sintonia col pubblico,
di presenza scenica, di rilevanza
storica dei brani non esiste para-
gone con alcuna band di questo
festival.
Purtroppo perdo i The Knife, che
a quanto pare inscenano uno dei
migliori spettacoli della serata, e mi
9
dirigo verso i Titus Andronicus. La
loro brillante miscela di folk punk, a
cavallo tra Pogues, Dropkick Mur-
phys e The Clash, scuote la folla che
canta a squarciagola ogni brano
fino alla conclusiva, lacerante “No
Future part three”, in cui ci si perde
in un lungo “You will always be a
loser”.
SABATO 25 MAGGIO
L’ultimo atto del Primavera Sound
2013 si apre con i Melody’s Echo
Chamber, band indiepop che suona
meno abbottonata che dal cd,
convincendo nei momenti più dis-
sonanti e dilatati piuttosto che nelle
strofe più prettamente melodiche.
Sullo stesso palco l’innamoratissimo
canadese Mac Demarco delizia il
pubblico con un delicato pop di
piena fattura Pavement, salva un
ragazzo esagitato dagli spintoni
della security, e improvvisa un
crowdsurfing su “Togehter” per
raggiungere la sua amata Karen in
mezzo al pubblico. Fantastico.
Gli Oh sees e i Liars sono i pro-
tagonisti del sabato. I californiani,
reinventando il garage rock in
chiave psichedelica, propongono
un altro grandissimo set “fisico”
con cori infiniti, sepolcrali, dilatati
fino allo spasmo, che li consacrano
come una delle migliori rock ‘n’ roll
band in circolazione.
I Liars, completamente avvolti
nell’oscurità, reinventano il loro
ultimo album WIXIW, realizzato per
lo più in chiave elettronica, in una
sorta di contemplazione minimale
del suono, creando il loro spazio in
cui far vivere crescere e sviluppare
una musica che è e può essere solo
loro. L’effetto è oltremodo ipnotico,
in particolare in “Flood to Flood”,
“N°1 Against the rush”, e nella
conclusiva “Broken Witch”, in cui il
cantante urla “blood blood blood”
per un tempo interminabile.
Concludo la serata con i My Bloody
Valentine, sul quale live si è detto
tutto e il contrario di tutto. Sem-
plicemente i MBV hanno un muro di
suoni impressionante, una poesia
rumoristica fantastica, che non
tutte le orecchie possono accet-
tare come tale. Citando Picasso,
riguardo chi contestava il cubismo:
“io non capisco i libri in inglese,
ma non per questo affermo che
essi non significhino nulla”. Se non
capite lo shoegaze c’è sempre il
cantautorato, dopotutto.
Mentre cammino per l’ultima volta
attraverso il Parc del Fòrum, ormai
popolato di soli bicchieri di plastica
che riflettono l’alba, capisco che
questo Primavera Sound è ormai
diventato uno dei migliori festival al
mondo.
Se veramente amate la musica più
delle instagrammate, le transenne
più delle ruote panoramiche, le dis-
sonanze indie rock più delle zone
vip, vi consiglio di farci un salto.
Yes, it really, really really hap-
pened. .
Marco Appioli
10
11
Driving
Mrs. Satan
Sono una delle novità più stimolanti
emerse nel panorama musicale
italiano negli ultimi tempi.
L’idea di coverizzare dei brani metal
sfrondandoli della strumentazione
elettrica, di per sé non sarebbe
una novità, ma è il modo in cui
viene trasformato e rimodellato un
genere musicale che è, per antono-
masia, il più rumoroso e il meno
rassicurante, a rendere speciale
un’operazione del genere.
Dietro al bizzarro monicker ci sono
tre musicisti napoletani di estrazi-
one pop-folk-jazz (Ernesto Nobili,
Giacomo Pedicini e Claudia Sorvillo)
ai quali abbiamo posto una serie
di domande sfruttando anche lo
spiccato senso dell’humour che li
contraddistingue.
In Your Eyes: La prima domanda
é normalmente la più ovvia e
non farò nulla per distinguermi
dalla massa: come nascono e chi
sono i Driving Mrs.Satan ?
Giacomo Pedicini - I Driving Mrs.
Satan nascono in una notte passata
sul ponte di una nave per la Corsica
con un’IPod pieno di musica.
Claudia Sorvillo - Siamo tre musi-
cisti, ci stiamo divertendo a riarran-
giare la storia dell’heavy metal.
Ernesto Nobili - Per me, nascono
da una spiccata sete di sangue che
avevo dopo aver portato mia figlia
all’asilo.
In Your Eyes: Nella tracklist di
“Popscotch” si passa dalla melo-
dia dei brani di matrice power/
nwobhm all’oscurità tipica del
thrash; come sono distribuite le
preferenze musicali all’interno
del trio ?
G.P. - Molto varie e non solo legate
al Metal.
E.N. - Volendo rimanere nel metal-
lo, io ho amato molto tutte le diva-
gazioni metalliche possibile. Quello
che non mi è mai piaciuto, salvo
casi rari è stato il death, il black
nordico … Per dire, passavo con
molta disinvoltura dai Def Leppard
agli Slayer senza troppi problemi
morali …
C.S. - Rock di ogni tipo, e cantautori.
In effetti le mie preferenze variano
di settimana in settimana. Questa
settimana nel mio player ci sono
Alt-j, Ark, Tunngs, Epo, The Roots,
So Percussion, Villagers, Art Brut,
Woodkid e Thony.
In Your Eyes: Ad esclusione di
“Never Say Die”, che risale addi-
rittura al 1978, tutti gli altri brani
sono stati pubblicati nella loro
versione originale negli anni ‘80 e
il più recente tra questi è “From
Out Of Nowhere”, datato 1989;
la scelta di attingere esclusiva-
mente a quel periodo musicale è
stata voluta o è semplicemente
una casualità ?
12
G.P. - I dischi migliori o diciamo
quelli che io ritengo significativi
sono usciti in quel decennio. Gli
anni 80 sono gli anni dell’Heavy
Metal. Il periodo in cui sia io che Er-
nesto abbiamo imbracciato gli stru-
menti e deciso che avremmo fatto
i musicisti. Mi sembrava logico par-
tire da qui per un progetto legato
a questo genere musicale. Claudia
forse doveva ancora nascere...
E.N. - Concordo in pieno con
Giacomo. Dopo, almeno per me,
la musica ha preso le strade più
disparate. La curiosità porta ad al-
lontanarsi per scoprire, e a desid-
erare altra musica. Quindi, sarebbe
stato anche emotivamente difficile
entrare per esempio in un certo nu
metal.
In Your Eyes: Non è che, per caso,
siate tra chi ritiene la musica
prodotta negli ultimi 20 anni non
sia all’altezza di quella del pas-
sato (teoria trasversale espressa
da ascoltatori di qualsiasi genere
musicale) ?
Oltre che di metal sono un
grande appassionato di progres-
sive e ho sempre contestato quel-
li che definivo “tolemaici”, fieri
assertori della piattezza della
Terra nonché della fine del prog
coincidente con l’uscita di Gabriel
dai Genesis; onestamente non
penso che possa accadere qual-
cosa di analogo anche a musicisti
di ampie vedute come voi. C’è
quindi qualche band o sottoge-
nere in ambito metal in grado
di destare il vostro interesse ai
giorni nostri ?
G.P. - Provo a seguire la scena
metal attuale. Cerco di ascoltare i
nuovi gruppi ma non ce ne sono
molti che mi entusiasmano. Le cose
più’ oneste continuano ad arrivare
dai gruppi storici, quelli che lavora-
no sulla formula vincente del loro
successo. Penso ai Motorhead, Iron
Maiden, Ac/Dc. Pero’ il ritorno di
Michael Kiske con gli Unisonic mi ha
fatto veramente piacere.
E.N. - Altroché, la musica c’è. Non
seguo molto metal di oggi, ma bas-
ta che pensi ai Radiohead, esplosi
dopo il ‘98, oppure se approfondisci
il panorama alternativo, indie, free,
post country, trovi dei geni assoluti .
Penso a Sufjan Stevens, Anna Calvi,
o “grandi vecchi” che non finiscono
mai di stupire, tipo David Byrne …
i nostri tempi non sono tempi di
musica di massa, questo si.
In Your Eyes: Per i benpensanti
l’iconografia classica del “metal-
laro” è quella di un personaggio
come quello di Lorenzo, inter-
pretato da Corrado Guzzanti,
ovvero un tizio quasi incapace
di proferire due parole di fila
in un italiano comprensibile,
dall’igiene personale sommaria
e fornito da madre natura di un
solo neurone che, spesso, finisce
pure per smarrirsi.
Detto che in effetti ai concerti
mi è capitato di vedere più d’uno
corrispondere a questo modello,
pensate che un’operazione come
quella portata avanti dai Driv-
ing Mrs.Satan possa contribuire
a migliorare questa immagine,
13
visto che, almeno apparente-
mente, sembrereste delle per-
sone “perbene” … ?
G.P. - Dov’e’ il mio neurone?..Ri-
datemi il mio neurone!!!!..
E.N. - ghgrmdspjvòsldktsv-…
scherzi a parte, invece eravamo ,
almeno nel nostro piccolo, metallari
colti. Ideologi del metallo, in estasi
quando trovavamo riferimenti alla
mitologia greca nei Maiden o in
quei pirla dei Manowar … Ci ho
trovato spunti letterari nel metal.
Non solo le donnine allegre (molto
gradite) dei Motley Crue … E alla
fine anche la scena più street glam
della Los Angeles di fine anni ot-
tanta ha un suo fascino decadente
che gruppi come i Red Hot hanno
descritto bene.
C.S. - Ma certo. La cosa che mi ha
sempre affascinato dei metallari è
la contraddizione, solo apparente,
tra un look sciatto e associato alla
violenza, e il fatto che in effetti
siano spesso persone meglio istru-
ite, più sensibili e consapevoli della
media.
In Your Eyes: Tornando seri per
un attimo, mi ha sempre incu-
riosito, fin da quando mi sono
imbattuto nei vostri primi brani,
sapere in che modo avviene il
lavoro di arrangiamento. Soprat-
tutto l’operazione di de-metalliz-
zazione di un brano come South
Of Heaven, per uno che non fa
il musicista, appare quasi pro-
digiosa.
G.P. - Non c’e’ stato un lavoro di
arrangiamento pensato a tavolino.
Ogni brano di Popscotch e’ partito
soprattutto da una fotografia che
avevo nella mente e si e’ sviluppata
in corso d’opera con l’aiuto di Er-
14
nesto e Claudia. Ho tenuto sempre
presente le linee vocali che sono
rimaste quasi inalterate rispetto
agli originali. I riff portanti delle
chitarre le puoi trovare nei brani
sotto forme diverse, nascosti o del-
egati ad altri strumenti o addirittura
stravolti. Ma la parte decisiva e’
stata quella di Claudia. Non cono-
scendo gli originali ha interpretato i
testi che noi conoscevamo perfetta-
mente rispettando la sua visione.
E.N. - Comunque è stata la voce di
Claudia poi ad aprire varchi insos-
pettabili.
C.S. - Il metal non e’ la mia influ-
enza principale, e anzi, in molti
casi ero assolutamente all’oscuro
della forma originale di quello che
stavo cantando. E’ probabilmente
questo il motivo per cui i brani sono
interpretati cosi diversamente, e
incuriosiscono.
In Your Eyes: Secondo voi, quindi,
è più facile trasformare in un
brano pop/folk “Raining Blood”
degli Slayer oppure effettuare
l’operazione inversa, rendendo
un massacro thrash metal una
canzone tipo “Granada” di Clau-
dio Villa ?
G.P. - Non e’ solo una questione di
facilita’, e’ una questione di riuscita.
Ci vuole sincerità’ e rispetto.
E.N. - Da piccolo facevo il contrario.
Metallizzavo il non metallo.
C.S. - Immagino che entrambe le
operazioni possono essere più o
meno semplici, e più o meno ef-
ficaci, a seconda dell’interesse e
della storia musicale personale di
chi le affronta. Qualche tempo fa mi
aveva divertito molto una versione
metal di “All The Things She Said”
delle Tattoo per esempio.
In Your Eyes: Personalmente ho
sempre ritenuto le classiche ver-
sioni unplugged piuttosto noiose
e quelle orchestrali ridondanti e,
alla lunga, stucchevoli; credo che
la strada che state battendo sia
quella giusta affinché la coveriz-
zazione di un brano non sia solo
aggiungere o togliere qualche
strumento, bensì quello di tras-
formarlo e manipolarlo attra-
verso un reale processo creativo.
Che si sappia voi siete sicura-
mente tra i pochi a farlo in questi
termini: riuscite a percepire un
incremento dell’interesse nei
vostri confronti dopo l’uscita di
“Popscotch”, rispetto a quanto
accaduto all’epoca del primo Ep ?
E.N. - Personalmente non amo ne-
anche io le versioni orchestrali. Gli
unplugged hanno il difetto, se lo è,
di essere suonati dai gruppi stessi
che hanno creato i pezzi, e quindi
per loro è più difficile distaccarsi
dagli originali. Invece il bello per
noi è stato vedere cosa succedeva
mano mano. Ci siamo fatti anche
grasse risate, pensando alla vocetta
di Claudia che cantava Tom Araya. E
comunque mi fa impazzire il risul-
tato sensuale e “ambiguo” che ha
creato il suo modo di cantare.
In Your Eyes: Navigando sul web
ho letto diverse recensioni del
vostro lavoro e ho notato un ap-
15
prezzamento pressoché unanime,
anche quando a scrivere erano
collaboratori di webzine dal nome
minaccioso tipo “MetalSucks” et
similia … C’è stato invece qualcuno
che si è arrabbiato, inviandovi
e-mail poco lusinghiere dopo aver
ascoltato le vostre versioni di bra-
ni che, per alcuni, sono ammantati
quasi da un’aura di sacralità ?
G.P. - Le risposte sono state quasi
tutte positive … ed e’ stata una cosa
sorprendente...I Want Out ne e’ la
prova. E’ stato il segnale che ci ha
aiutato a capire che la strada era
quella giusta. In più’ Michael Weikath
(chitarrista degli Helloween) quando
l’ha ascoltata ci ha fatto molti compli-
menti.
E.N. - C’è ancora tempo per essere
crocifissi a testa in giù durante un
concerto dei Morbid Angel.
C.S. - Nessuna mail minacciosa, ma
qualche commento esilarante c’è
stato. Uno di questi mi sono sentita
di riprenderlo nel blog e su facebook
perché mi ha fatto ridere nella sua
semplicità: “Publicity because Vagi-
na”. E’ un punto di vista. Per fortuna
la risposta che stiamo ricevendo da
parte del pubblico è estremamente
positiva nella grande maggioranza
dei casi. Il nostro progetto è ap-
prezzato sia dagli ascoltatori del
genere che da quelli che non lo sono.
Ieri una ragazza mi ha detto “Mi è
piaciuta un sacco I Want Out. Devo
dirti che non avevo mai ascoltato la
versione originale. Ho scoperto che
mi piace moltissimo anche quella!”.
Mi ha fatto ridere pensare che i Driv-
ing Mrs. Satan abbiano passato un
nuovo ascoltatore agli Helloween e
non il contrario.
In Your Eyes: Spesso chi ascolta
musica non ha un’idea precisa di
parecchi aspetti, anche di car-
attere burocratico, che stanno
dietro la realizzazione di un disco.
In realtà, come funzionano le
cose nel momento in cui qualcuno
decide di utilizzare un brano altrui
? Per esempio, si chiama Lemmy e
16
gli si chiede: “Hey vecchia lenza,
come va ? Male ? Eh già, gli anni
passano per tutti ...
Senti, ti dispiacerebbe molto se
facessimo diventare “Killed By
Death” un pezzo folk ?”, oppure,
molto più realisticamente, ci
si mette in contatto con chi ne
detiene i diritti e si paga un tot
per ottenere l’autorizzazione ?
In quest’ultimo caso fatecelo sa-
pere, magari ci possiamo impeg-
nare a comprare il cd se non altro
per farvi rientrare delle spese
sostenute ...
G.P. - Lemmy ha sempre il telefono
di casa fuori posto…
E.N. - Invece Ozzy mi aspetta sotto
casa con un bastone in mano. In
realtà è questione che riguarda gli
editori.
C.S. - Qualcuno sostiene che il
nostro disco sia un suicidio disco-
grafico. Io non la penso cosi. L’altro
giorno fantasticavo sulla destina-
zione dei soldi dei diritti d’autore.
Tipo: James Hetfield che compra
un biglietto del concerto degli One
Direction a sua figlia adolescente.
In Your Eyes: Tre domande per
ciascuno di voi :
1) Qual è stato il primo disco
metal che avete ascoltato ?
G.P. - Seventh son of a Seventh son
- 1988
E.N. - 1987, registrati su cassette
Maxwell lo stesso giorno : “Piece Of
Mind” (Iron Maiden), “Seventh Star”
(Black Sabbath) e “Hysterya” (Def
Leppard). Ma se ci ripenso avevo
già comprato “Slippery When Wet”
di Bon Jovi, un discone.
C.S. – “Awake” dei Dream Theater.
In Your Eyes: 2) Qual’è invece
quello preferito in assoluto ?
G.P. - Che difficoltà’ immane … direi
“The Keepers Of The Seven Keys
pt.2” degli Helloween … ma la scelta
e’ difficilissima!!!
E.N. - Variabile. “Rage For Order”
dei Queensryche, o “Piece Of Mind”
degli Iron, hanno occupato il podio
per più tempo.
C.S. – “Remedy Lane” dei Pain of
Salvation.
In Your Eyes: 3) Qual è il brano
che via ha maggiormente soddis-
fatto per la sua riuscita in Pop-
scotch?
G.P. - I Want Out sicuramente ...
seguito da Battery … e tutti gli altri
... ah ah!!! …
E.N. - Posso dirne 11?
C.S. - La nostra versione di Killed By
Death dei Motorhead. E pensare
che altri non volevano neanche
includerla nel disco!
Sperando che ci sia qualche pro-
moter lungimirante che ci con-
senta di vedere i Driving Mrs.Satan
all’opera nella (non sempre) ridente
Liguria; in tal caso noi di In Your
Eyes saremo i primi a supportarli.
Stefano Cavanna
17
Varazzers. nasce nel 2013 come pagina pub-
blica di Facebook per aggiornare il pubblico
giovane su cosa succede in Riviera, tramite
post fotografici e PRaggio di eventi locali.
Seguici su Facebook & Instagram
Panorama dal Santuario Madonna della Guardia
VARAZZERS.
© Varazzers
Varazze Bici Festival - maggio 2013
La nostra presenza sul web si sta allargando
con un sito web (ancora in allestimento) su cui
trovare info su eventi, locali ecc.
Foto dall’evento skate OTW 2013 che si tiene a Varazze ogni primavera.
18
19
Fanzine,Anni
Novanta
Vi inoltro questo scritto pubblicato su
Cagnara, fanzine nata negli anni 90 e
che ora vive su Facebook.
Mi hanno chiesto di scrivere un pezzo
su Non Ce N'é, la fanzine che facevo
negli anni 90 assieme a Luca. é un po
come fare mente locale sul passato,
su tante avventure ed l'abc della mia
formazione...
buona lettura.
MEMORIA DI CARTA......
Cagnara (Facebook), oggi ha incon-
trato Fabio Battistetti che a noi
fanzinari di lunga data suscita un bel
po' di ricordi legati al periodo cosid-
detto cartaceo... quello per intenderci
che va dagli anni ottanta ai novanta...
quello dove il postino portava le
buste con le fanzine, quello dove si
facevano gli stand ai concerti in qual-
che locale sperduto in luoghi non ben
precisati, quello della macchina da
scrivere, della coccoina... insomma
un mondo molto meno tecnologico
di adesso ma forse più sincero....
Questo è quanto ci ha raccontato
il buon Fabio sul suo periodo fanz-
inaro.....
A pensarci ora vi vien da sorridere…
Per tanti motivi, fare una fanzine è
stata per me un'esperienza forma-
tiva, sociale, comunicativa oltre che
musicale. Era il 1993, frequentavo
il liceo ed al secondo anno mi ritro-
vai un nuovo compagno di banco
(Luca) col quale iniziammo a scoprire
musiche diverse dalle solite propi-
nate da radio e riviste musicali (che
principalmente erano heavy metal e
simili). Il nostro percorso di scoperta
fu molto rapido, il punk rock ci rapì
per l'immediatezza e l'urgenza (di
comunicare): quello fu il primo input.
Fummo aiutati dal fatto che in città,
a Torino, trasmetteva l'emittente
libera, Radio Blackout che di punk e
musiche alternative ne era un po' la
voce ed essendo una radio autopro-
dotta il contatto con essa poteva es-
sere semplice. C'era una trasmissione
che oltre a far ascoltare le ultime
novità del punk/hardcore ed i “clas-
sici” del genere raccontava di fanzine
straniere e non, il conduttore era
Andrea Pomini, fanzinaro anch'esso
con Abbestia.
Lo contattammo per ordinare pro-
prio delle fanzine (incuriositi dai suoi
racconti radiofonici) ed andammo di-
rettamente in radio a ritirare l'ordine
scoprendo un piccolo grande mondo
che da lì a qualche anno sarebbe
stato un punto centrale per noi (in
radio ci arrivammo con una nostra
trasmissione l’anno successivo). E’
così che iniziammo a divorare pagine
fotocopiate di fanzine nostrane e
straniere (Maximum Rocknroll e
Flipside). Quelle letture ci entusias-
marono e facemmo presto due più
due e ci dicemmo: “ora tocca a noi !”.
Volevamo anche noi dire la nostra,
scrivere di musica ci affascinava e
per di più potevamo fare tutto da noi
20
perchè uno dei primi insegnamenti
avuti dal punk, è l'autoprodursi,
far da se, senza chiedere ad altri o
delegare e nel caso di una fanzine
non ci voleva poi così tanto per
farla. In parallelo, in quegli anni,
grazie a Luca iniziai a frequentare
intensamente l'annuale Fiera del
Libro per la passione della lettura
e per scorgere un po' del mondo
dell'editoria che in un modo del
tutto rudimentale noi prendemmo
a modello per il nostro piccolo
progetto cartaceo. Non avevamo
i mezzi dell’editoria, ma in fondo
non servivano ed interessavano
per il nostro scopo: il punk ed il do
it yourself ci offriva il contesto ed
i mezzi di produzione. Il taglia ed
incolla non è stato inventato con
il sistema operativo dei computer,
era ed è qualcosa di fisico da farsi
con forbici e colla, ed era forse una
delle ultime azioni nella produzi-
one di una fanza, prima occorreva
scrivere ! Il nome Non Ce N’è lo
decidemmo dopo alcuni tentativi
prendendo spunto dal titolo di un
brano di un gruppo locale, i Church
Of Violence.
I contenuti nascevano dall’urgenza
di dire la nostra, raccontare e far
conoscere, musiche, gruppi, situ-
azioni e compagnie bella. Le sor-
genti su cui scrivere arrivavano un
po’ dai nostri ascolti musicali che in
quel periodo erano in piena es-
plorazione / scoperta e dagli amici
di penna (fanzinari, appassionati
come noi, etc.), tanto che una carat-
teristica di Non Ce N’è è sempre
stata quella di avere contributi da
persone esterne. Ad esempio, nel
primo numero un ragazzo di Saluz-
zo scrisse un articolo sui Germs (lui
stesso di lì a poco iniziò la fanzine
Bestial Devotion). Usavamo un
software di scrittura per computer
(DOS) che girava su un floppy disk
21
(di cui conservo ancora una copia
con i testi prodotti) ed una volta che
avevamo pronti gli scritti li stam-
pavamo per poi passare alla fase
calda della produzione: con forbici
e colla alla mano assemblavamo
le pagine. I primi numeri furono
stampati in ciclostile grazie al padre
di Luca, ed il ciclostile era un buon
metodo (per velocità e qualità) e ci
permise anche di avere la copertina
stampata in azzurro mentre il resto
delle pagine erano in nero.
In quel momento storico, avere
fuori un numero di una fanzine,
significava aprire la porta su un
mondo di contatti, nuovi amici di
penna e difatti fu proprio così. I
primi due numeri furono il frutto
dell’urgenza a livello di contenuti
forse non erano il massimo, seppur
rappresentino parecchio il nostro
intento, dal terzo in poi iniziammo a
lavorare in maniera più definita ris-
petto alla composizione ed alla re-
dazione, dandogli una caratteristica
precisa, dando importanza primaria
alle recensioni di dischi e fanzine
ed alle opinioni personali (columns,
qui era chiara l’influenza dalle fan-
zine americane). In parallelo ave-
vamo anche dato vita all’etichetta
discografica Non Ce N’è Records
producendo il 7” (il fantomatico 45
giri) diviso a metà tra i torinesi Boyz
Nex’ Door e gli spezzini Manges.
All’epoca del quarto numero della
fanzine, pubblicammo la fanza in
500 copie allegando la seconda
uscita dell’etichetta, il 7” dei torinesi
Killer Klown. Se la mente non mi
tradisce, quello fu anche l’ultimo
numero firmato da me e Luca
assieme, perché dopo questo lui
decise di dedicarsi maggiormente
all’etichetta ed in seguito partì con
un nuova fanzine, Gabba Gabba
Hey (più orientata sul garage ed
il punk rock come temi musicali),
mentre io volevo orientare la fanza
verso uno sguardo più amplio sul
22
mondo musicale underground
(chiaramente in base ai miei gusti).
Non Ce N’è Records sotto la guida
di Luca è andata avanti per un bel
po’ producendo altri dischi per
Killer Klown, Manges ed altri gruppi,
prima di cambiare nome in Mad
Driver, arrivando a produrre anche
gruppi stranieri (Spider Babies,
Coyote Men…). Io ho dedicato mag-
giori sforzi alla fanzine curandone
la relativa distribuzione di fanze e
dischi che era nata come conseg-
uenza dello scambio di NCN con
altro materiale. All’interno della
scena DIY, lo scambio è sempre
stato il modo migliore per far veico-
lare il materiale, era una specie di
rete internazionale di supporto che
andava anche oltre, organizzando
concerti.
Anche noi ne facevano parte e ci si-
amo anche dedicati ad organizzare
concerti a Torino per un po’ di anni,
già dai tempi della fondazione della
fanza, il primo fu nel novembre
del 1994 ad El Paso per i Sound-
blast di Ravenna ed gli Slowo dalla
Polonia, i primi si erano da poco
autoprodotti il primo 7” che ci aveva
entusiasmato tanto da decidere di
dargli una mano per un concerto in
città. In molte di queste situazioni
si creavano amicizie e situazioni di
scambio “umano” ed in fondo era
quello il succo di tutto: condividere
umanità.
Il tema della condivisione, l’ho
imparato lì ed è una cosa che ho
ritrovato su altre vie a proposito
di copyright e software e tuttora è
un leit motiv per quanto riguarda il
mio agire in ogni campo. La conseg-
uenza di avere una distribuzione ed
il condividere le esperienze di cui
sopra mi portò a creare una piccola
etichetta discografica, Neghenè
(non ce n’è in dialetto ligure-spezzi-
no, suggeritami dai Manges) con la
quale co-produssi (assieme ad altre
etichette) dischi di gruppi ai quali
sentivo di voler dare il mio sup-
porto, ricordo il 7” dei Rudimenti,
quello degli Arsenico, quello dei
Bombardini, una cassetta dal vivo
dei Manges, il cd dei Panico ed altri.
NCN come fanzine ha proseguito
le pubblicazioni sino al 2000/1
assumendo un layout sempre più
curato ed arrivando al numero 9 in
un’uscita split con la fanzine: La Pic-
cola Meraviglia.
Nove numeri in 7 anni erano forse
pochi, ma i tempi di produzione
e distribuzione erano abbastanza
lunghi, avevo la volontà di dare
maggiore continuità per fornire
informazioni fresche, ma non ci
riuscivo più di tanto. Dopo aver
esaurito le risorse per quel pro-
getto, ne misi subito in cantiere uno
nuovo: una fanzine dal formato più
piccolo (non più l’A5 di Non Ce N’è,
ma bensì uno che era la metà), una
sorta di diario tascabile, impostato
sulle opinioni e con temi musicali
più freschi (anche qui frutto dei
miei gusti diversificati del periodo).
Il nuovo progetto si chiamava La
Mini e ne feci 4 numeri stampati
per poi passare al web/blog; la
frequenza di uscita era più rapida
rispetto a NCN e si basava su una
redazione a più voci e con contribu-
ti esterni anche per l’impaginazione,
23
i primi tre numeri furono curati
in parte o in todo da Alessandro
Baronciani. In base a questa linea,
l’evoluzione quasi naturale visti
i mezzi in ballo fu quella di tras-
formarla in un blog (che è ancora
online) con l’intento di proseguire il
tema della scrittura condivisa, an-
dando avanti sino al 2004/5 quando
lentamente il tutto iniziò a sfumare
via. Da quel momento partono
altre storie di vita che non hanno
apparentemente nulla in comune
con una fanzine, se non le espe-
rienze umane condotte, che hanno
avuto influenze su di me ancora per
parecchio.
Sul web c’è (ma non più è aggior-
nata) una pagina dedicata alla Mini
e con rimandi a Non Ce N’è.
24
Produce di continuo roba oscura, ed e’ diviso in due
parti:una e’ persuasa che siamo una completa massa
di imbecilli, l’altra ci vede come meravigliose crea-
ture.
sito: www.Francesco-Orazzini.com
email: francescoorazzini@gmail.com
Francesco
Orazzini,artista
visivo, perde la
maggior parte del
suo tempo a per-
dere capelli per col-
pa delle burocrazie.
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31
Tame Impala LIVE
IYEzine è stata al Mojotic festival
di Sestri Levante (località della
nostra beneamata riviera ligure
di levante, per chi non lo sapesse,
spero nessuno), per seguire il con-
certo dei Tame Impala, il 13 Agosto,
grande appuntamento per questa
edizione 2013, dopo gli eventi che
hanno visto protagonisti i Baus-
telle, Daughter, Willy Mason,
Adam Green, e la Shhh! Silent
Disco.
Vorrei innanzitutto spendere due
parole per il festival nel suo comp-
lesso, che ha ormai raggiunto una
certa dimensione e una sua stabilità
nel panorama rivierasco, ed è or-
mai una delle migliori iniziative che
contribuiscono a rendere davvero
viva e giovane la riviera, iniziative di
cui purtroppo a mia memoria essa
è sempre stata abbastanza povera,
vuoi ad esempio per il mancato
appoggio dei comuni o sponsor, le
proteste di una popolazione avanti
negli anni, la mentalità di chiusura
ligure e la volontà di limitare al
meno possibile le “grane”, perchè
tanto i turisti in riviera ci vengono lo
stesso, e siccome non sono per-
lopiù giovani non interessa promu-
overe certe iniziative.
Presentatavi la situazione, ecco
dunque che il nostro Mojotic si erge
e splende come una luce di speran-
za, che possa continuare e magari
anche ingrandirsi sempre di più
in futuro. Perchè l’organizzazione
è buona, c’è gente che ha voglia
di fare bene e far divertire il pub-
blico, mettendo tutti d’accordo ed
evitando i contrasti e le polemiche
che altri eventi come la storica e
tanto chiacchierata “hanoa hanoa”
hanno generato negli ultimi anni,
perché le location scelte si prestano
molto bene, il pubblico è educato e
la proposta vincente. Questa quinta
edizione segna inoltre una netta
crescita, un salto di qualità, rispetto
alle precedenti edizioni, per le
dimensioni e la portata degli eventi
proposti.
Ancora un piccolo commento
sulla location, perché è davvero
incantevole...ci sono stato non so
quante volte, ma ad ogni nuova oc-
casione in cui mi trovo lì non posso
fare a meno di provare la stessa
emozione...sto parlando della Baia
del Silenzio, in fondo alla quale si
trova l’ex convento dell’Annunziata.
Una location perfetta per eventi di
medio-piccola grandezza, nel cui
cortile interno con terrazza rialzata
sul mare, è stato allestito il palco.
È impossibile a mio giudizio arriv-
are lì e non innamorarsi del posto,
come ha più o meno detto lo stesso
frontman della giovane band aus-
traliana, affermando sicuramente
con un po’ di adulazione, ma anche
con un po’ di sincerità a parer mio,
che per loro è uno dei posti più belli
al mondo, e che è stato bellissimo
poter trascorrere la giornata al
mare e suonare lì accanto la sera...
32
Ma veniamo al concerto, scusate
se mi sono dilungato, ma ci tenevo
a parlarvi di queste sensazioni che
quella zona mi evoca, dovute ai
tanti ricordi dei mesi estivi trascorsi
da quelle parti...
Per non sembrare un po’ ipercritico
ad alcuni strenui difensori della
band, ci tengo a dire che i dischi
dei Tame Impala mi sono piaciuti
molto molto, sia “InnerSpeaker” che
“Lonerism”, inseriti anche nella mia
toplist dei dischi del 2010 e 2012.
Secondo me gli australiani sono
davvero meritevoli, perchè riescono
bene a coniugare tutto il filone
dell’hypnagogic pop e gli appetiti
indie del giovane pubblico, con una
ricerca sonora molto radicata nel
rock psichedelico (tant’è vero che
prima dei Tame Impala, o meglio
prima di “InnerSpeaker”, Parker &
soci erano cresciuti nella lontana
Australia a pane e psichedelia sev-
enties).
Però a seguito della loro esibizione
non posso certo dire che la giovane
band si collochi nella mia toplist dei
concerti dal vivo...
Direi che i Tame Impala si prendo-
no una piena e meritata sufficienza,
ma non troppo di più: è innegabile
che hanno dei suoni davvero parti-
colari e fanno un tipo di musica che
a me piace molto, così affondata
nella psichedelia e costituita da un
muro sonoro di synth e chitarre,
contaminata da un’influenza pop
sempre più marcata. Purtroppo
nel complesso la performance ha
avuto, secondo me, alcune carenze,
un pochino troppo evidenti per
33
una band che ormai stà passando
dallo status di gruppo emergente
a quello di gruppo di prima fascia,
riassumibili se vogliamo in tre “pec-
che”, che hanno un po’ macchiato
una altrimenti grande performance.
Innanzitutto, eccetto vari momenti
davvero molto buoni e coinvolgenti,
ad un timido Kevin Parker e alla sua
band è mancata secondo me un
pochino di presenza scenica; nella
mia aspettativa (ma forse questa
cosa è legata alla mia personale
aspettativa che mi ha un po’ fre-
gato) una band del genere avrebbe
potuto avere un maggiore impatto
espressivo: il pubblico era caldo
e la performance ottimamente
accompagnata da splendidi visu-
als psichedelici, e mentre in alcuni
pezzi i ragazzi ci hanno davvero
messo del loro, creando un suono
avvolgente, prolungando e vari-
ando il brano, in altri è sembrato
quasi che i brani venissero riprod-
otti in maniera un po’ più “imper-
sonale”.
Inoltre, la legge dice che dal vivo
non si scappa, cari miei, si vedono
sia l’estro e le doti dei musicisti ma
anche vengono fuori i punti deboli...
così emerge purtroppo che la voce
di Kevin Parker è troppo carente, a
volte è sembrato quasi non farcela,
in particolar modo in Feels Like
We Only Go Backwards, una delle
tracce più attese e rivelatasi la peg-
giore della scaletta.
Però la cosa mi lascia alquanto
perplesso, perché riascoltando la
discografia, le prime ottime prove
(i demos e il loro primo EP) erano
caratterizzate da un suono e una
voce più potente, con una psichede-
lia più vicina al rock e meno al
pop, rispetto ai recenti sviluppi,
dove all’ammorbidirsi del suono,
più colorato e con più attenzione
alla narrativa, si è ammorbidita
anche la voce, divenuta quasi fem-
minile, che dal vivo è risultata in
affanno e comunque non all’altezza
dell’espressività della musica.
In ultimo, per riassumere e chiu-
dere un po’ queste considerazioni,
che per inciso nulla vogliono
togliere al valore della band aus-
traliana, mi trovo costretto ad
affermare che i Tame Impala
rendono meglio su disco, dove il
“labor limae” di produzione riesce a
rendere il suono più pulito e avvol-
gente, mentre per loro c’è ancora
da lavorare per rendere le esibizioni
dal vivo all’altezza delle loro ottime
e particolari produzioni.
I Tame Impala hanno scelto per
l’esibizione una continua alternanza
tra i brani di Lonerism e Inner-
Speaker, saltando di qua e di là tra
l’album di debutto, di passaggio da
rock psichedelico a pop ipnagogico,
dove queste caratteristiche convivo-
no in maniera molto interessante, e
Lonerism, che segna una svolta più
netta in direzione pop. Il concerto
si apre sulle note di Why Won’t You
Make Your Mind, da “InnerSpeaker”,
seguita immediatamente da Music
To Walk Home By.
Un buon inizio, e l’alternanza pro-
cede con Mind Mischief – Solitude Is
34
Bliss, la prima più leggera e col-
orata, la seconda più potente con
le sue scariche di chitarre distorte,
e in seguito troviamo una buona
Keep On Lying.
La sensazione è che con il bino-
mio Half Glass Full Of Wine e
Elephant, in successione, av-
vicinandoci alla metà del con-
certo, la band da Perth si spari le
proprie cartucce migliori. Questo
binomio costituisce il momento più
coinvolgente della serata, dove si
vedeva tutto il pubblico davvero
trascinato dai ritmi più veloci, dis-
torsioni potenti e cascate di synth,
soprattutto nella lunga e bellissima
Half Glass Full Of Wine, il pezzo
più roccioso della serata, in cui la
progressione in climax culmina in
estatiche cascate di synth.
Questo pezzo, un vero e proprio
cavallo di battaglia, addirittura ris-
ale al self-titled EP d’esordio di cui
abbiamo parlato poco fa, ed è stato
quasi sempre inserito nei concerti,
perchè è una vera bomba. Quanto a
Elephant invece, è un coinvolgente
ed incalzante concentrato d’energia
che entra nella testa e non può non
far muovere il pubblico.
Con la successiva Be Above It viene
fuori anche un po’ di elettronica,
in un ottimo connubio con la
psichedelia pop, un viaggione, dove
su un ritmo incalzante si innestano
tappeti di synth e successive piccole
esplosioni. In seguito i Tame Impala
vogliono decomprimere un po’
l’ambiente, con un lungo interludio
strumentale in cui vengono fuori gli
Air ed altre influenze più propria-
mente dream pop.
Della deludente Feels Like We Only
Go Backwards abbiamo già parlato,
perciò saltiamo a Desire Be Desire
Go, altro pezzo ormai storico e
sempre bello della band.
Ci avviamo verso la conclusione, e
troviamo ancora l’accoppiata for-
mata dalle coloratissime Alter Ego
e Apocalypse Dreams.
Come da ormai inscalzabile abitu-
dine, la band esce sapendo già che
verrà presto richiamata sul palco,
perchè il pubblico è assetato e
francamente una performance da
un’ora e un quarto sembra pochino
agli occhi di tutti, perciò si prosegue
per un’altra ventina di minuti con
due brani riservati alla chiusura
ancora estratti da InnerSpeaker, ov-
vero It Is Not Meant To Be e Noth-
ing That Has Happened Has Been
Anything We Could Control.
In conclusione, mi sento di fare i
miei complimenti ai Tame Impala
perchè sono un gruppo prom-
ettente e con delle ottime idee, e di
fare un plauso e un incitamento a
continuare così agli organizzatori,
perché non è così frequente dalle
nostre parti vedere eventi del ge-
nere, perciò un arrivederci a presto
al Mojotic Festival!
Davide Siri
35
Adriano VII
Frederick
Rolfe
Di Gianluca Camogli
Letterariamente parlando, mi ero
innamorato del pretino Julien Sorel
, così come mi ero appassionato
della vicissitudini di Narciso e Boc-
cadoro.
Non poteva quindi non entusias-
marmi questo affresco storico di
Frederick Rolfe, ambientato nei
primi del ‘900 in un Europa in
piena trasformazione geopolitica e
culturale, che racconta la bizzarra
storia di George Arthur Rose.
Da prete esiliato a Papa, quasi
per scherzo. Dai ai margini della
scena ad attore principale, con in
più la capacità intellettuale per riv-
oluzionare il sistema dall’interno.
Gli oppositori vengono ribaltati
all’angolo secondo uno schema che
ricorda una partita a scacchi.
Le azioni dell’avversario sono
state previste tutte: ignaro di es-
sere manovrato e condizionato
nella scelte delle mosse, pensa
che queste siano opera e volontà
propria, e non si accorge che sono
il risultato di un ragionamento
fine e astuto, che limita gli spazi
di manovra secondo uno schema
predefinito.
Solo possedendo acume si riesce
ad insultare e a criticare con elegan-
za chi ti rivolge accuse infondate,
e allora “la voce del serpente e la
voce dell’oca sono una sola e unica
voce”.
Ma questa intelligenza genera
anche sofferenza nell’animo, al-
ienazione, inquietudine nell’essere
emarginato a causa di una con-
dizione di superiorità che eleva
rispetto agli “innumerevoli branchi
di cuccioli mal leccati e di mediocri
ignoranti” ma isola.
La mediocrità infatti accomuna i
molti, che nella loro condizione non
si pongono domande e nella loro
ignoranza temono chi sa di più: la
paura si trasforma in cattiveria, a
tal punto da far chiedere a George
di voler “essere onesto e semplice
invece di sottile e complicato” per
poter sfuggire alle pene che gli altri
gli arrecano.
Adriano VII è un libro che con-
siglio a chi a voglia di essere
stimolato nelle riflessioni e che
non vuole solo lasciarsi coinvolgere
da una storia, dato che sono diversi
i temi trattati.
Primo su tutti la rivoluzione ideo-
logica della Chiesa e del pensiero
collettivo verso di questa.
In periodo di rivoluzione, ad un car-
dinale che si lamenta della scarsa
sicurezza nell’uscire per le strade
Adriano VII, che ha già cominciato il
36
processo di trasformazione, sem-
plicemente risponde che “la Chiesa
ha grande bisogno di un martire”, e
che si tratta sempre di inviti e mai
di imposizioni. La Chiesa è troppo
distante dalle persone.
Il nuovo Papa decide inoltre di ven-
dere i beni della Chiesa per rifond-
arne la spiritualità e l’immagine,
ma allo stesso tempo distogliere le
attenzioni mediatiche da vicissitu-
dini personali precedenti alla sua
nomina.
Quante analogie con la situ-
azione attuale, con lo IOR, con
l’abdicazione di Benedetto XVI e alla
elezione di Francesco I.
Altro tema che accompagna il libro
è quello del giornalismo commer-
ciale: non mancano velate critiche
al sistema di diffusione delle noti-
zie, che troppo spesso sceglie solo
in base alla pessima morale del
numero di copie vendute.
La veridicità delle notizie non è più
così importante, perché “l’appetito
del pubblico è capriccioso” e “bi-
sogna tentarlo con esche variate”,
“se le trote sono stanche di zanzare,
bisogna provare con le mosche”.
Anche in questo caso quante analo-
gie con la disinformazione odierna,
con l’abilità di modificare la comu-
nicazione di certe notizie, con il
conflitto di interessi per eccellenza,
col problema di un giornalismo
scarsamente indipendente.
Nonostante questo libro abbia più
di un secolo, per questi e altri as-
petti risulta estremamente attuale,
con riferimenti che possono aprire
parentesi nel mondo moderno.
Sembra una conferma del la “teo-
ria dei corsi e dei ricorsi storici” di
Giambattista Vico.
Un libro avvincente, imperniato su
un personaggio che si potrebbe
definire rivoluzionario, intrigante,
parzialmente scorretto per un fine
superiore e in grado di catturare la
nostra simpatia.
Quando arriverete alla fine di
questa storia, Adriano VII e la sua
stravagante personalità vi saran-
no stati talmente di compagnia
che vi mancheranno.
37
Simone Sarasso
Il Paese Che Amo
di Massimo Argo
Terzo volume della trilogia di
Simone Sarasso, cominciata
con “Confine di Stato” del 2007,
proseguita con “Settanta” ed infine
compiuta con questo libro. Sar-
asso in questa trilogia tratta dei
peggiori 40 anni di storia italiana,
dall’omicidio di Wilma Montesi
del 1953 fino al 1994, anche se
la cronologia non è strettamente
aderente.
L’autore sviluppa un proprio uni-
verso di personaggi che potrebbero
essere riconosciuti come persone
reali, ma gli sviluppi narrativi di
queste opere non sono rintrac-
ciabili nella realtà. Seguendo
l’esempio di Ellroy nella sua trilogia
su Kennedy, Simone costruisce
un universo altamente verosimile
e probabile, ma che non è quello
che conosciamo noi. Certamente,
e purtroppo mi viene da dire, un
personaggio come Andrea Sterling
è esistito in Italia, e si potreb-
bero paragonare i personaggi della
saga a quelli reali, ma questo non
è l’obiettivo dell’autore. Lo scopo
di Sarasso, e potrei venire clamor-
osamente smentito, è quello di far
capire attraverso romanzi narrati e
sceneggiati come dei film, i meccan-
ismi nascosti dietro 40 anni di storia
tricolore.
L’autore ha studiato a fondo la
materia, e vuole portare a galla le
congiunture, i piccoli fatti, le storie
personali che stanno dietro a questi
avvenimenti. In tutti i libri ci sono
elementi di noir, di giallo e di storia,
ma soprattutto una grande sapi-
enza nel trattare i caratteri umani,
tratteggiando nel migliore dei modi
possibili le parabole esistenziali
dei protagonisti e facendoci capire
che la storia l’hanno vinta e scritta i
peggiori. In questo terzo ed ultimo
libro della trilogia si può osservare
la crescita di Sarasso in termini di
scrittura, mentre tratteggia le pen-
nellate finali di un grande affresco,
fosco e cattivo.
L’Italia ivi descritta è la nostra
patria, stuprata in più maniere
da tanti bruttimbusti, ma sem-
pre per gli stessi motivi, primi fra
tutti l’anticomunismo, come è ben
testimoniato dall’accendino Zippo
del Mago, oggetto che sarà molto
importante in qeusta vicenda. Ne
Il Paese Che Amo già dal titolo
dovreste aver capito dove vuole
condurvi l’autore, anche perché
l’arco di tempo trattato è molto
prossimo ai giorni nostri, anzi
è ancora la maggiore influenza
di questi nostri miseri tempi. In
quest’occasione capirete come
tutte le cose che avvengono in Italia
non siano affatto un caso, ma c’è
sempre un disegno, una ragione
occulta, poiché questo paese è il
paese della nebbia per eccellenza.
Se pensate che questa nostra Italia
possa anche aver avuto una sep-
pur remota innocenza leggendo
Sarasso vi accorgerete che le cose
38
vanno molto peggio di quanto pos-
siate aver mai creduto. La trilogia è
costruita molto bene, praticamente
sono tre film, l’ultimo dei quali è
sicuramente il più maturo, e dentro
al Il Paese Che Amo potete trovare
una grande rabbia, una delusione
ed un impegno a non scordare chi
ha lasciato sull’asfalto la propria
vita e i propri sogni, Piazza Fon-
tana, Piazza Della Loggia, Bologna,
Ustica...
Sarasso si rivela un grande scrit-
tore storico, come possono di-
mostrare i suoi romanzi “Invictus.
Costantino Imperatore Guerriero” e
“Colosseum. Arena Di Sangue”.
Qui il romanzo riprende la sua
valenza civile, di scrittura come
responsabilità e memoria, per far sì
che in Italia ci siano meno smemo-
rati, in un paese dove dimenticare è
il primo valore.
Lettura altamente consigliata, la
trilogia crea dipendenza ma sono
tre acquisti di cui non vi pentirete,
preparando però il fegato al ner-
voso. Consiglio caldamente anche
dell’autore la graphic novel “United
We Stand” che traccia un possibile
tragico futuro per l’Italia.
Sarasso inquieta e fa ricordare, af-
fermandosi come uno dei migliori
scrittori italiani apparsi negli ultimi
anni.
INTERVISTA
Dopo aver recensito Il Paese Che
Amo, opera ultima di Simone
Sarasso, ecco l’intervista che va
ad aggiungersi a un graditissimo
regalo che Simone ha fatto ai nostri
lettori : in esclusiva, siamo molto
onorati di poter pubblicare, nella
sezione “articoli” la postfazione del
libro, che è una vera e propria con-
fessione dello scrittore . Solo per i
vostri occhi.
iye: Raccontaci la genesi della
Trilogia.
La Trilogia Sporca dell’Italia nasce
da un’amalgama di urgenza civile
e bisogno di frugare, attraverso
la narrativa, nel ventre molle del
Paese, nei suoi meandri oscuri.
La Trilogia accende la luce nella
polverosa Stanza dei Bottoni, fa
scappare i bacherozzi dal tappeto
della Storia.
iye Quali sono stati i tuoi scrittori
di riferimento per questi libri?
39
De Cataldo, Carlotto, Evangelisti,
Genna, Wu Ming, Bertante e Lu-
carelli sul fronte italiano. Winslow,
Duncan e James Ellroy su quello
statunitense.
iye: Hai timore che il senso di
questi libri non venga compreso?
Uno scrittore non è uno storico,
non pretende di raccontare la
verità. Si limita, quando si occupa
di narrazione civile, a tenere in vita
la fiammella della memoria, così
debole nel Paese che amo.
iye:Chi sceglieresti come regista
di eventuali film per questi libri?
Robert Rodriguez. Senza alcun dub-
bio.
iye: L’Italia che tu descrivi è stata
la peggiore, o stiamo grattando
ora il fondo del barile?
Ho motivo di credere che sotto il
fondo del barile ci sia altra melma.
iye: Dato che siamo una webzine
musicale, devo farti questa
domanda: quali sono i tuoi as-
colti preferiti?
Sono visceralmente legato al punk
degli anni Novanta. E alle sue
derivazioni più o meno contem-
poranee. Ascolto ossessivamente
Less Than Jake, Rancid, Green Day e
Dropkick Murphys.
iye : Tornerai in campo fumettis-
tico dopo l’incredibile “United We
Stand”?
Al momento non c’è nulla in pro-
gramma a breve termine, ma in
futuro chissà. Io e Daniele Rudoni
lavoriamo da parecchi anni a un
progetto top secret in lingua inglese
che prima o poi, ne sono convinto,
approderà sugli scaffali.
Grazie mille Simone per la tua
disponibilità e per portarci là
dove l’ Italia non può essere
lavata.
POSTAFAZIONE IN
ESCLUSIVA PER IYEZINE
È stata una lunga cavalcata: quasi
dieci anni di lavoro forsennato.
Quando ho iniziato a scrivere la
Trilogia Sporca dell’Italia, non avevo
idea che sarebbe stata una trilogia.
Immaginavo, mettendo in fila le
false piste, i fatti loschi e buchi neri
della Storia, un grande romanzo
sulla prima Repubblica, sull’Italia
peggiore, dal dopoguerra a Tangen-
topoli. Presto mi sono reso conto
che un romanzo solo non sarebbe
bastato, neppure per descrivere il
marcio d’un paio di decenni.
Così mi sono messo in cammino, ho
pigiato sui tasti, trascorso ore nelle
emeroteche e nelle biblioteche, in-
tervistato testimoni oculari, tessuto
trame, dato vita a personaggi.
Dell’intero trittico, IL PAESE CHE
AMO è stato il libro più difficile da
scrivere. Perché, degli avvenimenti
che narro, ho memoria cruda e viva.
40
È l’Italia in cui sono cresciuto, in cui,
bambino, ho imparato a leggere
e scrivere, far di conto e sognare.
L’Italia che mi ha deluso, l’Italia che
non riesco a smettere di amare.
Quando è venuto il momento di
raccontarla, ancora una volta, mi
sono trovato di fronte a un bivio:
dire la verità era impossibile, ma
trasfigurarla senza criterio sarebbe
stato ingiusto.
Ho fatto delle scelte, ho corso dei
rischi.
Ho fatto quello per cui sono venuto
al mondo e per cui mi pagano: ho
mentito.
Sperando di raccontare almeno un
frammento, una scaglia lucente di
verità.
Come già mi trovai a scrivere,
riguardo a Settanta: quella che
avete appena finito di leggere è una
storia di finzione.
Niente, in questa storia, è reale.
Verosimile, forse, ma reale no. Non
sono reali i personaggi, né le cose
che accadono. Molti avvenimenti
ricordano la storia mondiale degli
anni Ottanta e Novanta. Nessuno di
essi ha la benché minima credibilità
storiografica. Semplicemente per-
ché l’Italia, l’Europa e l’America che
descrivo in questo romanzo non
coincidono del tutto con il mondo
in cui sono diventato grande.
Il Paese Che Amo è, sotto molti
aspetti, un Paese fittizio.
In un certo senso, un non-luogo.
Valerio Evangelisti alcuni anni fa
mise in coda al suo romanzo più
bello, Noi saremo tutto, una nota
bibliografica che iniziava così:
Sebbene questo romanzo non ab-
bia pretese storiografiche, il contes-
to della vicenda è frutto di ricerche
piuttosto accurate.
Le sue parole, come valevano per
Settanta e Confine di Stato, valgono
anche per questo lavoro.
Il Paese Che Amo è, prima di tutto,
fiction.
Non c’è la Storia “pura”, qua dentro:
piuttosto un’inestricabile mescol-
anza di Storia e finzione.
Nessuno dei miei protagonisti è
reale. Anche se molti di loro as-
somigliano a personaggi storici,
nessuno di loro è identificabile con
il proprio corrispettivo.
Tanto per essere chiari: Tito
Cobra non è Bettino Craxi, Ljuba
Marekovna non è Ilona Staller
né Moana Pozzi, Carlo Ciaccia
non è Giovanni Falcone né Paolo
Borsellino, l’Omino non è Giulio
Andreotti e Domenico Incatena-
to, l’avrete capito, non è Antonio
Di Pietro.
La non identificazione è valida
per molti altri protagonisti minori.
Praticamente per tutti i personaggi
del libro.
Esplicitare questa differenza, ques-
ta non identità tra Storia e fiction,
tra personaggio storico e character,
non significa semplicemente para-
rsi il culo da eventuali querele per
diffamazione.
Questo testo non è un disclaimer.
Un’implicita deresponsabilizzazi-
one del mio testo. Questo scritto è
41
qualcos’altro. Un tentativo concreto
di dar conto del modo in cui lavoro.
Quando ho scelto di far morire il
papa nell’attentato in Piazza San
Pietro, o di mettere John Wayne alla
Casa Bianca, non volevo soltanto
scioccare il lettore con una narrazi-
one ucronica à la Robert Harris. Mi
interessava proporre un punto di
vista altro sulla Storia. In partico-
lare, sulla storia del nostro Paese
martoriato.
Cambiare prospettiva, lasciarsi
sorprendere dall’immaginazione, è
un tentativo di stravolgere il noto
per tentare di leggere in profondità
le questioni che la storiografia e la
giurisprudenza lasciano spalancate.
Non è compito di scrive romanzi
raccontare la verità. Ma è compito
di chi sceglie di prendersi cura della
memoria non lasciarla appassire.
Stimolare, con l’invenzione, la rifles-
sione periodica sul Paese deteriore,
sul suo lato oscuro.
Per fare ciò, per non lasciare che il
passato si sfaldi, occorre studiarlo
a fondo.
Durante la stesura del romanzo,
sono moltissimi i libri che mi hanno
influenzato, ma ve ne sono alcuni,
senza i quali questa storia non
avrebbe lo stesso sapore.
Surf
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Varazze®
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www.surfvarazze.it
42
RECENSIONI
FOUR TET
“0181”
Text
Four Tet torna a sorpresa, con
un bel regalo: una compilation in
free download di rarità composte
da parte del genio Kieran Hebden
tra 1997 e 2001, gli inizi della sua
carriera, ma il sound è già maturo,
ed è un mix di elettronica cerebrale
e downtempo.
Lo avevamo lasciato non molti
mesi fa con il suo ultimo album
Pink, seguito dagli immancabili EP
di remix e compagnia bella. Così,
a sorpresa, ora il geniaccio Kieran
Hebden in arte Four Tet, se ne
esce a metà Gennaio sul suo sito e
sul suo soundcloud con una bella
novità.
Il ragazzo dal faccione sorridente
e i capelloni ha deciso di regalarci
una bellissima compilation, e noi
ringraziamo!
Posta il set, unicamente chiamato
0181, un’immagine copertina, mette
un link con download gratuito, e
nulla più. Non ci sono informazioni
sulle tracce contenute in esso, né
altro. Sappiamo solo che si tratta di
musica prodotta da Four Tet in un
arco di tempo compreso tra il 1997
e il 2001, ed assemblata nel 2012
per formare 0181.
Una compilation di rarità risalenti
ad un periodo vicino agli inizi della
carriera di Four Tet, e anche prima:
nel 1997 Hebden aveva solo 19
anni e il suo esordio con questo
pseudonimo, destinato a recitare
un ruolo fondamentale nella
musica elettronica “intelligente”
negli anni a venire, risale all’anno
successivo, il ‘98, con l’EP
“Thirtysixtwentyfive” a cui seguirà
l’album “Dialogue” nel ‘99. Siamo
dunque proprio agli albori della
sua carriera, e il sound di questa
compilation possiamo definirlo
tranquillamente già maturo e di
stampo marcatamente “Hebdiano”,
perchè sono già riconoscibili le
strutture e le sonorità che hanno
fatto grande la sua musica.
Il Four Tet delle origini non può
che essere già votato all’elettronica
cerebrale e a strutture che saranno
sviluppate appieno nel proseguo
della sua carriera (soprattutto
tra i minuti 8 e 13), ma le rarità di
0181 evidenziano come questo
orientamento si manifesti solo in
maniera marginale, mostrandoci
invece un Hebden che guarda
maggiormente alla musica più
tradizionalmente downtempo,
caratterizzata da ritmi-atmosfere-
battute più rallentate, delicate,
cadenzate, con spunti jazzistici
(minuto 20) o chitarristici. Nel
complesso siamo già su alti livelli,
non pensiate che si tratti di scarti o
di materiale di poco conto!
Potete trovare il set, che si estende
per 38 minuti e spiccioli, sul suo
Soundcloud o su iTunes, nell’attesa
anche della già annunciata uscita su
vinile che farà felici gli appassionati.
43
Sarà stata la solita operazione di
marketing monta-hype? A dire
il vero non mi interessa, qui c’è
dell’ottima musica che possiamo
goderci liberamente, quindi enjoy!
Davide Siri
GLI ALTRI
“Fondamenta Strutture Argine”
Taxi Driver/Dreamin Gorilla/
QSQDR/Savona Sotterranea/Rude/
Bus Stop
Per chi negli anni novanta ha
sudato, pogato sotto il palco e
gridato in cameretta ascoltando
Frammenti, By Any Means,
Sottopressione e tanti altri gruppi
italiani di hardcore, avete tra le
mani il lavoro definitivo, un disco
che avreste voluto sentire in
quell’epoca.
Gli Altri sono un giovane gruppo
di Savona, molto talentuoso e
picchiano come fabbri. La loro
musica è un ponte fra punk ed
hardcore, con un gusto fortemente
anni novanta. Eppure questi
ragazzi ci sono nati nei novanta
o giù di lì, non dovrebbero aver
sentito certi dischi. Ed invece
Gli Altri chiamano a cantare nel
loro disco Roberto Ceruti, storico
cantante degli Affranti, che a
Savona hanno portato avanti per
anni l’hardcore, totemici. Questo è
l’hardcore, una musica che sfoga
la rabbia, che rompe muri, e non
ha età, né confini. I testi de Gli
Altri sono surreali, grida silenziose
su astronavi d’asfalto e merda,
poiché l’hardcore racconta la
44
realtà in maniera sfumata, ma può
anche essere un macigno. Ci sono
gruppi come gli Indigesti, come gli
Affanti appunto, che descrivono
il nostro mondo in maniera iper
reale, accumulando sensazioni ed
emozioni in una maniera catartica.
Fondamenta Strutture Argine
è un disco che crea immagini e
fotografie di vita notevoli, ribellioni
biologiche, impotenza e disagio
quotidiano, perché chi sente male
deve gridare. E questo cd gronda
di vita e di grida, di voglia di uscire
dalla gabbia. A Savona ci sono le
gabbie,si chiamano strade, e io
devo rendere omaggio a questa
città, almeno per quanto riguarda
la musica, perché gruppi come
Gli Altri, come i Dsa Commando,
come gli Uguaglianza (non proprio
di Savona), Affranti e Risonanze
hanno creato non una scena ma
un’urgenza di comunicare, di dire
la propria. Questo è un disco
fantastico, commovente per come
riesce a forgiare un passaggio tra
epoche diverse, ma stessa rabbia.
Lo senti dall’inizio alla fine, e ci vedi
tante facce, tante situazioni, tante
lotte. Perché se dei ragazzi fanno
dischi come questo, lo mettono
in free download, e soprattutto
portano avanti una logica DIY e
libertà di pensiero, allora l’hardcore
non morirà mai. Al di là delle pose
e della violenza di certe scene. Gli
Altri sono una scelta, che fa chi non
vuole rimanere passivo, chi vuol
piangere ma anche ridere di fronte
ad una pozzanghera nell’ennesima
giornata di merda e asfalto. Perché
a noi il culo ci rode ancora.
Massimo Argo
TOKYO SEX DESTRUCTION
“Sagittarius”
Bcore Disc
Dopo tre anni in tour, e dopo
diversi cambi di formazione
tornano i fantastici Tokyo Sex
Destruction, sublimi fautori del
Soul Rock. Sagittarius è il disco
della loro conferma per chi era
ancora scettico.
È un’opera che non ti fa mai
stare fermo e penso che sia il
loro miglior disco di gran lunga.
La loro consueta energia qui si
sublima, arrivando ad apici mai
raggiunti. Sagittarius è la perfetta
combinazione tra il soul di Detroit
e il latin soul di New York sponda
Fania. In tutti gli 11 pezzi i Tokyo
sprigionano energia e passione
sporca, insomma vera soul music.
Chi li ha visti dal vivo sa che sono
una macchina da festa, e qui sotto
la guida di Fernando Pardo tirano
fuori il meglio. Un disco fresco,
potente ed additivo. Davvero
additivo. Alla sesta prova su lunga
distanza, i Tokyo Sex Destruction
si confermano nell’olimpo dei
gruppi che fanno muovere il culo a
signorine e signorini. Mani in alto e
via con la festa, il red soul continua
!!!
Massimo Argo
ERIC FUENTES
45
“Copper And Gold”
Bcore Disc
Pianoforte e voce. E a volte una
chitarra. Attitudine hardcore e
voglia di dimostrare che anche in
tempi più o meno moderni si può
fare un disco come ai tempi dei
crooners.
Tutto ciò ce lo propone Eric
Fuentes, ex dei The Unfinished
Sympathy, che dal 1997 ha
intrapreso una fruttuosa carriera
solista, accompagnato al piano da
Bernat Sanchez. Ed è apertamente
magia, il feeling di questo album
è incredibile, è qualcosa che
appare in controluce, un sogno
probabilmente. Ascoltando fra le
righe, si può ben capire che è un
disco fortemente pop, con intrecci
sonori e canori alla Prefab Sprout.
Altra caratteristica di questo
fenomenale disco è la possanza
quasi fisica della musica di Eric e
Bernat. Il piano è pestato, la voce
è calda e vibrante, per un insieme
davvero inedito e magnifico. Dal
vivo si avranno anche altri musicisti
sul palco, come Joan Thelorious
dei nostri tanto amati Tokyo Sex
Destruction.
Passione e ricercatezza, per uno dei
dischi più belli della Bcore, che ha
un catalogo eccezionale.
Massimo Argo
IVENUS
“Dasvidanija”
DreaminGorilla Rec
Scrivere una recensione è già più
difficile di quel che possa sembrare,
tutto si complica poi se nel mirino
finisce un gruppo con cui condividi
la stessa città d’origine. Voci, note e
rumori diventano volti, caratteri e
sagome che hai visto calpestare le
tue stesse strade per anni. Separare
il livello di giudizio dell’ascoltatore
nativo dall’ottica in scala nazionale
non è semplice, soprattutto se si
parla di un gruppo, come iVenus,
con cui è difficile condividere spazio
vitale senza creare un rapporto
emotivo di qualsiasi sorta.
Attivi sul territorio ligure dall’età
della pietra, il loro debutto di
un paio di anni fa, Tanz!, sapeva
ancora molto di ‘fatto in casa’,
ma conteneva già una quantità
notevole di singoli irresistibili, che
li aveva sbalzati in un tour biennale
in cui si sono trovati a condividere
il palco con alcuni dei nomi più
altisonanti della scena italica.
Piacioni, spettinatori ammiccanti
e volutamente poco raffinati (anzi,
piuttosto tendenti al trash) volano
intorno a quel pop più teatrale e
rumoroso, supportato però, più di
quanto lascino intendere, da un
ABC implicito di quanto successo
in Italia negli ultimi anni in ambito
musicale, dal baby building al che
cos’hai tu da brillare tanto e l’occhio
nero con la matita blu.
Per chi già li conosce, Dasvidanija
46
non cambia troppo le carte
in tavola rispetto al passato:
si parla sempre di un assetto
strumentale dei più classicamente
rock, arricchito da una tastiera
effettata, pestata con foga, che
prende spesso il sopravvento su
tutto, lasciandosi piegare solo dai
capricci vocali del frontman Cash
nella Pelliccia. Tanti riverberi, tanti
synth, tanto pop, tanto casino: il
rischio di suonare come un vecchio
incubo anni ‘80 è sempre dietro
l’angolo, ma tutto sembra fatto per
far muovere e ballare o quanto
meno battere un po’ il piedino. I
testi, sorprendentemente arguti,
abbozzano ritratti agrodolci di
gioie passate o auspicate, disagi
e disastri emotivi con picchi di
menefottismo notevoli, misantropia
e amore globale condividono lo
stesso letto.
Se un elemento di costanza
c’è, è sicuramente la ricerca
dell’orecchiabilità più immediata e
coinvolgente (una sola eccezione:
la title-track, ballata lenta e docile
nei suoni, ma non nel testo). Ci
sono dei momenti in cui il gruppo
ci riesce discretamente bene (la
blasfema The great capitombolo, il
tripudio di synth di scuola i Cani
Settembre, il Fiumani & Dylan Dog
di Mangianastri), altri in cui qualche
perplessità può essere più che
lecita (C’est la vie mon amie, in cui la
musica leggera tende a diventare
troppo leggera, e Ventricoli,
mancante quel qualcosa in più
che mantenga viva l’attenzione).
Spicca sul resto, scandendo il ritmo
generale del disco, l’irresistibile
trittico P.O.P, Grazielle e Rembrandt:
giocate su ritmi martellanti e ciclici,
tutte e tre si scagliano in faccia
all’ascoltatore, avvinghiandolo in
una presa ermetica da cui è difficile
sottrarsi.
Per capire del tutto iVenus,
probabilmente, bisogna andarli
a cercare in qualche concerto,
quando ci si trova davanti a orde
in delirio, crowd-surfing ad ogni
ritornello, bassisti che si contorcono
a piedi nudi e caramelle gettate a
grappoli contro gli aficionados in
prima fila. Questo, però, si rivela
sempre un’arma a doppio taglio,
raramente impugnata dalla parte
del manico in un mondo in cui la
carta che canta resta pur sempre
il disco. Se immerso nel contesto
nazionale e spogliato di tutte le
associazioni visive e sonore raccolte
nei live, Dasvidanija rischia di fare
la figura del Davide: ha ancora le
spalle strette e le gambe deboli,
avrebbe forse bisogno di un po’ di
esercizio mirato per rinforzarsi qua
e là, ma potrebbe lo stesso battere
il suo Golia se decidesse di giocare
d’astuzia.
Nicolas Gasco
THE BARBACANS
No Hits For The Kids
Boss Hoss Records
A qualcuno può interessare qual’è
l’album che gira in ultra heavy
rotation sul mio stereo di casa ed in
47
quello del negozio in cui lavoro?
Lo so, lo so, non ve ne può fregare
di meno ma, che ci volete fare, la
recensione la faccio io e quindi vi
tocca saperlo lo stesso, l’album in
oggetto (dei miei ascolti e della mia
recensione) è questo splendido No
Hits For The Kids, secondo album di
una band in crescita esponenziale
come i Barbacans.
Ebbi la fortuna, sempre per questa
mirabile e-zine di recensire anche
il precedente God Save The Fuzz
(potreste immaginare titolo più
bello per un album di garage?!?) e
dissi che in quel caso il disco era
molto bello ma che gli mancava un
pezzo forte che lo stagliasse dalle
altre produzioni di genere; ebbene
dissi una delle mie proverbiali
minchiate perché da quel giorno
“Kick The Children” e “Turn Away”
entreranno di forza nelle mie scelte
di negletto dj di provincia.
A distanza di ben 4 anni (era
proprio necessario farci attendere
tanto?) i nostri tornano alla carica
con una raccolta di canzoni ancor
più bella della precedente e
costringendomi a rimodellare la
mia playlist annuale; sono conscio
che al lettore non potrà importar
molto neppure di questo ma io alla
48
mia playlist dedico ragionamenti
approfonditi e se, poi, a dicembre
inoltrato i tipi della Boss Hoss mi
mandano un album così bello, mi
costringono a violentare le mie
convinzioni più radicate, e che si fa
così tra persone per bene?
Partendo dall’inciso che tutti, e
dico tutti, i pezzi di questo disco
sono molto belli vi citerò quelli
che hanno riscontrato la mia
sperticata preferenza; si parte
con 10000 promises che, sorretta
da un grandissimo lavoro di voxx,
esplode in un fragoroso pezzo di
garage-punk eighties style degno
dei migliori Miracle Workers,
Kind Of The Blue Beat è un breve
strumentale molto psych e
molto veloce nel quale sembra di
ascoltare i Plasticland con una tigre
nel motore, Fatiscenza Violenta è
un brano adatto a chi pensa che
il garage non renda se cantato in
italiano, pensate, basta soltanto
rivisitare la lezione del nostro
sixties-beat più degenere (semplice
no?), Istato Itagliano è mettere in
musica uno stato di ubriachezza
molesta.
Breve sosta, biretta fresca, e si
ricomincia: He’s Gone è il mio pezzo
preferito, è la tipica canzone in cui
tutto funziona alla perfezione dagli
intarsi fra gli strumenti al ritornello,
qui il garage si fa quasi epico, senza
tralasciare una vena di psichedelica
malinconia, in poche parole una
BOMBA, Hug Hug è molto wild o
molto punk e quando compare
un’armonica killer fa letteralmente
sognare, chiude il cerchio la breve
suite oppiacea di Tahiti With You.
Concludendo No Hits For The
Kids dura poco meno di mezz’ora
(nessun album di vero rock’n’roll
dovrebbe durare di più) ed è come
fare un giro nell’orgasmatron
che compare nel film dell’ancora
giovane e non ancora tedioso
Woody Allen intitolato “Il
Dormiglione”; se non lo avete
ancora visto (il fim) fate in modo di
vederlo e se non lo avete ancora
ascoltato (l’album) vedete di
ascoltarlo da qui a breve perché
cambierà le vostre vite in (molto)
meglio.
Per quanto riguarda il giro
nell’orgasmatron, vedete di
organizzarvi...
Il Santo
WOODEN SHJIPS
“Back To Land”
Thrill Jockey Records
Ripley Johnson e Omar Ahsanuddin
si sono trasferiti nell’Oregon,
lasciando San Francisco, patria,
teatro e habitat naturale di tutte
le produzioni targate Wooden
Shjips, nel pieno stile di una neo-
psichedelia californiana che più di
così non si può.
L’album West aveva molti simboli
che legavano indissolubilmente la
musica all’ambientazione, dal nome
alla copertina del disco (mi sembra
di ricordare un ponte...); anche
nella cover art di Back To Land
ci sono dei richiami, ma stavolta
alla storia del genere, perchè la
49
copertina ricorda un po’ quella della
pietra miliare “The Psychedelic
Sounds Of The 13th Floor
Elevators” e richiama in generale il
rock psichedelico 60s-70s da cui la
band attinge la propria ispirazione
e attualizza al presente in forma
più fruibile per un’audience sempre
maggiore.
Si parlava del trasferimento,
ebbene questo è il primo
album di Ripley e soci che ha
un’ambientazione diversa da
S.Francisco, e la sensazione da
parte della band stessa è che la
componente ambientale abbia
giocato un ruolo e un’influenza
nella stesura di queste nuove otto
tracce.
Senza abbandonare l’immediatezza
e l’energia della loro matrice
psichedelica, caratteristiche
principali di West, i Wooden Shjips
cercano in alcune tracce di ampliare
i propri orizzonti ed arricchire la
loro musica ponendo maggior
attenzione anche alla narrazione
e alla componente melodica.
A conferma di ciò, accanto alle
usuali caratteristiche distintive
del suono della band, incentrato
sull’accoppiata chitarra-tastiere,
in alcuni tratti compare anche la
chitarra acustica.
Ma ci sono anche varie tracce con
il loro forte marchio di fabbrica,
con riff distorti e un ritmo vivace
come base, su cui chitarre e tastiere
ricamano e ondeggiano tra primo e
secondo piano, in alternanza.
In definitiva, “Back To Land” è un
album dalle due facce: da una parte
abbiamo la continuazione di “West”
e la confidenza nell’espressione
di tratti distintivi già consolidati
(soprattutto nella prima parte);
dall’altra abbiamo qualche novità,
costituita da tratti più melodici
e una maggiore ricerca della
componente emozionale.
Questa prima tendenza, trova
subito espressione partendo
dall’iniziale title-track, perchè
la prima impressione è quella
di avere tra le mani un lato C di
West, costituendo una diretta
connessione tra i due lavori. A
seguire troviamo l’incalzante
ritmo di Ruins, e dopo 30 secondi
sei già ad ondeggiare e ripetere
parabarabara-parabarabara (sì,
lo so cosa pensate, ma IYEzine
purtroppo non prende un assegno
mensile per farmi da assistenza
sociale).
Sempre parlando di brani di forte
impatto, troviamo la potenza di
Ghouls e Other Stars e la velocità di
In The Roses.
D’altra parte, riguardo al secondo
aspetto evidenziato poco sopra,
troviamo anche tracce più lente
e introspettive. Secondo me la
traccia più significativa è These
Shadows, è quella che emerge
maggiormente nel lotto perchè
esula dal tradizionale stampo
Shjips, con chitarra acustica, una
maggiore tendenza narrativa, un
suono avvolgente e curato, inserti
chitarristici un po’ più dilatati
rispetto al sempre più usuale
riffetto-ritornello, un ritmo più
rallentato ma che riesce sempre a
50
coinvolgere trasmettendo nuove
sensazioni ed emozioni.
L’altro brano in cui è maggiormente
evidente questa novità è la traccia
che chiude ottimamente la raccolta,
Everybody Knows, che conosce una
nota malinconica praticamente
senza precedenti in casa Shjips,
un po’ come se un rampante Roky
Erickson invitasse a un party i
Codeine e li facesse gonfiare come
canotti cercando anche di farli
prendere bene (va beh, è un falso
storico, traslate mentalmente lo
slowcore un paio di decenni prima
per ritrovarvi a tale party).
Servants è un altro ottimo
pezzo, che costituisce un po’
un compromesso tra le due
componenti e amalgama queste
due tendenze per rendere il
risultato complessivo un po’ più
fluido.
In alcuni tratti ti viene quasi il
dubbio che la premiata ditta Ripley
Johnson & soci si limiti quasi a
svolgere il proprio compito per
consolidare la posizione di ascesa
raggiunta col precedente album,
senza variare troppo il copione o
cercare novità particolari, poi però
pensi anche che in fondo questo è il
loro marchio di fabbrica, questo è il
suono degli Shjips, e se la formula
funziona, i pezzi sono coinvolgenti
ed energici, per carità va bene
così, perchè poi ci si affeziona
al suono caratteristico di una
band. Ma questo sarebbe molto
limitativo per descrivere “Back To
Land”, un album certamente ricco
di spunti interessanti e delle sue
particolarità.
Per cui, sebbene ammetto che il
primo ascolto abbia generato in me
un moderato entusiasmo, (forse
hanno avuto un certo ruolo anche
le aspettative per questo nuovo
lavoro), soprattutto nel sentire
le somiglianze con il precedente,
in seguito ripercorrendo e
analizzando meglio “Back To
Land”, mi sono accorto anche delle
differenze e delle migliorie, perchè
la band californiana ha ampliato il
proprio campionario acquisendo
nuovi tratti distintivi.
Perciò mi viene da dire che anche
questa prova sia stata superata
con successo dai Wooden Shjips,
confermandoli tra le punte di
diamante del nuovo decennio
psichedelico.
Davide Siri
GAZEBO PENGUINS
“Raudo”
To Lose La Track
Dopo “Legna” del 2011 e lo split
con I Cani del 2012, i tre Gazebo
Penguins (Capra, Sollo, Piter)
ritornano, insieme all’ormai
collaudata e sempre più attenta To
Lose La Track, con Raudo, ovvero
il loro terzo lavoro lungo. L’album,
composto da dieci brani, continua
nel solco del precedente, regalando
nuove chitarre esplosive, una
maggiore maturità dal punto di
vista compositivo e, ovviamente,
una nuova palata di emozioni.
E’ Finito Il Caffè, tra chitarre
51
scalpitanti, melodie accattivanti e
un testo agrodolce, apre il disco
travolgendo con la sua forza
emotiva, mentre Casa Dei Miei,
schiacciando sull’acceleratore,
disorienta con il suo raccontare. Le
tempeste di chitarra di Difetto e il
nervosismo di Domani E’ Gennaio
(dissolto solo da quell’amaro “le
rate di una libertà che dura un
anno, ti prego non mi dire più
domani è un altro giorno, i lunedì
di maggio sono così da otto anni”)
cedono spazio all’altrettanto
rabbiosa e disillusa Ogni Scelta E’
In Perdita (“non solo ogni lasciata
è persa, è strano ma vedrai, che
ogni scelta è in perdita”) e alla
malinconica tranquillità (per modo
di dire) della breve Correggio.
L’energico sfrecciare di Trasloco,
infine, seguita da una veloce e
graffiante Mio Nonno, apre alla
granitica Non Morirò, al suo “se
avessi avuto un’ora di più o anche
solo un minuto, non avrei fatto
nulla di diverso” e al catartico
gridare “oggi mi sento piuttosto
bene, uo uo uo” della conclusiva
Piuttosto Bene.
Questo terzo album dei Gazebo
Penguins pare avere tutte le carte
in regola per bissare il successo del
precedente “Legna”. Forse i testi
sono più scarni e semplici, ma le
emozioni continuano ad essere
trasmesse con intensità, le melodie
danno l’impressione che ci sia stato
un ottimo lavoro alle spalle e i
suoni esplodono nell’aria. Un disco
sincero e fatto a regola d’arte: non
potrà che conquistarvi.
Francesco Cerisola
ARTISTI VARI
“Saoco! - Bomba, Plena And The
Roots Of Salsa In Puerto Rico”
Vampisoul
Il saoco era una bevanda usata
come tonico dagli schiavi a
Cuba, un mix di cocco e rum,
rinfrescante e rinvigorente.
Proprio come questa compilation
di salsa, secondo episodio di
un’esplorazione cominciata l’anno
scorso.
Le coordinate sono intorno agli
anni ‘50 e ‘60 del 1900, luogo
Puerto Rico, sorella minore di Cuba
per quanto riguarda la salsa e i
suoi progenitori. Nel primo volume
ci si è maggiormente focalizzati
sulla bomba e sulla plena, due
antenate della salsa, mentre
qui andiamo maggiormente nei
52
territori della guaracha, rumba,
mambo, merengue e della musica
tradizionale contadina. Puerto Rico
ha sempre avuto un’ottima scena
musicale, essendo stata influenzata
dai gruppi cubani che suonavano a
Puerto Rico.
Un’altra particolarità di questa
musica è che, principalmente,
veniva registrata a New York, dove
molti emigravano; uno dei generi
che possiamo ascoltare in questo
cd è la guaracha, una musica molto
radicata a Puerto Rico, poiché arrivò
insieme alle compagnie teatrali
cubane dal 1910. La guaracha è
considerata un’asse portante della
salsa, ma il repertorio di questi
gruppi antesignani era composto
da molti stili. Dopo la liberazione
di Cuba da parte di Fidel Castro e il
conseguente embargo, Cuba perde
la sua dominazione musicale nei
Caraibi, a vantaggio di Puerto Rico
e New York. I gruppi della metà
degli anni sessanta fusero rumba,
charanga, pachanga e rock and
roll secondo il gusto dell’epoca,
e in ¡Saoco! ne abbiamo diverse
dimostrazioni. Si sente molto quindi
l’influenza di stili eterogenei, ma
la salsa di Puerto Rico mantiene
sempre una forte impronta,
tanto da diventare facilmente
riconoscibile, almeno ai più esperti.
Quest’epoca è stata il siglo de oro
della musica puertoricana e ha
partorito autentiche gemme, come
questi 28 pezzi d’argenteria. Qui si
può godere di un’autentica musica
latina, ancora non sottomessa al
gusto europeo o nordamericano. El
son è forte e potente, si snoda in un
amalgama di gioia e fisicità. Sudore
e sederi che ballano frenetici.
Massimo Argo
MUM
“Smilewound”
Morr Music
Morr Music è ormai da molto
tempo un marchio di fabbrica.
L’etichetta berlinese si è infatti
distinta da molti anni per un genere
di elettronica minimale e delle sue
sfumature da diventarne quasi un
sinonimo.
Non stupisce allora che i Mum
gravitino intorno a questa scena,
dato che l’elettronica è alla base
di questo gruppo islandese che
mescola beat, strumenti classici,
sintetizzatori, tastiere giocattolo per
suoni Arcade (in When Girls Collide
sembra di giocare ad un gioco in un
vecchio computer), con un risultato
finale incredibilmente melodico,
equilibrato, dolce e raffinato.
Il tutto è condito da una voce
eterea, cullante, elfica, sentimentale
e ipnotica: Slow Down è una
canzone d’amore che vi farà venire
la voglia di essere innamorati.
One Smmmmile vi farà passare
dalle atmosfere rade e dilatate, dai
paesaggi minimali e da una natura
quasi immobile caratteristica della
prima parte dell’album al ritmo dei
mercati d’oriente, alla frenesia dei
suk e dei mille bazar.
La voce lieve delle gemelle Gyða
and Kristín Valtýsdóttir vi cullerà
comunque per tutto il disco e, come
53
per un Ulisse contemporaneo, sarà
estremamente difficile resistere
all’attrazione magnetica e inconscia
di questo canto (Underwater Snow e
Time To Scream And Shout su tutte).
Ciliegina pop sulla squisita torta,
la presenza di Kylie Minogue in
Whistle.
Gianluca Camogli
OLIVER SCHORIES
“Exit”
Der Turnbeutel
Oliver Schories, chiamato alla
riconferma col suo sophomore
album Exit continua sullo stesso
asse del suo ottimo esordio. Col
suo crossover di House e Techno,
riesce a creare elettronica ipnotica
ed evocativa dalla sensibilità
pop. “Rising star” dell’elettronica
tedesca?
Il producer tedesco Oliver
Schories è una piacevole vecchia
(non più di tanto) conoscenza
di IYEzine, poiché lo ritroviamo,
andando indietro di un anno, con
il suo album di esordio dal titolo
complicatissimo http://www.
iyezine.com/recensioni/1699-oliver-
schories-herzensangelegenheit.
htm Herzensangelegenheit. Ora
Schories, divenuto ormai dj e
producer affermato, è chiamato
alla consacrazione tra i grandi con
questa seconda prova su lunga
distanza, dal titolo Exit.
Dico ciò riguardo ad una possibile
consacrazione anche perchè si era
generata in me grande aspettativa
per questo album, giacchè la
precedente prova aveva messo in
luce grandi potenzialità da parte
del tedesco...e un po’ l’aspettativa ti
fotte.
Ad essere sincero non riesco così
bene a capire se questa “prova di
maturità”, come spesso si dice,
sia stata centrata in pieno o sia da
rimandare ai giorni che verranno,
anche perchè, eccezioni a parte,
di solito sono tre indizi a fare una
prova...ad ogni modo, so benissimo
che questo qui non è il punto
cruciale, sono fondamentalmente
chiacchiere, il punto è il disco, e la
discussione la palleggio a voi che lo
ascolterete.
Schories si pone in
logica continuazione di
“Herzensangelegenheit” (e non
fatemelo dire di nuovo!), ne
riprende gli schemi e ne amplia
l’influenza pop, cerca di pulire
maggiormente il suono ricercando
l’equilibrio più per sottrazione
che per addizione. L’idea di base
è, inoltre, a mio parere diversa
tra i due album: questo nuovo
lavoro è meno intenso dal punto
di vista ritmico, qui si va a cercare
di muovere più la mente che
il corpo (60% contro 40% ?),
mentre l’esordio forse ribaltava le
proporzioni, e infine Exit compie
un leggero passo verso la “hit” di
sensibilità maggiormente pop, nel
senso più generale del termine.
Le sonorità e di conseguenza le
sensazioni che riescono a creare
questi brani sono l’uscita di
54
sicurezza che ci offre il tedesco,
una piccola oasi nel quotidiano.
Questo è Exit, una porta che se
appena socchiusa mostra già i caldi
raggi del sole di un luogo dove è
sempre estate. Nell’idea del suo
autore, Exit ha la funzione di creare
un’atmosfera evocativa, un locus
amoenus in musica, per il piacere
dell’ascoltatore più che per il club.
Col suo particolare crossover di
House e Techno, fatto di suoni
caldi e delicati, un ritmo sempre
misurato e mai portato a spingere
troppo, brani orecchiabili ma
non scontati, Schories ricerca
efficacemente il bilanciamento e la
quadratura del cerchio nel creare
elettronica ipnotica.
Mi piace molto pensare a Schories
come colui che può realizzare
quelle potenzialità che uno come
Kalkbrenner (Paul) non è riuscito
a realizzare pienamente (per
quanto ne abbia mostrato alcuni
abbaglianti sprazzi qua e là),
un po’ offuscato dal suo stesso
successo. Perchè per un certo verso
l’elettronica di Oliver si avvicina
abbastanza a quella di mr. Berlin
Calling, ma secondo me ci mette
più anima e più sfaccettature, per
quanto sia forse meno attenta
al ritmo. Il suono del nostro non
è ancora così ben confezionato
come quello di altri suoi colleghi
più esperti come il buon Paul, e
non ha ancora la raffinatezza nel
suono di un modello di riferimento
come può essere Pantha Du Prince,
per quanto facciano anche musica
diversa; però le idee e la capacità di
metterle in musica ci sono tutte, e
Schories ha tutte le carte in regola
per entrare tra i grandi.
Perciò sì, si può creare musica
elettronica che sia insieme
ricercata e orecchiabile, che sia
fruibile ma non risulti scontata
né “commerciale”, come insegna
questo ragazzo.
Dopo l’introduzione, ci troviamo
subito con l’orecchiabilità di Sunset,
una traccia di atmosfera molto
estiva, e quindi But Maybe che
parte ruvida ma presto diventa
dolcemente ammaliante. In seguito
le ipnotiche Get Me e Circles ci
ghermiscono, Go ha una struttura
simile a quella della precedente
But Maybe, e Another Day è una
delle tracce che ricordano forse
maggiormente il precedente album.
Il disco è molto lungo, abbiamo
appena superato la metà, in totale
Exit contiene più di un’ora e un
quarto di ottimi brani, tutti sempre
sui 6 minuti, ma l’ascolto non pesa
perchè Oliver ha questa capacità di
farci entrare presto in uno stato di
piacevole trasporto, ci fa muovere
interiormente con le stesse
frequenze e la stessa forma d’onda
della sua musica.
Non mi dilungo oltre a descrivere i
singoli brani, ma sappiate che sono
tutti da ascoltare dall’inizio alla fine,
e tutti hanno le loro sfaccettature
che li rendono interessanti e
gradevoli. Il tutto è riassumibile
con la frase che ci siamo detti
contemporaneamente io e
Massimo di IYE parlando del disco:
“ma senti che suoni!”.
55
Direi perciò che bisogna mettere
bene in chiaro che Oliver si
conferma un grande producer,
ed ora abbiamo le prove per
poterne parlare come “rising star”
dell’elettronica tedesca.
Buon ascolto!
Davide Siri
FINE BEFORE YOU CAME
“Come Fare A Non Tornare”
La Tempesta Dischi / Legno
Quando pochi giorni fa ho visto che
i Fine Before You Came avevano
pubblicato il loro nuovo disco ho
pensato “Olè, questa è la volta
buona che sbagliano”. Invece poi
l’ho messo su e l’ho ascoltato per
tre volte consecutive, rimanendo
totalmente spiazzato. Come Fare
A Non Tornare questo il nome
del lavoro, si compone di cinque
tracce cupissime dove, se i testi
continuano ad essere evocativi
e affascinanti come in passato,
alla voce gridata si sostituisce un
cantato lucidamente disilluso e alla
vena post hardcore/emo un post
rock/slow core soffocante.
“Battiamo i lividi per mantenerli
sempre viola, per ricordarci che san
fare ancora male” è così che si apre
Discutibile, la quale, avvolgendo
con le sue delicate chitarre che
lentamente crescono, ci sbatte
poi in faccia quell’amaro “noi
non sappiamo come fare a non
tornare”. Alcune Certezze, altrettanto
sofferta, ma accompagnata da
melodie più leggere e meno
soffocanti, ci tiene legati a sé con
con quel “la soluzione ai miei
problemi sembra sempre la causa
dei tuoi”, mentre Il Pranzo Che Verrà,
affondando in una scura voragine
di chitarre e sentimenti infranti,
viene rischiarata solo a metà da
un breve e pacato scorrere di note
malinconiche. Una Provocazione, più
decisa e tesa, corre veloce su quel
“come i bambini vorrei correggere
i disegni, finché non fan schifo, il
foglio si buca, e poi si convincon
che va bene così” per poi spegnersi
lentamente, lasciando in balia del
dolore più forte, quello causato
dalla conclusiva Dura: “niente di
tutto questo mi piace davvero, ma
so che la mia fortuna è averlo, cosa
vuoi che ti dica, vado avanti così
finché dura, passo dalle vittorie
alle sconfitte senza combattere
battaglia alcuna”.
Con questo nuovo lavoro i Fine
Before You Came, giunti ormai
a quasi quindici anni di attività,
aggiungono un’ulteriore tassello
al lungo processo di evoluzione
sonora che li ha contraddistinti.
Dall’emo/post hardcore al
post rock/slow core più scuro,
dall’inglese all’italiano, dalla voce
gridata a un cantato cupo e senza
più forze. Come Fare A Non Tornare
è un lavoro profondo, di quelli da
ascoltare tutto d’un fiato, in cui
perdersi insieme a tutti i propri
malesseri. Un disco importante,
di sicuro più del precedente, forse
anche dell’eccezionale “Sfortuna”.
Francesco Cerisola
56
THE ASSYRIANS
“The Assyrians”
Bored Youth Records
Chi ha la pazienza e la, non sempre,
buona sorte di leggere le mie
recensioni avrà, ormai da qualche
tempo, compreso quanto sia solito
aprire le mie righe con tediose
premesse.
Anche in questo caso, mie care
anime pie, la premessa è doverosa
in quanto la band in oggetto sta per
uscire con un nuovo album (la data
dovrebbe essere il 15 novembre
e l’etichetta la prestigiosa Foolica
Records) mentre il mini di cui sto
per parlarvi ha sulle spalle già
alcuni mesi.
Ma, il caso vuole, che gli Assyrians
abbiano suonato in agosto nella
nostra ridente cittadina e che, dopo
la loro più che lodevole esibizione,
si siano intrattenuti con lo “staff”
della nostra fanzine.
Durante il corso di questo
piacevolissimo incontro i
componenti del gruppo si sono
dimostrati persone molto socievoli
e disponibili ed inoltre hanno
gentilmente concesso questo
mini album alla nostra attenzione
dicendosi interessati ad un nostro
sindacabilissimo giudizio.
Ed eccomi qui, con una quarantina
di giorni di colpevole ritardo, a
parlarvi della quattro canzoni
d’esordio di questo mirabile
quartetto.
L’inizio è davvero stupefacente,
Moon happy monkeys and hope
maniac ape è un pezzo davvero
notevole tanto che il sottoscritto
lo giudica in modo inappellabile la
più bella pop song del 2013; avete
presente quando Alex in Arancia
meccanica, abbigliato in perfetto
stile ottocentesco, tenta, con
successo, di circuire due fanciulle
con tanto di gelato?
Dice loro di seguirlo nella sua
abitazione perché nel suo
stereo sentiranno un suono che
difficilmente potranno dimenticare
(abbiate pietà di me ma ora su
due piedi non ricordo l’esatta
descrizione).
Ebbene voi inserite questo
dischetto nel vostro lettore e
potrete provar le medesime
sensazioni, se poi come nel film
riuscirete anche a fare dell’ottimo
sesso a tre tanto di guadagnato,
vi dico solo che si è sui livelli dei
migliori Xtc,e gli Xtc sono fra i miei
gruppi preferiti di sempre.
Proseguendo si ascoltano altresì
la dolcissima My garden with
statues of Em che tanto ricorda
i pezzi magici che produceva
alcuni anni orsono la Sarah
Records, e non ditemi che non
conoscete la Sarah Records e che
nonostante ciò siete sopravvissuti
a questo triste mondo; Farewell
scarlet pimpernel dall’andamento
leggermente psychedelico e
dall’incidere beatlesiano o, dato
che si parlava di Xtc, in odor di
Dukes of Stratosphear, se non
conoscete neanche loro mi spiace
dirvelo ma questo triste mondo
vi ha definitivamente sconfitti,
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In Your Eyes ezine report 2013

  • 1. in your eyes ezine ANNUARIO 01/13 1 PRIMAVERA SOUND 2013 INTERVISTA AI DRIVIN MRS SATAN SIMONE SARASSO - IL PAESE CHE AMO VARAZZERS FANZINE E ANNI NOVANTA MASSIMO VOLUME, GAZEBO PENGUINS, SALMO 5MDR, IVENUS, FOUR TET, TOKIO SEX DESTRUCTION iye
  • 2. 2 Directed by: Simone Benerecetti Web: http://www.iyezine.com E-mail: info@iyezine.com Collaboratori: Massimo Argo, Il Santo, Francesco Cerisola, Stefano Cavanna, Nicolas Gasco, Marco Appioli, Davide Siri, Ilaria Maietta, Gianluca Perata, Gianluca Camogli, Giovanni Sciuto, Kaosleo, Marco Repetto, Pietro Caviglia, Luca Fazio, Alessandro Bonetti, Alberto Cente- nari, Freddi Koratella, Mauro Francioni, Francesco Orazzini, Marini Yolima. N. 1/2013 Dal 2006 abbiamo avuto da 124.216 persone sul sito con 372.875 pagine viste.Grazie.
  • 3. 3 Editoriale In Your Eyes è nata nel 1999 e io stavo per finire le scuole medie. Es- cluse le band più note e commerciali del periodo conoscevo ben poco di musica. Sicuramente non conoscevo In Your Eyes (nonostante fosse fatta da gente che dista da casa mia solo 20 Kilometri). Questo è quello che solitamente succede in provincia, in piccole città come Savona, chiuse su sé stesse e, spesso, prive di curiosità e voglia di scoperta. Nessuno si preoccupa di quello che succede a un palmo dal proprio naso, nessuno fa attenzione al fatto che chi ci sta di fronte potrebbe avere le nostre stesse idee, i nostri stessi gusti e che, insieme si potrebbe fare qualcosa di molto più grosso del solito far niente. Nessuno si accorge che città come Genova, Torino, Milano sono lontane, ma non così lontane da essere con- cepite come irraggiungibili. Nessuno fa caso al fatto che dietro al progetto più grande che si possa immaginare ci saranno sempre persone in carne ed ossa, uguali a noi in ogni più pic- cola parte. Nessuno ha mai voglia di provare a fare un passo in più ris- petto al dovuto. Io stesso facevo parte di questa cat- egoria di persone. Può capitare, però, che un qualcosa, un momento, una situazione, un’idea, in maniera improvvisa, ti prenda e ti rivolti come un calzino, piantandoti dentro al petto una voglia irrefrena- bile di fare quello che credevi fosse impossibile fare. Per me è stato il parlare, dopo molte birre, con un mio amico, il quale, a un certo punto, con tono incazzato mi ha semplicemente chiesto “Ma perché porti quel paio di scarpe?”. Sembra stupido, ma non sapevo rispondere. Ci ho pensato giorni interi a quella domanda e alla fine ho deciso di cambiare (non solo le scarpe) e met- termi a fare cose che sentivo vera- mente mie, a cui avrei potuto dare sempre e comunque una spiegazi- one nel caso qualcuno me l’avesse chiesto. Ho costruito un’etichetta che fa dischi e ho cominciato a scrivere recensioni. Ho guardato lontanissimo non ba- dando mai a quel che avevo vicino (la cultura della provincia è dura da eliminare) e, solo dopo 10 anni, ho scoperto che dietro l’angolo c’era quello che più mi interessava, uno spazio dove parlare liberamente della musica che più mi prendeva, senza aver pressioni, scadenze e ansie. In Your Eyes è questo, una piccola webzine, dura e pura, che fregan- dosene di tutto e tutti, parla di quel che gli pare, quando gli pare. Pochi ragazzi (con ormai quarant’anni sulle spalle) che, con una passione infinita, portano avanti un progetto che non ha altro obiettivo se non quello di diffondere (soprattutto a chi gli sta vicino, ma anche a chi è lontanissimo) musica, idee e contenuti. Una sorta di monolite che ha su- perato indenne tutti gli anni ‘00 e che, invece di sprofondare nella stagnazi- one, ha preferito costruire un lento e costante sviluppo, fatto di piccole ma importanti cose.
  • 4. 4 Ora, a quasi quindici anni di distanza dal primo click, In Your Eyes vuole provare a fare un ulteriore piccolo passo, fare qualcosa che la ricolleghi al suo passato, a quando, prima del 1999 e con altro nome, girava di mano in mano sotto forma di fanzine cartacea autoprodotta: ritornare, per una volta, oggetto fisico, concreto e tangibile. Abbiamo voluto creare queste 50 pagine (circa) per raccon- tarvi quali sono stati per noi i dischi, le band, i libri e i concerti più interes- santi di questo 2013, ma non solo. L’altro obiettivo che ci siamo posti è stato quello di fornirvi una prova incontrovertibile del fatto che le cose, se si vuole, si possono fare, che anche nel posto più arido possono nascere iniziative che valga la pena supportare, che non si è soli, che dietro a ogni lavoro ci sono sempre delle persone e che, interagendo con questi lavori, è un po’ come comunicare con queste persone, che costruirsi da soli è molto meglio che adeguarsi ad uno standard o a uno stereotipo, che la crisi è monetaria, ma che i progetti, prima di tutto, sono fatti di idee. Francesco Cerisola. comunicazione
  • 5. 5 PRIMAVERA FESTIVALMemorabile in termini di numeri, con oltre 170 mila presenze in tre giorni. In termini di cambio di sponsor principale (il passaggio da San Miguel ad Heineken, con evidente vantaggio per le casse del festival). Ma in par- ticolare nel fatto che sia il gran Galà di presentazione in streaming live mondiale che la campagna di market- ing successiva abbiano creato una aspettativa a dir poco virale intorno all’evento. Più degli anni scorsi, se possibile, il Primavera Sound era “il festival in cui bisognava andare”. Per noi, per fortuna, il Primavera Sound rimane ancora una benefica esplosione di suoni distillata in cinque giorni e 230 concerti. Poco ci importa della ruota panoramica plagiata dal Coachella, su cui non saliremo mai. Delle inconsuete tem- perature autunnali, brillantemente combattute saltando sempre in zona transenna. Delle voci basse dei My Bloody Valentine, che devono essere basse, e se non sapete il perché peg- gio per voi. GIOVEDI 23 MAGGIO Il pop east-coast dei Wild Nothing apre le danze quando ancora il sole è alto. E’ un bell’ascoltare, sebbene i brani eseguiti troppo pedissequa- mente rispetto ai due album non destino particolari sussulti. Sul palco ATP invece compare la vera sorpresa del giorno: i White Fence. Il progetto solista di Tim Presley, intriso di cavalcate psichedeliche dall’incedere garage, si spinge su territori già esplorati dai conterranei Oh Sees, e grazie ad un songwriting intenso quanto spigoloso riesce ad ammaliare e convincere. I Tame Impala non lasciano spazio all’immaginazione: un muro di suoni anni ’60 si abbatte sul palco prin- cipale, tappeti di synth fanno vol- are una sezione ritmica a dir poco scioccante: rullate dimezzate aprono come dighe delle cavalcate di delay chitarristici in cui è impossibile non perdersi. Il bassista dei Pond è alla sua prima uscita dopo l’abbandono di Nick Allbrook, ma poco cambia: i brani funzionano molto meglio che da studio, sono più incisivi e i fuzz dilatati delle Rickenbacker la fanno da padrona. Un concerto capolavoro, il migliore del giovedì. I Dinosaur Jr., anche con Kyle Spence alla batteria, regalano sempre grandi gioie: “Feel the Pain”, “Out There”, e “Freakscene” autorizzano J Mascis a comparire nei dizionari musicali alla voce “Wah-Wah”. Poco dopo i Deerhunter presen- tano live il capolavoro lo-fi dell’anno, l’acclamato “Monomania”. Bradford Cox distilla in musica la spirale di disperazione, ossessioni, desideri e conquiste di una creatura di due metri, filiforme al punto di spezzarsi. E’ un pugno allo stomaco, e il coinvol- gimento del pubblico è sentito. I due artisti successivi, Grizzly Bear e Phoenix, non rappresentano alcuna novità per chi già ha avuto la fortuna di apprezzarli. I primi, meravigliosa- mente soporiferi, ormai suonano
  • 6. 6
  • 7. 7 più come un’orchestra che come una band, perfettamente inseriti in uno scenario di calde lanterne ondeggianti in sottofondo. Le armonizzazioni di voce che cullano l’intero show sono magistralmente sorrette da un basso “acquoso” e dei timidi quanto efficaci contrap- punti di tastiere. Pare che la band di Brooklyn tenda quasi a nascondere propria smisu- rata classe, senza proporre leader né cadere in ostentazioni, ponendo al centro della scena solo la deli- catezza delle proprie composizioni. I Phoenix, d’altro canto, reduci da un album appena sufficiente, riescono a non deludere grazie soprattutto allo sporco lavoro di frontman di Thomas Mars. Il con- certo non è certo fallimentare, ma la loro sfortuna è proprio quella di suonare dopo i Grizzly Bear: non si possono decisamente azzardare paragoni. La serata termina con la pessima performance degli Animal Collec- tive, che due anni fa proprio al Primavera Sound avevano fatto “il concerto”. Oggi invece sono mosci, svogliati, a tratti perfino fastidiosi. Un gran peccato. VENERDI 24 MAGGIO E’ inutile negarlo, per buona parte del pubblico il venerdì è il giorno dei Blur. Il concerto che tutti aspet- tano, gli headliner degli headliners, il live che a Barcellona manca da dieci anni. Nel frattempo, fino alle 01:30, sono tanti gli artisti che deli- ziano le nostre orecchie. Esclusi gli iniziali Merchandise, i quali presen- tano brani copiati male dai Killers e di una banalità imbarazzante. Il contorno di voci alla Morrissey e il repertorio di faccette proposte dal cantante chiudono il cerchio di questa superflua esibizione. Kurt Vile invece propone un piacevole set incentrato su “Wakin on a Pretty Daze”, la sua ultima fatica. L’unica pecca è il dover suonare con la luce ancora alta e in uno spazio ancora troppo grande (Heineken stage). Se i Django Django, di bi- anco vestiti, mostrano una ottima affinità dal vivo presentando il loro acclamato album d’esordio, gli on- nipresenti Shellac di Steve Albini appaiono sempre più violenti ed affiatati, con dei suoni al limite della perfezione. E’ l’ora dei Jesus and Mary Chain che, a sentire i rumors, non fanno nulla per coinvolgere il pubblico (gli hipster della zona vip, almeno). In compenso si limitano a suon- are pezzi di storia come “Just Like Honey” con Blinda Butcher dei My Bloody Valentine, “Head On” e “Happy When it Rains”. E a me basta e avanza per trattenere a stento l’emozione. Cosa che non succede poco più tardi, coi Blur, sullo stesso palco. Damon Albarn, indicando il cielo, saluta il pubblico con un “So Hola to la luna”. Non guardo il dito, e Gra- ham Coxon attacca con “Girls and
  • 8. 8 Boys” quello che sarà il concerto più emozionante dell’ intero festi- val, per i tanti che hanno passato un’adolescenza legata a doppio filo col britpop. La band londinese alterna sapiente- mente momenti più movimentati come “Country House” e “Parklife” (purtroppo orfana di Phil Daniels) alle melanconiche “Out of time”, “Tender” e “This is a Low”, in cui mo- menti di estasi collettiva uniscono il pubblico in un lungo singalong con il quartetto di coristi di colore presente sul palco. “Coffe and TV” esalta la grazia chitarristica e la flebile voce di Graham Coxon, men- tre Albarn si tuffa sulle prime file guardandoci in faccia uno per uno. “Under the Westway” sembra ormai un classico, seppur uscita da non più di un anno, “The Universal” è maestosa e catartica, e nel suo “it really really really happened” fa ridestare dal torpore e realizzare quello che è appena trascorso. I Blur danno tutto ciò che hanno, e in termini di sintonia col pubblico, di presenza scenica, di rilevanza storica dei brani non esiste para- gone con alcuna band di questo festival. Purtroppo perdo i The Knife, che a quanto pare inscenano uno dei migliori spettacoli della serata, e mi
  • 9. 9 dirigo verso i Titus Andronicus. La loro brillante miscela di folk punk, a cavallo tra Pogues, Dropkick Mur- phys e The Clash, scuote la folla che canta a squarciagola ogni brano fino alla conclusiva, lacerante “No Future part three”, in cui ci si perde in un lungo “You will always be a loser”. SABATO 25 MAGGIO L’ultimo atto del Primavera Sound 2013 si apre con i Melody’s Echo Chamber, band indiepop che suona meno abbottonata che dal cd, convincendo nei momenti più dis- sonanti e dilatati piuttosto che nelle strofe più prettamente melodiche. Sullo stesso palco l’innamoratissimo canadese Mac Demarco delizia il pubblico con un delicato pop di piena fattura Pavement, salva un ragazzo esagitato dagli spintoni della security, e improvvisa un crowdsurfing su “Togehter” per raggiungere la sua amata Karen in mezzo al pubblico. Fantastico. Gli Oh sees e i Liars sono i pro- tagonisti del sabato. I californiani, reinventando il garage rock in chiave psichedelica, propongono un altro grandissimo set “fisico” con cori infiniti, sepolcrali, dilatati fino allo spasmo, che li consacrano come una delle migliori rock ‘n’ roll band in circolazione. I Liars, completamente avvolti nell’oscurità, reinventano il loro ultimo album WIXIW, realizzato per lo più in chiave elettronica, in una sorta di contemplazione minimale del suono, creando il loro spazio in cui far vivere crescere e sviluppare una musica che è e può essere solo loro. L’effetto è oltremodo ipnotico, in particolare in “Flood to Flood”, “N°1 Against the rush”, e nella conclusiva “Broken Witch”, in cui il cantante urla “blood blood blood” per un tempo interminabile. Concludo la serata con i My Bloody Valentine, sul quale live si è detto tutto e il contrario di tutto. Sem- plicemente i MBV hanno un muro di suoni impressionante, una poesia rumoristica fantastica, che non tutte le orecchie possono accet- tare come tale. Citando Picasso, riguardo chi contestava il cubismo: “io non capisco i libri in inglese, ma non per questo affermo che essi non significhino nulla”. Se non capite lo shoegaze c’è sempre il cantautorato, dopotutto. Mentre cammino per l’ultima volta attraverso il Parc del Fòrum, ormai popolato di soli bicchieri di plastica che riflettono l’alba, capisco che questo Primavera Sound è ormai diventato uno dei migliori festival al mondo. Se veramente amate la musica più delle instagrammate, le transenne più delle ruote panoramiche, le dis- sonanze indie rock più delle zone vip, vi consiglio di farci un salto. Yes, it really, really really hap- pened. . Marco Appioli
  • 10. 10
  • 11. 11 Driving Mrs. Satan Sono una delle novità più stimolanti emerse nel panorama musicale italiano negli ultimi tempi. L’idea di coverizzare dei brani metal sfrondandoli della strumentazione elettrica, di per sé non sarebbe una novità, ma è il modo in cui viene trasformato e rimodellato un genere musicale che è, per antono- masia, il più rumoroso e il meno rassicurante, a rendere speciale un’operazione del genere. Dietro al bizzarro monicker ci sono tre musicisti napoletani di estrazi- one pop-folk-jazz (Ernesto Nobili, Giacomo Pedicini e Claudia Sorvillo) ai quali abbiamo posto una serie di domande sfruttando anche lo spiccato senso dell’humour che li contraddistingue. In Your Eyes: La prima domanda é normalmente la più ovvia e non farò nulla per distinguermi dalla massa: come nascono e chi sono i Driving Mrs.Satan ? Giacomo Pedicini - I Driving Mrs. Satan nascono in una notte passata sul ponte di una nave per la Corsica con un’IPod pieno di musica. Claudia Sorvillo - Siamo tre musi- cisti, ci stiamo divertendo a riarran- giare la storia dell’heavy metal. Ernesto Nobili - Per me, nascono da una spiccata sete di sangue che avevo dopo aver portato mia figlia all’asilo. In Your Eyes: Nella tracklist di “Popscotch” si passa dalla melo- dia dei brani di matrice power/ nwobhm all’oscurità tipica del thrash; come sono distribuite le preferenze musicali all’interno del trio ? G.P. - Molto varie e non solo legate al Metal. E.N. - Volendo rimanere nel metal- lo, io ho amato molto tutte le diva- gazioni metalliche possibile. Quello che non mi è mai piaciuto, salvo casi rari è stato il death, il black nordico … Per dire, passavo con molta disinvoltura dai Def Leppard agli Slayer senza troppi problemi morali … C.S. - Rock di ogni tipo, e cantautori. In effetti le mie preferenze variano di settimana in settimana. Questa settimana nel mio player ci sono Alt-j, Ark, Tunngs, Epo, The Roots, So Percussion, Villagers, Art Brut, Woodkid e Thony. In Your Eyes: Ad esclusione di “Never Say Die”, che risale addi- rittura al 1978, tutti gli altri brani sono stati pubblicati nella loro versione originale negli anni ‘80 e il più recente tra questi è “From Out Of Nowhere”, datato 1989; la scelta di attingere esclusiva- mente a quel periodo musicale è stata voluta o è semplicemente una casualità ?
  • 12. 12 G.P. - I dischi migliori o diciamo quelli che io ritengo significativi sono usciti in quel decennio. Gli anni 80 sono gli anni dell’Heavy Metal. Il periodo in cui sia io che Er- nesto abbiamo imbracciato gli stru- menti e deciso che avremmo fatto i musicisti. Mi sembrava logico par- tire da qui per un progetto legato a questo genere musicale. Claudia forse doveva ancora nascere... E.N. - Concordo in pieno con Giacomo. Dopo, almeno per me, la musica ha preso le strade più disparate. La curiosità porta ad al- lontanarsi per scoprire, e a desid- erare altra musica. Quindi, sarebbe stato anche emotivamente difficile entrare per esempio in un certo nu metal. In Your Eyes: Non è che, per caso, siate tra chi ritiene la musica prodotta negli ultimi 20 anni non sia all’altezza di quella del pas- sato (teoria trasversale espressa da ascoltatori di qualsiasi genere musicale) ? Oltre che di metal sono un grande appassionato di progres- sive e ho sempre contestato quel- li che definivo “tolemaici”, fieri assertori della piattezza della Terra nonché della fine del prog coincidente con l’uscita di Gabriel dai Genesis; onestamente non penso che possa accadere qual- cosa di analogo anche a musicisti di ampie vedute come voi. C’è quindi qualche band o sottoge- nere in ambito metal in grado di destare il vostro interesse ai giorni nostri ? G.P. - Provo a seguire la scena metal attuale. Cerco di ascoltare i nuovi gruppi ma non ce ne sono molti che mi entusiasmano. Le cose più’ oneste continuano ad arrivare dai gruppi storici, quelli che lavora- no sulla formula vincente del loro successo. Penso ai Motorhead, Iron Maiden, Ac/Dc. Pero’ il ritorno di Michael Kiske con gli Unisonic mi ha fatto veramente piacere. E.N. - Altroché, la musica c’è. Non seguo molto metal di oggi, ma bas- ta che pensi ai Radiohead, esplosi dopo il ‘98, oppure se approfondisci il panorama alternativo, indie, free, post country, trovi dei geni assoluti . Penso a Sufjan Stevens, Anna Calvi, o “grandi vecchi” che non finiscono mai di stupire, tipo David Byrne … i nostri tempi non sono tempi di musica di massa, questo si. In Your Eyes: Per i benpensanti l’iconografia classica del “metal- laro” è quella di un personaggio come quello di Lorenzo, inter- pretato da Corrado Guzzanti, ovvero un tizio quasi incapace di proferire due parole di fila in un italiano comprensibile, dall’igiene personale sommaria e fornito da madre natura di un solo neurone che, spesso, finisce pure per smarrirsi. Detto che in effetti ai concerti mi è capitato di vedere più d’uno corrispondere a questo modello, pensate che un’operazione come quella portata avanti dai Driv- ing Mrs.Satan possa contribuire a migliorare questa immagine,
  • 13. 13 visto che, almeno apparente- mente, sembrereste delle per- sone “perbene” … ? G.P. - Dov’e’ il mio neurone?..Ri- datemi il mio neurone!!!!.. E.N. - ghgrmdspjvòsldktsv-… scherzi a parte, invece eravamo , almeno nel nostro piccolo, metallari colti. Ideologi del metallo, in estasi quando trovavamo riferimenti alla mitologia greca nei Maiden o in quei pirla dei Manowar … Ci ho trovato spunti letterari nel metal. Non solo le donnine allegre (molto gradite) dei Motley Crue … E alla fine anche la scena più street glam della Los Angeles di fine anni ot- tanta ha un suo fascino decadente che gruppi come i Red Hot hanno descritto bene. C.S. - Ma certo. La cosa che mi ha sempre affascinato dei metallari è la contraddizione, solo apparente, tra un look sciatto e associato alla violenza, e il fatto che in effetti siano spesso persone meglio istru- ite, più sensibili e consapevoli della media. In Your Eyes: Tornando seri per un attimo, mi ha sempre incu- riosito, fin da quando mi sono imbattuto nei vostri primi brani, sapere in che modo avviene il lavoro di arrangiamento. Soprat- tutto l’operazione di de-metalliz- zazione di un brano come South Of Heaven, per uno che non fa il musicista, appare quasi pro- digiosa. G.P. - Non c’e’ stato un lavoro di arrangiamento pensato a tavolino. Ogni brano di Popscotch e’ partito soprattutto da una fotografia che avevo nella mente e si e’ sviluppata in corso d’opera con l’aiuto di Er-
  • 14. 14 nesto e Claudia. Ho tenuto sempre presente le linee vocali che sono rimaste quasi inalterate rispetto agli originali. I riff portanti delle chitarre le puoi trovare nei brani sotto forme diverse, nascosti o del- egati ad altri strumenti o addirittura stravolti. Ma la parte decisiva e’ stata quella di Claudia. Non cono- scendo gli originali ha interpretato i testi che noi conoscevamo perfetta- mente rispettando la sua visione. E.N. - Comunque è stata la voce di Claudia poi ad aprire varchi insos- pettabili. C.S. - Il metal non e’ la mia influ- enza principale, e anzi, in molti casi ero assolutamente all’oscuro della forma originale di quello che stavo cantando. E’ probabilmente questo il motivo per cui i brani sono interpretati cosi diversamente, e incuriosiscono. In Your Eyes: Secondo voi, quindi, è più facile trasformare in un brano pop/folk “Raining Blood” degli Slayer oppure effettuare l’operazione inversa, rendendo un massacro thrash metal una canzone tipo “Granada” di Clau- dio Villa ? G.P. - Non e’ solo una questione di facilita’, e’ una questione di riuscita. Ci vuole sincerità’ e rispetto. E.N. - Da piccolo facevo il contrario. Metallizzavo il non metallo. C.S. - Immagino che entrambe le operazioni possono essere più o meno semplici, e più o meno ef- ficaci, a seconda dell’interesse e della storia musicale personale di chi le affronta. Qualche tempo fa mi aveva divertito molto una versione metal di “All The Things She Said” delle Tattoo per esempio. In Your Eyes: Personalmente ho sempre ritenuto le classiche ver- sioni unplugged piuttosto noiose e quelle orchestrali ridondanti e, alla lunga, stucchevoli; credo che la strada che state battendo sia quella giusta affinché la coveriz- zazione di un brano non sia solo aggiungere o togliere qualche strumento, bensì quello di tras- formarlo e manipolarlo attra- verso un reale processo creativo. Che si sappia voi siete sicura- mente tra i pochi a farlo in questi termini: riuscite a percepire un incremento dell’interesse nei vostri confronti dopo l’uscita di “Popscotch”, rispetto a quanto accaduto all’epoca del primo Ep ? E.N. - Personalmente non amo ne- anche io le versioni orchestrali. Gli unplugged hanno il difetto, se lo è, di essere suonati dai gruppi stessi che hanno creato i pezzi, e quindi per loro è più difficile distaccarsi dagli originali. Invece il bello per noi è stato vedere cosa succedeva mano mano. Ci siamo fatti anche grasse risate, pensando alla vocetta di Claudia che cantava Tom Araya. E comunque mi fa impazzire il risul- tato sensuale e “ambiguo” che ha creato il suo modo di cantare. In Your Eyes: Navigando sul web ho letto diverse recensioni del vostro lavoro e ho notato un ap-
  • 15. 15 prezzamento pressoché unanime, anche quando a scrivere erano collaboratori di webzine dal nome minaccioso tipo “MetalSucks” et similia … C’è stato invece qualcuno che si è arrabbiato, inviandovi e-mail poco lusinghiere dopo aver ascoltato le vostre versioni di bra- ni che, per alcuni, sono ammantati quasi da un’aura di sacralità ? G.P. - Le risposte sono state quasi tutte positive … ed e’ stata una cosa sorprendente...I Want Out ne e’ la prova. E’ stato il segnale che ci ha aiutato a capire che la strada era quella giusta. In più’ Michael Weikath (chitarrista degli Helloween) quando l’ha ascoltata ci ha fatto molti compli- menti. E.N. - C’è ancora tempo per essere crocifissi a testa in giù durante un concerto dei Morbid Angel. C.S. - Nessuna mail minacciosa, ma qualche commento esilarante c’è stato. Uno di questi mi sono sentita di riprenderlo nel blog e su facebook perché mi ha fatto ridere nella sua semplicità: “Publicity because Vagi- na”. E’ un punto di vista. Per fortuna la risposta che stiamo ricevendo da parte del pubblico è estremamente positiva nella grande maggioranza dei casi. Il nostro progetto è ap- prezzato sia dagli ascoltatori del genere che da quelli che non lo sono. Ieri una ragazza mi ha detto “Mi è piaciuta un sacco I Want Out. Devo dirti che non avevo mai ascoltato la versione originale. Ho scoperto che mi piace moltissimo anche quella!”. Mi ha fatto ridere pensare che i Driv- ing Mrs. Satan abbiano passato un nuovo ascoltatore agli Helloween e non il contrario. In Your Eyes: Spesso chi ascolta musica non ha un’idea precisa di parecchi aspetti, anche di car- attere burocratico, che stanno dietro la realizzazione di un disco. In realtà, come funzionano le cose nel momento in cui qualcuno decide di utilizzare un brano altrui ? Per esempio, si chiama Lemmy e
  • 16. 16 gli si chiede: “Hey vecchia lenza, come va ? Male ? Eh già, gli anni passano per tutti ... Senti, ti dispiacerebbe molto se facessimo diventare “Killed By Death” un pezzo folk ?”, oppure, molto più realisticamente, ci si mette in contatto con chi ne detiene i diritti e si paga un tot per ottenere l’autorizzazione ? In quest’ultimo caso fatecelo sa- pere, magari ci possiamo impeg- nare a comprare il cd se non altro per farvi rientrare delle spese sostenute ... G.P. - Lemmy ha sempre il telefono di casa fuori posto… E.N. - Invece Ozzy mi aspetta sotto casa con un bastone in mano. In realtà è questione che riguarda gli editori. C.S. - Qualcuno sostiene che il nostro disco sia un suicidio disco- grafico. Io non la penso cosi. L’altro giorno fantasticavo sulla destina- zione dei soldi dei diritti d’autore. Tipo: James Hetfield che compra un biglietto del concerto degli One Direction a sua figlia adolescente. In Your Eyes: Tre domande per ciascuno di voi : 1) Qual è stato il primo disco metal che avete ascoltato ? G.P. - Seventh son of a Seventh son - 1988 E.N. - 1987, registrati su cassette Maxwell lo stesso giorno : “Piece Of Mind” (Iron Maiden), “Seventh Star” (Black Sabbath) e “Hysterya” (Def Leppard). Ma se ci ripenso avevo già comprato “Slippery When Wet” di Bon Jovi, un discone. C.S. – “Awake” dei Dream Theater. In Your Eyes: 2) Qual’è invece quello preferito in assoluto ? G.P. - Che difficoltà’ immane … direi “The Keepers Of The Seven Keys pt.2” degli Helloween … ma la scelta e’ difficilissima!!! E.N. - Variabile. “Rage For Order” dei Queensryche, o “Piece Of Mind” degli Iron, hanno occupato il podio per più tempo. C.S. – “Remedy Lane” dei Pain of Salvation. In Your Eyes: 3) Qual è il brano che via ha maggiormente soddis- fatto per la sua riuscita in Pop- scotch? G.P. - I Want Out sicuramente ... seguito da Battery … e tutti gli altri ... ah ah!!! … E.N. - Posso dirne 11? C.S. - La nostra versione di Killed By Death dei Motorhead. E pensare che altri non volevano neanche includerla nel disco! Sperando che ci sia qualche pro- moter lungimirante che ci con- senta di vedere i Driving Mrs.Satan all’opera nella (non sempre) ridente Liguria; in tal caso noi di In Your Eyes saremo i primi a supportarli. Stefano Cavanna
  • 17. 17 Varazzers. nasce nel 2013 come pagina pub- blica di Facebook per aggiornare il pubblico giovane su cosa succede in Riviera, tramite post fotografici e PRaggio di eventi locali. Seguici su Facebook & Instagram Panorama dal Santuario Madonna della Guardia VARAZZERS. © Varazzers Varazze Bici Festival - maggio 2013 La nostra presenza sul web si sta allargando con un sito web (ancora in allestimento) su cui trovare info su eventi, locali ecc.
  • 18. Foto dall’evento skate OTW 2013 che si tiene a Varazze ogni primavera. 18
  • 19. 19 Fanzine,Anni Novanta Vi inoltro questo scritto pubblicato su Cagnara, fanzine nata negli anni 90 e che ora vive su Facebook. Mi hanno chiesto di scrivere un pezzo su Non Ce N'é, la fanzine che facevo negli anni 90 assieme a Luca. é un po come fare mente locale sul passato, su tante avventure ed l'abc della mia formazione... buona lettura. MEMORIA DI CARTA...... Cagnara (Facebook), oggi ha incon- trato Fabio Battistetti che a noi fanzinari di lunga data suscita un bel po' di ricordi legati al periodo cosid- detto cartaceo... quello per intenderci che va dagli anni ottanta ai novanta... quello dove il postino portava le buste con le fanzine, quello dove si facevano gli stand ai concerti in qual- che locale sperduto in luoghi non ben precisati, quello della macchina da scrivere, della coccoina... insomma un mondo molto meno tecnologico di adesso ma forse più sincero.... Questo è quanto ci ha raccontato il buon Fabio sul suo periodo fanz- inaro..... A pensarci ora vi vien da sorridere… Per tanti motivi, fare una fanzine è stata per me un'esperienza forma- tiva, sociale, comunicativa oltre che musicale. Era il 1993, frequentavo il liceo ed al secondo anno mi ritro- vai un nuovo compagno di banco (Luca) col quale iniziammo a scoprire musiche diverse dalle solite propi- nate da radio e riviste musicali (che principalmente erano heavy metal e simili). Il nostro percorso di scoperta fu molto rapido, il punk rock ci rapì per l'immediatezza e l'urgenza (di comunicare): quello fu il primo input. Fummo aiutati dal fatto che in città, a Torino, trasmetteva l'emittente libera, Radio Blackout che di punk e musiche alternative ne era un po' la voce ed essendo una radio autopro- dotta il contatto con essa poteva es- sere semplice. C'era una trasmissione che oltre a far ascoltare le ultime novità del punk/hardcore ed i “clas- sici” del genere raccontava di fanzine straniere e non, il conduttore era Andrea Pomini, fanzinaro anch'esso con Abbestia. Lo contattammo per ordinare pro- prio delle fanzine (incuriositi dai suoi racconti radiofonici) ed andammo di- rettamente in radio a ritirare l'ordine scoprendo un piccolo grande mondo che da lì a qualche anno sarebbe stato un punto centrale per noi (in radio ci arrivammo con una nostra trasmissione l’anno successivo). E’ così che iniziammo a divorare pagine fotocopiate di fanzine nostrane e straniere (Maximum Rocknroll e Flipside). Quelle letture ci entusias- marono e facemmo presto due più due e ci dicemmo: “ora tocca a noi !”. Volevamo anche noi dire la nostra, scrivere di musica ci affascinava e per di più potevamo fare tutto da noi
  • 20. 20 perchè uno dei primi insegnamenti avuti dal punk, è l'autoprodursi, far da se, senza chiedere ad altri o delegare e nel caso di una fanzine non ci voleva poi così tanto per farla. In parallelo, in quegli anni, grazie a Luca iniziai a frequentare intensamente l'annuale Fiera del Libro per la passione della lettura e per scorgere un po' del mondo dell'editoria che in un modo del tutto rudimentale noi prendemmo a modello per il nostro piccolo progetto cartaceo. Non avevamo i mezzi dell’editoria, ma in fondo non servivano ed interessavano per il nostro scopo: il punk ed il do it yourself ci offriva il contesto ed i mezzi di produzione. Il taglia ed incolla non è stato inventato con il sistema operativo dei computer, era ed è qualcosa di fisico da farsi con forbici e colla, ed era forse una delle ultime azioni nella produzi- one di una fanza, prima occorreva scrivere ! Il nome Non Ce N’è lo decidemmo dopo alcuni tentativi prendendo spunto dal titolo di un brano di un gruppo locale, i Church Of Violence. I contenuti nascevano dall’urgenza di dire la nostra, raccontare e far conoscere, musiche, gruppi, situ- azioni e compagnie bella. Le sor- genti su cui scrivere arrivavano un po’ dai nostri ascolti musicali che in quel periodo erano in piena es- plorazione / scoperta e dagli amici di penna (fanzinari, appassionati come noi, etc.), tanto che una carat- teristica di Non Ce N’è è sempre stata quella di avere contributi da persone esterne. Ad esempio, nel primo numero un ragazzo di Saluz- zo scrisse un articolo sui Germs (lui stesso di lì a poco iniziò la fanzine Bestial Devotion). Usavamo un software di scrittura per computer (DOS) che girava su un floppy disk
  • 21. 21 (di cui conservo ancora una copia con i testi prodotti) ed una volta che avevamo pronti gli scritti li stam- pavamo per poi passare alla fase calda della produzione: con forbici e colla alla mano assemblavamo le pagine. I primi numeri furono stampati in ciclostile grazie al padre di Luca, ed il ciclostile era un buon metodo (per velocità e qualità) e ci permise anche di avere la copertina stampata in azzurro mentre il resto delle pagine erano in nero. In quel momento storico, avere fuori un numero di una fanzine, significava aprire la porta su un mondo di contatti, nuovi amici di penna e difatti fu proprio così. I primi due numeri furono il frutto dell’urgenza a livello di contenuti forse non erano il massimo, seppur rappresentino parecchio il nostro intento, dal terzo in poi iniziammo a lavorare in maniera più definita ris- petto alla composizione ed alla re- dazione, dandogli una caratteristica precisa, dando importanza primaria alle recensioni di dischi e fanzine ed alle opinioni personali (columns, qui era chiara l’influenza dalle fan- zine americane). In parallelo ave- vamo anche dato vita all’etichetta discografica Non Ce N’è Records producendo il 7” (il fantomatico 45 giri) diviso a metà tra i torinesi Boyz Nex’ Door e gli spezzini Manges. All’epoca del quarto numero della fanzine, pubblicammo la fanza in 500 copie allegando la seconda uscita dell’etichetta, il 7” dei torinesi Killer Klown. Se la mente non mi tradisce, quello fu anche l’ultimo numero firmato da me e Luca assieme, perché dopo questo lui decise di dedicarsi maggiormente all’etichetta ed in seguito partì con un nuova fanzine, Gabba Gabba Hey (più orientata sul garage ed il punk rock come temi musicali), mentre io volevo orientare la fanza verso uno sguardo più amplio sul
  • 22. 22 mondo musicale underground (chiaramente in base ai miei gusti). Non Ce N’è Records sotto la guida di Luca è andata avanti per un bel po’ producendo altri dischi per Killer Klown, Manges ed altri gruppi, prima di cambiare nome in Mad Driver, arrivando a produrre anche gruppi stranieri (Spider Babies, Coyote Men…). Io ho dedicato mag- giori sforzi alla fanzine curandone la relativa distribuzione di fanze e dischi che era nata come conseg- uenza dello scambio di NCN con altro materiale. All’interno della scena DIY, lo scambio è sempre stato il modo migliore per far veico- lare il materiale, era una specie di rete internazionale di supporto che andava anche oltre, organizzando concerti. Anche noi ne facevano parte e ci si- amo anche dedicati ad organizzare concerti a Torino per un po’ di anni, già dai tempi della fondazione della fanza, il primo fu nel novembre del 1994 ad El Paso per i Sound- blast di Ravenna ed gli Slowo dalla Polonia, i primi si erano da poco autoprodotti il primo 7” che ci aveva entusiasmato tanto da decidere di dargli una mano per un concerto in città. In molte di queste situazioni si creavano amicizie e situazioni di scambio “umano” ed in fondo era quello il succo di tutto: condividere umanità. Il tema della condivisione, l’ho imparato lì ed è una cosa che ho ritrovato su altre vie a proposito di copyright e software e tuttora è un leit motiv per quanto riguarda il mio agire in ogni campo. La conseg- uenza di avere una distribuzione ed il condividere le esperienze di cui sopra mi portò a creare una piccola etichetta discografica, Neghenè (non ce n’è in dialetto ligure-spezzi- no, suggeritami dai Manges) con la quale co-produssi (assieme ad altre etichette) dischi di gruppi ai quali sentivo di voler dare il mio sup- porto, ricordo il 7” dei Rudimenti, quello degli Arsenico, quello dei Bombardini, una cassetta dal vivo dei Manges, il cd dei Panico ed altri. NCN come fanzine ha proseguito le pubblicazioni sino al 2000/1 assumendo un layout sempre più curato ed arrivando al numero 9 in un’uscita split con la fanzine: La Pic- cola Meraviglia. Nove numeri in 7 anni erano forse pochi, ma i tempi di produzione e distribuzione erano abbastanza lunghi, avevo la volontà di dare maggiore continuità per fornire informazioni fresche, ma non ci riuscivo più di tanto. Dopo aver esaurito le risorse per quel pro- getto, ne misi subito in cantiere uno nuovo: una fanzine dal formato più piccolo (non più l’A5 di Non Ce N’è, ma bensì uno che era la metà), una sorta di diario tascabile, impostato sulle opinioni e con temi musicali più freschi (anche qui frutto dei miei gusti diversificati del periodo). Il nuovo progetto si chiamava La Mini e ne feci 4 numeri stampati per poi passare al web/blog; la frequenza di uscita era più rapida rispetto a NCN e si basava su una redazione a più voci e con contribu- ti esterni anche per l’impaginazione,
  • 23. 23 i primi tre numeri furono curati in parte o in todo da Alessandro Baronciani. In base a questa linea, l’evoluzione quasi naturale visti i mezzi in ballo fu quella di tras- formarla in un blog (che è ancora online) con l’intento di proseguire il tema della scrittura condivisa, an- dando avanti sino al 2004/5 quando lentamente il tutto iniziò a sfumare via. Da quel momento partono altre storie di vita che non hanno apparentemente nulla in comune con una fanzine, se non le espe- rienze umane condotte, che hanno avuto influenze su di me ancora per parecchio. Sul web c’è (ma non più è aggior- nata) una pagina dedicata alla Mini e con rimandi a Non Ce N’è.
  • 24. 24 Produce di continuo roba oscura, ed e’ diviso in due parti:una e’ persuasa che siamo una completa massa di imbecilli, l’altra ci vede come meravigliose crea- ture. sito: www.Francesco-Orazzini.com email: francescoorazzini@gmail.com Francesco Orazzini,artista visivo, perde la maggior parte del suo tempo a per- dere capelli per col- pa delle burocrazie.
  • 25. 25
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  • 30. 30
  • 31. 31 Tame Impala LIVE IYEzine è stata al Mojotic festival di Sestri Levante (località della nostra beneamata riviera ligure di levante, per chi non lo sapesse, spero nessuno), per seguire il con- certo dei Tame Impala, il 13 Agosto, grande appuntamento per questa edizione 2013, dopo gli eventi che hanno visto protagonisti i Baus- telle, Daughter, Willy Mason, Adam Green, e la Shhh! Silent Disco. Vorrei innanzitutto spendere due parole per il festival nel suo comp- lesso, che ha ormai raggiunto una certa dimensione e una sua stabilità nel panorama rivierasco, ed è or- mai una delle migliori iniziative che contribuiscono a rendere davvero viva e giovane la riviera, iniziative di cui purtroppo a mia memoria essa è sempre stata abbastanza povera, vuoi ad esempio per il mancato appoggio dei comuni o sponsor, le proteste di una popolazione avanti negli anni, la mentalità di chiusura ligure e la volontà di limitare al meno possibile le “grane”, perchè tanto i turisti in riviera ci vengono lo stesso, e siccome non sono per- lopiù giovani non interessa promu- overe certe iniziative. Presentatavi la situazione, ecco dunque che il nostro Mojotic si erge e splende come una luce di speran- za, che possa continuare e magari anche ingrandirsi sempre di più in futuro. Perchè l’organizzazione è buona, c’è gente che ha voglia di fare bene e far divertire il pub- blico, mettendo tutti d’accordo ed evitando i contrasti e le polemiche che altri eventi come la storica e tanto chiacchierata “hanoa hanoa” hanno generato negli ultimi anni, perché le location scelte si prestano molto bene, il pubblico è educato e la proposta vincente. Questa quinta edizione segna inoltre una netta crescita, un salto di qualità, rispetto alle precedenti edizioni, per le dimensioni e la portata degli eventi proposti. Ancora un piccolo commento sulla location, perché è davvero incantevole...ci sono stato non so quante volte, ma ad ogni nuova oc- casione in cui mi trovo lì non posso fare a meno di provare la stessa emozione...sto parlando della Baia del Silenzio, in fondo alla quale si trova l’ex convento dell’Annunziata. Una location perfetta per eventi di medio-piccola grandezza, nel cui cortile interno con terrazza rialzata sul mare, è stato allestito il palco. È impossibile a mio giudizio arriv- are lì e non innamorarsi del posto, come ha più o meno detto lo stesso frontman della giovane band aus- traliana, affermando sicuramente con un po’ di adulazione, ma anche con un po’ di sincerità a parer mio, che per loro è uno dei posti più belli al mondo, e che è stato bellissimo poter trascorrere la giornata al mare e suonare lì accanto la sera...
  • 32. 32 Ma veniamo al concerto, scusate se mi sono dilungato, ma ci tenevo a parlarvi di queste sensazioni che quella zona mi evoca, dovute ai tanti ricordi dei mesi estivi trascorsi da quelle parti... Per non sembrare un po’ ipercritico ad alcuni strenui difensori della band, ci tengo a dire che i dischi dei Tame Impala mi sono piaciuti molto molto, sia “InnerSpeaker” che “Lonerism”, inseriti anche nella mia toplist dei dischi del 2010 e 2012. Secondo me gli australiani sono davvero meritevoli, perchè riescono bene a coniugare tutto il filone dell’hypnagogic pop e gli appetiti indie del giovane pubblico, con una ricerca sonora molto radicata nel rock psichedelico (tant’è vero che prima dei Tame Impala, o meglio prima di “InnerSpeaker”, Parker & soci erano cresciuti nella lontana Australia a pane e psichedelia sev- enties). Però a seguito della loro esibizione non posso certo dire che la giovane band si collochi nella mia toplist dei concerti dal vivo... Direi che i Tame Impala si prendo- no una piena e meritata sufficienza, ma non troppo di più: è innegabile che hanno dei suoni davvero parti- colari e fanno un tipo di musica che a me piace molto, così affondata nella psichedelia e costituita da un muro sonoro di synth e chitarre, contaminata da un’influenza pop sempre più marcata. Purtroppo nel complesso la performance ha avuto, secondo me, alcune carenze, un pochino troppo evidenti per
  • 33. 33 una band che ormai stà passando dallo status di gruppo emergente a quello di gruppo di prima fascia, riassumibili se vogliamo in tre “pec- che”, che hanno un po’ macchiato una altrimenti grande performance. Innanzitutto, eccetto vari momenti davvero molto buoni e coinvolgenti, ad un timido Kevin Parker e alla sua band è mancata secondo me un pochino di presenza scenica; nella mia aspettativa (ma forse questa cosa è legata alla mia personale aspettativa che mi ha un po’ fre- gato) una band del genere avrebbe potuto avere un maggiore impatto espressivo: il pubblico era caldo e la performance ottimamente accompagnata da splendidi visu- als psichedelici, e mentre in alcuni pezzi i ragazzi ci hanno davvero messo del loro, creando un suono avvolgente, prolungando e vari- ando il brano, in altri è sembrato quasi che i brani venissero riprod- otti in maniera un po’ più “imper- sonale”. Inoltre, la legge dice che dal vivo non si scappa, cari miei, si vedono sia l’estro e le doti dei musicisti ma anche vengono fuori i punti deboli... così emerge purtroppo che la voce di Kevin Parker è troppo carente, a volte è sembrato quasi non farcela, in particolar modo in Feels Like We Only Go Backwards, una delle tracce più attese e rivelatasi la peg- giore della scaletta. Però la cosa mi lascia alquanto perplesso, perché riascoltando la discografia, le prime ottime prove (i demos e il loro primo EP) erano caratterizzate da un suono e una voce più potente, con una psichede- lia più vicina al rock e meno al pop, rispetto ai recenti sviluppi, dove all’ammorbidirsi del suono, più colorato e con più attenzione alla narrativa, si è ammorbidita anche la voce, divenuta quasi fem- minile, che dal vivo è risultata in affanno e comunque non all’altezza dell’espressività della musica. In ultimo, per riassumere e chiu- dere un po’ queste considerazioni, che per inciso nulla vogliono togliere al valore della band aus- traliana, mi trovo costretto ad affermare che i Tame Impala rendono meglio su disco, dove il “labor limae” di produzione riesce a rendere il suono più pulito e avvol- gente, mentre per loro c’è ancora da lavorare per rendere le esibizioni dal vivo all’altezza delle loro ottime e particolari produzioni. I Tame Impala hanno scelto per l’esibizione una continua alternanza tra i brani di Lonerism e Inner- Speaker, saltando di qua e di là tra l’album di debutto, di passaggio da rock psichedelico a pop ipnagogico, dove queste caratteristiche convivo- no in maniera molto interessante, e Lonerism, che segna una svolta più netta in direzione pop. Il concerto si apre sulle note di Why Won’t You Make Your Mind, da “InnerSpeaker”, seguita immediatamente da Music To Walk Home By. Un buon inizio, e l’alternanza pro- cede con Mind Mischief – Solitude Is
  • 34. 34 Bliss, la prima più leggera e col- orata, la seconda più potente con le sue scariche di chitarre distorte, e in seguito troviamo una buona Keep On Lying. La sensazione è che con il bino- mio Half Glass Full Of Wine e Elephant, in successione, av- vicinandoci alla metà del con- certo, la band da Perth si spari le proprie cartucce migliori. Questo binomio costituisce il momento più coinvolgente della serata, dove si vedeva tutto il pubblico davvero trascinato dai ritmi più veloci, dis- torsioni potenti e cascate di synth, soprattutto nella lunga e bellissima Half Glass Full Of Wine, il pezzo più roccioso della serata, in cui la progressione in climax culmina in estatiche cascate di synth. Questo pezzo, un vero e proprio cavallo di battaglia, addirittura ris- ale al self-titled EP d’esordio di cui abbiamo parlato poco fa, ed è stato quasi sempre inserito nei concerti, perchè è una vera bomba. Quanto a Elephant invece, è un coinvolgente ed incalzante concentrato d’energia che entra nella testa e non può non far muovere il pubblico. Con la successiva Be Above It viene fuori anche un po’ di elettronica, in un ottimo connubio con la psichedelia pop, un viaggione, dove su un ritmo incalzante si innestano tappeti di synth e successive piccole esplosioni. In seguito i Tame Impala vogliono decomprimere un po’ l’ambiente, con un lungo interludio strumentale in cui vengono fuori gli Air ed altre influenze più propria- mente dream pop. Della deludente Feels Like We Only Go Backwards abbiamo già parlato, perciò saltiamo a Desire Be Desire Go, altro pezzo ormai storico e sempre bello della band. Ci avviamo verso la conclusione, e troviamo ancora l’accoppiata for- mata dalle coloratissime Alter Ego e Apocalypse Dreams. Come da ormai inscalzabile abitu- dine, la band esce sapendo già che verrà presto richiamata sul palco, perchè il pubblico è assetato e francamente una performance da un’ora e un quarto sembra pochino agli occhi di tutti, perciò si prosegue per un’altra ventina di minuti con due brani riservati alla chiusura ancora estratti da InnerSpeaker, ov- vero It Is Not Meant To Be e Noth- ing That Has Happened Has Been Anything We Could Control. In conclusione, mi sento di fare i miei complimenti ai Tame Impala perchè sono un gruppo prom- ettente e con delle ottime idee, e di fare un plauso e un incitamento a continuare così agli organizzatori, perché non è così frequente dalle nostre parti vedere eventi del ge- nere, perciò un arrivederci a presto al Mojotic Festival! Davide Siri
  • 35. 35 Adriano VII Frederick Rolfe Di Gianluca Camogli Letterariamente parlando, mi ero innamorato del pretino Julien Sorel , così come mi ero appassionato della vicissitudini di Narciso e Boc- cadoro. Non poteva quindi non entusias- marmi questo affresco storico di Frederick Rolfe, ambientato nei primi del ‘900 in un Europa in piena trasformazione geopolitica e culturale, che racconta la bizzarra storia di George Arthur Rose. Da prete esiliato a Papa, quasi per scherzo. Dai ai margini della scena ad attore principale, con in più la capacità intellettuale per riv- oluzionare il sistema dall’interno. Gli oppositori vengono ribaltati all’angolo secondo uno schema che ricorda una partita a scacchi. Le azioni dell’avversario sono state previste tutte: ignaro di es- sere manovrato e condizionato nella scelte delle mosse, pensa che queste siano opera e volontà propria, e non si accorge che sono il risultato di un ragionamento fine e astuto, che limita gli spazi di manovra secondo uno schema predefinito. Solo possedendo acume si riesce ad insultare e a criticare con elegan- za chi ti rivolge accuse infondate, e allora “la voce del serpente e la voce dell’oca sono una sola e unica voce”. Ma questa intelligenza genera anche sofferenza nell’animo, al- ienazione, inquietudine nell’essere emarginato a causa di una con- dizione di superiorità che eleva rispetto agli “innumerevoli branchi di cuccioli mal leccati e di mediocri ignoranti” ma isola. La mediocrità infatti accomuna i molti, che nella loro condizione non si pongono domande e nella loro ignoranza temono chi sa di più: la paura si trasforma in cattiveria, a tal punto da far chiedere a George di voler “essere onesto e semplice invece di sottile e complicato” per poter sfuggire alle pene che gli altri gli arrecano. Adriano VII è un libro che con- siglio a chi a voglia di essere stimolato nelle riflessioni e che non vuole solo lasciarsi coinvolgere da una storia, dato che sono diversi i temi trattati. Primo su tutti la rivoluzione ideo- logica della Chiesa e del pensiero collettivo verso di questa. In periodo di rivoluzione, ad un car- dinale che si lamenta della scarsa sicurezza nell’uscire per le strade Adriano VII, che ha già cominciato il
  • 36. 36 processo di trasformazione, sem- plicemente risponde che “la Chiesa ha grande bisogno di un martire”, e che si tratta sempre di inviti e mai di imposizioni. La Chiesa è troppo distante dalle persone. Il nuovo Papa decide inoltre di ven- dere i beni della Chiesa per rifond- arne la spiritualità e l’immagine, ma allo stesso tempo distogliere le attenzioni mediatiche da vicissitu- dini personali precedenti alla sua nomina. Quante analogie con la situ- azione attuale, con lo IOR, con l’abdicazione di Benedetto XVI e alla elezione di Francesco I. Altro tema che accompagna il libro è quello del giornalismo commer- ciale: non mancano velate critiche al sistema di diffusione delle noti- zie, che troppo spesso sceglie solo in base alla pessima morale del numero di copie vendute. La veridicità delle notizie non è più così importante, perché “l’appetito del pubblico è capriccioso” e “bi- sogna tentarlo con esche variate”, “se le trote sono stanche di zanzare, bisogna provare con le mosche”. Anche in questo caso quante analo- gie con la disinformazione odierna, con l’abilità di modificare la comu- nicazione di certe notizie, con il conflitto di interessi per eccellenza, col problema di un giornalismo scarsamente indipendente. Nonostante questo libro abbia più di un secolo, per questi e altri as- petti risulta estremamente attuale, con riferimenti che possono aprire parentesi nel mondo moderno. Sembra una conferma del la “teo- ria dei corsi e dei ricorsi storici” di Giambattista Vico. Un libro avvincente, imperniato su un personaggio che si potrebbe definire rivoluzionario, intrigante, parzialmente scorretto per un fine superiore e in grado di catturare la nostra simpatia. Quando arriverete alla fine di questa storia, Adriano VII e la sua stravagante personalità vi saran- no stati talmente di compagnia che vi mancheranno.
  • 37. 37 Simone Sarasso Il Paese Che Amo di Massimo Argo Terzo volume della trilogia di Simone Sarasso, cominciata con “Confine di Stato” del 2007, proseguita con “Settanta” ed infine compiuta con questo libro. Sar- asso in questa trilogia tratta dei peggiori 40 anni di storia italiana, dall’omicidio di Wilma Montesi del 1953 fino al 1994, anche se la cronologia non è strettamente aderente. L’autore sviluppa un proprio uni- verso di personaggi che potrebbero essere riconosciuti come persone reali, ma gli sviluppi narrativi di queste opere non sono rintrac- ciabili nella realtà. Seguendo l’esempio di Ellroy nella sua trilogia su Kennedy, Simone costruisce un universo altamente verosimile e probabile, ma che non è quello che conosciamo noi. Certamente, e purtroppo mi viene da dire, un personaggio come Andrea Sterling è esistito in Italia, e si potreb- bero paragonare i personaggi della saga a quelli reali, ma questo non è l’obiettivo dell’autore. Lo scopo di Sarasso, e potrei venire clamor- osamente smentito, è quello di far capire attraverso romanzi narrati e sceneggiati come dei film, i meccan- ismi nascosti dietro 40 anni di storia tricolore. L’autore ha studiato a fondo la materia, e vuole portare a galla le congiunture, i piccoli fatti, le storie personali che stanno dietro a questi avvenimenti. In tutti i libri ci sono elementi di noir, di giallo e di storia, ma soprattutto una grande sapi- enza nel trattare i caratteri umani, tratteggiando nel migliore dei modi possibili le parabole esistenziali dei protagonisti e facendoci capire che la storia l’hanno vinta e scritta i peggiori. In questo terzo ed ultimo libro della trilogia si può osservare la crescita di Sarasso in termini di scrittura, mentre tratteggia le pen- nellate finali di un grande affresco, fosco e cattivo. L’Italia ivi descritta è la nostra patria, stuprata in più maniere da tanti bruttimbusti, ma sem- pre per gli stessi motivi, primi fra tutti l’anticomunismo, come è ben testimoniato dall’accendino Zippo del Mago, oggetto che sarà molto importante in qeusta vicenda. Ne Il Paese Che Amo già dal titolo dovreste aver capito dove vuole condurvi l’autore, anche perché l’arco di tempo trattato è molto prossimo ai giorni nostri, anzi è ancora la maggiore influenza di questi nostri miseri tempi. In quest’occasione capirete come tutte le cose che avvengono in Italia non siano affatto un caso, ma c’è sempre un disegno, una ragione occulta, poiché questo paese è il paese della nebbia per eccellenza. Se pensate che questa nostra Italia possa anche aver avuto una sep- pur remota innocenza leggendo Sarasso vi accorgerete che le cose
  • 38. 38 vanno molto peggio di quanto pos- siate aver mai creduto. La trilogia è costruita molto bene, praticamente sono tre film, l’ultimo dei quali è sicuramente il più maturo, e dentro al Il Paese Che Amo potete trovare una grande rabbia, una delusione ed un impegno a non scordare chi ha lasciato sull’asfalto la propria vita e i propri sogni, Piazza Fon- tana, Piazza Della Loggia, Bologna, Ustica... Sarasso si rivela un grande scrit- tore storico, come possono di- mostrare i suoi romanzi “Invictus. Costantino Imperatore Guerriero” e “Colosseum. Arena Di Sangue”. Qui il romanzo riprende la sua valenza civile, di scrittura come responsabilità e memoria, per far sì che in Italia ci siano meno smemo- rati, in un paese dove dimenticare è il primo valore. Lettura altamente consigliata, la trilogia crea dipendenza ma sono tre acquisti di cui non vi pentirete, preparando però il fegato al ner- voso. Consiglio caldamente anche dell’autore la graphic novel “United We Stand” che traccia un possibile tragico futuro per l’Italia. Sarasso inquieta e fa ricordare, af- fermandosi come uno dei migliori scrittori italiani apparsi negli ultimi anni. INTERVISTA Dopo aver recensito Il Paese Che Amo, opera ultima di Simone Sarasso, ecco l’intervista che va ad aggiungersi a un graditissimo regalo che Simone ha fatto ai nostri lettori : in esclusiva, siamo molto onorati di poter pubblicare, nella sezione “articoli” la postfazione del libro, che è una vera e propria con- fessione dello scrittore . Solo per i vostri occhi. iye: Raccontaci la genesi della Trilogia. La Trilogia Sporca dell’Italia nasce da un’amalgama di urgenza civile e bisogno di frugare, attraverso la narrativa, nel ventre molle del Paese, nei suoi meandri oscuri. La Trilogia accende la luce nella polverosa Stanza dei Bottoni, fa scappare i bacherozzi dal tappeto della Storia. iye Quali sono stati i tuoi scrittori di riferimento per questi libri?
  • 39. 39 De Cataldo, Carlotto, Evangelisti, Genna, Wu Ming, Bertante e Lu- carelli sul fronte italiano. Winslow, Duncan e James Ellroy su quello statunitense. iye: Hai timore che il senso di questi libri non venga compreso? Uno scrittore non è uno storico, non pretende di raccontare la verità. Si limita, quando si occupa di narrazione civile, a tenere in vita la fiammella della memoria, così debole nel Paese che amo. iye:Chi sceglieresti come regista di eventuali film per questi libri? Robert Rodriguez. Senza alcun dub- bio. iye: L’Italia che tu descrivi è stata la peggiore, o stiamo grattando ora il fondo del barile? Ho motivo di credere che sotto il fondo del barile ci sia altra melma. iye: Dato che siamo una webzine musicale, devo farti questa domanda: quali sono i tuoi as- colti preferiti? Sono visceralmente legato al punk degli anni Novanta. E alle sue derivazioni più o meno contem- poranee. Ascolto ossessivamente Less Than Jake, Rancid, Green Day e Dropkick Murphys. iye : Tornerai in campo fumettis- tico dopo l’incredibile “United We Stand”? Al momento non c’è nulla in pro- gramma a breve termine, ma in futuro chissà. Io e Daniele Rudoni lavoriamo da parecchi anni a un progetto top secret in lingua inglese che prima o poi, ne sono convinto, approderà sugli scaffali. Grazie mille Simone per la tua disponibilità e per portarci là dove l’ Italia non può essere lavata. POSTAFAZIONE IN ESCLUSIVA PER IYEZINE È stata una lunga cavalcata: quasi dieci anni di lavoro forsennato. Quando ho iniziato a scrivere la Trilogia Sporca dell’Italia, non avevo idea che sarebbe stata una trilogia. Immaginavo, mettendo in fila le false piste, i fatti loschi e buchi neri della Storia, un grande romanzo sulla prima Repubblica, sull’Italia peggiore, dal dopoguerra a Tangen- topoli. Presto mi sono reso conto che un romanzo solo non sarebbe bastato, neppure per descrivere il marcio d’un paio di decenni. Così mi sono messo in cammino, ho pigiato sui tasti, trascorso ore nelle emeroteche e nelle biblioteche, in- tervistato testimoni oculari, tessuto trame, dato vita a personaggi. Dell’intero trittico, IL PAESE CHE AMO è stato il libro più difficile da scrivere. Perché, degli avvenimenti che narro, ho memoria cruda e viva.
  • 40. 40 È l’Italia in cui sono cresciuto, in cui, bambino, ho imparato a leggere e scrivere, far di conto e sognare. L’Italia che mi ha deluso, l’Italia che non riesco a smettere di amare. Quando è venuto il momento di raccontarla, ancora una volta, mi sono trovato di fronte a un bivio: dire la verità era impossibile, ma trasfigurarla senza criterio sarebbe stato ingiusto. Ho fatto delle scelte, ho corso dei rischi. Ho fatto quello per cui sono venuto al mondo e per cui mi pagano: ho mentito. Sperando di raccontare almeno un frammento, una scaglia lucente di verità. Come già mi trovai a scrivere, riguardo a Settanta: quella che avete appena finito di leggere è una storia di finzione. Niente, in questa storia, è reale. Verosimile, forse, ma reale no. Non sono reali i personaggi, né le cose che accadono. Molti avvenimenti ricordano la storia mondiale degli anni Ottanta e Novanta. Nessuno di essi ha la benché minima credibilità storiografica. Semplicemente per- ché l’Italia, l’Europa e l’America che descrivo in questo romanzo non coincidono del tutto con il mondo in cui sono diventato grande. Il Paese Che Amo è, sotto molti aspetti, un Paese fittizio. In un certo senso, un non-luogo. Valerio Evangelisti alcuni anni fa mise in coda al suo romanzo più bello, Noi saremo tutto, una nota bibliografica che iniziava così: Sebbene questo romanzo non ab- bia pretese storiografiche, il contes- to della vicenda è frutto di ricerche piuttosto accurate. Le sue parole, come valevano per Settanta e Confine di Stato, valgono anche per questo lavoro. Il Paese Che Amo è, prima di tutto, fiction. Non c’è la Storia “pura”, qua dentro: piuttosto un’inestricabile mescol- anza di Storia e finzione. Nessuno dei miei protagonisti è reale. Anche se molti di loro as- somigliano a personaggi storici, nessuno di loro è identificabile con il proprio corrispettivo. Tanto per essere chiari: Tito Cobra non è Bettino Craxi, Ljuba Marekovna non è Ilona Staller né Moana Pozzi, Carlo Ciaccia non è Giovanni Falcone né Paolo Borsellino, l’Omino non è Giulio Andreotti e Domenico Incatena- to, l’avrete capito, non è Antonio Di Pietro. La non identificazione è valida per molti altri protagonisti minori. Praticamente per tutti i personaggi del libro. Esplicitare questa differenza, ques- ta non identità tra Storia e fiction, tra personaggio storico e character, non significa semplicemente para- rsi il culo da eventuali querele per diffamazione. Questo testo non è un disclaimer. Un’implicita deresponsabilizzazi- one del mio testo. Questo scritto è
  • 41. 41 qualcos’altro. Un tentativo concreto di dar conto del modo in cui lavoro. Quando ho scelto di far morire il papa nell’attentato in Piazza San Pietro, o di mettere John Wayne alla Casa Bianca, non volevo soltanto scioccare il lettore con una narrazi- one ucronica à la Robert Harris. Mi interessava proporre un punto di vista altro sulla Storia. In partico- lare, sulla storia del nostro Paese martoriato. Cambiare prospettiva, lasciarsi sorprendere dall’immaginazione, è un tentativo di stravolgere il noto per tentare di leggere in profondità le questioni che la storiografia e la giurisprudenza lasciano spalancate. Non è compito di scrive romanzi raccontare la verità. Ma è compito di chi sceglie di prendersi cura della memoria non lasciarla appassire. Stimolare, con l’invenzione, la rifles- sione periodica sul Paese deteriore, sul suo lato oscuro. Per fare ciò, per non lasciare che il passato si sfaldi, occorre studiarlo a fondo. Durante la stesura del romanzo, sono moltissimi i libri che mi hanno influenzato, ma ve ne sono alcuni, senza i quali questa storia non avrebbe lo stesso sapore. Surf of Varazze® ers www.surfvarazze.it
  • 42. 42 RECENSIONI FOUR TET “0181” Text Four Tet torna a sorpresa, con un bel regalo: una compilation in free download di rarità composte da parte del genio Kieran Hebden tra 1997 e 2001, gli inizi della sua carriera, ma il sound è già maturo, ed è un mix di elettronica cerebrale e downtempo. Lo avevamo lasciato non molti mesi fa con il suo ultimo album Pink, seguito dagli immancabili EP di remix e compagnia bella. Così, a sorpresa, ora il geniaccio Kieran Hebden in arte Four Tet, se ne esce a metà Gennaio sul suo sito e sul suo soundcloud con una bella novità. Il ragazzo dal faccione sorridente e i capelloni ha deciso di regalarci una bellissima compilation, e noi ringraziamo! Posta il set, unicamente chiamato 0181, un’immagine copertina, mette un link con download gratuito, e nulla più. Non ci sono informazioni sulle tracce contenute in esso, né altro. Sappiamo solo che si tratta di musica prodotta da Four Tet in un arco di tempo compreso tra il 1997 e il 2001, ed assemblata nel 2012 per formare 0181. Una compilation di rarità risalenti ad un periodo vicino agli inizi della carriera di Four Tet, e anche prima: nel 1997 Hebden aveva solo 19 anni e il suo esordio con questo pseudonimo, destinato a recitare un ruolo fondamentale nella musica elettronica “intelligente” negli anni a venire, risale all’anno successivo, il ‘98, con l’EP “Thirtysixtwentyfive” a cui seguirà l’album “Dialogue” nel ‘99. Siamo dunque proprio agli albori della sua carriera, e il sound di questa compilation possiamo definirlo tranquillamente già maturo e di stampo marcatamente “Hebdiano”, perchè sono già riconoscibili le strutture e le sonorità che hanno fatto grande la sua musica. Il Four Tet delle origini non può che essere già votato all’elettronica cerebrale e a strutture che saranno sviluppate appieno nel proseguo della sua carriera (soprattutto tra i minuti 8 e 13), ma le rarità di 0181 evidenziano come questo orientamento si manifesti solo in maniera marginale, mostrandoci invece un Hebden che guarda maggiormente alla musica più tradizionalmente downtempo, caratterizzata da ritmi-atmosfere- battute più rallentate, delicate, cadenzate, con spunti jazzistici (minuto 20) o chitarristici. Nel complesso siamo già su alti livelli, non pensiate che si tratti di scarti o di materiale di poco conto! Potete trovare il set, che si estende per 38 minuti e spiccioli, sul suo Soundcloud o su iTunes, nell’attesa anche della già annunciata uscita su vinile che farà felici gli appassionati.
  • 43. 43 Sarà stata la solita operazione di marketing monta-hype? A dire il vero non mi interessa, qui c’è dell’ottima musica che possiamo goderci liberamente, quindi enjoy! Davide Siri GLI ALTRI “Fondamenta Strutture Argine” Taxi Driver/Dreamin Gorilla/ QSQDR/Savona Sotterranea/Rude/ Bus Stop Per chi negli anni novanta ha sudato, pogato sotto il palco e gridato in cameretta ascoltando Frammenti, By Any Means, Sottopressione e tanti altri gruppi italiani di hardcore, avete tra le mani il lavoro definitivo, un disco che avreste voluto sentire in quell’epoca. Gli Altri sono un giovane gruppo di Savona, molto talentuoso e picchiano come fabbri. La loro musica è un ponte fra punk ed hardcore, con un gusto fortemente anni novanta. Eppure questi ragazzi ci sono nati nei novanta o giù di lì, non dovrebbero aver sentito certi dischi. Ed invece Gli Altri chiamano a cantare nel loro disco Roberto Ceruti, storico cantante degli Affranti, che a Savona hanno portato avanti per anni l’hardcore, totemici. Questo è l’hardcore, una musica che sfoga la rabbia, che rompe muri, e non ha età, né confini. I testi de Gli Altri sono surreali, grida silenziose su astronavi d’asfalto e merda, poiché l’hardcore racconta la
  • 44. 44 realtà in maniera sfumata, ma può anche essere un macigno. Ci sono gruppi come gli Indigesti, come gli Affanti appunto, che descrivono il nostro mondo in maniera iper reale, accumulando sensazioni ed emozioni in una maniera catartica. Fondamenta Strutture Argine è un disco che crea immagini e fotografie di vita notevoli, ribellioni biologiche, impotenza e disagio quotidiano, perché chi sente male deve gridare. E questo cd gronda di vita e di grida, di voglia di uscire dalla gabbia. A Savona ci sono le gabbie,si chiamano strade, e io devo rendere omaggio a questa città, almeno per quanto riguarda la musica, perché gruppi come Gli Altri, come i Dsa Commando, come gli Uguaglianza (non proprio di Savona), Affranti e Risonanze hanno creato non una scena ma un’urgenza di comunicare, di dire la propria. Questo è un disco fantastico, commovente per come riesce a forgiare un passaggio tra epoche diverse, ma stessa rabbia. Lo senti dall’inizio alla fine, e ci vedi tante facce, tante situazioni, tante lotte. Perché se dei ragazzi fanno dischi come questo, lo mettono in free download, e soprattutto portano avanti una logica DIY e libertà di pensiero, allora l’hardcore non morirà mai. Al di là delle pose e della violenza di certe scene. Gli Altri sono una scelta, che fa chi non vuole rimanere passivo, chi vuol piangere ma anche ridere di fronte ad una pozzanghera nell’ennesima giornata di merda e asfalto. Perché a noi il culo ci rode ancora. Massimo Argo TOKYO SEX DESTRUCTION “Sagittarius” Bcore Disc Dopo tre anni in tour, e dopo diversi cambi di formazione tornano i fantastici Tokyo Sex Destruction, sublimi fautori del Soul Rock. Sagittarius è il disco della loro conferma per chi era ancora scettico. È un’opera che non ti fa mai stare fermo e penso che sia il loro miglior disco di gran lunga. La loro consueta energia qui si sublima, arrivando ad apici mai raggiunti. Sagittarius è la perfetta combinazione tra il soul di Detroit e il latin soul di New York sponda Fania. In tutti gli 11 pezzi i Tokyo sprigionano energia e passione sporca, insomma vera soul music. Chi li ha visti dal vivo sa che sono una macchina da festa, e qui sotto la guida di Fernando Pardo tirano fuori il meglio. Un disco fresco, potente ed additivo. Davvero additivo. Alla sesta prova su lunga distanza, i Tokyo Sex Destruction si confermano nell’olimpo dei gruppi che fanno muovere il culo a signorine e signorini. Mani in alto e via con la festa, il red soul continua !!! Massimo Argo ERIC FUENTES
  • 45. 45 “Copper And Gold” Bcore Disc Pianoforte e voce. E a volte una chitarra. Attitudine hardcore e voglia di dimostrare che anche in tempi più o meno moderni si può fare un disco come ai tempi dei crooners. Tutto ciò ce lo propone Eric Fuentes, ex dei The Unfinished Sympathy, che dal 1997 ha intrapreso una fruttuosa carriera solista, accompagnato al piano da Bernat Sanchez. Ed è apertamente magia, il feeling di questo album è incredibile, è qualcosa che appare in controluce, un sogno probabilmente. Ascoltando fra le righe, si può ben capire che è un disco fortemente pop, con intrecci sonori e canori alla Prefab Sprout. Altra caratteristica di questo fenomenale disco è la possanza quasi fisica della musica di Eric e Bernat. Il piano è pestato, la voce è calda e vibrante, per un insieme davvero inedito e magnifico. Dal vivo si avranno anche altri musicisti sul palco, come Joan Thelorious dei nostri tanto amati Tokyo Sex Destruction. Passione e ricercatezza, per uno dei dischi più belli della Bcore, che ha un catalogo eccezionale. Massimo Argo IVENUS “Dasvidanija” DreaminGorilla Rec Scrivere una recensione è già più difficile di quel che possa sembrare, tutto si complica poi se nel mirino finisce un gruppo con cui condividi la stessa città d’origine. Voci, note e rumori diventano volti, caratteri e sagome che hai visto calpestare le tue stesse strade per anni. Separare il livello di giudizio dell’ascoltatore nativo dall’ottica in scala nazionale non è semplice, soprattutto se si parla di un gruppo, come iVenus, con cui è difficile condividere spazio vitale senza creare un rapporto emotivo di qualsiasi sorta. Attivi sul territorio ligure dall’età della pietra, il loro debutto di un paio di anni fa, Tanz!, sapeva ancora molto di ‘fatto in casa’, ma conteneva già una quantità notevole di singoli irresistibili, che li aveva sbalzati in un tour biennale in cui si sono trovati a condividere il palco con alcuni dei nomi più altisonanti della scena italica. Piacioni, spettinatori ammiccanti e volutamente poco raffinati (anzi, piuttosto tendenti al trash) volano intorno a quel pop più teatrale e rumoroso, supportato però, più di quanto lascino intendere, da un ABC implicito di quanto successo in Italia negli ultimi anni in ambito musicale, dal baby building al che cos’hai tu da brillare tanto e l’occhio nero con la matita blu. Per chi già li conosce, Dasvidanija
  • 46. 46 non cambia troppo le carte in tavola rispetto al passato: si parla sempre di un assetto strumentale dei più classicamente rock, arricchito da una tastiera effettata, pestata con foga, che prende spesso il sopravvento su tutto, lasciandosi piegare solo dai capricci vocali del frontman Cash nella Pelliccia. Tanti riverberi, tanti synth, tanto pop, tanto casino: il rischio di suonare come un vecchio incubo anni ‘80 è sempre dietro l’angolo, ma tutto sembra fatto per far muovere e ballare o quanto meno battere un po’ il piedino. I testi, sorprendentemente arguti, abbozzano ritratti agrodolci di gioie passate o auspicate, disagi e disastri emotivi con picchi di menefottismo notevoli, misantropia e amore globale condividono lo stesso letto. Se un elemento di costanza c’è, è sicuramente la ricerca dell’orecchiabilità più immediata e coinvolgente (una sola eccezione: la title-track, ballata lenta e docile nei suoni, ma non nel testo). Ci sono dei momenti in cui il gruppo ci riesce discretamente bene (la blasfema The great capitombolo, il tripudio di synth di scuola i Cani Settembre, il Fiumani & Dylan Dog di Mangianastri), altri in cui qualche perplessità può essere più che lecita (C’est la vie mon amie, in cui la musica leggera tende a diventare troppo leggera, e Ventricoli, mancante quel qualcosa in più che mantenga viva l’attenzione). Spicca sul resto, scandendo il ritmo generale del disco, l’irresistibile trittico P.O.P, Grazielle e Rembrandt: giocate su ritmi martellanti e ciclici, tutte e tre si scagliano in faccia all’ascoltatore, avvinghiandolo in una presa ermetica da cui è difficile sottrarsi. Per capire del tutto iVenus, probabilmente, bisogna andarli a cercare in qualche concerto, quando ci si trova davanti a orde in delirio, crowd-surfing ad ogni ritornello, bassisti che si contorcono a piedi nudi e caramelle gettate a grappoli contro gli aficionados in prima fila. Questo, però, si rivela sempre un’arma a doppio taglio, raramente impugnata dalla parte del manico in un mondo in cui la carta che canta resta pur sempre il disco. Se immerso nel contesto nazionale e spogliato di tutte le associazioni visive e sonore raccolte nei live, Dasvidanija rischia di fare la figura del Davide: ha ancora le spalle strette e le gambe deboli, avrebbe forse bisogno di un po’ di esercizio mirato per rinforzarsi qua e là, ma potrebbe lo stesso battere il suo Golia se decidesse di giocare d’astuzia. Nicolas Gasco THE BARBACANS No Hits For The Kids Boss Hoss Records A qualcuno può interessare qual’è l’album che gira in ultra heavy rotation sul mio stereo di casa ed in
  • 47. 47 quello del negozio in cui lavoro? Lo so, lo so, non ve ne può fregare di meno ma, che ci volete fare, la recensione la faccio io e quindi vi tocca saperlo lo stesso, l’album in oggetto (dei miei ascolti e della mia recensione) è questo splendido No Hits For The Kids, secondo album di una band in crescita esponenziale come i Barbacans. Ebbi la fortuna, sempre per questa mirabile e-zine di recensire anche il precedente God Save The Fuzz (potreste immaginare titolo più bello per un album di garage?!?) e dissi che in quel caso il disco era molto bello ma che gli mancava un pezzo forte che lo stagliasse dalle altre produzioni di genere; ebbene dissi una delle mie proverbiali minchiate perché da quel giorno “Kick The Children” e “Turn Away” entreranno di forza nelle mie scelte di negletto dj di provincia. A distanza di ben 4 anni (era proprio necessario farci attendere tanto?) i nostri tornano alla carica con una raccolta di canzoni ancor più bella della precedente e costringendomi a rimodellare la mia playlist annuale; sono conscio che al lettore non potrà importar molto neppure di questo ma io alla
  • 48. 48 mia playlist dedico ragionamenti approfonditi e se, poi, a dicembre inoltrato i tipi della Boss Hoss mi mandano un album così bello, mi costringono a violentare le mie convinzioni più radicate, e che si fa così tra persone per bene? Partendo dall’inciso che tutti, e dico tutti, i pezzi di questo disco sono molto belli vi citerò quelli che hanno riscontrato la mia sperticata preferenza; si parte con 10000 promises che, sorretta da un grandissimo lavoro di voxx, esplode in un fragoroso pezzo di garage-punk eighties style degno dei migliori Miracle Workers, Kind Of The Blue Beat è un breve strumentale molto psych e molto veloce nel quale sembra di ascoltare i Plasticland con una tigre nel motore, Fatiscenza Violenta è un brano adatto a chi pensa che il garage non renda se cantato in italiano, pensate, basta soltanto rivisitare la lezione del nostro sixties-beat più degenere (semplice no?), Istato Itagliano è mettere in musica uno stato di ubriachezza molesta. Breve sosta, biretta fresca, e si ricomincia: He’s Gone è il mio pezzo preferito, è la tipica canzone in cui tutto funziona alla perfezione dagli intarsi fra gli strumenti al ritornello, qui il garage si fa quasi epico, senza tralasciare una vena di psichedelica malinconia, in poche parole una BOMBA, Hug Hug è molto wild o molto punk e quando compare un’armonica killer fa letteralmente sognare, chiude il cerchio la breve suite oppiacea di Tahiti With You. Concludendo No Hits For The Kids dura poco meno di mezz’ora (nessun album di vero rock’n’roll dovrebbe durare di più) ed è come fare un giro nell’orgasmatron che compare nel film dell’ancora giovane e non ancora tedioso Woody Allen intitolato “Il Dormiglione”; se non lo avete ancora visto (il fim) fate in modo di vederlo e se non lo avete ancora ascoltato (l’album) vedete di ascoltarlo da qui a breve perché cambierà le vostre vite in (molto) meglio. Per quanto riguarda il giro nell’orgasmatron, vedete di organizzarvi... Il Santo WOODEN SHJIPS “Back To Land” Thrill Jockey Records Ripley Johnson e Omar Ahsanuddin si sono trasferiti nell’Oregon, lasciando San Francisco, patria, teatro e habitat naturale di tutte le produzioni targate Wooden Shjips, nel pieno stile di una neo- psichedelia californiana che più di così non si può. L’album West aveva molti simboli che legavano indissolubilmente la musica all’ambientazione, dal nome alla copertina del disco (mi sembra di ricordare un ponte...); anche nella cover art di Back To Land ci sono dei richiami, ma stavolta alla storia del genere, perchè la
  • 49. 49 copertina ricorda un po’ quella della pietra miliare “The Psychedelic Sounds Of The 13th Floor Elevators” e richiama in generale il rock psichedelico 60s-70s da cui la band attinge la propria ispirazione e attualizza al presente in forma più fruibile per un’audience sempre maggiore. Si parlava del trasferimento, ebbene questo è il primo album di Ripley e soci che ha un’ambientazione diversa da S.Francisco, e la sensazione da parte della band stessa è che la componente ambientale abbia giocato un ruolo e un’influenza nella stesura di queste nuove otto tracce. Senza abbandonare l’immediatezza e l’energia della loro matrice psichedelica, caratteristiche principali di West, i Wooden Shjips cercano in alcune tracce di ampliare i propri orizzonti ed arricchire la loro musica ponendo maggior attenzione anche alla narrazione e alla componente melodica. A conferma di ciò, accanto alle usuali caratteristiche distintive del suono della band, incentrato sull’accoppiata chitarra-tastiere, in alcuni tratti compare anche la chitarra acustica. Ma ci sono anche varie tracce con il loro forte marchio di fabbrica, con riff distorti e un ritmo vivace come base, su cui chitarre e tastiere ricamano e ondeggiano tra primo e secondo piano, in alternanza. In definitiva, “Back To Land” è un album dalle due facce: da una parte abbiamo la continuazione di “West” e la confidenza nell’espressione di tratti distintivi già consolidati (soprattutto nella prima parte); dall’altra abbiamo qualche novità, costituita da tratti più melodici e una maggiore ricerca della componente emozionale. Questa prima tendenza, trova subito espressione partendo dall’iniziale title-track, perchè la prima impressione è quella di avere tra le mani un lato C di West, costituendo una diretta connessione tra i due lavori. A seguire troviamo l’incalzante ritmo di Ruins, e dopo 30 secondi sei già ad ondeggiare e ripetere parabarabara-parabarabara (sì, lo so cosa pensate, ma IYEzine purtroppo non prende un assegno mensile per farmi da assistenza sociale). Sempre parlando di brani di forte impatto, troviamo la potenza di Ghouls e Other Stars e la velocità di In The Roses. D’altra parte, riguardo al secondo aspetto evidenziato poco sopra, troviamo anche tracce più lente e introspettive. Secondo me la traccia più significativa è These Shadows, è quella che emerge maggiormente nel lotto perchè esula dal tradizionale stampo Shjips, con chitarra acustica, una maggiore tendenza narrativa, un suono avvolgente e curato, inserti chitarristici un po’ più dilatati rispetto al sempre più usuale riffetto-ritornello, un ritmo più rallentato ma che riesce sempre a
  • 50. 50 coinvolgere trasmettendo nuove sensazioni ed emozioni. L’altro brano in cui è maggiormente evidente questa novità è la traccia che chiude ottimamente la raccolta, Everybody Knows, che conosce una nota malinconica praticamente senza precedenti in casa Shjips, un po’ come se un rampante Roky Erickson invitasse a un party i Codeine e li facesse gonfiare come canotti cercando anche di farli prendere bene (va beh, è un falso storico, traslate mentalmente lo slowcore un paio di decenni prima per ritrovarvi a tale party). Servants è un altro ottimo pezzo, che costituisce un po’ un compromesso tra le due componenti e amalgama queste due tendenze per rendere il risultato complessivo un po’ più fluido. In alcuni tratti ti viene quasi il dubbio che la premiata ditta Ripley Johnson & soci si limiti quasi a svolgere il proprio compito per consolidare la posizione di ascesa raggiunta col precedente album, senza variare troppo il copione o cercare novità particolari, poi però pensi anche che in fondo questo è il loro marchio di fabbrica, questo è il suono degli Shjips, e se la formula funziona, i pezzi sono coinvolgenti ed energici, per carità va bene così, perchè poi ci si affeziona al suono caratteristico di una band. Ma questo sarebbe molto limitativo per descrivere “Back To Land”, un album certamente ricco di spunti interessanti e delle sue particolarità. Per cui, sebbene ammetto che il primo ascolto abbia generato in me un moderato entusiasmo, (forse hanno avuto un certo ruolo anche le aspettative per questo nuovo lavoro), soprattutto nel sentire le somiglianze con il precedente, in seguito ripercorrendo e analizzando meglio “Back To Land”, mi sono accorto anche delle differenze e delle migliorie, perchè la band californiana ha ampliato il proprio campionario acquisendo nuovi tratti distintivi. Perciò mi viene da dire che anche questa prova sia stata superata con successo dai Wooden Shjips, confermandoli tra le punte di diamante del nuovo decennio psichedelico. Davide Siri GAZEBO PENGUINS “Raudo” To Lose La Track Dopo “Legna” del 2011 e lo split con I Cani del 2012, i tre Gazebo Penguins (Capra, Sollo, Piter) ritornano, insieme all’ormai collaudata e sempre più attenta To Lose La Track, con Raudo, ovvero il loro terzo lavoro lungo. L’album, composto da dieci brani, continua nel solco del precedente, regalando nuove chitarre esplosive, una maggiore maturità dal punto di vista compositivo e, ovviamente, una nuova palata di emozioni. E’ Finito Il Caffè, tra chitarre
  • 51. 51 scalpitanti, melodie accattivanti e un testo agrodolce, apre il disco travolgendo con la sua forza emotiva, mentre Casa Dei Miei, schiacciando sull’acceleratore, disorienta con il suo raccontare. Le tempeste di chitarra di Difetto e il nervosismo di Domani E’ Gennaio (dissolto solo da quell’amaro “le rate di una libertà che dura un anno, ti prego non mi dire più domani è un altro giorno, i lunedì di maggio sono così da otto anni”) cedono spazio all’altrettanto rabbiosa e disillusa Ogni Scelta E’ In Perdita (“non solo ogni lasciata è persa, è strano ma vedrai, che ogni scelta è in perdita”) e alla malinconica tranquillità (per modo di dire) della breve Correggio. L’energico sfrecciare di Trasloco, infine, seguita da una veloce e graffiante Mio Nonno, apre alla granitica Non Morirò, al suo “se avessi avuto un’ora di più o anche solo un minuto, non avrei fatto nulla di diverso” e al catartico gridare “oggi mi sento piuttosto bene, uo uo uo” della conclusiva Piuttosto Bene. Questo terzo album dei Gazebo Penguins pare avere tutte le carte in regola per bissare il successo del precedente “Legna”. Forse i testi sono più scarni e semplici, ma le emozioni continuano ad essere trasmesse con intensità, le melodie danno l’impressione che ci sia stato un ottimo lavoro alle spalle e i suoni esplodono nell’aria. Un disco sincero e fatto a regola d’arte: non potrà che conquistarvi. Francesco Cerisola ARTISTI VARI “Saoco! - Bomba, Plena And The Roots Of Salsa In Puerto Rico” Vampisoul Il saoco era una bevanda usata come tonico dagli schiavi a Cuba, un mix di cocco e rum, rinfrescante e rinvigorente. Proprio come questa compilation di salsa, secondo episodio di un’esplorazione cominciata l’anno scorso. Le coordinate sono intorno agli anni ‘50 e ‘60 del 1900, luogo Puerto Rico, sorella minore di Cuba per quanto riguarda la salsa e i suoi progenitori. Nel primo volume ci si è maggiormente focalizzati sulla bomba e sulla plena, due antenate della salsa, mentre qui andiamo maggiormente nei
  • 52. 52 territori della guaracha, rumba, mambo, merengue e della musica tradizionale contadina. Puerto Rico ha sempre avuto un’ottima scena musicale, essendo stata influenzata dai gruppi cubani che suonavano a Puerto Rico. Un’altra particolarità di questa musica è che, principalmente, veniva registrata a New York, dove molti emigravano; uno dei generi che possiamo ascoltare in questo cd è la guaracha, una musica molto radicata a Puerto Rico, poiché arrivò insieme alle compagnie teatrali cubane dal 1910. La guaracha è considerata un’asse portante della salsa, ma il repertorio di questi gruppi antesignani era composto da molti stili. Dopo la liberazione di Cuba da parte di Fidel Castro e il conseguente embargo, Cuba perde la sua dominazione musicale nei Caraibi, a vantaggio di Puerto Rico e New York. I gruppi della metà degli anni sessanta fusero rumba, charanga, pachanga e rock and roll secondo il gusto dell’epoca, e in ¡Saoco! ne abbiamo diverse dimostrazioni. Si sente molto quindi l’influenza di stili eterogenei, ma la salsa di Puerto Rico mantiene sempre una forte impronta, tanto da diventare facilmente riconoscibile, almeno ai più esperti. Quest’epoca è stata il siglo de oro della musica puertoricana e ha partorito autentiche gemme, come questi 28 pezzi d’argenteria. Qui si può godere di un’autentica musica latina, ancora non sottomessa al gusto europeo o nordamericano. El son è forte e potente, si snoda in un amalgama di gioia e fisicità. Sudore e sederi che ballano frenetici. Massimo Argo MUM “Smilewound” Morr Music Morr Music è ormai da molto tempo un marchio di fabbrica. L’etichetta berlinese si è infatti distinta da molti anni per un genere di elettronica minimale e delle sue sfumature da diventarne quasi un sinonimo. Non stupisce allora che i Mum gravitino intorno a questa scena, dato che l’elettronica è alla base di questo gruppo islandese che mescola beat, strumenti classici, sintetizzatori, tastiere giocattolo per suoni Arcade (in When Girls Collide sembra di giocare ad un gioco in un vecchio computer), con un risultato finale incredibilmente melodico, equilibrato, dolce e raffinato. Il tutto è condito da una voce eterea, cullante, elfica, sentimentale e ipnotica: Slow Down è una canzone d’amore che vi farà venire la voglia di essere innamorati. One Smmmmile vi farà passare dalle atmosfere rade e dilatate, dai paesaggi minimali e da una natura quasi immobile caratteristica della prima parte dell’album al ritmo dei mercati d’oriente, alla frenesia dei suk e dei mille bazar. La voce lieve delle gemelle Gyða and Kristín Valtýsdóttir vi cullerà comunque per tutto il disco e, come
  • 53. 53 per un Ulisse contemporaneo, sarà estremamente difficile resistere all’attrazione magnetica e inconscia di questo canto (Underwater Snow e Time To Scream And Shout su tutte). Ciliegina pop sulla squisita torta, la presenza di Kylie Minogue in Whistle. Gianluca Camogli OLIVER SCHORIES “Exit” Der Turnbeutel Oliver Schories, chiamato alla riconferma col suo sophomore album Exit continua sullo stesso asse del suo ottimo esordio. Col suo crossover di House e Techno, riesce a creare elettronica ipnotica ed evocativa dalla sensibilità pop. “Rising star” dell’elettronica tedesca? Il producer tedesco Oliver Schories è una piacevole vecchia (non più di tanto) conoscenza di IYEzine, poiché lo ritroviamo, andando indietro di un anno, con il suo album di esordio dal titolo complicatissimo http://www. iyezine.com/recensioni/1699-oliver- schories-herzensangelegenheit. htm Herzensangelegenheit. Ora Schories, divenuto ormai dj e producer affermato, è chiamato alla consacrazione tra i grandi con questa seconda prova su lunga distanza, dal titolo Exit. Dico ciò riguardo ad una possibile consacrazione anche perchè si era generata in me grande aspettativa per questo album, giacchè la precedente prova aveva messo in luce grandi potenzialità da parte del tedesco...e un po’ l’aspettativa ti fotte. Ad essere sincero non riesco così bene a capire se questa “prova di maturità”, come spesso si dice, sia stata centrata in pieno o sia da rimandare ai giorni che verranno, anche perchè, eccezioni a parte, di solito sono tre indizi a fare una prova...ad ogni modo, so benissimo che questo qui non è il punto cruciale, sono fondamentalmente chiacchiere, il punto è il disco, e la discussione la palleggio a voi che lo ascolterete. Schories si pone in logica continuazione di “Herzensangelegenheit” (e non fatemelo dire di nuovo!), ne riprende gli schemi e ne amplia l’influenza pop, cerca di pulire maggiormente il suono ricercando l’equilibrio più per sottrazione che per addizione. L’idea di base è, inoltre, a mio parere diversa tra i due album: questo nuovo lavoro è meno intenso dal punto di vista ritmico, qui si va a cercare di muovere più la mente che il corpo (60% contro 40% ?), mentre l’esordio forse ribaltava le proporzioni, e infine Exit compie un leggero passo verso la “hit” di sensibilità maggiormente pop, nel senso più generale del termine. Le sonorità e di conseguenza le sensazioni che riescono a creare questi brani sono l’uscita di
  • 54. 54 sicurezza che ci offre il tedesco, una piccola oasi nel quotidiano. Questo è Exit, una porta che se appena socchiusa mostra già i caldi raggi del sole di un luogo dove è sempre estate. Nell’idea del suo autore, Exit ha la funzione di creare un’atmosfera evocativa, un locus amoenus in musica, per il piacere dell’ascoltatore più che per il club. Col suo particolare crossover di House e Techno, fatto di suoni caldi e delicati, un ritmo sempre misurato e mai portato a spingere troppo, brani orecchiabili ma non scontati, Schories ricerca efficacemente il bilanciamento e la quadratura del cerchio nel creare elettronica ipnotica. Mi piace molto pensare a Schories come colui che può realizzare quelle potenzialità che uno come Kalkbrenner (Paul) non è riuscito a realizzare pienamente (per quanto ne abbia mostrato alcuni abbaglianti sprazzi qua e là), un po’ offuscato dal suo stesso successo. Perchè per un certo verso l’elettronica di Oliver si avvicina abbastanza a quella di mr. Berlin Calling, ma secondo me ci mette più anima e più sfaccettature, per quanto sia forse meno attenta al ritmo. Il suono del nostro non è ancora così ben confezionato come quello di altri suoi colleghi più esperti come il buon Paul, e non ha ancora la raffinatezza nel suono di un modello di riferimento come può essere Pantha Du Prince, per quanto facciano anche musica diversa; però le idee e la capacità di metterle in musica ci sono tutte, e Schories ha tutte le carte in regola per entrare tra i grandi. Perciò sì, si può creare musica elettronica che sia insieme ricercata e orecchiabile, che sia fruibile ma non risulti scontata né “commerciale”, come insegna questo ragazzo. Dopo l’introduzione, ci troviamo subito con l’orecchiabilità di Sunset, una traccia di atmosfera molto estiva, e quindi But Maybe che parte ruvida ma presto diventa dolcemente ammaliante. In seguito le ipnotiche Get Me e Circles ci ghermiscono, Go ha una struttura simile a quella della precedente But Maybe, e Another Day è una delle tracce che ricordano forse maggiormente il precedente album. Il disco è molto lungo, abbiamo appena superato la metà, in totale Exit contiene più di un’ora e un quarto di ottimi brani, tutti sempre sui 6 minuti, ma l’ascolto non pesa perchè Oliver ha questa capacità di farci entrare presto in uno stato di piacevole trasporto, ci fa muovere interiormente con le stesse frequenze e la stessa forma d’onda della sua musica. Non mi dilungo oltre a descrivere i singoli brani, ma sappiate che sono tutti da ascoltare dall’inizio alla fine, e tutti hanno le loro sfaccettature che li rendono interessanti e gradevoli. Il tutto è riassumibile con la frase che ci siamo detti contemporaneamente io e Massimo di IYE parlando del disco: “ma senti che suoni!”.
  • 55. 55 Direi perciò che bisogna mettere bene in chiaro che Oliver si conferma un grande producer, ed ora abbiamo le prove per poterne parlare come “rising star” dell’elettronica tedesca. Buon ascolto! Davide Siri FINE BEFORE YOU CAME “Come Fare A Non Tornare” La Tempesta Dischi / Legno Quando pochi giorni fa ho visto che i Fine Before You Came avevano pubblicato il loro nuovo disco ho pensato “Olè, questa è la volta buona che sbagliano”. Invece poi l’ho messo su e l’ho ascoltato per tre volte consecutive, rimanendo totalmente spiazzato. Come Fare A Non Tornare questo il nome del lavoro, si compone di cinque tracce cupissime dove, se i testi continuano ad essere evocativi e affascinanti come in passato, alla voce gridata si sostituisce un cantato lucidamente disilluso e alla vena post hardcore/emo un post rock/slow core soffocante. “Battiamo i lividi per mantenerli sempre viola, per ricordarci che san fare ancora male” è così che si apre Discutibile, la quale, avvolgendo con le sue delicate chitarre che lentamente crescono, ci sbatte poi in faccia quell’amaro “noi non sappiamo come fare a non tornare”. Alcune Certezze, altrettanto sofferta, ma accompagnata da melodie più leggere e meno soffocanti, ci tiene legati a sé con con quel “la soluzione ai miei problemi sembra sempre la causa dei tuoi”, mentre Il Pranzo Che Verrà, affondando in una scura voragine di chitarre e sentimenti infranti, viene rischiarata solo a metà da un breve e pacato scorrere di note malinconiche. Una Provocazione, più decisa e tesa, corre veloce su quel “come i bambini vorrei correggere i disegni, finché non fan schifo, il foglio si buca, e poi si convincon che va bene così” per poi spegnersi lentamente, lasciando in balia del dolore più forte, quello causato dalla conclusiva Dura: “niente di tutto questo mi piace davvero, ma so che la mia fortuna è averlo, cosa vuoi che ti dica, vado avanti così finché dura, passo dalle vittorie alle sconfitte senza combattere battaglia alcuna”. Con questo nuovo lavoro i Fine Before You Came, giunti ormai a quasi quindici anni di attività, aggiungono un’ulteriore tassello al lungo processo di evoluzione sonora che li ha contraddistinti. Dall’emo/post hardcore al post rock/slow core più scuro, dall’inglese all’italiano, dalla voce gridata a un cantato cupo e senza più forze. Come Fare A Non Tornare è un lavoro profondo, di quelli da ascoltare tutto d’un fiato, in cui perdersi insieme a tutti i propri malesseri. Un disco importante, di sicuro più del precedente, forse anche dell’eccezionale “Sfortuna”. Francesco Cerisola
  • 56. 56 THE ASSYRIANS “The Assyrians” Bored Youth Records Chi ha la pazienza e la, non sempre, buona sorte di leggere le mie recensioni avrà, ormai da qualche tempo, compreso quanto sia solito aprire le mie righe con tediose premesse. Anche in questo caso, mie care anime pie, la premessa è doverosa in quanto la band in oggetto sta per uscire con un nuovo album (la data dovrebbe essere il 15 novembre e l’etichetta la prestigiosa Foolica Records) mentre il mini di cui sto per parlarvi ha sulle spalle già alcuni mesi. Ma, il caso vuole, che gli Assyrians abbiano suonato in agosto nella nostra ridente cittadina e che, dopo la loro più che lodevole esibizione, si siano intrattenuti con lo “staff” della nostra fanzine. Durante il corso di questo piacevolissimo incontro i componenti del gruppo si sono dimostrati persone molto socievoli e disponibili ed inoltre hanno gentilmente concesso questo mini album alla nostra attenzione dicendosi interessati ad un nostro sindacabilissimo giudizio. Ed eccomi qui, con una quarantina di giorni di colpevole ritardo, a parlarvi della quattro canzoni d’esordio di questo mirabile quartetto. L’inizio è davvero stupefacente, Moon happy monkeys and hope maniac ape è un pezzo davvero notevole tanto che il sottoscritto lo giudica in modo inappellabile la più bella pop song del 2013; avete presente quando Alex in Arancia meccanica, abbigliato in perfetto stile ottocentesco, tenta, con successo, di circuire due fanciulle con tanto di gelato? Dice loro di seguirlo nella sua abitazione perché nel suo stereo sentiranno un suono che difficilmente potranno dimenticare (abbiate pietà di me ma ora su due piedi non ricordo l’esatta descrizione). Ebbene voi inserite questo dischetto nel vostro lettore e potrete provar le medesime sensazioni, se poi come nel film riuscirete anche a fare dell’ottimo sesso a tre tanto di guadagnato, vi dico solo che si è sui livelli dei migliori Xtc,e gli Xtc sono fra i miei gruppi preferiti di sempre. Proseguendo si ascoltano altresì la dolcissima My garden with statues of Em che tanto ricorda i pezzi magici che produceva alcuni anni orsono la Sarah Records, e non ditemi che non conoscete la Sarah Records e che nonostante ciò siete sopravvissuti a questo triste mondo; Farewell scarlet pimpernel dall’andamento leggermente psychedelico e dall’incidere beatlesiano o, dato che si parlava di Xtc, in odor di Dukes of Stratosphear, se non conoscete neanche loro mi spiace dirvelo ma questo triste mondo vi ha definitivamente sconfitti,