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Cristina Rossi

DALLA JUGOSLAVIA ALLA “JUGOSFERA”
La Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia nacque nel 1945, alla fine della Seconda Guerra
Mondiale; mantenne il nome fino al 1963 quando diventò poi la Repubblica Federale Socialista di
Jugoslavia (fino al 1991/92). Era una federazione di sei repubbliche (Bosnia-Erzegovina, Croazia,
Macedonia, Montenegro, Serbia, Slovenia) e due “province autonome” all’interno della repubblica
di Serbia (Vojvodina e Kosovo). Ogni repubblica o provincia autonoma rappresentava l’area di
maggior concentrazione territoriale di uno dei grandi gruppi nazionali che formavano la Jugoslavia.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il maresciallo Tito, capo del governo, iniziò una politica di
alleanza con l’Unione Sovietica, e instaurò un regime dittatoriale di stampo socialista in cui il partito
comunista era l’unico legalmente riconosciuto. Poco a poco, però, iniziò un progressivo
allontanamento da Stalin, che permise al governo di controllare più liberamente l’economia del
proprio paese. Dopo diversi dissidi con Mosca, soprattutto sulla politica estera, la Jugoslavia, nel
1948, uscì dall’orbita di influenza sovietica.
Nel 1950 Tito inaugurò una politica di autogestione dei lavoratori che fu alla base del sistema
produttivo jugoslavo, nonostante ciò, la Jugoslavia rimase un paese a economia pianificata. La
politica interna fu caratterizzata da un forte accentramento del potere volto a stroncare ogni sussulto
nazionalista e ogni riforma a livello locale, anche se, col passare degli anni, in Jugoslavia, vennero
fatti timidi passi verso un’economia più liberale, fino alla Costituzione del 1974 che concesse larghe
autonomie alle repubbliche federate.
La Jugoslavia fu quindi, dal 1945 al 1990, uno Stato multinazionale, basato sul multiculturalismo, in
cui nessun singolo gruppo rappresentava una maggioranza. Questo paese era composto da
repubbliche, in ognuna di esse vi era un gruppo di maggioranza, da cui queste prendevano il nome
(ad esempio i croati in Croazia, i serbi in Serbia, e così via). Ma in tutte queste repubbliche vi erano
anche consistenti minoranze. L’unica eccezione era rappresentata dalla repubblica di Bosnia ed
Erzegovina in cui non vi era un gruppo che formava una maggioranza, erano presenti musulmani,
serbi, croati, iugoslavi e altre etnie. La Slovenia, invece, rappresentava la repubblica più omogenea
con circa il 90% della popolazione composta da sloveni.
Dal 1953 al 1981 diversi fattori contribuirono a sostenere che quasi tutti i territori della Iugoslavia
stessero divenendo sempre più eterogenei. In quasi tutte le repubbliche e le province diminuì la
percentuale di popolazione composta dal gruppo nazionale maggioritario. Con le sole due eccezioni
delle province autonome della Serbia, la Vojvodina e il Kosovo. Tra il 1981 e il 1991 l’eterogeneità
crebbe in Montenegro, Macedonia, Slovenia e Serbia, ma diminuì in Croazia e Bosnia-Erzegovina.
1
Vi fu anche un aumento nelle percentuali di matrimoni misti tra membri di differenti gruppi nazionali.
Questo fenomeno di solito è indice di una crescente integrazione fra i gruppi sociali.
Le percentuali più alte di matrimoni misti si trovavano nelle aree dove le popolazioni erano più
intrecciate, ovvero nelle grandi città, nelle province della Vojvodina, in Bosnia-Erzegovina, e in
Croazia dove vi erano ampi gruppi di serbi e croati.
Un altro fattore di eterogeneità è riscontrato nelle percentuali di coloro che si identificavano come
“jugoslavi” invece che come croati, serbi, musulmani o altri gruppi. La distribuzione territoriale di
questi jugoslavi etnici non era omogenea e in termini di età, questa identità era scelta principalmente
dai giovani. Questo fenomeno poteva voler dire che si stesse sviluppando un crescente senso di
comunità, e una sempre maggiore autoidentificazione dei cittadini come jugoslavi.
Nel 1980 il maresciallo Tito morì e la situazione economica si deteriorò, alimentando il divario tra le
repubbliche di Slovenia e Croazia, ovvero le più ricche, e il resto del paese. Questi dissidi portarono
a una separazione economica, che diventò poi una spinta verso una volontà indipendentista ispirata
dai dirigenti politici locali.
Nel 1990 si tennero le libere elezioni nelle sei repubbliche, dopo il crollo della Lega dei comunisti,
ed il messaggio vincente in ogni repubblica fu quello dell’allentamento dei legami politici con il
governo jugoslavo e del nazionalismo classico, ovvero la Serbia ai serbi, la Croazia ai croati, la
Slovenia agli sloveni, la Macedonia ai macedoni. Nella Bosnia-Erzegovina presero più voti i partiti
nazionalisti musulmano, serbo e croato, mentre il partito che sosteneva l’uguaglianza di tutti i cittadini
ottenne una misera percentuale di voti. I politici vittoriosi in Serbia, Croazia e Slovenia lavorarono in
modo indipendente, ognuno per le proprie ragioni, per indebolire il governo federale. Così ogni
repubblica, eccetto la Bosnia-Erzegovina, divenne un vero e proprio Stato-nazione basato sulla
sovranità del gruppo nazionale maggioritario.
I diversi movimenti politici nazionalisti erano giustificati dal principio di “autodeterminazione”, nelle
costituzioni delle varie repubbliche il riferimento non era tanto alla popolazione o ai cittadini di
queste, ma alle nazioni (narodi) della Jugoslavia, etnicamente definite. L’aspetto centrale di questi
movimenti politici nazionalisti, nati dopo il 1989, fu l’esplicita fusione di “nazione” etnicamente
definita e “Stato”.1 Ciò implicò diverse conseguenze per le minoranze che si trovarono a vivere in
Stati definiti come gli Stati-nazione delle rispettive maggioranze. Chi non apparteneva alla
maggioranza etno-nazionale non poteva godere di pieni diritti.
Il punto focale di questa distinzione risiedeva nel concetto di sovranità. Dopo le elezioni del 1990, i
politici nazionalisti riscrissero le rispettive costituzioni repubblicane per fondare lo Stato sulla

1

Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, R. M. Hayden, Meltemi,
Roma 2005. (p.154)

2
sovranità della nazione etnicamente definita (narod); gli altri potevano essere cittadini ma non
avevano un uguale diritto di partecipare al controllo dello Stato. Vi erano alcune regioni in cui vari
popoli jugoslavi coesistevano ed erano sempre più intrecciati, ma i politici presupponevano che i vari
popoli non potessero vivere insieme, e che dunque il loro comune stato dovesse essere diviso. Le
regioni miste non potevano essere lasciate sopravvivere come tali e le loro popolazioni, che
volontariamente si stavano mescolando, dovevano essere separate militarmente. La disintegrazione
della Jugoslavia nel 1991-92 segnò il fallimento dell’immaginazione di una comunità jugoslava.
Lo sviluppo dei nazionalismi ostili fece decrescere drasticamente la percentuale di jugoslavi in tutto
il paese. La percentuale rimase alta soltanto nelle regioni più miste in Bosnia-Erzegovina e in Croazia.
La diminuzione di chi si identificava come jugoslavo era dovuta principalmente alla consapevolezza
dei crescenti rischi che una simile autodefinizione comportava, nel clima sciovinista (nazionalista)
dominante, la popolazione temeva che ciò potesse costar loro il posto di lavoro e persino la confisca
delle proprietà.
I territori dove l’intreccio fra popolazioni era stato più completo, ossia la Bosnia-Erzegovina, le parti
della Croazia confinanti con essa e la Vojvodina, furono i principali teatri di guerra. La causa
principale della guerra consisteva nel fatto che i nazionalismi rivendicavano quegli stessi territori
“misti” e intendevano combattere per ottenerli.
Le libere elezioni jugoslave del 1990 non sostituirono il socialismo di Stato con la democrazia. La
transizione fu da un regime che promuoveva gli interessi di quella parte della popolazione definita
come “classe lavoratrice” a un regime che promuoveva gli interessi di quella parte di popolazione
definita come maggioranza etnonazionale. Hayden sostiene che “la transizione fu dal socialismo di
Stato allo sciovinismo (sentimento nazionalistico esaltato e fanatico) di Stato e il nemico di classe del
socialismo fu sostituito dal nemico nazionale, identificato da ciascun sciovinismo locale.” 2 I primi
nemici nazionali erano i membri della principale minoranza di ciascun Stato. Questa transizione
appare evidente nelle formulazioni dell’identità e delle finalità dello Stato, contenute nelle diverse
costituzioni repubblicane. Ne è un esempio la Costituzione della Croazia (1990) che nel suo
preambolo recita:
Premesso (…) l’inalienabile e inestinguibile diritto all’autodeterminazione e alla
sovranità di Stato della nazione croata, si instaura la Repubblica di Croazia come Stato
nazionale della nazione croata e come Stato dei membri delle altre nazioni e minoranze
che sono suoi cittadini.

2

Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, R. M. Hayden, Meltemi,
Roma 2005. (p.160)

3
In questo preambolo, come in tutti quelli delle altre costituzioni, la parola nazione (narod) assume
una connotazione etnica. Essa esclude quindi tutti quegli individui di cui non sia specificata
l’appartenenza etnica. La nascita di ogni repubblica è considerata una manifestazione del diritto di
autodeterminazione, cioè del diritto di formare un proprio Stato, del gruppo etnico di maggioranza,
che prende il nome di nazione. Questa realtà nasce dal fallimento di un tentativo di definire lo Stato
in modo da riconoscere la sovranità di tutti i gruppi presenti, senza privilegiarne nessuno.
I nazionalisti cominciarono in ciascuna repubblica a praticare sistemi di nazionalismo costituzionale,
nel senso di sistemi costituzionali e giuridici volti ad assicurare il dominio del gruppo etnonazionale
di maggioranza.
In Bosnia-Erzegovina non era stata emanata nessuna nuova costituzione e così, dopo il crollo dell’ex
Jugoslavia, i leader serbi e croati proclamarono l’indipendenza delle loro regioni all’interno della
Bosnia. Queste regioni assunsero poi una forma istituzionale simile a quella di un vero e proprio
Stato, legate rispettivamente alla Serbia e alla Croazia, e si resero indipendenti dal governo della
Bosnia-Erzegovina. Seguì poi una guerra, e un’azione di pulizia etnica, che portò alla separazione
della Bosnia-Erzegovina in due regioni destinate a divenire presto etnicamente “pure”. Questa
suddivisione fu una conseguenza del crollo dell’ex Jugoslavia perché l’autodeterminazione delle
nazioni faceva sì che i serbi e i croati presenti in Bosnia-Erzegovina venissero attirati verso l’unione
con la propria etnia. Questa pratica dell’autodeterminazione condusse alla guerra civile che provocò
la distruzione della Bosnia-Erzegovina. La costituzione della Federazione di Bosnia ed Erzegovina
del 1994 si fondava su un’idea di nazionalismo costituzionale che escludeva i serbi dai popoli sovrani
della Bosnia-Erzegovina, riservando ai bosniaci musulmani e ai croati il diritto di spartirsi i ruoli
esecutivi.
Il trattato di pace di Dayton-Parigi, del 1995, che produsse come primo effetto quello di far cessare
per il momento la guerra in Bosnia, si rifece a un’idea di nazionalismo costituzionale molto simile a
quello della Costituzione federale del 1994, a cui a musulmani e croati vennero riconosciuti più diritti
rispetto agli altri gruppi etnici.
Nelle repubbliche dell’ex Jugoslavia, costituite dopo le elezioni del 1990, i cittadini di uno Stato
possedevano dei diritti da cui erano esclusi invece coloro che cittadini non erano. Una volta raggiunta
l’indipendenza, i governi dei singoli Stati iniziarono a indicare norme che stabilivano chi avesse il
diritto di vivere lì e chi no, chi poteva lavorare e chi no, a chi veniva concesso il diritto di voto e a chi
no, chi poteva contare su una copertura sanitaria e godere di altri benefici e chi no, e infine a chi si
permetteva di possedere beni immobiliari e a chi no. In sostanza, senza cittadinanza non si accedeva
ai diritti fondamentali che permettevano di condurre tranquillamente la propria esistenza.

4
Le nuove leggi erano state scritte in modo da privilegiare i membri appartenenti alla maggioranza,
provocando così una discriminazione dei residenti che non appartenevano al gruppo etnico di
maggioranza. In sostanza, i nuovi regimi di cittadinanza avevano da un lato esteso la cittadinanza ai
membri non residenti della maggioranza etnonazionale, attraverso procedure di naturalizzazione,
dall’altro l’avevano negata a molti residenti che non appartenevano al gruppo giusto. Hayden osserva
che “questo processo che trasforma coloro che da sempre hanno vissuto in Iugoslavia da cittadini a
stranieri nelle loro stesse terre, può essere definito un processo di denaturalizzazione.”3
Con la fine della Jugoslavia, si pose la questione pratica di ottenere la cittadinanza in uno dei nuovi
Stati per molti suoi ex cittadini. Le leggi che regolavano il diritto di cittadinanza stabilivano i requisiti
per l’acquisizione di uno status di appartenenza a una comunità. Un esempio contenuto nella legge
che regola la cittadinanza croata del 1991, nell’articolo 8, stabiliva che si potesse dedurre dalla
condotta del cittadino che egli aderisse alle leggi e alle consuetudini della Repubblica croata e che
accettasse la cultura croata; ma non era chiaro come qualcuno potesse comportarsi in modo da
mostrare di averla accettata. Tali limitazioni rappresentavano un espediente per estendere la
cittadinanza solo ai croati etnici. Le proteste dei serbi erano quindi fondate, perché le possibilità di
discriminazione esistevano.
Anche le leggi slovene sulla naturalizzazione ponevano delle restrizioni che avvantaggiavano gli
sloveni etnici. Le nuove leggi che regolavano il diritto di cittadinanza fornivano, quindi, gli strumenti
legislativi per escludere su base etnica alcuni individui dalla cittadinanza, costruendo le premesse per
la pulizia etnica amministrativa.
La logica dell’”autodeterminazione nazionale” in Jugoslavia aveva legittimato l’uniformazione della
popolazione. La guerra seguì questa logica di costruzione dello Stato-nazione tramite l’eliminazione
delle minoranze. Un regime maggioritario in uno Stato con una maggioranza schiacciante poteva
ottenere amministrativamente dei risultati, affiancati anche da altri metodi se la maggioranza non
aveva sufficiente potere di governo, in particolare attraverso l’invasione militare e la conseguente
espulsione della popolazione indesiderata.
I serbi all’inizio si impossessarono della maggior parte del territorio della Bosnia-Erzegovina e
commisero il più alto numero di violazione dei diritti umani. Nel 1993 le azioni militari croate dirette
a fondare una Herceg-Bosna (entità autonoma dei croati in Bosnia-Erzegovina) etnicamente pura,
cercarono di ottenere lo stesso risultato anche nella Bosnia centrale e a Mostar. Gli “scambi di
popolazione” furono eseguiti sempre con questo proposito.

3

Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, R. M. Hayden, Meltemi,
Roma 2005. (p.166)

5
Alla fine del 1994 la guerra aveva prodotto il quasi completo trasferimento delle popolazioni non
croate al di fuori di Sarajevo (capitale della Bosnia-Erzegovina).
Durante la primavera e l’estate del 1995 si accelerò questo processo di espulsione della popolazione.
A maggio la parte serba della Slovenia occidentale fu attaccata dai croati, quasi tutti i serbi furono
espulsi. A luglio l’esercito serbo conquistò due delle “aree di sicurezza” musulmane nella Bosnia
orientale ed espulse o uccise tutti i residenti. Ad agosto i croati attaccarono la Krajina ed espulsero
duecentomila serbi dalla Croazia. Questo evento è stato il più pesante atto di pulizia etnica nel corso
delle guerre balcaniche. Tra il 1991 e il 1995 l’85% dei serbi che abitavano in Croazia furono obbligati
a lasciare la loro terra.
In Croazia, l’estate del 1995 è stata segnata dalle più grandi ondate di pulizia etnica compiute dai
diversi eserciti. A settembre i musulmani aiutati dall’esercito croato attaccarono la Bosnia
occidentale, che costrinse decine di migliaia di serbi a lasciare i settori centro-occidentali della
Bosnia, che prima della guerra era popolata quasi totalmente da serbi.
Malgrado la comunità internazionale avesse più volte sottolineato il fatto che non avrebbe accettato
una spartizione della Bosnia su basi etniche, il trattato di pace di Dayton-Parigi invece fece proprio
questo, riconoscendo che la Bosnia era composta da due “entità”: la “federazione” croata-musulmana
e la “Repubblica Srpska” (serba), ognuna fondata su una propria costituzione. Dal momento che
queste costituzioni definivano i loro rispettivi Stati in termini etnici, questo accordo legittimava a
livello internazionale la suddivisione della Bosnia su base etnica.
Dopo la proclamazione dell’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Macedonia,
lo Stato jugoslavo era limitato ai soli territori della Serbia e del Montenegro che decisero di rimanere
uniti, dando vita nel 1992 alla Repubblica Federale di Jugoslavia.
Nel 1996 le tensioni nella provincia serba del Kosovo tra la maggioranza di etnia albanese e la
minoranza serba si inasprirono. Fino al 1999 fu combattuto un conflitto tra l’organizzazione
indipendentista paramilitare albanese UCK e la polizia appoggiata da forze paramilitari serbe, che si
concluse, dopo quasi tre mesi di bombardamenti da parte della NATO sulla Jugoslavia, con l’Accordo
di Kumanovo, che sancì il ritiro dell’esercito federale dalla provincia, il mantenimento della sovranità
jugoslava e l’amministrazione dell’ONU.
Nel settembre 2003 la Repubblica Federale di Jugoslavia cambiò denominazione in Unione Statale
di Serbia e Montenegro, la federazione rimase in vigore fino al 2006 quando venne sciolta dando vita
ai due stati indipendenti di Serbia e Montenegro.
Nel 2008 il Kosovo dichiarò unilateralmente la propria indipendenza e la costituzione in repubblica,
decisione non accettata dalla Serbia e condivisa solo da una parte delle nazioni del mondo.

6
Il conflitto nella Ex-Jugoslavia ha portato 250.000 morti, massicci spostamenti interni di persone, e
l’esodo di un milione di rifugiati.
L’accordo di Dayton-Parigi, che metteva fine alla guerra civile jugoslava, richiedeva un maggiore
sforzo di sostegno internazionale per la ricostruzione dopo la guerra, e poneva problemi per il
processo di ricostruzione avviato dalla Banca Mondiale e da altre agenzie che avevano intenzione di
creare le condizioni economiche e sociali ottimali per una pace sostenibile.
Il ruolo della Banca Mondiale nel processo di ricostruzione e di ripresa economica nei paesi della ExJugoslavia è stato molto importante, il successo dei suoi interventi è stato riconosciuto dalle autorità,
da diverse organizzazioni no-profit e da altri beneficiari. Gli interventi della Banca Mondiale
comprendevano benefici che includevano il coinvolgimento di investitori esteri, progetti nel settore
sociale per la ricostruzione del capitale umano e sociale, e un contributo per l’implementazione delle
attività locali.
La Banca Mondiale ha avuto un ruolo chiave nel coordinamento dei lavori e nel coinvolgimento di
risorse esterne per la ripresa economica: le strade e i ponti principali furono ricostruiti per permettere
al traffico di riprendere; un numero considerevole di scuole e ospedali furono ricostruiti, l’energia
elettrica fu ripristinata, la produzione e il commercio cominciarono ad essere in ripresa,
l’importazione e la domanda per i beni e i servizi locali subirono una rapida ripresa, specialmente
nella Federazione. Inoltre le piccole e medie imprese risposero positivamente alle opportunità create
dall’impegno alla ricostruzione.
Il progetto della Banca Mondiale prevedeva anche un miglioramento nel campo dell’istruzione e
l’implementazione di posti d’impiego. Insieme all’agenzia UNHCR, la Banca Mondiale si è occupata
anche di iniziative locali e progetti per il ritorno dei rifugiati sul territorio e nella realtà sociale.4 Il
lavoro che ha svolto la Banca Mondiale nell’unire i progetti di ricostruzione e di ripresa economica
nel periodo del dopo guerra in questi territori è stato molto apprezzato sia dal governo sia dalla
comunità internazionale.
Il tempo è passato e un nuovo decennio ha visto svilupparsi nuovi avvenimenti al di sopra degli orrori
degli anni ’90. L'Economist ha definito i paesi dell’ex Jugoslavia come "Jugosfera" economica.
Parlando di Jugosfera, si fa riferimento a quell'area unita (di cui fanno parte Bosnia Erzegovina,
Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia) da una storia e da una cultura comuni, i cui fili
sono stati spezzati dalle guerre degli anni '90 ma nonostante tutto, non in maniera irreversibile. Parlare
di "nascita della Jugosfera" ha una forte connotazione semantica di tipo politico, significa interrogarsi
sul futuro dell'area, cercare di capire quale sia la direzione da intraprendere nel processo di
costruzione di un nuovo sistema di rapporti. Tim Judah, esperto e storico del magazine londinese, che
4

Bosnia et Herzegovina, Post-Conflict Reconstruction, A. Kreimer, World Bank 2000. (p.79)

7
ha voluto portare alla luce il silenzioso e graduale processo di reintegrazione che sembra essersi da
qualche tempo avviato, sostiene che "la gente già vive in una Jugosfera: bevono latte croato, guardano
programmi tv bosniaci e mangiano spuntini di un'azienda serba controllata da una compagnia
slovena".5
L’area post-jugoslava tenta, quindi, di recuperare radici comuni. Si è sentito parlare anche di
“jugonostalgia”, ovvero il rimpianto di un passato poco elaborato, spesso confrontato solo con le
macerie fisiche e morali lasciate dalle guerre, il rimpianto di un vivere comune, del potersi muovere
e viaggiare all’estero, di un moderato benessere, e infine della quotidianità; ma ciò che i popoli di
quelle terre rivendicano è piuttosto il desiderio (o necessità) di “jugosfera”, cioè di recupero
delle relazioni tra le comunità, i popoli e i Paesi che facevano un tempo parte di un unico stato
federale: un patrimonio culturale comune profondamente radicato, dalla lingua alla cultura, alla
gastronomia, sino alla musica.
Si riconosce la necessità di una nuova cooperazione, cercando di eliminare gli ostacoli ideologici che
ancora pregiudicano la ristrutturazione delle storiche connessioni economiche nell'area. I problemi
riguardano le differenti capacità e possibilità di penetrazione economica, soprattutto per quanto
riguarda l’economia slovena e croata, paesi da sempre in competizione.
I segnali incoraggianti non mancano, nell'area si sta sempre più ristrutturando un mercato comune,
dall’abbattimento delle barriere doganali nel 2002 i grandi oligarchi hanno avviato commerci e
imprese trans-regionali. La lotta alle mafie è stata condotta attraverso la collaborazione tra le forze di
polizia dei vari stati. Il Consiglio per la cooperazione regionale porta avanti un lavoro di formazione
per funzionari, dirigenti e poliziotti di tutti gli stati. E infine, molte infrastrutture, come la rete elettrica
e i binari ferroviari, superano i confini.6 Per i “Balcani occidentali" - altro epiteto utilizzato per la
regione - questa potrebbe essere la strada che porta verso un processo di integrazione, partendo da
quella economica. La crisi del 2009 avrebbe potuto rappresentare un'occasione per recuperare una
dimensione regionale utile a rilanciare gli investimenti, ormai in netto calo. Ciò avrebbe permesso di
valorizzare i punti di forza tradizionali del mercato regionale, come la facilità di comunicazione e di
riconoscibilità dei marchi.7 Processi che pian piano si stanno sviluppando nell’area.
E' il versante politico della Jugosfera che implica le maggiori contraddizioni. Ai vertici si sono
riscontrati segnali molto importanti, sembra infatti prevalere sempre più una disponibilità al dialogo
ed alla collaborazione. Tuttavia esistono ancora grossi ostacoli, come le difficoltà nei rapporti tra

5

“Entering the Yugosphere”, The Economist, 20th August 2009. www.economist.com/node/14258861.

6

“La Jugoslavia non esiste più, ma ora c’è la Jugosfera”, www.internazionale.it/la-jugoslavia-non-esiste-piu-ma-ora-ce-

la-jugosfera/.
7

“L’anno della Jugosfera”, www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/L-anno-della-Jugosfera-55855.

8
Zagabria e Lubiana, risolte dopo estenuanti trattative, i problemi nei rapporti tra Serbia e Montenegro,
ma soprattutto l'ancora delicata situazione in Bosnia Erzegovina e Kosovo.
Nonostante le difficoltà, trascendendo l'aspetto più strettamente economico della discussione, e
considerando piuttosto gli aspetti socioculturali, bisogna riconoscere i progressi fatti per ridare
legittimità al patrimonio culturale comune dei popoli di questi territori.
E’ importante che i paesi della Jugosfera continuino su questa linea di collaborazione e cooperazione
tra stati, che riconoscano l’importanza della stabilità politica, così da poter puntare a rafforzare la
dimensione regionale allo scopo di avere la possibilità di acquisire un ruolo più concreto anche
all’interno del mercato comune europeo.
Il contesto locale è quindi di primaria importanza per la risoluzione dei problemi dell'area, e solo
attraverso la collaborazione nella realtà regionale i paesi della Jugosfera potranno avere un ruolo più
rilevante anche all’interno delle dinamiche europee.

9
BIBLIOGRAFIA
 S. Bianchini, La questione jugoslava, Giunti, Firenze 1999.
 R. Hayden, Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in
Iugoslavia, Maltemi, Roma 2005.
 Kreimer, Bosnia et Herzegovina, Post-Conflict Reconstruction, World Bank 2000.

SITOGRAFIA
 www.economist.com/node/14258861
 www.internazionale.it/la-jugoslavia-non-esiste-piu-ma-ora-ce-la-jugosfera/
 www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/L-anno-della-Jugosfera-55855
 www.eastjournal.net/i-balcani-tra-voglia-di-jugosfera-e-tensioni-irrisolte-mentre-leuropa-sta-aguardare/24451
 www.viaggiareibalcani.it/libri/845/jugosfera-e-jugonostalgia.html

10

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Dalla Jugoslavia alla Jugosfera

  • 1. Cristina Rossi DALLA JUGOSLAVIA ALLA “JUGOSFERA” La Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia nacque nel 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale; mantenne il nome fino al 1963 quando diventò poi la Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia (fino al 1991/92). Era una federazione di sei repubbliche (Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia, Slovenia) e due “province autonome” all’interno della repubblica di Serbia (Vojvodina e Kosovo). Ogni repubblica o provincia autonoma rappresentava l’area di maggior concentrazione territoriale di uno dei grandi gruppi nazionali che formavano la Jugoslavia. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il maresciallo Tito, capo del governo, iniziò una politica di alleanza con l’Unione Sovietica, e instaurò un regime dittatoriale di stampo socialista in cui il partito comunista era l’unico legalmente riconosciuto. Poco a poco, però, iniziò un progressivo allontanamento da Stalin, che permise al governo di controllare più liberamente l’economia del proprio paese. Dopo diversi dissidi con Mosca, soprattutto sulla politica estera, la Jugoslavia, nel 1948, uscì dall’orbita di influenza sovietica. Nel 1950 Tito inaugurò una politica di autogestione dei lavoratori che fu alla base del sistema produttivo jugoslavo, nonostante ciò, la Jugoslavia rimase un paese a economia pianificata. La politica interna fu caratterizzata da un forte accentramento del potere volto a stroncare ogni sussulto nazionalista e ogni riforma a livello locale, anche se, col passare degli anni, in Jugoslavia, vennero fatti timidi passi verso un’economia più liberale, fino alla Costituzione del 1974 che concesse larghe autonomie alle repubbliche federate. La Jugoslavia fu quindi, dal 1945 al 1990, uno Stato multinazionale, basato sul multiculturalismo, in cui nessun singolo gruppo rappresentava una maggioranza. Questo paese era composto da repubbliche, in ognuna di esse vi era un gruppo di maggioranza, da cui queste prendevano il nome (ad esempio i croati in Croazia, i serbi in Serbia, e così via). Ma in tutte queste repubbliche vi erano anche consistenti minoranze. L’unica eccezione era rappresentata dalla repubblica di Bosnia ed Erzegovina in cui non vi era un gruppo che formava una maggioranza, erano presenti musulmani, serbi, croati, iugoslavi e altre etnie. La Slovenia, invece, rappresentava la repubblica più omogenea con circa il 90% della popolazione composta da sloveni. Dal 1953 al 1981 diversi fattori contribuirono a sostenere che quasi tutti i territori della Iugoslavia stessero divenendo sempre più eterogenei. In quasi tutte le repubbliche e le province diminuì la percentuale di popolazione composta dal gruppo nazionale maggioritario. Con le sole due eccezioni delle province autonome della Serbia, la Vojvodina e il Kosovo. Tra il 1981 e il 1991 l’eterogeneità crebbe in Montenegro, Macedonia, Slovenia e Serbia, ma diminuì in Croazia e Bosnia-Erzegovina. 1
  • 2. Vi fu anche un aumento nelle percentuali di matrimoni misti tra membri di differenti gruppi nazionali. Questo fenomeno di solito è indice di una crescente integrazione fra i gruppi sociali. Le percentuali più alte di matrimoni misti si trovavano nelle aree dove le popolazioni erano più intrecciate, ovvero nelle grandi città, nelle province della Vojvodina, in Bosnia-Erzegovina, e in Croazia dove vi erano ampi gruppi di serbi e croati. Un altro fattore di eterogeneità è riscontrato nelle percentuali di coloro che si identificavano come “jugoslavi” invece che come croati, serbi, musulmani o altri gruppi. La distribuzione territoriale di questi jugoslavi etnici non era omogenea e in termini di età, questa identità era scelta principalmente dai giovani. Questo fenomeno poteva voler dire che si stesse sviluppando un crescente senso di comunità, e una sempre maggiore autoidentificazione dei cittadini come jugoslavi. Nel 1980 il maresciallo Tito morì e la situazione economica si deteriorò, alimentando il divario tra le repubbliche di Slovenia e Croazia, ovvero le più ricche, e il resto del paese. Questi dissidi portarono a una separazione economica, che diventò poi una spinta verso una volontà indipendentista ispirata dai dirigenti politici locali. Nel 1990 si tennero le libere elezioni nelle sei repubbliche, dopo il crollo della Lega dei comunisti, ed il messaggio vincente in ogni repubblica fu quello dell’allentamento dei legami politici con il governo jugoslavo e del nazionalismo classico, ovvero la Serbia ai serbi, la Croazia ai croati, la Slovenia agli sloveni, la Macedonia ai macedoni. Nella Bosnia-Erzegovina presero più voti i partiti nazionalisti musulmano, serbo e croato, mentre il partito che sosteneva l’uguaglianza di tutti i cittadini ottenne una misera percentuale di voti. I politici vittoriosi in Serbia, Croazia e Slovenia lavorarono in modo indipendente, ognuno per le proprie ragioni, per indebolire il governo federale. Così ogni repubblica, eccetto la Bosnia-Erzegovina, divenne un vero e proprio Stato-nazione basato sulla sovranità del gruppo nazionale maggioritario. I diversi movimenti politici nazionalisti erano giustificati dal principio di “autodeterminazione”, nelle costituzioni delle varie repubbliche il riferimento non era tanto alla popolazione o ai cittadini di queste, ma alle nazioni (narodi) della Jugoslavia, etnicamente definite. L’aspetto centrale di questi movimenti politici nazionalisti, nati dopo il 1989, fu l’esplicita fusione di “nazione” etnicamente definita e “Stato”.1 Ciò implicò diverse conseguenze per le minoranze che si trovarono a vivere in Stati definiti come gli Stati-nazione delle rispettive maggioranze. Chi non apparteneva alla maggioranza etno-nazionale non poteva godere di pieni diritti. Il punto focale di questa distinzione risiedeva nel concetto di sovranità. Dopo le elezioni del 1990, i politici nazionalisti riscrissero le rispettive costituzioni repubblicane per fondare lo Stato sulla 1 Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, R. M. Hayden, Meltemi, Roma 2005. (p.154) 2
  • 3. sovranità della nazione etnicamente definita (narod); gli altri potevano essere cittadini ma non avevano un uguale diritto di partecipare al controllo dello Stato. Vi erano alcune regioni in cui vari popoli jugoslavi coesistevano ed erano sempre più intrecciati, ma i politici presupponevano che i vari popoli non potessero vivere insieme, e che dunque il loro comune stato dovesse essere diviso. Le regioni miste non potevano essere lasciate sopravvivere come tali e le loro popolazioni, che volontariamente si stavano mescolando, dovevano essere separate militarmente. La disintegrazione della Jugoslavia nel 1991-92 segnò il fallimento dell’immaginazione di una comunità jugoslava. Lo sviluppo dei nazionalismi ostili fece decrescere drasticamente la percentuale di jugoslavi in tutto il paese. La percentuale rimase alta soltanto nelle regioni più miste in Bosnia-Erzegovina e in Croazia. La diminuzione di chi si identificava come jugoslavo era dovuta principalmente alla consapevolezza dei crescenti rischi che una simile autodefinizione comportava, nel clima sciovinista (nazionalista) dominante, la popolazione temeva che ciò potesse costar loro il posto di lavoro e persino la confisca delle proprietà. I territori dove l’intreccio fra popolazioni era stato più completo, ossia la Bosnia-Erzegovina, le parti della Croazia confinanti con essa e la Vojvodina, furono i principali teatri di guerra. La causa principale della guerra consisteva nel fatto che i nazionalismi rivendicavano quegli stessi territori “misti” e intendevano combattere per ottenerli. Le libere elezioni jugoslave del 1990 non sostituirono il socialismo di Stato con la democrazia. La transizione fu da un regime che promuoveva gli interessi di quella parte della popolazione definita come “classe lavoratrice” a un regime che promuoveva gli interessi di quella parte di popolazione definita come maggioranza etnonazionale. Hayden sostiene che “la transizione fu dal socialismo di Stato allo sciovinismo (sentimento nazionalistico esaltato e fanatico) di Stato e il nemico di classe del socialismo fu sostituito dal nemico nazionale, identificato da ciascun sciovinismo locale.” 2 I primi nemici nazionali erano i membri della principale minoranza di ciascun Stato. Questa transizione appare evidente nelle formulazioni dell’identità e delle finalità dello Stato, contenute nelle diverse costituzioni repubblicane. Ne è un esempio la Costituzione della Croazia (1990) che nel suo preambolo recita: Premesso (…) l’inalienabile e inestinguibile diritto all’autodeterminazione e alla sovranità di Stato della nazione croata, si instaura la Repubblica di Croazia come Stato nazionale della nazione croata e come Stato dei membri delle altre nazioni e minoranze che sono suoi cittadini. 2 Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, R. M. Hayden, Meltemi, Roma 2005. (p.160) 3
  • 4. In questo preambolo, come in tutti quelli delle altre costituzioni, la parola nazione (narod) assume una connotazione etnica. Essa esclude quindi tutti quegli individui di cui non sia specificata l’appartenenza etnica. La nascita di ogni repubblica è considerata una manifestazione del diritto di autodeterminazione, cioè del diritto di formare un proprio Stato, del gruppo etnico di maggioranza, che prende il nome di nazione. Questa realtà nasce dal fallimento di un tentativo di definire lo Stato in modo da riconoscere la sovranità di tutti i gruppi presenti, senza privilegiarne nessuno. I nazionalisti cominciarono in ciascuna repubblica a praticare sistemi di nazionalismo costituzionale, nel senso di sistemi costituzionali e giuridici volti ad assicurare il dominio del gruppo etnonazionale di maggioranza. In Bosnia-Erzegovina non era stata emanata nessuna nuova costituzione e così, dopo il crollo dell’ex Jugoslavia, i leader serbi e croati proclamarono l’indipendenza delle loro regioni all’interno della Bosnia. Queste regioni assunsero poi una forma istituzionale simile a quella di un vero e proprio Stato, legate rispettivamente alla Serbia e alla Croazia, e si resero indipendenti dal governo della Bosnia-Erzegovina. Seguì poi una guerra, e un’azione di pulizia etnica, che portò alla separazione della Bosnia-Erzegovina in due regioni destinate a divenire presto etnicamente “pure”. Questa suddivisione fu una conseguenza del crollo dell’ex Jugoslavia perché l’autodeterminazione delle nazioni faceva sì che i serbi e i croati presenti in Bosnia-Erzegovina venissero attirati verso l’unione con la propria etnia. Questa pratica dell’autodeterminazione condusse alla guerra civile che provocò la distruzione della Bosnia-Erzegovina. La costituzione della Federazione di Bosnia ed Erzegovina del 1994 si fondava su un’idea di nazionalismo costituzionale che escludeva i serbi dai popoli sovrani della Bosnia-Erzegovina, riservando ai bosniaci musulmani e ai croati il diritto di spartirsi i ruoli esecutivi. Il trattato di pace di Dayton-Parigi, del 1995, che produsse come primo effetto quello di far cessare per il momento la guerra in Bosnia, si rifece a un’idea di nazionalismo costituzionale molto simile a quello della Costituzione federale del 1994, a cui a musulmani e croati vennero riconosciuti più diritti rispetto agli altri gruppi etnici. Nelle repubbliche dell’ex Jugoslavia, costituite dopo le elezioni del 1990, i cittadini di uno Stato possedevano dei diritti da cui erano esclusi invece coloro che cittadini non erano. Una volta raggiunta l’indipendenza, i governi dei singoli Stati iniziarono a indicare norme che stabilivano chi avesse il diritto di vivere lì e chi no, chi poteva lavorare e chi no, a chi veniva concesso il diritto di voto e a chi no, chi poteva contare su una copertura sanitaria e godere di altri benefici e chi no, e infine a chi si permetteva di possedere beni immobiliari e a chi no. In sostanza, senza cittadinanza non si accedeva ai diritti fondamentali che permettevano di condurre tranquillamente la propria esistenza. 4
  • 5. Le nuove leggi erano state scritte in modo da privilegiare i membri appartenenti alla maggioranza, provocando così una discriminazione dei residenti che non appartenevano al gruppo etnico di maggioranza. In sostanza, i nuovi regimi di cittadinanza avevano da un lato esteso la cittadinanza ai membri non residenti della maggioranza etnonazionale, attraverso procedure di naturalizzazione, dall’altro l’avevano negata a molti residenti che non appartenevano al gruppo giusto. Hayden osserva che “questo processo che trasforma coloro che da sempre hanno vissuto in Iugoslavia da cittadini a stranieri nelle loro stesse terre, può essere definito un processo di denaturalizzazione.”3 Con la fine della Jugoslavia, si pose la questione pratica di ottenere la cittadinanza in uno dei nuovi Stati per molti suoi ex cittadini. Le leggi che regolavano il diritto di cittadinanza stabilivano i requisiti per l’acquisizione di uno status di appartenenza a una comunità. Un esempio contenuto nella legge che regola la cittadinanza croata del 1991, nell’articolo 8, stabiliva che si potesse dedurre dalla condotta del cittadino che egli aderisse alle leggi e alle consuetudini della Repubblica croata e che accettasse la cultura croata; ma non era chiaro come qualcuno potesse comportarsi in modo da mostrare di averla accettata. Tali limitazioni rappresentavano un espediente per estendere la cittadinanza solo ai croati etnici. Le proteste dei serbi erano quindi fondate, perché le possibilità di discriminazione esistevano. Anche le leggi slovene sulla naturalizzazione ponevano delle restrizioni che avvantaggiavano gli sloveni etnici. Le nuove leggi che regolavano il diritto di cittadinanza fornivano, quindi, gli strumenti legislativi per escludere su base etnica alcuni individui dalla cittadinanza, costruendo le premesse per la pulizia etnica amministrativa. La logica dell’”autodeterminazione nazionale” in Jugoslavia aveva legittimato l’uniformazione della popolazione. La guerra seguì questa logica di costruzione dello Stato-nazione tramite l’eliminazione delle minoranze. Un regime maggioritario in uno Stato con una maggioranza schiacciante poteva ottenere amministrativamente dei risultati, affiancati anche da altri metodi se la maggioranza non aveva sufficiente potere di governo, in particolare attraverso l’invasione militare e la conseguente espulsione della popolazione indesiderata. I serbi all’inizio si impossessarono della maggior parte del territorio della Bosnia-Erzegovina e commisero il più alto numero di violazione dei diritti umani. Nel 1993 le azioni militari croate dirette a fondare una Herceg-Bosna (entità autonoma dei croati in Bosnia-Erzegovina) etnicamente pura, cercarono di ottenere lo stesso risultato anche nella Bosnia centrale e a Mostar. Gli “scambi di popolazione” furono eseguiti sempre con questo proposito. 3 Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, R. M. Hayden, Meltemi, Roma 2005. (p.166) 5
  • 6. Alla fine del 1994 la guerra aveva prodotto il quasi completo trasferimento delle popolazioni non croate al di fuori di Sarajevo (capitale della Bosnia-Erzegovina). Durante la primavera e l’estate del 1995 si accelerò questo processo di espulsione della popolazione. A maggio la parte serba della Slovenia occidentale fu attaccata dai croati, quasi tutti i serbi furono espulsi. A luglio l’esercito serbo conquistò due delle “aree di sicurezza” musulmane nella Bosnia orientale ed espulse o uccise tutti i residenti. Ad agosto i croati attaccarono la Krajina ed espulsero duecentomila serbi dalla Croazia. Questo evento è stato il più pesante atto di pulizia etnica nel corso delle guerre balcaniche. Tra il 1991 e il 1995 l’85% dei serbi che abitavano in Croazia furono obbligati a lasciare la loro terra. In Croazia, l’estate del 1995 è stata segnata dalle più grandi ondate di pulizia etnica compiute dai diversi eserciti. A settembre i musulmani aiutati dall’esercito croato attaccarono la Bosnia occidentale, che costrinse decine di migliaia di serbi a lasciare i settori centro-occidentali della Bosnia, che prima della guerra era popolata quasi totalmente da serbi. Malgrado la comunità internazionale avesse più volte sottolineato il fatto che non avrebbe accettato una spartizione della Bosnia su basi etniche, il trattato di pace di Dayton-Parigi invece fece proprio questo, riconoscendo che la Bosnia era composta da due “entità”: la “federazione” croata-musulmana e la “Repubblica Srpska” (serba), ognuna fondata su una propria costituzione. Dal momento che queste costituzioni definivano i loro rispettivi Stati in termini etnici, questo accordo legittimava a livello internazionale la suddivisione della Bosnia su base etnica. Dopo la proclamazione dell’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Macedonia, lo Stato jugoslavo era limitato ai soli territori della Serbia e del Montenegro che decisero di rimanere uniti, dando vita nel 1992 alla Repubblica Federale di Jugoslavia. Nel 1996 le tensioni nella provincia serba del Kosovo tra la maggioranza di etnia albanese e la minoranza serba si inasprirono. Fino al 1999 fu combattuto un conflitto tra l’organizzazione indipendentista paramilitare albanese UCK e la polizia appoggiata da forze paramilitari serbe, che si concluse, dopo quasi tre mesi di bombardamenti da parte della NATO sulla Jugoslavia, con l’Accordo di Kumanovo, che sancì il ritiro dell’esercito federale dalla provincia, il mantenimento della sovranità jugoslava e l’amministrazione dell’ONU. Nel settembre 2003 la Repubblica Federale di Jugoslavia cambiò denominazione in Unione Statale di Serbia e Montenegro, la federazione rimase in vigore fino al 2006 quando venne sciolta dando vita ai due stati indipendenti di Serbia e Montenegro. Nel 2008 il Kosovo dichiarò unilateralmente la propria indipendenza e la costituzione in repubblica, decisione non accettata dalla Serbia e condivisa solo da una parte delle nazioni del mondo. 6
  • 7. Il conflitto nella Ex-Jugoslavia ha portato 250.000 morti, massicci spostamenti interni di persone, e l’esodo di un milione di rifugiati. L’accordo di Dayton-Parigi, che metteva fine alla guerra civile jugoslava, richiedeva un maggiore sforzo di sostegno internazionale per la ricostruzione dopo la guerra, e poneva problemi per il processo di ricostruzione avviato dalla Banca Mondiale e da altre agenzie che avevano intenzione di creare le condizioni economiche e sociali ottimali per una pace sostenibile. Il ruolo della Banca Mondiale nel processo di ricostruzione e di ripresa economica nei paesi della ExJugoslavia è stato molto importante, il successo dei suoi interventi è stato riconosciuto dalle autorità, da diverse organizzazioni no-profit e da altri beneficiari. Gli interventi della Banca Mondiale comprendevano benefici che includevano il coinvolgimento di investitori esteri, progetti nel settore sociale per la ricostruzione del capitale umano e sociale, e un contributo per l’implementazione delle attività locali. La Banca Mondiale ha avuto un ruolo chiave nel coordinamento dei lavori e nel coinvolgimento di risorse esterne per la ripresa economica: le strade e i ponti principali furono ricostruiti per permettere al traffico di riprendere; un numero considerevole di scuole e ospedali furono ricostruiti, l’energia elettrica fu ripristinata, la produzione e il commercio cominciarono ad essere in ripresa, l’importazione e la domanda per i beni e i servizi locali subirono una rapida ripresa, specialmente nella Federazione. Inoltre le piccole e medie imprese risposero positivamente alle opportunità create dall’impegno alla ricostruzione. Il progetto della Banca Mondiale prevedeva anche un miglioramento nel campo dell’istruzione e l’implementazione di posti d’impiego. Insieme all’agenzia UNHCR, la Banca Mondiale si è occupata anche di iniziative locali e progetti per il ritorno dei rifugiati sul territorio e nella realtà sociale.4 Il lavoro che ha svolto la Banca Mondiale nell’unire i progetti di ricostruzione e di ripresa economica nel periodo del dopo guerra in questi territori è stato molto apprezzato sia dal governo sia dalla comunità internazionale. Il tempo è passato e un nuovo decennio ha visto svilupparsi nuovi avvenimenti al di sopra degli orrori degli anni ’90. L'Economist ha definito i paesi dell’ex Jugoslavia come "Jugosfera" economica. Parlando di Jugosfera, si fa riferimento a quell'area unita (di cui fanno parte Bosnia Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia) da una storia e da una cultura comuni, i cui fili sono stati spezzati dalle guerre degli anni '90 ma nonostante tutto, non in maniera irreversibile. Parlare di "nascita della Jugosfera" ha una forte connotazione semantica di tipo politico, significa interrogarsi sul futuro dell'area, cercare di capire quale sia la direzione da intraprendere nel processo di costruzione di un nuovo sistema di rapporti. Tim Judah, esperto e storico del magazine londinese, che 4 Bosnia et Herzegovina, Post-Conflict Reconstruction, A. Kreimer, World Bank 2000. (p.79) 7
  • 8. ha voluto portare alla luce il silenzioso e graduale processo di reintegrazione che sembra essersi da qualche tempo avviato, sostiene che "la gente già vive in una Jugosfera: bevono latte croato, guardano programmi tv bosniaci e mangiano spuntini di un'azienda serba controllata da una compagnia slovena".5 L’area post-jugoslava tenta, quindi, di recuperare radici comuni. Si è sentito parlare anche di “jugonostalgia”, ovvero il rimpianto di un passato poco elaborato, spesso confrontato solo con le macerie fisiche e morali lasciate dalle guerre, il rimpianto di un vivere comune, del potersi muovere e viaggiare all’estero, di un moderato benessere, e infine della quotidianità; ma ciò che i popoli di quelle terre rivendicano è piuttosto il desiderio (o necessità) di “jugosfera”, cioè di recupero delle relazioni tra le comunità, i popoli e i Paesi che facevano un tempo parte di un unico stato federale: un patrimonio culturale comune profondamente radicato, dalla lingua alla cultura, alla gastronomia, sino alla musica. Si riconosce la necessità di una nuova cooperazione, cercando di eliminare gli ostacoli ideologici che ancora pregiudicano la ristrutturazione delle storiche connessioni economiche nell'area. I problemi riguardano le differenti capacità e possibilità di penetrazione economica, soprattutto per quanto riguarda l’economia slovena e croata, paesi da sempre in competizione. I segnali incoraggianti non mancano, nell'area si sta sempre più ristrutturando un mercato comune, dall’abbattimento delle barriere doganali nel 2002 i grandi oligarchi hanno avviato commerci e imprese trans-regionali. La lotta alle mafie è stata condotta attraverso la collaborazione tra le forze di polizia dei vari stati. Il Consiglio per la cooperazione regionale porta avanti un lavoro di formazione per funzionari, dirigenti e poliziotti di tutti gli stati. E infine, molte infrastrutture, come la rete elettrica e i binari ferroviari, superano i confini.6 Per i “Balcani occidentali" - altro epiteto utilizzato per la regione - questa potrebbe essere la strada che porta verso un processo di integrazione, partendo da quella economica. La crisi del 2009 avrebbe potuto rappresentare un'occasione per recuperare una dimensione regionale utile a rilanciare gli investimenti, ormai in netto calo. Ciò avrebbe permesso di valorizzare i punti di forza tradizionali del mercato regionale, come la facilità di comunicazione e di riconoscibilità dei marchi.7 Processi che pian piano si stanno sviluppando nell’area. E' il versante politico della Jugosfera che implica le maggiori contraddizioni. Ai vertici si sono riscontrati segnali molto importanti, sembra infatti prevalere sempre più una disponibilità al dialogo ed alla collaborazione. Tuttavia esistono ancora grossi ostacoli, come le difficoltà nei rapporti tra 5 “Entering the Yugosphere”, The Economist, 20th August 2009. www.economist.com/node/14258861. 6 “La Jugoslavia non esiste più, ma ora c’è la Jugosfera”, www.internazionale.it/la-jugoslavia-non-esiste-piu-ma-ora-ce- la-jugosfera/. 7 “L’anno della Jugosfera”, www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/L-anno-della-Jugosfera-55855. 8
  • 9. Zagabria e Lubiana, risolte dopo estenuanti trattative, i problemi nei rapporti tra Serbia e Montenegro, ma soprattutto l'ancora delicata situazione in Bosnia Erzegovina e Kosovo. Nonostante le difficoltà, trascendendo l'aspetto più strettamente economico della discussione, e considerando piuttosto gli aspetti socioculturali, bisogna riconoscere i progressi fatti per ridare legittimità al patrimonio culturale comune dei popoli di questi territori. E’ importante che i paesi della Jugosfera continuino su questa linea di collaborazione e cooperazione tra stati, che riconoscano l’importanza della stabilità politica, così da poter puntare a rafforzare la dimensione regionale allo scopo di avere la possibilità di acquisire un ruolo più concreto anche all’interno del mercato comune europeo. Il contesto locale è quindi di primaria importanza per la risoluzione dei problemi dell'area, e solo attraverso la collaborazione nella realtà regionale i paesi della Jugosfera potranno avere un ruolo più rilevante anche all’interno delle dinamiche europee. 9
  • 10. BIBLIOGRAFIA  S. Bianchini, La questione jugoslava, Giunti, Firenze 1999.  R. Hayden, Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Iugoslavia, Maltemi, Roma 2005.  Kreimer, Bosnia et Herzegovina, Post-Conflict Reconstruction, World Bank 2000. SITOGRAFIA  www.economist.com/node/14258861  www.internazionale.it/la-jugoslavia-non-esiste-piu-ma-ora-ce-la-jugosfera/  www.balcanicaucaso.org/aree/Balcani/L-anno-della-Jugosfera-55855  www.eastjournal.net/i-balcani-tra-voglia-di-jugosfera-e-tensioni-irrisolte-mentre-leuropa-sta-aguardare/24451  www.viaggiareibalcani.it/libri/845/jugosfera-e-jugonostalgia.html 10