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8
S U P E R
L E S T O R I E
A L R A L L E N TAT O R E
8
S U P E R
L E S T O R I E
A L R A L L E N TAT O R E
17 novembre 2018
di Giampaolo Visetti, fotografie di Michele Lapini
Il 29 ottobre è un giorno che ha cambiato la storia delle nostre montagne: 12 milioni di alberi
sono stati spezzati da un vento senza precedenti. Nell’intero Nordest l’ultima ondata di maltempo
ha stravolto il territorio. Il segno di come il riscaldamento globale stia modificando la vita di tutti
LA TERRA
GUASTA
LE FERITE DEL CLIMA
Paola
Favero
Forestale e scrittrice
Colonnello dei
Carabinieri forestali di
Vittorio Veneto, chiede
“due azioni: riportare
nella natura le guardie
forestali oggi confinate
negli uffici e introdurre
nelle scuole la cultura
dell’ambiente”
“Cent’anni fa la Grande Guerra
finiva, e le foreste ricominciavano
a crescere sul corpo di 36 milioni
di caduti. Cent’anni dopo una
nuova sciagura che sembra
riprodurre il disastro di allora”
Così Paolo Rumiz introduce
lo speciale concerto tenuto tra
gli alberi sradicati da un’orchestra
di violoncelli guidati da Mario
Brunello, in video su Repubblica.it
Illustrazioni di Marta Signori
I protagonisti
Il sindaco che cerca di reagire dopo
il disastro. Il funzionario che vuole salvare
almeno il valore del legno degli alberi
abbattuti. Il forestale che discute di “aprire
un’epoca climatica nuova”. E l’alpinista
che chiede alla politica di mettere
al primo posto le catastrofi ambientali:
“La gente sta scappando dalla montagna,
ma le foreste sono innocenti”
Paolo
Kovatsch
Resp. foreste Trentino
Andrea
De Bernardin
Sindaco Rocca Pietore
“Il valore degli alberi
lasciati lì il prossimo
autunno crollerà da 100
a 60 euro al metro
cubo. C’è a terra un
patrimonio di quasi 800
milioni di euro. Perciò
bisogna andare oltre
burocrazia e ideologie”
“La ricostruzione – dice
– ha bisogno di mani, ma
anche di cervelli e di
colletti bianchi. La paura
è che, calata l’emozione
e spenti i riflettori, la
montagna venga
riabbandonata a se
stessa, come sempre”
Mauro
Corona
Boscaiolo e scrittore
Reinhold
Messner
Alpinista e scrittore
Gianni
Rigoni Stern
Forestale
“Con la fine della
primavera – dice – se
tronchi e fronde
saranno ancora qui, le
Alpi diventeranno una
ciclopica pira ardente.
Sarebbe la fine, non
solo economica e non
solo dei montanari”
“Mi inquieta un potere
che chiude gli occhi
davanti all’evidenza di
una montagna
abbandonata, della
terra malata. Occuparsi
di questo dovrebbe
essere l’unico assillo
della politica”
“Prendersela con chi
ha rimboschito in
passato è facile, più
difficile aprire in modo
corretto un’epoca
climatica nuova.
Dobbiamo avere
l’umiltà di studiare
caso per caso”
54 Sabato 17 Novembre 2018 SUPER 8laRepubblica
I cerchi degli alberi, dopo tanti anni, sulle Alpi si sono
interrotti. L’età di una pianta, dal primo all’ultimo
istante, resta incisa per sempre nel suo cuore di legno.
Solo quando le foglie smettono di respirare, ognuno
può conoscerla. Le colonne delle foreste sono gli unici
organismi a raccontare senza segreti il corso essenziale
della vita. Chi ha meno difficoltà, crescendo, può
tracciare circonferenze più larghe. Chi fatica a restare
in piedi, aggrappandosi alla terra, lascia trame più
strette. Adesso questi milioni di romanzi vegetali,
scritti con la clorofilla e custoditi nell’anima dei
tronchi, si sono aperti e anche gli animali, assieme agli
esseri umani e alle stelle, li possono leggere. La notte
che ha preso i boschi, li ha alzati con il vento e ha
rovesciato gli alberi sulla testa dell’umanità che non li
conosce più da molto tempo, ha creato una biblioteca
infinita che, prima di ritornare polvere grazie agli
insetti e alle accette, chiede di essere letta. È il
racconto corale di una natura malata, tanto da non
riuscire più a reggersi in piedi.
Gli alberi, nel Nordest del versante meridionale delle
Dolomiti, come accade ai vecchi che scoprono di non
riuscire più a restare nel mondo che li ha visti
bambini, si sono distesi vergognandosi di rivelare la
propria estrema fragilità. Due giorni prima a Venezia
si era sollevato il mare. Il giorno prima nelle pianure e
lungo le valli del Triveneto sono scappati i fiumi e i
torrenti. Poche ore prima sono precipitate le frane,
antiche e nuove, per ricordare dove scorrono le vene
della roccia.
I boschi hanno ceduto per ultimi, il rombo dei loro
scoppi è stato coperto dalla pioggia e protetto dal buio.
La fine di questa eroica resistenza però ora è davanti ai
nostri occhi, che non possono restare chiusi. Tutto
può essere pulito, riparato, ricostruito: sta
succedendo. La stessa foresta invece non può
rinascere. Ci siamo spinti oltre questo invalicabile
confine, dentro un universo nuovo. Non possiamo più
camminare come prima su un prato, respirare tra i
fiori: è un dolore, lo sentiamo, troppo chiaro per
continuare a vivere come prima.
dal nostro inviato Giampaolo Visetti VAL VISDENDE (SANTO STEFANO DI CADORE)
continua→
L
e foreste, misteriose esacre, sono le coperte che scalda-
no le montagne. Crescono silenziosamente e insieme,
per non perdere l’acqua che le disseta. Sanno come fa-
re il legno che le difende e da millenni non sbagliano
mai. Ogni albero invece, quando è finito, resta solo e
improvvisamente muore a modo suo. Smette di puntare verso il
cielo e si distende, per ritornare lentamente nella terra, aiutato da-
gli insetti. Si raffredda dentro, come ognuno di noi. La sua linfa si
secca.Anche sulleAlpi Carniche è statosempre così.Sempre, tran-
ne la notte di lunedì 29 ottobre 2018.
A Piè della Costa, sotto la cima del Peralba in alta Val Visdende,
il bosco spontaneo di abete rosso, cresciuto in oltre due secoli, è
esploso da fresco e in venti minuti. A quota 1.670, sopra malga An-
tola, le raffiche di vento hanno toccato i 217,3 chilometri all’ora: la
stessa velocità registrata alle 21.34 dalla stazione metereologica di
Passo Rolle, tra Veneto e Trentino. Il limite non è più la memoria
umana: nessun archivio botanico, in Europa, documenta un cata-
clisma simile. Per la natura e per la specie umana è «una prima vol-
ta». Nessuno adesso sa prevedere il futuro.
Conifere e latifoglie, sul versante sud dell’arco alpino di Norde-
st, non sono fisiologicamente programmate per resistere a un ura-
gano soffiato con la forza che solo un oceano del Sudest asiatico
possiede. «Guarda queste radici — dice Jerry De Zolt, finanziere,
uno dei quindici abitanti rimasti nella valle amata da papa Wojtyla
e il primo a dare l’allarme — Sono tranciate di netto, non strappa-
te. I ceppi guardano a Oriente,non verso Nord,come dopo le trom-
be d’aria di un temporale. L’ecosistema montano ci parla esibendo
un’imprevedibile novità. Sembra dire: andate via». Fino a Pian del
Polo, tra le sorgenti del fiume Cordevole e del torrente Londo, vi-
vevano 150mila alberi fitti e coetanei. Ora sono a terra, uno sopra
l’altro. Gli schianti hanno scavato crateri profondi cinque metri.
Solo ventidue tronchi, senza più cimale, svettano come sentinelle
ferite su una distesa profumata di rami sfibrati. È un tappeto mor-
bido e sotto i piedi oscilla sopra i vuoti che ha creato, come una pa-
lafitta dopo la tempesta. Il sole asciuga il muschio rovesciato e aiu-
ta i ragni a tessere le trappole per gli ultimi moscerini di un novem-
bre troppo caldo. Non c’è nessun altro: la vita però, sotto altre for-
memicroscopiche, riparte. «Iboscaioli —dice Dino De Zolt, conta-
dino detto “Gasperina” — non si orientano più. Conoscevano que-
sti luoghi come il filo della loro lama, adesso sbagliano di chilome-
tri.Pensano di trovarsi su un versante, invece camminano su quel-
lo opposto. Passata quella notte, siamo usciti di casa. Albeggiava
quando abbiamo scoperto un mondo nuovo. Sulle Alpi, trala Lom-
bardia e il Friuli, ormai abita un popolo di estranei».
Il problema, sulle Dolomiti, è che il vento non sa fare le curve,
che la pioggia pesa e che insieme sono più forti della roccia. «Quel-
la notte» ha sconvolto il profilo delle montagne per 390 chilome-
tri, tra la Valtellina e la Val Saisera, sopra Tarvisio. I 700 millimetri
di acqua sono caduti in poche ore dopodue mesi di siccità: tre gior-
ni prima sulle pareti esposte al sole, a quota duemila, l’aria era a 30
gradi, come in estate. Le raffiche di scirocco, a una media di 180
chilometri all’ora, sono salite dalla pianura. Si sono infilate nelle
valli sempre più strette, hanno sbattuto contro il muro di dolomia
e ormai imprigionate sono rimbalzate verso il basso, sopra boschi,
torrenti, massi, ghiaioni e pendii erbosi gonfi di pioggia. La pres-
sione, scatenata dal contrasto tra il caldo del vento mediterraneo e
il freddo della prima neve caduta solo sulle vette più alte, ha spri-
gionato una violenza insostenibile. Le ultime stime, grazie ai satel-
liti, quantificano il prezzo del guasto in 8 milioni di metri cubi di
piante. Lungo i crinali un rasoio ha tranciato 12 milioni di alberi,
precipitati verso i paesi di fondovalle, nei fiumi e nei laghi. «Una
pianta matura — dice Luigi Casanova, boscaiolo e presidente di
Mountain Wilderness — da asciutta pesa 16 quintali. Quando è ba-
gnata arriva a 35. Le radici, scosse dalla bufera e cresciute per op-
porsi a urti solitamente contrari, in un terreno fradicio e non gela-
tonon potevano più sostenerla. Sulle montagne trivenete siamo ri-
masti sommersi sotto un peso di 420 milioni di quintali di alberi
gonfi di acqua, scagliati contemporaneamente a centinaia di me-
tri dal ceppo. È stato un bombardamento atomico, ancora non ab-
biamo focalizzato il disastro». La terra ha tremato tra le 18.30 e le
02.30, scossa da un sisma infinito. Lo scoppio dell’aria ha trasfor-
mato l’acqua in fango e le foreste in radure, fondendo gli elementi
primordiali per preparare il campo al fuoco.
Una nuova lotta per la vita
«Con la fine della primavera — dice Mauro Corona, boscaiolo e
scultore, prima che scrittore — se tronchi e fronde saranno anco-
ra qui, le Alpi diventeranno una ciclopica pira, infetta e ardente.
Il nostro tesoro sono i boschi, se cadono e bruciano è come se una
banca lasciasse incenerire le sue banconote. Sarebbe la fine, non
solo economica e non solo dei montanari: dobbiamo capire che
qui, per tutti, è cominciata una lotta diversa per la vita». Non so-
no venuti giù solo i pecci, resi più vulnerabili dalla superficialità
delle radici e dagli aghi fitti come la trama di una vela. Contro ca-
se e pali della luce, sopra tremila chilometri di strade franate, su
SUPER 8 Sabato 17 Novembre 2018 55laRepubblica
56 Sabato 17 Novembre 2018 SUPER 8laRepubblica
Cencenighe Agordino
I danni causati nel paese bellunese dalla
bomba di acqua e vento, che ha fatto franare
argini e sommerso la statale 203
L’ondata di maltempo della fine di ottobre ha
lasciato ferite permanenti. Ecco come è cambiato
il territorio, con il confronto tra prima e dopo
La terra ferita prima e dopo:
immagini dalla devastazione
centinaia di acquedotti e migliaia di animali atterriti, sono finiti
larici e cirmoli, pini neri e silvestri, faggi e tigli, aceri e ontani, car-
pini e querce, saliconi e maggiociondoli, frassini e sorbi, noccioli
e carpini, betulle e ciliegi selvatici. Questa volta nemmeno le es-
senze più adatte, dotate di pompe fittonanti e fogliame caduco,
dopo secoli hanno resistito.
«La priorità — dice Dino Zardi, fisico e coordinatore a Trento del
primo corso di laurea in meteorologia — è coprire prima dell’in-
verno le case scoperchiate, arginare i torrenti esondati, consoli-
dare strade e valli franate, assicurare acqua e luce a centinaia di
paesi, prelevare il legname prima che marcisca. Il fronte cruciale
però è restituire all’ambiente l’equilibrio smarrito a livello globa-
le. Anidride carbonica, metano e altri gas serra continuano ad au-
mentare. Dietro tornado e precipitazioni torrenziali sulle Alpi c’è
il vertiginoso sconvolgimento del clima surriscaldato, che produ-
ce conseguenze vastissime su tutti gli ecosistemi. La politica, do-
po una catastrofe, ha il dovere di sostenere la ricostruzione: ma la
sua sfida al futuro è promuovere la riduzione dei fattori umani
che accelerano la fusione di una miscela atmosferica non favore-
vole alle forme biologiche che conosciamo. Non possiamo più na-
sconderci dietro i problemi: servirà un secolo, ma se vogliamo
provare a esistere ancora dobbiamo cambiare vita subito».
Il ritorno della grande fame
Nell’ex scuola di Piole, uno dei 96 villaggi sparsi di Gosaldo, nel
Parco nazionale delle Dolomiti bellunesi, Bruna Maschio non sa
che lo spartiacque di «quella notte» ha posto collettivamente il
problema della sopravvivenza. Sa però che, a 86 anni, per la pri-
ma volta ha avuto «voglia di morire». È rimasta l’unica abitante di
un paese che, quando nelle stalle c’erano le mucche e i pascoli ve-
nivano falciati a mano tre volte tra giugno e settembre, contava
350 persone. Emigrata in Svizzera e tornata «sotto il mio albero»,
dorme in quella che è stata la sua classe alle elementari. La cucina
a legna è nell’ex studio della maestra. Un abete e un larice si sono
abbattuti sul sentiero che sale alla sua porta, la faggeta secolare
ha coperto un torrente invisibile di cui il nonno non le aveva par-
lato. Una lamiera arrugginita, stesa sul tetto di una casa affacciata
sul Piz di Sagròn, dopo un volo di duecento metri si è accartoccia-
ta contro il palo della luce piantato in mezzo alle verze e alle dalie
del suo orto. «Io alle 17 — dice — bevo la minestra e vado a dormi-
re. Credevo di sognare: alberi che scoppiavano, la montagna che
si apriva per inghiottire il letto dove è morta mia mamma. Mi so-
no svegliata e c’era silenzio. Mancava la luce e non veniva acqua:
niente di grave, ho le candele e la fontana. Ho capito che era suc-
cesso qualcosa di irreparabile perché tre giorni dopo ancora non
ho sentito arrivare il furgone da cui, una volta ogni due settima-
ne, compro il cibo che mi serve. Sono sempre scesa in paese a pie-
di, per fare la spesa, due ore di passeggiata. Adesso però mi man-
cano le gambe: ho pensato che se qui non arriva più nessuno,
piuttosto che andare via mi lascio morire di fame». Per giorni ab-
biamo parlato della corrente elettrica e delle linee telefoniche in-
terrotte, dei ponti, delle strade e degli acquedotti crollati. Proble-
mi essenziali, ma sulle «Dolomiti isolate tra le foreste crollate» l’e-
mergenza immediata non è stata la connessione con la civiltà eco-
nomica e sociale del mondo. La lezione che arriva dai villaggi,
dall’Agordino al Comelico, dal Gruppo di Brenta alla Carnia, è
che la pioggia e il vento hanno riproposto con semplicità l’indivi-
duale bisogno atavico di mangiare, di bere e di ripararsi dal gelo.
Chi è giovane, fino all’ultimo lunedì di ottobre, non lo sapeva.
All’inizio se l’è presa con il cellulare muto e con il computer spen-
to. Poi gli è venuta fame e ha scoperto che il gas non si accendeva,
come la caldaia a pellet del riscaldamento e il motore del frigorife-
ro.
Gli alberi motore di ogni cosa
«Gli alberi — dice Denis Sorarù Pezzè — si portano via tutto. So-
no immobili, ma qui muovono ogni cosa. Se mancano, muori di fa-
me e non passi l’inverno. La prima cosa è piantare i boschi scom-
parsi». Operatore in una cooperativa di ragazzi ad Alleghe, abita a
Caracoi Zimai, villaggio di cinque famiglie tra i 27 borghi di Roc-
ca Pietore, sotto la Marmolada e davanti al Civetta. Qui, nel Sette-
cento, la Serenissima repubblica di Venezia confinò i prigionieri
turchi, ridotti a taglialegna. Morti gli schiavi, strappati al quartie-
re di Karakoy a Istanbul, nessuno ha più coltivato la foresta. Ci
hanno infine pensato la pioggia e lo scirocco ma l’operazione che
Graziosa Fontanive definisce «fare pulizia» si è portata via anche
cinque tetti su dodici. A saltare sono stati quelli in lamiera, più
leggeri. Gli antichi, in scandole di larice, hanno lasciato filtrare le
raffiche e hanno tenuto. Le coperture in tegole, pesanti e non tra-
dizionali, sono collassate, o hanno scagliato i coppi lontano, semi-
nandoli sui prati. I masi adesso, come a Bramezza dove in 9 case e
13 fienili vivono solo Costante e il suo gatto, sono protetti con fo-
gli impermeabili. Non c’è tempo, prima che fiocchi vanno coper-
ti. «Un tetto medio in lamiera — dice Remis Triches, lattoniere di
Taibon — pesa 800 chili e costa 7.500 euro. Cinque uomini, in
una settimana, lo fanno. Se non puoi permetterti le scandole, me-
glio la lamiera che vola via, rispetto alle tegole che ti cadono sulla
testa. Il problema è che alla gente mancano i soldi». Da quasi ven-
ti giorni, con il padre Sergio, lavora giorno e notte sulle case sco-
perchiate nell’Agordino. «Intanto si fa — dice — non si aspetta. Se
non ci pagano entro l’estate, chiudiamo e bon». Finirà così anche
per gli alberghi finiti sott’acqua ad Alleghe. Sul lago una famiglia
di cigni bianchi nuota fra i tronchi rossi dei larici, rovesciati nel la-
go e spinti a fare diga sotto le arcate del Ponte dei Tedeschi, tra il
fiume Cordevole e il torrente Zunaia. È tornata la pace, ma lunedì
29 ottobre è scoppiata la guerra. Fuori dagli hotel “Adriana”, “Eu-
ropa” e “Savoia”, uomini in canottiera caricano badilate di mace-
rie su trattori e camion dei volontari della Protezione civile. «In
un’ora — dice Matteo De Toni — l’acqua è salita di un metro e ven-
ti centimetri. È stato peggio che nel 1966, per risparmiare i filtri
della centrale elettrica ci hanno scaricato il lago nelle camere.
Tra due settimane avremmo dovuto aprire per la stagione sciisti-
ca, ma nessun turista chiama più per prenotare».
Ai piedi della frana del Piz, staccatasi nel 1771, il vento ha abbat-
tuto anche lo storico abete di oltre trecento anni. Dopo la Prima
guerra mondiale, per non farlo crescere ancora, qualcuno gli ave-
va appoggiato l’elmetto di un soldato del Regno d’Italia sulla ci-
ma. La pianta, indifferente al copricapo e all’imposto profilo belli-
co, per un secolo ha seguitato a salire verso le nuvole che scaval-
cano le montagne. Ha resistito ad altri eserciti meccanici scesi dal
Nord, cedendo solo alla beffa di un nemico naturale che lo ha sor-
preso dal Sud. Così, questa mattina, la segheria “Theurl” di Klan-
genfurt, in Carinzia fa a fette il suo tronco color crema da un me-
tro e trenta centimetri a petto d’uomo. In un turbine di trucioli
profumati l’antico peccio viene caricato sul bilico diretto oltre il
confine austriaco e Ursula Manfroi lo saluta agitando un fazzolet-
to rosa, come fosse l’ultimo fratello caduto in battaglia. Nelle Do-
lomiti, oggi, l’incubo è il legname. In una notte è finita a terra la
quantità che i prelievi boschivi dell’intero arco alpino program-
mano in cinque anni e che il mercato nazionale assorbe in un ven-
tennio. Le piante giacciono in luoghi scomodi, o irraggiungibili.
La maggioranza non è segata di netto, come quando il forestale la
martella. I tronchi di abete, larice e faggio sono stati stressati dal
vento e della torsione di schianti sbagliati. Per recuperarli, nelle
cinque regioni sconvolte, occorre un tempo che l’economia non
concede. Servono soprattutto 4mila boscaioli e altrettante moto-
seghe, il doppio dell’esercito reclutabile per tre anni sul versante
italiano delle Alpi. Lungo le strade franate e attraverso le vie stret-
te dei paesi devono poi salire migliaia di tir dotati di rimorchio.
Un metro cubo di legname non stagionato pesa tra 7 e 8 quintali,
un bilico a pieno carico può spostarne 36. Per tre anni oltre
200mila giganti saranno incolonnati sui passi e nelle valli, dove
la superficie delle segherie non basta per depositare la foreste
cancellate. È una sfida epocale, anche logistica e senza boscaioli
assunti all’estero, in Romania, Polonia, Slovacchia, Austria, Slove-
nia e Germania, è destinata ad essere perduta. «A Paneveggio l’av-
vicinarsi dell’inverno — dice Paolo Kovatsch, responsabile delle
foreste demaniali del Trentino — ci aiuta. Il freddo ferma i paras-
siti, rallenta le muffe e rinvia la crescita dei funghi. Le piante si
conservano, come in una sconfinata cella frigo. Abbiamo quattro
mesi per aprire le piste forestali e preparare il campo di prelievo.
Il problema è che la nostra segheria più grande lavora al massimo
38mila metri cubi di legname all’anno, una goccia nel mare. Il va-
lore degli alberi lasciati lì, il prossimo autunno, crollerà da 100 a
60 euro al metro cubo. Raccogliere gli schianti costa fino a 55 eu-
ro al metro cubo. Sarà difficile trovare imprese boschive disposte
a lavorare sul filo del deficit. Nell’area del disastro c’è a terra un
patrimonio legnatico di quasi 800 milioni di euro, pronto a ridur-
si a 400 se non saremo tempestivi. Per questo bisogna andare ol-
tre burocrazia e ideologie: servono boscaioli, patentini per il ta-
glio riconosciuti da tutti, mezzi meccanici, segherie e ditte di di-
stribuzione comuni per affrontare insieme un mercato già pron-
to alla speculazione».
L’alba di una nuova era
Da Rocca Pietore a Livinallongo, da Sappada al Cansiglio, da San-
to Stefano di Cadore a Moena, da Tarvisio a Santa Caterina Valfur-
va, decine di paesi temono di perdere i fondi con cui fino a oggi
hanno finanziato scuole, case di riposo, trasporti, lavori pubblici
e manutenzione della montagna. Dal Medioevo l’istituto delle
“Regole” ha fatto crescere l’autogoverno del territorio alpino. An-
cora una volta, è dal legno e dall’acqua che è nata l’autonomia. I
nobili e la Chiesa, per non lasciar morire di fame e di freddo la
gente, hanno concesso l’uso di pascoli, foreste e sorgenti, organiz-
zandolo in modo comunitario. La natura ora ha colpito proprio
questo atavico patrimonio collettivo, senza il quale i Comuni ri-
schiano di non pagare nemmeno gli stipendi. «La ricostruzione
— dice Andrea De Bernardin, sindaco di Rocca Pietore — ha biso-
gno di mani, ma anche di cervelli e di colletti bianchi. Nei piccoli
paesi gli impiegati sono contati, spesso privi delle competenze ne-
cessarie per affrontare un’emergenza senza precedenti. Dobbia-
mo accelerare delibere e appalti, documentare danni e governa-
re finanziamenti, riflettere su una svolta urbanistica radicale. La
paura è che, calata l’emozione e spenti i riflettori, la montagna
Arabba (Belluno)
La frana nella frazione di Livinallongo ai piedi
del Passo Pordoi. Si è lavorato duro ma
l’apertura degli alberghi sarà garantita
La diga del Comelico (Belluno)
Sopra, la diga com’era prima del 29 ottobre
(foto di Giorgio Ferretto). Sotto, appare quasi
sommersa da una distesa di alberi e fango
continua→
SUPER 8 Sabato 17 Novembre 2018 57laRepubblica
Comeglians (Udine)
Il fiume Degano a Comeglians: dopo le piogge
fortissime del 29 ottobre è straripato e ha
fatto crollare un ponte (foto sotto)
L’ondata di maltempo della fine di ottobre ha
lasciato ferite permanenti. Ecco come è cambiato
il territorio, con il confronto tra prima e dopo
La terra ferita prima e dopo:
immagini dalla devastazione
venga riabbandonata a se stessa, come sempre».
Sulla piana di Marcesina, sopra l’altopiano di Asiago, Giovanni
Rigoni Stern cammina così tra i pecci piantati alla fine della Gran-
de guerra, dove da bambino lo portava suo padre Mario. Quante
volte è salito qui, da forestale, nei posti della Storia di Tönle e del
Bosco degli urogalli, tra le abetaie ora ripopolate dai lupi che at-
torno a Forte Lisser e alle trincee dovevano far dimenticare i cra-
teri aperti dalle granate austroungariche. «Tra il 1925 e il 1935 —
dice — Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, fece piantare 10 mi-
lioni di abeti rossi. In vivaio crescono prima, gli impianti giovani
attecchiscono meglio, il legname d’alta quota è di qualità superio-
re. Il vento e la pioggia si sono portati via fino all’80 per cento del-
le foreste, ma non ha una ragione scientifica mettere sotto accusa
un’essenza. In un secolo sono cambiate le condizioni, dalle ore di
irraggiamento solare al tasso di umidità, dalla temperatura media
alla fertilità dei costoni non più pascolati. Spesso, sopra una more-
na, non c’è più di una spanna di terra. Prendersela con chi ha rim-
boschito in un’era botanica conclusa è facile, più difficile aprire
in modo corretto un’epoca climatica nuova. Dobbiamo avere la
pazienza e l’umiltà di studiare caso per caso, bosco per bosco, ver-
sante per versante, senza paura della biodiversità, rinunciando a
generare foreste coeve e riducendo la densità degli innesti. I ve-
getali sono come gli esseri umani: una famiglia, per essere stabile
e completa, ha bisogno di caratteri diversi, di spazio e di mettere
in relazione i nonni con i nipoti». Più difficile, oltre che presun-
tuoso, ambire a «rimettere a posto le montagne», come prometto-
no i politici in tour aereo sopra le Dolomiti, a bordo degli elicotte-
ri che decollano dalla laguna di Venezia.
Una geografia da ridisegnare
Ogni giorno, calzati gli scarponi, a terra si scopre invece lo scena-
rio nuovo di una geografia da ridisegnare. Alcune valli del Primie-
ro e del Lagorai sono state chiuse dalla slavine, altre nell’Alpago
sono state aperte da torrenti sgorgati da falde sotterranee. Gli af-
fluenti che nell’Alto Cadore formano le sorgenti del Piave, sul
confine tra Veneto, Austria e Friuli, hanno riempito invasi ignoti
attorno al lago di Misurina, ancora inaccessibile. In Val di Sole
una frana antica e periodica ha riconquistato il conoide accumu-
lato dai detriti del Rio Rotiàn, seppellendo un campeggio lasciato
costruire a Dimaro, all’inizio della strada percorsa dall’imperato-
re Francesco Giuseppe per raggiungere Madonna di Campiglio.
La Val Cimoliana, sopra Erto e a lato della diga del Vajont, è stata
colmata da massi enormi, precipitati dagli Spalti di Toro. In Val di
Fiemme, come attorno al lago di Carezza, in Alta Pusteria e tra le
Dolomiti di Sesto, le foreste abbattute sono così vaste che i crinali
svelano malghe e rifugi anche a chi guarda dai fondovalle. Sopra i
grovigli ancora umidi volano stormi neri di corvi imperiali, attrat-
ti dalle carogne di cervi e caprioli, schiacciati sotto le fustaie. Tra
Valdaora, Monguelfo e il passo di Monte Croce, tra Moso e il Co-
melico, gli alberi si cippano sul posto, a bordo strada, e il combu-
stibile parte direttamente per le centrali a biomassa di tutta Italia.
Nelle segherie di confine, dalla “Pircher” di Dobbiaco alla “Dori-
guzzo” di San Nicolò sotto Padole, le barriere di tronchi e di fusti
spezzati di giovani piante sono già più alte delle cipolle in rame
dei campanili. Sandro Soratroi, forestale e membro del Soccorso
alpino di Arabba, assieme ad altri volontari sega le migliaia di al-
beri che hanno travolto i sentieri escursionistici tra Colle Santa
Lucia e Livinallongo. «Anche per chi cammina — dice — l’univer-
so dolomitico è cambiato per sempre. La vecchie mappe sono su-
perate, assieme ad altimetrie e tempi di percorrenza dei tracciati.
Dalle nebbie emergono panorami mai visti. È come se all’oceano
una tempesta avesse rubato le onde». Questi, prima che il magma
bollente li spingesse in alto plasmando le montagne e formando i
ghiacciai, sono stati davvero fondali marini. Solo adesso, dopo
che la natura si è concessa uno sbadiglio educato, chi ha perduto
la casa, un tetto, la strada o il bosco dell’infanzia realizza all’im-
provviso la propria, irrilevante dimensione. Ognuno lavora, per
rimarginare le ferite o per salvare la stagione dello sci, contempo-
ranea vacca sacra da cui si munge il latte che nutre tutti. Il cuore
però non è più quello di prima.
La colonna sonora della vita
«Nemmeno il mio — dice il re degli Ottomila Reinhold Messner
tra i larici secolari sradicati a Castel Juval, in Val Venosta — per-
ché so che gli sconvolgimenti ambientali sono all’inizio e che si ri-
petono sempre più spesso. Il mondo non finisce con gli emenda-
menti alla finanziaria, con qualche decina di milioni scovati nelle
pieghe del bilancio e annunciati da politici travestiti da pompieri
per un’ora. Dobbiamo decidere, agire, imboccare strade corag-
giose. Mentre un uragano si infila nelle Dolomiti, la Giordania vie-
ne allagata e la California incenerita. Serve altro per capire che
nell’atmosfera sta succedendo qualcosa che ci vede tra i protago-
nisti, che il problema non sono i migranti, ma la globalizzazione
degli eventi catastrofici? Il mio cuore non è più quello di prima
non perché ora ho paura del vento che fischia, che invece amo
sin da bambino: a inquietarmi è un potere che chiude gli occhi da-
vanti all’evidenza di una montagna abbandonata, della vita che fi-
nisce, della terra malata. Occuparsi di questo dovrebbe essere l’u-
nico assillo della politica, la ragione che oggi la legittima: la gente
qui sta scappando, ma le foreste sono innocenti». Per questo, tra
le Pale di San Martino, fa impressione prendere atto che al tra-
monto commerciale della musica classica desti tanta emozione
popolare l’idea che il vento abbia preteso anche la sua quota
dell’abetaia da risonanza, miniera dei violini settecenteschi eredi-
tati dal liutaio Stradivari. A malga Juribrutto centinaia di persone
da giorni salgono a piedi da passo San Pellegrino e scavalcano in
silenzio i tronchi dell’armonia, come una processione in onore di
un defunto. L’anima più vecchia di questa foresta straordinaria
in realtà è ancora in piedi e pronta a cantare. Chi continua ad arri-
vare qui per un funerale assume così l’espressione biblica di una
pia donna che abbia visto un Lazzaro risorto: la musica che non si
ascolta, è evidente, conta ancor più dei boschi che non si attraver-
sano e che si onorano finché restano lontani. «Ma è da questa sor-
prendente commozione sociale per la materia prima della colon-
na sonora della vita sulla terra — dice Paola Favero, colonnello
dei Carabinieri forestali di Vittorio Veneto e scrittrice — che nel
Paese dei condoni e degli abusi possiamo ripartire. Il passaggio
da compiere è tra la selvicoltura economica e quella naturalisti-
ca. Sui versati più ripidi, ad esempio, gli alberi caduti non vanno
rimossi subito. Verranno attaccati dai coleotteri, perderanno va-
lore, ma salveranno case e paesi dalle valanghe di neve. Se in un
sistema idrogeologico sconvolto l’acqua scende a valle più velo-
cemente perché il terreno viene pulito per forzare la ricrescita,
saremo travolti da frane e piene. Ricostruire l’ambiente alpino,
questa volta, significa cambiare le nostre azioni. Me ne vengono
in mente due concrete. Riportare ogni giorno nella natura le
guardie del Corpo forestale dello Stato, decimate e confinate ne-
gli uffici. Introdurre nelle scuole la cultura dell’ambiente. È incre-
dibile: la resilienza degli ecosistemi viene superata e nessun do-
cente è tenuto a insegnare ai ragazzi perché».
La Val di Sella, sopra Borgo Valsugana, è una lezione esempla-
re. La chiesetta della Madonna della neve è stata scoperchiata. I
pali in cemento armato della linea elettrica sono stati spezzati.
Una cavalla è stata uccisa da un larice, cadutole sulla schiena do-
po due giorni, da un traliccio piegato. Il museo a cielo aperto di
ArteNatura, fondato nel 1986 e che raccoglie sessanta opere li-
gnee dei maggiori artisti e architetti di tutto il mondo, è stato par-
zialmente distrutto. Il sentiero tra Villa Strobele e Malga Costa,
sotto il monte Armentera, è scomparso sotto cumuli di pini e fag-
gi sradicati. La strada che sale dal fiume Brenta al torrente Mog-
gio, vicino alla casa dove è morto Alcide De Gasperi, è morsicata
da decine di frane, solcate da rivi fangosi ora coperti con teli di ny-
lon. Dal ‘500, secolo dei primi registri ecclesiastici dedicati agli
eventi atmosferici per fini rurali, non c’è traccia di un evento pa-
ragonabile. A salvarsi, in mezzo a un prato, solo una quercia mae-
stosa di 700 anni. «Dobbiamo accettarlo — dice Giacomo Bian-
chi, presidente di Arte Sella — ai segni naturali lasciati dal tempo
dedichiamo la vita. Accettarlo non significa però restare passivi,
o rifugiarsi nel fatalismo. Lasceremo le tracce della notte d’infer-
no a cui nemmeno le montagne hanno potuto opporsi. Ma con la
forza della creazione lotteremo per raccogliere il messaggio del
vento, venuto per avvisarci che siamo in pericolo, forse per l’ulti-
ma volta».
La montagna che cerca suo figlio
Salendo la valle sotto la Croda Grande, che da Rivamonte condu-
ce al villaggio di Digoman, migliaia di faggi hanno trascinato an-
che i noccioli sulla strada e giù, fino al letto del torrente Domado-
re. Si transita a stento, tagliando in due una foresta trasformata in
una legnaia. Sulle foglie gialle sono abbandonate sei motoseghe,
rimaste senza miscela. Appesa al costone devastato resta una ca-
sa senza più tetto, né vetri alle finestre. Fioretto Renon, contadi-
no di 82 anni, vive nel maso a fianco: una stalla in calce bianca e il
fienile in assi di larice annerite dal sole. Dice che la casa «si chia-
ma il Vaticano perché ha un mucchio di padroni», emigrati chissà
dove. È vuota e sul muro crollato, prima della bufera, qualcuno
con il senso del profetico aveva scritto: “La fine del mondo siamo
io e te”. Appena lo scirocco se ne è andato, sul “Vaticano” di Digo-
man hanno appeso un cartello non del tutto estraneo all’ottimi-
smo: “Vendesi edificio indipendente”. Fioretto Renon è sordo e,
a chiunque lo avvicini, domanda: «Cerca mio figlio?». Vent’anni
fa il suo ragazzo ha venduto le mucche ed è sceso ad Agordo per
lavorare in una fabbrica di occhiali. Non è più ritornato e il padre
adesso spera che il cancro che corrode la terra lo spinga su, alme-
no qualche minuto, per controllare se la montagna dove è nato
ha resistito, se la madre Maria Luisa è viva. «Cerca mio figlio?»,
nel cuore di una foresta millenaria caduta sulle case abbandonate
che aveva sempre difeso, è una domanda cui nessuno ha il corag-
gio di rispondere con la verità. Però quotidianamente da vent’an-
ni la rivela, certificando adesso l’incrollabile speranza che dalla
notte del 29 ottobre 2018 muove il popolo delle Dolomiti, impe-
gnato a «restare qui senza aspettare qualcosa di particolare dal
mondo». E se alla domanda cruciale della montagna ferita non si
può rispondere, non significa che si debba ignorare che qui c’è
ancora un uomo che tranquillamente la pone.
Alleghe (Belluno)
In alto, una veduta del lago. Sotto una foto
scattata dopo l’alluvione con il bacino riempito
da una massa di detriti e dai larici caduti
La piana di Asiago
Le foto di queste pagine sono di Michele
Lapini e sono state scattate il 4 novembre
sull’altopiano di Asiago. Le immagini con il
drone ritraggono la valle del Vezzena a
Roana. Quelle da terra la piana di Marcesina
Borgo Valsugana (Trento)
I danni subiti dal percorso di Arte Sella,
fondato nel 1986, con 60 opere lignee dei
maggiori artisti e architetti di tutto il mondo
58 Sabato 17 Novembre 2018 SUPER 8laRepubblica
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2018 11-17 Repubblica: La terra guasta

  • 1. 8 S U P E R L E S T O R I E A L R A L L E N TAT O R E 8 S U P E R L E S T O R I E A L R A L L E N TAT O R E 17 novembre 2018 di Giampaolo Visetti, fotografie di Michele Lapini Il 29 ottobre è un giorno che ha cambiato la storia delle nostre montagne: 12 milioni di alberi sono stati spezzati da un vento senza precedenti. Nell’intero Nordest l’ultima ondata di maltempo ha stravolto il territorio. Il segno di come il riscaldamento globale stia modificando la vita di tutti LA TERRA GUASTA LE FERITE DEL CLIMA
  • 2. Paola Favero Forestale e scrittrice Colonnello dei Carabinieri forestali di Vittorio Veneto, chiede “due azioni: riportare nella natura le guardie forestali oggi confinate negli uffici e introdurre nelle scuole la cultura dell’ambiente” “Cent’anni fa la Grande Guerra finiva, e le foreste ricominciavano a crescere sul corpo di 36 milioni di caduti. Cent’anni dopo una nuova sciagura che sembra riprodurre il disastro di allora” Così Paolo Rumiz introduce lo speciale concerto tenuto tra gli alberi sradicati da un’orchestra di violoncelli guidati da Mario Brunello, in video su Repubblica.it Illustrazioni di Marta Signori I protagonisti Il sindaco che cerca di reagire dopo il disastro. Il funzionario che vuole salvare almeno il valore del legno degli alberi abbattuti. Il forestale che discute di “aprire un’epoca climatica nuova”. E l’alpinista che chiede alla politica di mettere al primo posto le catastrofi ambientali: “La gente sta scappando dalla montagna, ma le foreste sono innocenti” Paolo Kovatsch Resp. foreste Trentino Andrea De Bernardin Sindaco Rocca Pietore “Il valore degli alberi lasciati lì il prossimo autunno crollerà da 100 a 60 euro al metro cubo. C’è a terra un patrimonio di quasi 800 milioni di euro. Perciò bisogna andare oltre burocrazia e ideologie” “La ricostruzione – dice – ha bisogno di mani, ma anche di cervelli e di colletti bianchi. La paura è che, calata l’emozione e spenti i riflettori, la montagna venga riabbandonata a se stessa, come sempre” Mauro Corona Boscaiolo e scrittore Reinhold Messner Alpinista e scrittore Gianni Rigoni Stern Forestale “Con la fine della primavera – dice – se tronchi e fronde saranno ancora qui, le Alpi diventeranno una ciclopica pira ardente. Sarebbe la fine, non solo economica e non solo dei montanari” “Mi inquieta un potere che chiude gli occhi davanti all’evidenza di una montagna abbandonata, della terra malata. Occuparsi di questo dovrebbe essere l’unico assillo della politica” “Prendersela con chi ha rimboschito in passato è facile, più difficile aprire in modo corretto un’epoca climatica nuova. Dobbiamo avere l’umiltà di studiare caso per caso” 54 Sabato 17 Novembre 2018 SUPER 8laRepubblica
  • 3. I cerchi degli alberi, dopo tanti anni, sulle Alpi si sono interrotti. L’età di una pianta, dal primo all’ultimo istante, resta incisa per sempre nel suo cuore di legno. Solo quando le foglie smettono di respirare, ognuno può conoscerla. Le colonne delle foreste sono gli unici organismi a raccontare senza segreti il corso essenziale della vita. Chi ha meno difficoltà, crescendo, può tracciare circonferenze più larghe. Chi fatica a restare in piedi, aggrappandosi alla terra, lascia trame più strette. Adesso questi milioni di romanzi vegetali, scritti con la clorofilla e custoditi nell’anima dei tronchi, si sono aperti e anche gli animali, assieme agli esseri umani e alle stelle, li possono leggere. La notte che ha preso i boschi, li ha alzati con il vento e ha rovesciato gli alberi sulla testa dell’umanità che non li conosce più da molto tempo, ha creato una biblioteca infinita che, prima di ritornare polvere grazie agli insetti e alle accette, chiede di essere letta. È il racconto corale di una natura malata, tanto da non riuscire più a reggersi in piedi. Gli alberi, nel Nordest del versante meridionale delle Dolomiti, come accade ai vecchi che scoprono di non riuscire più a restare nel mondo che li ha visti bambini, si sono distesi vergognandosi di rivelare la propria estrema fragilità. Due giorni prima a Venezia si era sollevato il mare. Il giorno prima nelle pianure e lungo le valli del Triveneto sono scappati i fiumi e i torrenti. Poche ore prima sono precipitate le frane, antiche e nuove, per ricordare dove scorrono le vene della roccia. I boschi hanno ceduto per ultimi, il rombo dei loro scoppi è stato coperto dalla pioggia e protetto dal buio. La fine di questa eroica resistenza però ora è davanti ai nostri occhi, che non possono restare chiusi. Tutto può essere pulito, riparato, ricostruito: sta succedendo. La stessa foresta invece non può rinascere. Ci siamo spinti oltre questo invalicabile confine, dentro un universo nuovo. Non possiamo più camminare come prima su un prato, respirare tra i fiori: è un dolore, lo sentiamo, troppo chiaro per continuare a vivere come prima. dal nostro inviato Giampaolo Visetti VAL VISDENDE (SANTO STEFANO DI CADORE) continua→ L e foreste, misteriose esacre, sono le coperte che scalda- no le montagne. Crescono silenziosamente e insieme, per non perdere l’acqua che le disseta. Sanno come fa- re il legno che le difende e da millenni non sbagliano mai. Ogni albero invece, quando è finito, resta solo e improvvisamente muore a modo suo. Smette di puntare verso il cielo e si distende, per ritornare lentamente nella terra, aiutato da- gli insetti. Si raffredda dentro, come ognuno di noi. La sua linfa si secca.Anche sulleAlpi Carniche è statosempre così.Sempre, tran- ne la notte di lunedì 29 ottobre 2018. A Piè della Costa, sotto la cima del Peralba in alta Val Visdende, il bosco spontaneo di abete rosso, cresciuto in oltre due secoli, è esploso da fresco e in venti minuti. A quota 1.670, sopra malga An- tola, le raffiche di vento hanno toccato i 217,3 chilometri all’ora: la stessa velocità registrata alle 21.34 dalla stazione metereologica di Passo Rolle, tra Veneto e Trentino. Il limite non è più la memoria umana: nessun archivio botanico, in Europa, documenta un cata- clisma simile. Per la natura e per la specie umana è «una prima vol- ta». Nessuno adesso sa prevedere il futuro. Conifere e latifoglie, sul versante sud dell’arco alpino di Norde- st, non sono fisiologicamente programmate per resistere a un ura- gano soffiato con la forza che solo un oceano del Sudest asiatico possiede. «Guarda queste radici — dice Jerry De Zolt, finanziere, uno dei quindici abitanti rimasti nella valle amata da papa Wojtyla e il primo a dare l’allarme — Sono tranciate di netto, non strappa- te. I ceppi guardano a Oriente,non verso Nord,come dopo le trom- be d’aria di un temporale. L’ecosistema montano ci parla esibendo un’imprevedibile novità. Sembra dire: andate via». Fino a Pian del Polo, tra le sorgenti del fiume Cordevole e del torrente Londo, vi- vevano 150mila alberi fitti e coetanei. Ora sono a terra, uno sopra l’altro. Gli schianti hanno scavato crateri profondi cinque metri. Solo ventidue tronchi, senza più cimale, svettano come sentinelle ferite su una distesa profumata di rami sfibrati. È un tappeto mor- bido e sotto i piedi oscilla sopra i vuoti che ha creato, come una pa- lafitta dopo la tempesta. Il sole asciuga il muschio rovesciato e aiu- ta i ragni a tessere le trappole per gli ultimi moscerini di un novem- bre troppo caldo. Non c’è nessun altro: la vita però, sotto altre for- memicroscopiche, riparte. «Iboscaioli —dice Dino De Zolt, conta- dino detto “Gasperina” — non si orientano più. Conoscevano que- sti luoghi come il filo della loro lama, adesso sbagliano di chilome- tri.Pensano di trovarsi su un versante, invece camminano su quel- lo opposto. Passata quella notte, siamo usciti di casa. Albeggiava quando abbiamo scoperto un mondo nuovo. Sulle Alpi, trala Lom- bardia e il Friuli, ormai abita un popolo di estranei». Il problema, sulle Dolomiti, è che il vento non sa fare le curve, che la pioggia pesa e che insieme sono più forti della roccia. «Quel- la notte» ha sconvolto il profilo delle montagne per 390 chilome- tri, tra la Valtellina e la Val Saisera, sopra Tarvisio. I 700 millimetri di acqua sono caduti in poche ore dopodue mesi di siccità: tre gior- ni prima sulle pareti esposte al sole, a quota duemila, l’aria era a 30 gradi, come in estate. Le raffiche di scirocco, a una media di 180 chilometri all’ora, sono salite dalla pianura. Si sono infilate nelle valli sempre più strette, hanno sbattuto contro il muro di dolomia e ormai imprigionate sono rimbalzate verso il basso, sopra boschi, torrenti, massi, ghiaioni e pendii erbosi gonfi di pioggia. La pres- sione, scatenata dal contrasto tra il caldo del vento mediterraneo e il freddo della prima neve caduta solo sulle vette più alte, ha spri- gionato una violenza insostenibile. Le ultime stime, grazie ai satel- liti, quantificano il prezzo del guasto in 8 milioni di metri cubi di piante. Lungo i crinali un rasoio ha tranciato 12 milioni di alberi, precipitati verso i paesi di fondovalle, nei fiumi e nei laghi. «Una pianta matura — dice Luigi Casanova, boscaiolo e presidente di Mountain Wilderness — da asciutta pesa 16 quintali. Quando è ba- gnata arriva a 35. Le radici, scosse dalla bufera e cresciute per op- porsi a urti solitamente contrari, in un terreno fradicio e non gela- tonon potevano più sostenerla. Sulle montagne trivenete siamo ri- masti sommersi sotto un peso di 420 milioni di quintali di alberi gonfi di acqua, scagliati contemporaneamente a centinaia di me- tri dal ceppo. È stato un bombardamento atomico, ancora non ab- biamo focalizzato il disastro». La terra ha tremato tra le 18.30 e le 02.30, scossa da un sisma infinito. Lo scoppio dell’aria ha trasfor- mato l’acqua in fango e le foreste in radure, fondendo gli elementi primordiali per preparare il campo al fuoco. Una nuova lotta per la vita «Con la fine della primavera — dice Mauro Corona, boscaiolo e scultore, prima che scrittore — se tronchi e fronde saranno anco- ra qui, le Alpi diventeranno una ciclopica pira, infetta e ardente. Il nostro tesoro sono i boschi, se cadono e bruciano è come se una banca lasciasse incenerire le sue banconote. Sarebbe la fine, non solo economica e non solo dei montanari: dobbiamo capire che qui, per tutti, è cominciata una lotta diversa per la vita». Non so- no venuti giù solo i pecci, resi più vulnerabili dalla superficialità delle radici e dagli aghi fitti come la trama di una vela. Contro ca- se e pali della luce, sopra tremila chilometri di strade franate, su SUPER 8 Sabato 17 Novembre 2018 55laRepubblica
  • 4. 56 Sabato 17 Novembre 2018 SUPER 8laRepubblica
  • 5. Cencenighe Agordino I danni causati nel paese bellunese dalla bomba di acqua e vento, che ha fatto franare argini e sommerso la statale 203 L’ondata di maltempo della fine di ottobre ha lasciato ferite permanenti. Ecco come è cambiato il territorio, con il confronto tra prima e dopo La terra ferita prima e dopo: immagini dalla devastazione centinaia di acquedotti e migliaia di animali atterriti, sono finiti larici e cirmoli, pini neri e silvestri, faggi e tigli, aceri e ontani, car- pini e querce, saliconi e maggiociondoli, frassini e sorbi, noccioli e carpini, betulle e ciliegi selvatici. Questa volta nemmeno le es- senze più adatte, dotate di pompe fittonanti e fogliame caduco, dopo secoli hanno resistito. «La priorità — dice Dino Zardi, fisico e coordinatore a Trento del primo corso di laurea in meteorologia — è coprire prima dell’in- verno le case scoperchiate, arginare i torrenti esondati, consoli- dare strade e valli franate, assicurare acqua e luce a centinaia di paesi, prelevare il legname prima che marcisca. Il fronte cruciale però è restituire all’ambiente l’equilibrio smarrito a livello globa- le. Anidride carbonica, metano e altri gas serra continuano ad au- mentare. Dietro tornado e precipitazioni torrenziali sulle Alpi c’è il vertiginoso sconvolgimento del clima surriscaldato, che produ- ce conseguenze vastissime su tutti gli ecosistemi. La politica, do- po una catastrofe, ha il dovere di sostenere la ricostruzione: ma la sua sfida al futuro è promuovere la riduzione dei fattori umani che accelerano la fusione di una miscela atmosferica non favore- vole alle forme biologiche che conosciamo. Non possiamo più na- sconderci dietro i problemi: servirà un secolo, ma se vogliamo provare a esistere ancora dobbiamo cambiare vita subito». Il ritorno della grande fame Nell’ex scuola di Piole, uno dei 96 villaggi sparsi di Gosaldo, nel Parco nazionale delle Dolomiti bellunesi, Bruna Maschio non sa che lo spartiacque di «quella notte» ha posto collettivamente il problema della sopravvivenza. Sa però che, a 86 anni, per la pri- ma volta ha avuto «voglia di morire». È rimasta l’unica abitante di un paese che, quando nelle stalle c’erano le mucche e i pascoli ve- nivano falciati a mano tre volte tra giugno e settembre, contava 350 persone. Emigrata in Svizzera e tornata «sotto il mio albero», dorme in quella che è stata la sua classe alle elementari. La cucina a legna è nell’ex studio della maestra. Un abete e un larice si sono abbattuti sul sentiero che sale alla sua porta, la faggeta secolare ha coperto un torrente invisibile di cui il nonno non le aveva par- lato. Una lamiera arrugginita, stesa sul tetto di una casa affacciata sul Piz di Sagròn, dopo un volo di duecento metri si è accartoccia- ta contro il palo della luce piantato in mezzo alle verze e alle dalie del suo orto. «Io alle 17 — dice — bevo la minestra e vado a dormi- re. Credevo di sognare: alberi che scoppiavano, la montagna che si apriva per inghiottire il letto dove è morta mia mamma. Mi so- no svegliata e c’era silenzio. Mancava la luce e non veniva acqua: niente di grave, ho le candele e la fontana. Ho capito che era suc- cesso qualcosa di irreparabile perché tre giorni dopo ancora non ho sentito arrivare il furgone da cui, una volta ogni due settima- ne, compro il cibo che mi serve. Sono sempre scesa in paese a pie- di, per fare la spesa, due ore di passeggiata. Adesso però mi man- cano le gambe: ho pensato che se qui non arriva più nessuno, piuttosto che andare via mi lascio morire di fame». Per giorni ab- biamo parlato della corrente elettrica e delle linee telefoniche in- terrotte, dei ponti, delle strade e degli acquedotti crollati. Proble- mi essenziali, ma sulle «Dolomiti isolate tra le foreste crollate» l’e- mergenza immediata non è stata la connessione con la civiltà eco- nomica e sociale del mondo. La lezione che arriva dai villaggi, dall’Agordino al Comelico, dal Gruppo di Brenta alla Carnia, è che la pioggia e il vento hanno riproposto con semplicità l’indivi- duale bisogno atavico di mangiare, di bere e di ripararsi dal gelo. Chi è giovane, fino all’ultimo lunedì di ottobre, non lo sapeva. All’inizio se l’è presa con il cellulare muto e con il computer spen- to. Poi gli è venuta fame e ha scoperto che il gas non si accendeva, come la caldaia a pellet del riscaldamento e il motore del frigorife- ro. Gli alberi motore di ogni cosa «Gli alberi — dice Denis Sorarù Pezzè — si portano via tutto. So- no immobili, ma qui muovono ogni cosa. Se mancano, muori di fa- me e non passi l’inverno. La prima cosa è piantare i boschi scom- parsi». Operatore in una cooperativa di ragazzi ad Alleghe, abita a Caracoi Zimai, villaggio di cinque famiglie tra i 27 borghi di Roc- ca Pietore, sotto la Marmolada e davanti al Civetta. Qui, nel Sette- cento, la Serenissima repubblica di Venezia confinò i prigionieri turchi, ridotti a taglialegna. Morti gli schiavi, strappati al quartie- re di Karakoy a Istanbul, nessuno ha più coltivato la foresta. Ci hanno infine pensato la pioggia e lo scirocco ma l’operazione che Graziosa Fontanive definisce «fare pulizia» si è portata via anche cinque tetti su dodici. A saltare sono stati quelli in lamiera, più leggeri. Gli antichi, in scandole di larice, hanno lasciato filtrare le raffiche e hanno tenuto. Le coperture in tegole, pesanti e non tra- dizionali, sono collassate, o hanno scagliato i coppi lontano, semi- nandoli sui prati. I masi adesso, come a Bramezza dove in 9 case e 13 fienili vivono solo Costante e il suo gatto, sono protetti con fo- gli impermeabili. Non c’è tempo, prima che fiocchi vanno coper- ti. «Un tetto medio in lamiera — dice Remis Triches, lattoniere di Taibon — pesa 800 chili e costa 7.500 euro. Cinque uomini, in una settimana, lo fanno. Se non puoi permetterti le scandole, me- glio la lamiera che vola via, rispetto alle tegole che ti cadono sulla testa. Il problema è che alla gente mancano i soldi». Da quasi ven- ti giorni, con il padre Sergio, lavora giorno e notte sulle case sco- perchiate nell’Agordino. «Intanto si fa — dice — non si aspetta. Se non ci pagano entro l’estate, chiudiamo e bon». Finirà così anche per gli alberghi finiti sott’acqua ad Alleghe. Sul lago una famiglia di cigni bianchi nuota fra i tronchi rossi dei larici, rovesciati nel la- go e spinti a fare diga sotto le arcate del Ponte dei Tedeschi, tra il fiume Cordevole e il torrente Zunaia. È tornata la pace, ma lunedì 29 ottobre è scoppiata la guerra. Fuori dagli hotel “Adriana”, “Eu- ropa” e “Savoia”, uomini in canottiera caricano badilate di mace- rie su trattori e camion dei volontari della Protezione civile. «In un’ora — dice Matteo De Toni — l’acqua è salita di un metro e ven- ti centimetri. È stato peggio che nel 1966, per risparmiare i filtri della centrale elettrica ci hanno scaricato il lago nelle camere. Tra due settimane avremmo dovuto aprire per la stagione sciisti- ca, ma nessun turista chiama più per prenotare». Ai piedi della frana del Piz, staccatasi nel 1771, il vento ha abbat- tuto anche lo storico abete di oltre trecento anni. Dopo la Prima guerra mondiale, per non farlo crescere ancora, qualcuno gli ave- va appoggiato l’elmetto di un soldato del Regno d’Italia sulla ci- ma. La pianta, indifferente al copricapo e all’imposto profilo belli- co, per un secolo ha seguitato a salire verso le nuvole che scaval- cano le montagne. Ha resistito ad altri eserciti meccanici scesi dal Nord, cedendo solo alla beffa di un nemico naturale che lo ha sor- preso dal Sud. Così, questa mattina, la segheria “Theurl” di Klan- genfurt, in Carinzia fa a fette il suo tronco color crema da un me- tro e trenta centimetri a petto d’uomo. In un turbine di trucioli profumati l’antico peccio viene caricato sul bilico diretto oltre il confine austriaco e Ursula Manfroi lo saluta agitando un fazzolet- to rosa, come fosse l’ultimo fratello caduto in battaglia. Nelle Do- lomiti, oggi, l’incubo è il legname. In una notte è finita a terra la quantità che i prelievi boschivi dell’intero arco alpino program- mano in cinque anni e che il mercato nazionale assorbe in un ven- tennio. Le piante giacciono in luoghi scomodi, o irraggiungibili. La maggioranza non è segata di netto, come quando il forestale la martella. I tronchi di abete, larice e faggio sono stati stressati dal vento e della torsione di schianti sbagliati. Per recuperarli, nelle cinque regioni sconvolte, occorre un tempo che l’economia non concede. Servono soprattutto 4mila boscaioli e altrettante moto- seghe, il doppio dell’esercito reclutabile per tre anni sul versante italiano delle Alpi. Lungo le strade franate e attraverso le vie stret- te dei paesi devono poi salire migliaia di tir dotati di rimorchio. Un metro cubo di legname non stagionato pesa tra 7 e 8 quintali, un bilico a pieno carico può spostarne 36. Per tre anni oltre 200mila giganti saranno incolonnati sui passi e nelle valli, dove la superficie delle segherie non basta per depositare la foreste cancellate. È una sfida epocale, anche logistica e senza boscaioli assunti all’estero, in Romania, Polonia, Slovacchia, Austria, Slove- nia e Germania, è destinata ad essere perduta. «A Paneveggio l’av- vicinarsi dell’inverno — dice Paolo Kovatsch, responsabile delle foreste demaniali del Trentino — ci aiuta. Il freddo ferma i paras- siti, rallenta le muffe e rinvia la crescita dei funghi. Le piante si conservano, come in una sconfinata cella frigo. Abbiamo quattro mesi per aprire le piste forestali e preparare il campo di prelievo. Il problema è che la nostra segheria più grande lavora al massimo 38mila metri cubi di legname all’anno, una goccia nel mare. Il va- lore degli alberi lasciati lì, il prossimo autunno, crollerà da 100 a 60 euro al metro cubo. Raccogliere gli schianti costa fino a 55 eu- ro al metro cubo. Sarà difficile trovare imprese boschive disposte a lavorare sul filo del deficit. Nell’area del disastro c’è a terra un patrimonio legnatico di quasi 800 milioni di euro, pronto a ridur- si a 400 se non saremo tempestivi. Per questo bisogna andare ol- tre burocrazia e ideologie: servono boscaioli, patentini per il ta- glio riconosciuti da tutti, mezzi meccanici, segherie e ditte di di- stribuzione comuni per affrontare insieme un mercato già pron- to alla speculazione». L’alba di una nuova era Da Rocca Pietore a Livinallongo, da Sappada al Cansiglio, da San- to Stefano di Cadore a Moena, da Tarvisio a Santa Caterina Valfur- va, decine di paesi temono di perdere i fondi con cui fino a oggi hanno finanziato scuole, case di riposo, trasporti, lavori pubblici e manutenzione della montagna. Dal Medioevo l’istituto delle “Regole” ha fatto crescere l’autogoverno del territorio alpino. An- cora una volta, è dal legno e dall’acqua che è nata l’autonomia. I nobili e la Chiesa, per non lasciar morire di fame e di freddo la gente, hanno concesso l’uso di pascoli, foreste e sorgenti, organiz- zandolo in modo comunitario. La natura ora ha colpito proprio questo atavico patrimonio collettivo, senza il quale i Comuni ri- schiano di non pagare nemmeno gli stipendi. «La ricostruzione — dice Andrea De Bernardin, sindaco di Rocca Pietore — ha biso- gno di mani, ma anche di cervelli e di colletti bianchi. Nei piccoli paesi gli impiegati sono contati, spesso privi delle competenze ne- cessarie per affrontare un’emergenza senza precedenti. Dobbia- mo accelerare delibere e appalti, documentare danni e governa- re finanziamenti, riflettere su una svolta urbanistica radicale. La paura è che, calata l’emozione e spenti i riflettori, la montagna Arabba (Belluno) La frana nella frazione di Livinallongo ai piedi del Passo Pordoi. Si è lavorato duro ma l’apertura degli alberghi sarà garantita La diga del Comelico (Belluno) Sopra, la diga com’era prima del 29 ottobre (foto di Giorgio Ferretto). Sotto, appare quasi sommersa da una distesa di alberi e fango continua→ SUPER 8 Sabato 17 Novembre 2018 57laRepubblica
  • 6. Comeglians (Udine) Il fiume Degano a Comeglians: dopo le piogge fortissime del 29 ottobre è straripato e ha fatto crollare un ponte (foto sotto) L’ondata di maltempo della fine di ottobre ha lasciato ferite permanenti. Ecco come è cambiato il territorio, con il confronto tra prima e dopo La terra ferita prima e dopo: immagini dalla devastazione venga riabbandonata a se stessa, come sempre». Sulla piana di Marcesina, sopra l’altopiano di Asiago, Giovanni Rigoni Stern cammina così tra i pecci piantati alla fine della Gran- de guerra, dove da bambino lo portava suo padre Mario. Quante volte è salito qui, da forestale, nei posti della Storia di Tönle e del Bosco degli urogalli, tra le abetaie ora ripopolate dai lupi che at- torno a Forte Lisser e alle trincee dovevano far dimenticare i cra- teri aperti dalle granate austroungariche. «Tra il 1925 e il 1935 — dice — Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, fece piantare 10 mi- lioni di abeti rossi. In vivaio crescono prima, gli impianti giovani attecchiscono meglio, il legname d’alta quota è di qualità superio- re. Il vento e la pioggia si sono portati via fino all’80 per cento del- le foreste, ma non ha una ragione scientifica mettere sotto accusa un’essenza. In un secolo sono cambiate le condizioni, dalle ore di irraggiamento solare al tasso di umidità, dalla temperatura media alla fertilità dei costoni non più pascolati. Spesso, sopra una more- na, non c’è più di una spanna di terra. Prendersela con chi ha rim- boschito in un’era botanica conclusa è facile, più difficile aprire in modo corretto un’epoca climatica nuova. Dobbiamo avere la pazienza e l’umiltà di studiare caso per caso, bosco per bosco, ver- sante per versante, senza paura della biodiversità, rinunciando a generare foreste coeve e riducendo la densità degli innesti. I ve- getali sono come gli esseri umani: una famiglia, per essere stabile e completa, ha bisogno di caratteri diversi, di spazio e di mettere in relazione i nonni con i nipoti». Più difficile, oltre che presun- tuoso, ambire a «rimettere a posto le montagne», come prometto- no i politici in tour aereo sopra le Dolomiti, a bordo degli elicotte- ri che decollano dalla laguna di Venezia. Una geografia da ridisegnare Ogni giorno, calzati gli scarponi, a terra si scopre invece lo scena- rio nuovo di una geografia da ridisegnare. Alcune valli del Primie- ro e del Lagorai sono state chiuse dalla slavine, altre nell’Alpago sono state aperte da torrenti sgorgati da falde sotterranee. Gli af- fluenti che nell’Alto Cadore formano le sorgenti del Piave, sul confine tra Veneto, Austria e Friuli, hanno riempito invasi ignoti attorno al lago di Misurina, ancora inaccessibile. In Val di Sole una frana antica e periodica ha riconquistato il conoide accumu- lato dai detriti del Rio Rotiàn, seppellendo un campeggio lasciato costruire a Dimaro, all’inizio della strada percorsa dall’imperato- re Francesco Giuseppe per raggiungere Madonna di Campiglio. La Val Cimoliana, sopra Erto e a lato della diga del Vajont, è stata colmata da massi enormi, precipitati dagli Spalti di Toro. In Val di Fiemme, come attorno al lago di Carezza, in Alta Pusteria e tra le Dolomiti di Sesto, le foreste abbattute sono così vaste che i crinali svelano malghe e rifugi anche a chi guarda dai fondovalle. Sopra i grovigli ancora umidi volano stormi neri di corvi imperiali, attrat- ti dalle carogne di cervi e caprioli, schiacciati sotto le fustaie. Tra Valdaora, Monguelfo e il passo di Monte Croce, tra Moso e il Co- melico, gli alberi si cippano sul posto, a bordo strada, e il combu- stibile parte direttamente per le centrali a biomassa di tutta Italia. Nelle segherie di confine, dalla “Pircher” di Dobbiaco alla “Dori- guzzo” di San Nicolò sotto Padole, le barriere di tronchi e di fusti spezzati di giovani piante sono già più alte delle cipolle in rame dei campanili. Sandro Soratroi, forestale e membro del Soccorso alpino di Arabba, assieme ad altri volontari sega le migliaia di al- beri che hanno travolto i sentieri escursionistici tra Colle Santa Lucia e Livinallongo. «Anche per chi cammina — dice — l’univer- so dolomitico è cambiato per sempre. La vecchie mappe sono su- perate, assieme ad altimetrie e tempi di percorrenza dei tracciati. Dalle nebbie emergono panorami mai visti. È come se all’oceano una tempesta avesse rubato le onde». Questi, prima che il magma bollente li spingesse in alto plasmando le montagne e formando i ghiacciai, sono stati davvero fondali marini. Solo adesso, dopo che la natura si è concessa uno sbadiglio educato, chi ha perduto la casa, un tetto, la strada o il bosco dell’infanzia realizza all’im- provviso la propria, irrilevante dimensione. Ognuno lavora, per rimarginare le ferite o per salvare la stagione dello sci, contempo- ranea vacca sacra da cui si munge il latte che nutre tutti. Il cuore però non è più quello di prima. La colonna sonora della vita «Nemmeno il mio — dice il re degli Ottomila Reinhold Messner tra i larici secolari sradicati a Castel Juval, in Val Venosta — per- ché so che gli sconvolgimenti ambientali sono all’inizio e che si ri- petono sempre più spesso. Il mondo non finisce con gli emenda- menti alla finanziaria, con qualche decina di milioni scovati nelle pieghe del bilancio e annunciati da politici travestiti da pompieri per un’ora. Dobbiamo decidere, agire, imboccare strade corag- giose. Mentre un uragano si infila nelle Dolomiti, la Giordania vie- ne allagata e la California incenerita. Serve altro per capire che nell’atmosfera sta succedendo qualcosa che ci vede tra i protago- nisti, che il problema non sono i migranti, ma la globalizzazione degli eventi catastrofici? Il mio cuore non è più quello di prima non perché ora ho paura del vento che fischia, che invece amo sin da bambino: a inquietarmi è un potere che chiude gli occhi da- vanti all’evidenza di una montagna abbandonata, della vita che fi- nisce, della terra malata. Occuparsi di questo dovrebbe essere l’u- nico assillo della politica, la ragione che oggi la legittima: la gente qui sta scappando, ma le foreste sono innocenti». Per questo, tra le Pale di San Martino, fa impressione prendere atto che al tra- monto commerciale della musica classica desti tanta emozione popolare l’idea che il vento abbia preteso anche la sua quota dell’abetaia da risonanza, miniera dei violini settecenteschi eredi- tati dal liutaio Stradivari. A malga Juribrutto centinaia di persone da giorni salgono a piedi da passo San Pellegrino e scavalcano in silenzio i tronchi dell’armonia, come una processione in onore di un defunto. L’anima più vecchia di questa foresta straordinaria in realtà è ancora in piedi e pronta a cantare. Chi continua ad arri- vare qui per un funerale assume così l’espressione biblica di una pia donna che abbia visto un Lazzaro risorto: la musica che non si ascolta, è evidente, conta ancor più dei boschi che non si attraver- sano e che si onorano finché restano lontani. «Ma è da questa sor- prendente commozione sociale per la materia prima della colon- na sonora della vita sulla terra — dice Paola Favero, colonnello dei Carabinieri forestali di Vittorio Veneto e scrittrice — che nel Paese dei condoni e degli abusi possiamo ripartire. Il passaggio da compiere è tra la selvicoltura economica e quella naturalisti- ca. Sui versati più ripidi, ad esempio, gli alberi caduti non vanno rimossi subito. Verranno attaccati dai coleotteri, perderanno va- lore, ma salveranno case e paesi dalle valanghe di neve. Se in un sistema idrogeologico sconvolto l’acqua scende a valle più velo- cemente perché il terreno viene pulito per forzare la ricrescita, saremo travolti da frane e piene. Ricostruire l’ambiente alpino, questa volta, significa cambiare le nostre azioni. Me ne vengono in mente due concrete. Riportare ogni giorno nella natura le guardie del Corpo forestale dello Stato, decimate e confinate ne- gli uffici. Introdurre nelle scuole la cultura dell’ambiente. È incre- dibile: la resilienza degli ecosistemi viene superata e nessun do- cente è tenuto a insegnare ai ragazzi perché». La Val di Sella, sopra Borgo Valsugana, è una lezione esempla- re. La chiesetta della Madonna della neve è stata scoperchiata. I pali in cemento armato della linea elettrica sono stati spezzati. Una cavalla è stata uccisa da un larice, cadutole sulla schiena do- po due giorni, da un traliccio piegato. Il museo a cielo aperto di ArteNatura, fondato nel 1986 e che raccoglie sessanta opere li- gnee dei maggiori artisti e architetti di tutto il mondo, è stato par- zialmente distrutto. Il sentiero tra Villa Strobele e Malga Costa, sotto il monte Armentera, è scomparso sotto cumuli di pini e fag- gi sradicati. La strada che sale dal fiume Brenta al torrente Mog- gio, vicino alla casa dove è morto Alcide De Gasperi, è morsicata da decine di frane, solcate da rivi fangosi ora coperti con teli di ny- lon. Dal ‘500, secolo dei primi registri ecclesiastici dedicati agli eventi atmosferici per fini rurali, non c’è traccia di un evento pa- ragonabile. A salvarsi, in mezzo a un prato, solo una quercia mae- stosa di 700 anni. «Dobbiamo accettarlo — dice Giacomo Bian- chi, presidente di Arte Sella — ai segni naturali lasciati dal tempo dedichiamo la vita. Accettarlo non significa però restare passivi, o rifugiarsi nel fatalismo. Lasceremo le tracce della notte d’infer- no a cui nemmeno le montagne hanno potuto opporsi. Ma con la forza della creazione lotteremo per raccogliere il messaggio del vento, venuto per avvisarci che siamo in pericolo, forse per l’ulti- ma volta». La montagna che cerca suo figlio Salendo la valle sotto la Croda Grande, che da Rivamonte condu- ce al villaggio di Digoman, migliaia di faggi hanno trascinato an- che i noccioli sulla strada e giù, fino al letto del torrente Domado- re. Si transita a stento, tagliando in due una foresta trasformata in una legnaia. Sulle foglie gialle sono abbandonate sei motoseghe, rimaste senza miscela. Appesa al costone devastato resta una ca- sa senza più tetto, né vetri alle finestre. Fioretto Renon, contadi- no di 82 anni, vive nel maso a fianco: una stalla in calce bianca e il fienile in assi di larice annerite dal sole. Dice che la casa «si chia- ma il Vaticano perché ha un mucchio di padroni», emigrati chissà dove. È vuota e sul muro crollato, prima della bufera, qualcuno con il senso del profetico aveva scritto: “La fine del mondo siamo io e te”. Appena lo scirocco se ne è andato, sul “Vaticano” di Digo- man hanno appeso un cartello non del tutto estraneo all’ottimi- smo: “Vendesi edificio indipendente”. Fioretto Renon è sordo e, a chiunque lo avvicini, domanda: «Cerca mio figlio?». Vent’anni fa il suo ragazzo ha venduto le mucche ed è sceso ad Agordo per lavorare in una fabbrica di occhiali. Non è più ritornato e il padre adesso spera che il cancro che corrode la terra lo spinga su, alme- no qualche minuto, per controllare se la montagna dove è nato ha resistito, se la madre Maria Luisa è viva. «Cerca mio figlio?», nel cuore di una foresta millenaria caduta sulle case abbandonate che aveva sempre difeso, è una domanda cui nessuno ha il corag- gio di rispondere con la verità. Però quotidianamente da vent’an- ni la rivela, certificando adesso l’incrollabile speranza che dalla notte del 29 ottobre 2018 muove il popolo delle Dolomiti, impe- gnato a «restare qui senza aspettare qualcosa di particolare dal mondo». E se alla domanda cruciale della montagna ferita non si può rispondere, non significa che si debba ignorare che qui c’è ancora un uomo che tranquillamente la pone. Alleghe (Belluno) In alto, una veduta del lago. Sotto una foto scattata dopo l’alluvione con il bacino riempito da una massa di detriti e dai larici caduti La piana di Asiago Le foto di queste pagine sono di Michele Lapini e sono state scattate il 4 novembre sull’altopiano di Asiago. Le immagini con il drone ritraggono la valle del Vezzena a Roana. Quelle da terra la piana di Marcesina Borgo Valsugana (Trento) I danni subiti dal percorso di Arte Sella, fondato nel 1986, con 60 opere lignee dei maggiori artisti e architetti di tutto il mondo 58 Sabato 17 Novembre 2018 SUPER 8laRepubblica
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