1. Nascemmo alle Idi di marzo del 1998. Una gran data, non c’è che dire. Non fu un
parto difficile, ma per via del giorno si decise per il cesareo. Celebrazionismo
cronico. Il nome Zibaldino ce lo hanno dato perché hanno subito visto in noi una
vaga e lontana somiglianza con Zibaldone. Le solite baggianate dei genitori. Però è
un bel nome, sempre che non lo banalizzino in Dino. Parliamo a nome di chi ci scrive
e sentiamo di poterlo considerare il nostro primo lettore. È sempre così. Se ne
saranno da un po’ resi conto quelli che usavano sbeffeggiare il prossimo con
l’anatema “fesso chi legge”. Non lo si vede più gran che in giro. Chi scrive è certo un
lettore speciale: vive l’emozione della diretta e della première. Comunemente ci
chiamano pensieri. La moderna alternativa della tastiera, il conforto di un buon
correttore ortografico in linea e la scelta del carattere o, come si è quasi obbligati a
dire, del font, non modificano il nostro comportamento grossolanamente maleducato.
Ancora nessuno ha capito esattamente chi siamo e da dove veniamo. Certo è che
spesso ci affolliamo all’italiana anche se capitiamo in una testa inglese, e ci
spingiamo in malo modo, non di rado copulandoci ad libitum come instancabili
mandrilli. Son gravidi di pensieri i grembi dell’umana gente e noi siamo d’ogni
specie e d’ogni grado: alti e bassi, belli e brutti, buoni e cattivi, ma anche filosofici,
erotici, nefasti, mistici, diabolici, ricorrenti e occulti. A volte usciamo e assumiamo
sostanze (anche stupefacenti), forme, suoni e colori. Il pensiero dominante ha avuto
un onore che a pochi pensieri è toccato, ma anche Va pensiero sull’ali dorate e
perfino il Pensiero dei Pooh o il Pensiero stupendo di Patty Pravo non possono
ritenersi meno fortunati. Siamo tanti. Sì, vien proprio di pensare (ecco un pensiero)
agli spermatozoi. E se ci pensi (ed eccone un altro), pensi anche alla frenesia della
loro corsa. Uscire dal pensatore o raggiungere l’ovulo (anche se non c’è) per il
concepimento è la meta. Pochi ci possono riuscire. Per gli altri, e sono tanti, non ci
sono premi di consolazione né segnalazioni di merito. Hanno perso a pari demerito e
basta. Non ne saprà mai niente nessuno. Così è volta per volta, ma noi viviamo una
volta sola. Quelli delle altre volte a occhio somigliano, ma sono altri, come i pensieri
e gli spermatozoi del giorno dopo. Anche dal punto di vista strettamente linguistico,
tra penna e pene poi non c’è gran differenza e neppure tra cogito e coito. In entrambe
le attività una qualche agitazione per produrre è d’obbligo. Entrambe le produzioni si
presentano allo stato fluido e chi si ritrova al mondo si deve assumere la
responsabilità di esistere, anche se non l’ha chiesto. E poi, si sa, tu puoi decidere che
fare di noi, ma non puoi decidere cosa pensare. Neanche noi possiamo decidere per
te, né abbiamo mai saputo chi prende queste decisioni. Quando poi la carta accoglie i
vincitori sulle righe che attendono come tanti podi, quelli appena scritti vivono attimi
di terrore. L’eutanasia della gomma da cancellare è quasi scomparsa. Com’era dolce e
morbida quella della matita e anche quella della penna non era poi così cattiva. E
anche quando ci cancellavano ben bene, qualcosa di noi, quasi l’anima nostra, un po’
rimaneva nelle fibre della carta. Poi vennero armi chimiche micidiali e puzzolenti
come la scolorina e sepolture senza croce e senza epigrafe come l’infamante
bianchetto. Non sempre hanno cura di ucciderci. Molti di noi vengono trafitti dalla
stessa penna che ci ha generati. I più fortunati sono trafitti da una lancia che divide
2. più o meno a metà, all’altezza dell’addome o anche proprio lì, in quei punti tanto cari,
intorno ai quali voi stessi impostate gran parte della vostra esistenza. Spesso la lancia
ci passa più volte, ferendoci atrocemente e condannandoci ad una vita tremenda.
Anche il suicidio ci è negato. Quelli che sopravvivono, un po’ di paura la conservano
sempre. I pensieri di dopo possono arrivare allo sterminio. Quegli altri poveretti
invece devono vedersela con gli spermicidi, con la nascita in prigioni anguste e
soffocanti, con la caduta in ambienti ostili e sconosciuti.
Nostro padre a quindici anni distrusse un romanzo di cui ora resta il titolo Delirium
amoris, un po’ emblematico per la sua sorte, e poche pagine sopravvissute in un altro
quaderno, ora dichiarato zona archeologica. In quel caso l’arma fu il fuoco. Il
fattaccio avvenne in cucina sotto gli occhi increduli di suo fratello. Alcuni dei
pensieri scritti da Virgilio, complessivamente chiamati Eneide, furono condannati a
morte dall’autore in una richiesta che egli fece in fin vita a chi lo assisteva e che, per
fortuna, egli non esaudì. Chi poi ha letto il pensiero del cardinale Richelieu sulla
possibilità intrinseca di impiccare anche l’uomo più onesto in base solo ad un suo
pensiero scritto di sei righi, prima di metter nero su bianco, tituba un po’ e poi si
rasserena pensando che, tanto, l’impiccagione non c’è più; ma poi pensa ancora che
quello è un modo di dire e che insomma, se ci scrivi, scripta manent e un processo
comunque ti tocca. E qui non c’è prescrizione. Quando muori, quel che il tuo pene e
la tua penna hanno lasciato ti sopravvive. Ed è più facile che si estingua la genealogia
del tuo pene che non quella della tua penna. Chi sa più nulla dei discendenti di
Orazio? Ma lui stesso si rese conto di quel che lasciava la sua penna e aggiunse:
“Exegi monumentum aere perennius” [Ho edificato un monumento più duraturo del
bronzo]. Aveva ragione.