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“Nei 441 anni che seguirono la fondazione di Roma, i Romani
s’accontentarono di usare le acque tratte dal Tevere, dai pozzi
e dalle sorgenti”, ci informa Frontino, che però nel 312 a.C.
non erano più sufficienti a coprire il maggior fabbisogno
dovuto    allo   sviluppo   urbanistico    ed   all’incremento
demografico.


Nel 312 a.C. cominciò quindi la costruzione di undici acquedotti
che portarono alla città una disponibilità d'acqua pro capite pari a
circa il doppio di quella attuale, distribuita tra le case private (ma
solo per pochi privilegiati), le numerosissime fontane pubbliche
(circa 1.300), le fontane monumentali, le piscine (circa 900) e le
terme pubbliche, nonché i bacini utilizzati per gli spettacoli come
le naumachie e i laghi artificiali.
Oltre agli undici condotti principali, nel tempo furono costruite
diverse diramazioni e rami secondari, per cui un catalogo del IV
secolo ne contava ben 19.
Furono gli Ostrogoti di Vitige, nell’assedio del 537, a
  decretare la fine della storia degli acquedotti antichi;
  vennero tagliati per impedire l’approvvigionamento della
  città, e d’altra parte Belisario, il generale difensore di
  Roma, ne chiuse gli sbocchi per evitare che gli Ostrogoti li
  usassero come via di accesso. Qualcuno fu poi rimesso
  parzialmente in funzione, ma dal IX secolo il crollo
  demografico e la penuria di risorse tecniche ed
  economiche fecero sì che nessuno si occupasse più della
  manutenzione, i condotti non furono più utilizzabili ed i
  romani tornarono ad attingere acqua dal fiume, dai pozzi e
  dalle sorgenti, come alle origini.
Tra i primi problemi da affrontare nella realizzazione di un
  acquedotto c’era ovviamente la scelta della sorgente o del
  corso d’acqua da cui attingere, che doveva tener presente
  non solo la qualità dell'acqua, ma anche la quantità e
  regolarità del flusso, e la quota del punto di captazione,
  visto che la propulsione, in mancanza di sofisticate
  apparecchiature, doveva essere garantita per quanto
  possibile dalla gravità risultante dalla pendenza dell'intero
  percorso.
Un acquedotto iniziava generalmente con un bacino di raccolta
  realizzato con dighe, che tratteneva le acque di superficie; nel caso di
  acque sotterranee venivano scavati pozzi e cunicoli che
  imbrigliavano la vena in un condotto unico. Il passaggio successivo
  era la sosta nelle vasche di decantazione (piscinae limariae), dove
  venivano fatte depositare le prime impurità. Da qui l’acqua veniva
  immessa nel canale (specus) che la trasportava mantenendo una
  pendenza leggera e costante per assicurare uno scorrimento regolare
  e non troppo impetuoso. Al sistema del “sifone inverso” che,
  accumulando una certa pressione, consentiva all’acqua di risalire un
  pendio, fu necessario ricorrere solo in pochi casi; le tubazioni delle
  condutture erano infatti in piombo (difficile da saldare) o in
  terracotta in una camicia di cemento (scarsamente resistente alle alte
  pressioni). Per ovviare a questi problemi in molti casi si preferì
  allungare il percorso del tracciato, anche di molto (è il caso dell'aqua
  Virgo), per poter assecondare le naturali caratteristiche del terreno e
  mantenere il più possibile costante una regolare pendenza. Per questo
  motivo molti acquedotti risultano notevolmente più lunghi della
  distanza lineare fra la sorgente e il punto di erogazione.
Il percorso era preferibilmente sotterraneo, in
   uno specus scavato nella roccia; in qualche caso correva in
   superficie, coperto con lastre di pietra, e solo per
   l’attraversamento di corsi d’acqua o depressioni correva
   su muri o su arcate.
Alla fine del percorso si trovava una costruzione (castellum
   aquae) che conteneva altre camere di decantazione e la
   vasca terminale da cui l’acqua veniva distribuita nelle
   condutture dell'utenza urbana. All'interno della città altri
   "castelli" provvedevano ad ulteriori ripartizioni del flusso,
   e d'altra parte potevano esserci anche "castelli" posizionati
   prima di quello principale, per le eventuali utenze delle
   ville extraurbane.
La sorveglianza, la manutenzione e la distribuzione delle acque venne affidata alla cura
    un po' disorganizzata di imprenditori privati, che dovevano rendere conto del loro
    operato a magistrati che avevano altri compiti principali.
Dopo un periodo, dal 33 al 12 a.C., in cui Agrippa, con il consenso di Augusto,
    monopolizzò nelle sue mani il controllo di tutto l’apparato idrico della città, alla sua
    morte la gestione passò nelle mani dell'imperatore, che la affidò ad un’équipe di tre
    senatori che poi trasformò in un vero e proprio ufficio, in cui uno dei tre, di livello
    consolare, assumeva la carica di curator aquarum.
Il rango di questo funzionario era tale da consentirgli il controllo assoluto della gestione
    delle risorse idriche cittadine: manutenzione degli impianti, interventi, regolarità e
    distribuzione del flusso. Alle sue dipendenze aveva un organico molto ampio,
    composto da tecnici, architetti e ingegneri, da amministrativi e dai 240 schiavi di
    Agrippa, che Augusto trasformò in “schiavi pubblici”, mantenuti dallo Stato, con
    mansioni varie, a cui se ne aggiunsero, all’epoca di Claudio, altri 460 mantenuti
    direttamente dalle finanze imperiali.
La magistratura rimase in vigore per oltre tre secoli, finché, prima con Diocleziano e
    poi con i suoi successori, il controllo degli acquedotti venne affidato al preafectus
    urbi.

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  • 1. “Nei 441 anni che seguirono la fondazione di Roma, i Romani s’accontentarono di usare le acque tratte dal Tevere, dai pozzi e dalle sorgenti”, ci informa Frontino, che però nel 312 a.C. non erano più sufficienti a coprire il maggior fabbisogno dovuto allo sviluppo urbanistico ed all’incremento demografico. Nel 312 a.C. cominciò quindi la costruzione di undici acquedotti che portarono alla città una disponibilità d'acqua pro capite pari a circa il doppio di quella attuale, distribuita tra le case private (ma solo per pochi privilegiati), le numerosissime fontane pubbliche (circa 1.300), le fontane monumentali, le piscine (circa 900) e le terme pubbliche, nonché i bacini utilizzati per gli spettacoli come le naumachie e i laghi artificiali. Oltre agli undici condotti principali, nel tempo furono costruite diverse diramazioni e rami secondari, per cui un catalogo del IV secolo ne contava ben 19.
  • 2. Furono gli Ostrogoti di Vitige, nell’assedio del 537, a decretare la fine della storia degli acquedotti antichi; vennero tagliati per impedire l’approvvigionamento della città, e d’altra parte Belisario, il generale difensore di Roma, ne chiuse gli sbocchi per evitare che gli Ostrogoti li usassero come via di accesso. Qualcuno fu poi rimesso parzialmente in funzione, ma dal IX secolo il crollo demografico e la penuria di risorse tecniche ed economiche fecero sì che nessuno si occupasse più della manutenzione, i condotti non furono più utilizzabili ed i romani tornarono ad attingere acqua dal fiume, dai pozzi e dalle sorgenti, come alle origini.
  • 3. Tra i primi problemi da affrontare nella realizzazione di un acquedotto c’era ovviamente la scelta della sorgente o del corso d’acqua da cui attingere, che doveva tener presente non solo la qualità dell'acqua, ma anche la quantità e regolarità del flusso, e la quota del punto di captazione, visto che la propulsione, in mancanza di sofisticate apparecchiature, doveva essere garantita per quanto possibile dalla gravità risultante dalla pendenza dell'intero percorso.
  • 4. Un acquedotto iniziava generalmente con un bacino di raccolta realizzato con dighe, che tratteneva le acque di superficie; nel caso di acque sotterranee venivano scavati pozzi e cunicoli che imbrigliavano la vena in un condotto unico. Il passaggio successivo era la sosta nelle vasche di decantazione (piscinae limariae), dove venivano fatte depositare le prime impurità. Da qui l’acqua veniva immessa nel canale (specus) che la trasportava mantenendo una pendenza leggera e costante per assicurare uno scorrimento regolare e non troppo impetuoso. Al sistema del “sifone inverso” che, accumulando una certa pressione, consentiva all’acqua di risalire un pendio, fu necessario ricorrere solo in pochi casi; le tubazioni delle condutture erano infatti in piombo (difficile da saldare) o in terracotta in una camicia di cemento (scarsamente resistente alle alte pressioni). Per ovviare a questi problemi in molti casi si preferì allungare il percorso del tracciato, anche di molto (è il caso dell'aqua Virgo), per poter assecondare le naturali caratteristiche del terreno e mantenere il più possibile costante una regolare pendenza. Per questo motivo molti acquedotti risultano notevolmente più lunghi della distanza lineare fra la sorgente e il punto di erogazione.
  • 5. Il percorso era preferibilmente sotterraneo, in uno specus scavato nella roccia; in qualche caso correva in superficie, coperto con lastre di pietra, e solo per l’attraversamento di corsi d’acqua o depressioni correva su muri o su arcate. Alla fine del percorso si trovava una costruzione (castellum aquae) che conteneva altre camere di decantazione e la vasca terminale da cui l’acqua veniva distribuita nelle condutture dell'utenza urbana. All'interno della città altri "castelli" provvedevano ad ulteriori ripartizioni del flusso, e d'altra parte potevano esserci anche "castelli" posizionati prima di quello principale, per le eventuali utenze delle ville extraurbane.
  • 6. La sorveglianza, la manutenzione e la distribuzione delle acque venne affidata alla cura un po' disorganizzata di imprenditori privati, che dovevano rendere conto del loro operato a magistrati che avevano altri compiti principali. Dopo un periodo, dal 33 al 12 a.C., in cui Agrippa, con il consenso di Augusto, monopolizzò nelle sue mani il controllo di tutto l’apparato idrico della città, alla sua morte la gestione passò nelle mani dell'imperatore, che la affidò ad un’équipe di tre senatori che poi trasformò in un vero e proprio ufficio, in cui uno dei tre, di livello consolare, assumeva la carica di curator aquarum. Il rango di questo funzionario era tale da consentirgli il controllo assoluto della gestione delle risorse idriche cittadine: manutenzione degli impianti, interventi, regolarità e distribuzione del flusso. Alle sue dipendenze aveva un organico molto ampio, composto da tecnici, architetti e ingegneri, da amministrativi e dai 240 schiavi di Agrippa, che Augusto trasformò in “schiavi pubblici”, mantenuti dallo Stato, con mansioni varie, a cui se ne aggiunsero, all’epoca di Claudio, altri 460 mantenuti direttamente dalle finanze imperiali. La magistratura rimase in vigore per oltre tre secoli, finché, prima con Diocleziano e poi con i suoi successori, il controllo degli acquedotti venne affidato al preafectus urbi.