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PIETRO TESTA
Richiamo dalla notte dei tempi
© Tutti i diritti riservati a Digitalsoul
Divisione S.E.A. Servizi Editoriali Avanzati,
Sede Legale in Via Volga, 44 - 52025 Montevarchi (AR)
Sede Operativa, la medesima sopra citata.
Direttore Editoriale: Paola Agnolucci
www.digitalsoul.it - info@digitalsoul.it
I fatti e le opinioni riportate in questo libro impegnano
esclusivamente l’Autore.
Possono essere pubblicati nell’Opera varie informazioni,
comunque di pubblico dominio, salvo dove diversamente
specificato.
2018
© Impaginazione ed elaborazione grafica: Paola Agnolucci
Stampato da: Rotomail Italia Spa
ISBN: 9788894965230
Nel ricordo del tempo antico.
Indice dei contenuti
PREFAZIONE 2
CAPITOLO 1 4
CAPITOLO 2 9
CAPITOLO 3 22
CAPITOLO 4 31
CAPITOLO 5 39
CAPITOLO 6 40
CAPITOLO 7 49
CAPITOLO 8 57
CAPITOLO 9 69
CAPITOLO 10 78
CAPITOLO 11 88
CAPITOLO 12 101
CAPITOLO 13 108
CAPITOLO 14 118
CAPITOLO 15 126
CAPITOLO 16 136
CAPITOLO 17 146
CAPITOLO 18 159
CAPITOLO 19 170
CAPITOLO 20 186
CAPITOLO 21 196
CAPITOLO 22 210
CAPITOLO 23 223
CAPITOLO 24 240
CAPITOLO 25 257
CAPITOLO 26 275
CAPITOLO 27 294
CAPITOLO 28 311
DIZIONARIETTO 322
TAVOLE 325
TAVOLA I 326
TAVOLA II 327
TAVOLA III 328
TAVOLA IV 329
TAVOLA V 331
TAVOLA VI 333
TAVOLA VII 334
TAVOLA VIII 335
TAVOLA IX 336
TAVOLA X 338
1
PREFAZIONE
Alcuni anni fa, al Cairo, conobbi per una serie di coincidenze un
di​gni​to​so Egi​zia​no, mon​sieur Abd el-Hamîd Ibn Hasan. La sua attività
era più che proficua, essendo dirigente di una fabbrica di riciclaggio
di mez​zi mec​ca​ni​ci.
Notai in ogni modo che quell’Egiziano aveva modi di fare e tratti
del volto che, a parte il colore dell’epidermide, indicavano un forte
ascendente europeo. Entrammo in amicizia e spesso io ero ospite a
casa sua, una bella villetta del tardo Ottocento in Sharia Sabri Bâsha,
nel quar​tie​re di Zamâlek.
In una delle mie tante visite egli mi accennò ai suoi antenati e ven‐
ni a sapere che il suo bisnonno era un Francese, un certo mon​sieur
Georges Denon che s’era stabilito al Cairo nel 1890, aveva sposato
una ricca donna cairota ed aveva costruito la villa, attuale residenza
del dignitoso egiziano. Pian piano costui mi narrò alcuni episodi del‐
la vita del suo antenato, e mi mostrò degli oggetti e degli arredi con‐
servati in un ambiente dalla porta blindata. Si trattava di splendidi
manufatti egizi della XVIII dinastia appartenuti a una principessa il
cui nome era Nafârat-iâhy. La cosa sorprendente era che i reperti
erano in ottime condizioni pur non essendo mai stati sottoposti a re‐
stau​ro.
La questione m’interessò a tal punto che pregai l’Egiziano di for‐
nirmi maggiori chiarimenti e informazioni sulla vita del suo avo,
sem​pre che lo de​si​de​ras​se: egli con​si​de​rò la mia ri​chie​sta e sor​ri​se.
Un giorno mi porse un voluminoso e antico manoscritto assicu‐
randomi che era una specie di diario autobiografico appartenuto a
un sâhib kebîr (grande amico) del suo avo: il nome del sâhib era Abd
el-Hamîd, un Fran​ce​se na​tu​ra​liz​za​to ara​bo. L’E​gi​zia​no mi fece an​che
2
presente che da tre generazioni i maschi portavano tale nome e le
fem​mi​ne quel​lo di el-Alâtia el-Gamîla (la-bel​la-mu​si​can​te).
Sa​reb​be su​per​fluo af​fer​ma​re che les​si quel​le me​mo​rie di un fia​to.
Ne rimasi tanto sconvolto, che ne volli parlare con l’Egiziano. Egli
non ri​spo​se, ma mi fece en​tra​re nel​la stan​za blin​da​ta e dis​se:
- Monsieur, ecco le prove di quanto è scritto in quei fogli. Questi ricordi
risalgono a millenni fa, ma appartennero al mio bisnonno. Osservateli con
cal​ma e le con​clu​sio​ni che ne trar​re​te non mi ri​guar​de​ran​no -
Ebbene, l’unica conclusione che trassi da quanto letto e osservato,
era che bi​so​gna​va ren​de​re nota quel​la vi​cen​da.
Pie​tro Te​sta
Il Cai​ro, feb​bra​io 1984.
In questo romanzo i nomi degli egittologi francesi sono storici. Gli
al​tri sono im​ma​gi​na​ri.
3
CAPITOLO 1
Il primo incontro
Nel tardo pomeriggio del 25 giugno dell’anno 1881 me ne stavo se‐
duto su una sedia mezzo sgangherata di un piccolo caffè al limitare
del villaggio di Lùqsor: al mio fianco vi era un tavolino tondo in fer‐
ro battuto e dal ripiano di marmo. Un bicchiere di tè scuro fumante
mi teneva compagnia mentre guardavo la distesa di fertile terreno,
oltre il quale scorreva il maestoso Nilo, e le aspre montagne della
Bibân el-Mulûk che s’intravedevano all’orizzonte tremolante. Alcuni
bambini sporchi e coperti di pochi cenci si rincorrevano gridando
nel vicolo ove si trovava il piccolo caffè, mentre poco distante da me
v’era un gruppetto d’indigeni che, seduti in circolo, si beavano a fu‐
mare una shîsha* 1 comune, sputando ogni tanto nella polvere della
viuz​za e scam​bian​do qual​che pa​ro​la.
Gli odo​ri del​l’E​git​to mi era​no or​mai fa​mi​lia​ri da lun​go tem​po, così
come la sua lingua, più semplice dell’arabo e forse più dolce e armo‐
niosa: eppure spesso mi accadeva di sentire un aroma nuovo o un
lez​zo non co​no​sciu​to. Lo stes​so va​le​va per le tin​te dei din​tor​ni di Lù​‐
qsor, l’antica Tebe, differenti da quelli del territorio del Cairo, o del
Me​dio Egit​to o del Del​ta.
Gustando il mio tè inseguivo i miei pensieri e formulavo progetti
riguardo a ciò che avevo raccolto negli anni e nei mesi precedenti e
a quanto avevo dedotto da alcuni reperti archeologici in mio posses‐
so. Il piano era quasi pronto, e pochi dettagli occorrevano per ren‐
derlo completo: una speranza si era accesa da qualche tempo nel
mio ani​mo spes​so of​fu​sca​to da oscu​ri e va​ghi ter​ro​ri.
A un tratto vidi venire dal fondo della strada che proveniva dal
4
Nilo tre cavalieri che montavano destrieri arabi portati al trotto. Il
mio inconscio si tese e sapeva che quando avveniva ciò vi era qual‐
cosa di sospetto nell’aria. Quando le figure furono abbastanza vici‐
ne, mi resi conto che il primo dei tre cavalieri era europeo e gli altri
due indigeni: gli uomini erano provvisti del necessario da viaggio, il
che faceva supporre che venivano da lontano. Il gruppo, a un cenno
del bianco, si fermò a pochi passi da me e l’Europeo smontò da ca‐
vallo: era un uomo d’alta statura, dalla cosiddetta sagoma a fiasco,
spalle strette e fianchi larghi, gambe arcuate non per uso di sella ma
per nascita. Mentre mi si avvicinava, mi colpì il suo volto dal contor‐
no ovoidale, dagli occhi piccoli piantati alla radice di un nasone sot‐
to di cui s’apriva una bocca dalle labbra sottili e dalla piega legger‐
mente amara: quel volto rivelava un’espressione d’imperioso co‐
man​do e di su​per​bia me​schi​na e cru​de​le.
Si fermò di fronte a me, mi guardò accigliato squadrando il mio
abbigliamento non di certo impeccabile e, ponendo le mani sui lar‐
ghi fian​chi, mi si ri​vol​se in in​gle​se:
- Good eve​ning, mi​ster -
Lo guardai negli occhi, alzando la tesa del mio cappellaccio di pa‐
glia e capii che egli era francese come me, al che gli restituii il saluto
nel​la no​stra lin​gua na​ta​le:
- Buo​na sera, si​gno​re -
Egli mi guardò stupito e poi le sue labbra si atteggiarono in un
brut​to sor​ri​so:
- Ha! Sie​te fran​ce​se! Mi fa pia​ce​re in​con​tra​re un com​pa​trio​ta -
Poi, rivoltosi agli Egiziani di scorta, comandò loro d’attendere e,
poi​ché il pa​dro​ne del caf​fè si af​fac​cia​va in​cu​rio​si​to, gli or​di​nò in pes​‐
si​mo ara​bo:
- Iddîli kur​si! -
L’interpellato si affrettò a portare una sedia e l’Europeo, non appe‐
na si fu se​du​to, or​di​nò un tè:
- In questo dannato paese si è costretti a bere un tè che è buono solo a
sciac​qua​re le bu​del​la! -
E mi guardò sperando che io condividessi la sua opinione: ma non
ri​spo​si, li​mi​tan​do​mi ad ac​cen​de​re una si​ga​ret​ta.
5
- Sie​te in Egit​to per di​por​to? - mi chie​se ghi​gnan​do di nuo​vo.
- No -
- Sie​te dun​que un so​li​ta​rio? -
- For​se -
- Permettete che mi presenti: tenente della polizia del Cairo, Eustache du
Ma​lheu​reux. -
Lo guardai e pensai al suo buffo cognome: Eustacchio dell’Infelice!
Sorrisi, mio malgrado, e quello interpretò il mio sorriso come un
cenno di confidenza. Il padrone del caffè portò il tè: arricciando il
naso, du Ma​lheu​reux an​nu​sò la be​van​da e die​de un pic​co​lo sor​so.
- Non mi abituerò mai a questa porcheria! - disse storcendo la bocca -
E voi, come vi chia​ma​te? -
Gettai sul tavolino poche piastre e mi alzai infastidito dalla compa‐
gnia di quel compatriota, io che ero fuggito dalla mia terra per un
torto subìto e che non volevo ricordare. L’uomo allora mi si rivolse
con aria meno gen​ti​le:
- Ebbene! Perché ve ne andate? Perché non volete fornirmi le vostre gene‐
ralità? Avete dimenticato forse le buone maniere? Ricordate che sono un
fun​zio​na​rio di po​li​zia e che... -
- E che... ? Con​ti​nua​te pure! -
- E che po​trei ot​te​ne​re la ri​spo​sta da voi con mez​zi più con​vin​cen​ti -
- Con qua​le di​rit​to, di gra​zia? -
- Con quel​lo del​l’au​to​ri​tà, per​bac​co! -
La mia mano corse istintivamente alla Colt che portavo appesa
alla cintura: i due Egiziani armarono precipitosamente i loro fucili
puntandoli alle mie spalle. Du Malheureux sorseggiò rumorosamen‐
te il suo tè guar​dan​do​mi con leg​ge​ra ma​li​gni​tà.
- Al​lo​ra? - fece ghi​gnan​do.
Sor​ri​si, pre​so dal​la cu​rio​si​tà, e dis​si:
- È giusto: non c’è ragione perché debba nascondere la mia identità. Il
mio nome è Abd el-Hamîd -
- Ho, ho! Un nome ara​bo? Là, là, non dite pan​za​ne! -
- Perché dovrei prendervi in giro? Se avessi voluto, a quest’ora vi avrei
fatto fuori tutti e tre! Da anni io vivo in questo paese, mi piace, mi ci trovo
6
bene e ho voluto assumere un nome arabo. Sapete benissimo che è una cosa
pos​si​bi​le: ecco i miei do​cu​men​ti! -
Portai la mano alla tasca interna della mia giacca e lui si tese leg‐
germente sfiorando la rivoltella: io gli porsi i miei documenti. Egli li
esaminò attentamente e me li restituì con un’espressione di disap‐
pun​to e di de​lu​sio​ne.
- Sicché avete rinnegato la vostra nazionalità per assumere quella di un
lu​ri​do orien​ta​le! E di che vi​ve​te, di gra​zia? -
- Questi sono affari miei. Ma levatemi una curiosità, ora che ho soddisfat‐
to le vo​stre: che fate da que​ste par​ti con due in​di​ge​ni di scor​ta? -
Egli mi scrutò e il suo sguardo divenne acuto come una punta
d’ac​cia​io sot​to le so​prac​ci​glia ce​spu​glio​se:
- Sono sulle tracce di un Francese che ha lasciato una scia di sangue per
tutto l’Egitto: un tipo che ha un passato più o meno tenebroso e che, al mo‐
mento opportuno, sparisce e sa mimetizzarsi. Un uomo che ha conti in sospe‐
so con il Service des Antiquités del Bulâq* e che, però, sembra avere un di‐
screto conto in banca al Cairo... È un avventuriero che ha assassinato parec‐
chi Eu​ro​pei e che va​rie vol​te mi è sfug​gi​to, devo am​met​ter​lo... -
- Il nome di co​stui? -
- Per​ché vo​le​te sa​per​lo? -
- Mah, po​trei aver​lo in​con​tra​to nei miei anni di per​ma​nen​za in Egit​to -
- Georges Denon, un tipo di media statura, occhi verdastri, capelli color
ful​vo scu​ro... -
- No... Credo di non averlo mai avvicinato. Ora vi saluto e, come si dice
da que​ste par​ti, la pace sia su di voi -
- Ar​ri​ve​der​ci, mon​sieur… -
Il sole andava al tramonto e la notte era prossima. Pian piano me
ne tornai alla locanda, dove alloggiavo. Mi sedetti a un tavolino nella
piccola sala da pranzo e accesi una sigaretta: ormai il piano era quasi
completo. Le notizie combaciavano alla perfezione e non sembrava‐
no esserci dubbi sulla riuscita della mia impresa che avevo sognato
da qual​che tem​po.
Ripensai alle coincidenze accadutemi in quegli anni nel Basso
Egitto, al deposito del Bulâq, al Cairo, a Saqqâra, a Abydos e i docu‐
menti che avevo raccolto, o trafugato, mi portavano tutti a un nome:
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Né​fert-Ahyt, una dama egiziana della XVIII dinastia vissuta, secondo i
miei cal​co​li, al​l’e​po​ca del re Thu​th​mo​se III. Fu un pe​rio​do
d’oro e di gloria per l’antico Egitto, ma ancora parecchie tessere
mancavano al mosaico della storia di quel tempo. Ma ciò che più mi
faceva riflettere era il ricordo di sensazioni strane che mi assalivano
quando esaminavo e ripassavo tra le mani i reperti che avevo raccol‐
to e che avevo portato con me nelle mie peregrinazioni nella terra
dei faraoni. Spesso avevo la certezza di un combinarsi d’avvenimen‐
ti antichi e presenti e il nome della dama Néfert-ahyt mi provocava
dei turbamenti strani che sovente avevano una matrice comune, an‐
che se as​sur​da: amo​re.
[1] Per i ter​mi​ni con aste​ri​sco, vedi Di​zio​na​riet​to.
8
- Di​cia​mo di sì... e scu​sa​mi se... -
- Non devi scusarti con nessuno. Ognuno di noi ha diritto di sfogarsi come
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onore, forza d’animo… tutte puttanate! Il rospo bisogna buttarlo fuori con
ogni mez​zo… e bea​to chi lo rie​sce a fare! -
Ci sedemmo e accendemmo il fornelletto a petrolio per scaldare
un po’ di ac​qua per il tè: nel frat​tem​po ce​nam​mo.
- Ti voglio rispondere alla domanda di prima: si tratta di un periodo del‐
la mia vita. Io sono di Marsiglia e quindi siamo concittadini. La mia fami‐
glia, composta dai miei genitori, era in amicizia pluriennale con un’altra
famiglia composta da tre sorelle. Due di queste, M.me Anne e M.me Ra‐
phaëline erano entrambe vedove. La prima non aveva avuto figli e aveva
adottato un ragazzo orfano, Lucius che, crescendo, aveva dato discrete sod‐
disfazioni alla donna, intraprendendo la sua stessa strada, cioè quella della
pittura. La seconda aveva due figli: Laure e Hélios. Laure non era molto
bella, ma abbastanza simpatica, così come il fratello, rosso di capelli, ma
brut​to come il de​bi​to.
Poi queste tre sorelle avevano un fratello, sempre a Marsiglia, sposato e
con tre figli: due sorelle e un maschio di nome Charles, anch’egli versato nel‐
la pittura e nelle belle arti. Mia madre e M.me Anne erano state amiche a
scuola e, negli anni, era rimasta quest’amicizia. Non nego che io, Lucius,
Hélios e Charles avevamo formato un’allegra combriccola: spesso uscivamo
insieme, oppure ci davamo a passeggiate in calesse, colazioni in campagna,
giocate a carte, inseguimenti di belle fanciulle... insomma la vita trascorreva
discretamente in meri passatempi e piaceri mondani, medio borghesi: ma, in
fondo, eravamo spensierati e quindi felici. Per alcuni periodi estivi si anda‐
va tut​ti in​sie​me, noi gio​va​ni e re​la​ti​ve fa​mi​glie, in vil​leg​gia​tu​ra in un pae​si​‐
no lontano da Marsiglia, in montagna, godendoci un paio di mesetti di pace
e di​sten​sio​ne.
Orbene, con l'andar del tempo, mi ero accorto che Laure era alquanto sim‐
patica, cordiale e, in fondo, non da gettar via. Io avevo quasi terminato gli
studi universitari, potevo svolgere un lavoro interessante e quindi iniziai ad
accarezzare l’idea di fare la corte a codesta signorina. Del resto ero avvan‐
taggiato dal fatto che le nostre famiglie già si conoscevano e perciò si elimi‐
52

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  • 2. © Tutti i diritti riservati a Digitalsoul Divisione S.E.A. Servizi Editoriali Avanzati, Sede Legale in Via Volga, 44 - 52025 Montevarchi (AR) Sede Operativa, la medesima sopra citata. Direttore Editoriale: Paola Agnolucci www.digitalsoul.it - info@digitalsoul.it I fatti e le opinioni riportate in questo libro impegnano esclusivamente l’Autore. Possono essere pubblicati nell’Opera varie informazioni, comunque di pubblico dominio, salvo dove diversamente specificato. 2018 © Impaginazione ed elaborazione grafica: Paola Agnolucci Stampato da: Rotomail Italia Spa ISBN: 9788894965230
  • 3. Nel ricordo del tempo antico.
  • 4. Indice dei contenuti PREFAZIONE 2 CAPITOLO 1 4 CAPITOLO 2 9 CAPITOLO 3 22 CAPITOLO 4 31 CAPITOLO 5 39 CAPITOLO 6 40 CAPITOLO 7 49 CAPITOLO 8 57 CAPITOLO 9 69 CAPITOLO 10 78 CAPITOLO 11 88 CAPITOLO 12 101 CAPITOLO 13 108 CAPITOLO 14 118 CAPITOLO 15 126 CAPITOLO 16 136 CAPITOLO 17 146 CAPITOLO 18 159 CAPITOLO 19 170 CAPITOLO 20 186 CAPITOLO 21 196 CAPITOLO 22 210 CAPITOLO 23 223
  • 5. CAPITOLO 24 240 CAPITOLO 25 257 CAPITOLO 26 275 CAPITOLO 27 294 CAPITOLO 28 311 DIZIONARIETTO 322 TAVOLE 325 TAVOLA I 326 TAVOLA II 327 TAVOLA III 328 TAVOLA IV 329 TAVOLA V 331 TAVOLA VI 333 TAVOLA VII 334 TAVOLA VIII 335 TAVOLA IX 336 TAVOLA X 338
  • 6. 1
  • 7. PREFAZIONE Alcuni anni fa, al Cairo, conobbi per una serie di coincidenze un di​gni​to​so Egi​zia​no, mon​sieur Abd el-Hamîd Ibn Hasan. La sua attività era più che proficua, essendo dirigente di una fabbrica di riciclaggio di mez​zi mec​ca​ni​ci. Notai in ogni modo che quell’Egiziano aveva modi di fare e tratti del volto che, a parte il colore dell’epidermide, indicavano un forte ascendente europeo. Entrammo in amicizia e spesso io ero ospite a casa sua, una bella villetta del tardo Ottocento in Sharia Sabri Bâsha, nel quar​tie​re di Zamâlek. In una delle mie tante visite egli mi accennò ai suoi antenati e ven‐ ni a sapere che il suo bisnonno era un Francese, un certo mon​sieur Georges Denon che s’era stabilito al Cairo nel 1890, aveva sposato una ricca donna cairota ed aveva costruito la villa, attuale residenza del dignitoso egiziano. Pian piano costui mi narrò alcuni episodi del‐ la vita del suo antenato, e mi mostrò degli oggetti e degli arredi con‐ servati in un ambiente dalla porta blindata. Si trattava di splendidi manufatti egizi della XVIII dinastia appartenuti a una principessa il cui nome era Nafârat-iâhy. La cosa sorprendente era che i reperti erano in ottime condizioni pur non essendo mai stati sottoposti a re‐ stau​ro. La questione m’interessò a tal punto che pregai l’Egiziano di for‐ nirmi maggiori chiarimenti e informazioni sulla vita del suo avo, sem​pre che lo de​si​de​ras​se: egli con​si​de​rò la mia ri​chie​sta e sor​ri​se. Un giorno mi porse un voluminoso e antico manoscritto assicu‐ randomi che era una specie di diario autobiografico appartenuto a un sâhib kebîr (grande amico) del suo avo: il nome del sâhib era Abd el-Hamîd, un Fran​ce​se na​tu​ra​liz​za​to ara​bo. L’E​gi​zia​no mi fece an​che 2
  • 8. presente che da tre generazioni i maschi portavano tale nome e le fem​mi​ne quel​lo di el-Alâtia el-Gamîla (la-bel​la-mu​si​can​te). Sa​reb​be su​per​fluo af​fer​ma​re che les​si quel​le me​mo​rie di un fia​to. Ne rimasi tanto sconvolto, che ne volli parlare con l’Egiziano. Egli non ri​spo​se, ma mi fece en​tra​re nel​la stan​za blin​da​ta e dis​se: - Monsieur, ecco le prove di quanto è scritto in quei fogli. Questi ricordi risalgono a millenni fa, ma appartennero al mio bisnonno. Osservateli con cal​ma e le con​clu​sio​ni che ne trar​re​te non mi ri​guar​de​ran​no - Ebbene, l’unica conclusione che trassi da quanto letto e osservato, era che bi​so​gna​va ren​de​re nota quel​la vi​cen​da. Pie​tro Te​sta Il Cai​ro, feb​bra​io 1984. In questo romanzo i nomi degli egittologi francesi sono storici. Gli al​tri sono im​ma​gi​na​ri. 3
  • 9. CAPITOLO 1 Il primo incontro Nel tardo pomeriggio del 25 giugno dell’anno 1881 me ne stavo se‐ duto su una sedia mezzo sgangherata di un piccolo caffè al limitare del villaggio di Lùqsor: al mio fianco vi era un tavolino tondo in fer‐ ro battuto e dal ripiano di marmo. Un bicchiere di tè scuro fumante mi teneva compagnia mentre guardavo la distesa di fertile terreno, oltre il quale scorreva il maestoso Nilo, e le aspre montagne della Bibân el-Mulûk che s’intravedevano all’orizzonte tremolante. Alcuni bambini sporchi e coperti di pochi cenci si rincorrevano gridando nel vicolo ove si trovava il piccolo caffè, mentre poco distante da me v’era un gruppetto d’indigeni che, seduti in circolo, si beavano a fu‐ mare una shîsha* 1 comune, sputando ogni tanto nella polvere della viuz​za e scam​bian​do qual​che pa​ro​la. Gli odo​ri del​l’E​git​to mi era​no or​mai fa​mi​lia​ri da lun​go tem​po, così come la sua lingua, più semplice dell’arabo e forse più dolce e armo‐ niosa: eppure spesso mi accadeva di sentire un aroma nuovo o un lez​zo non co​no​sciu​to. Lo stes​so va​le​va per le tin​te dei din​tor​ni di Lù​‐ qsor, l’antica Tebe, differenti da quelli del territorio del Cairo, o del Me​dio Egit​to o del Del​ta. Gustando il mio tè inseguivo i miei pensieri e formulavo progetti riguardo a ciò che avevo raccolto negli anni e nei mesi precedenti e a quanto avevo dedotto da alcuni reperti archeologici in mio posses‐ so. Il piano era quasi pronto, e pochi dettagli occorrevano per ren‐ derlo completo: una speranza si era accesa da qualche tempo nel mio ani​mo spes​so of​fu​sca​to da oscu​ri e va​ghi ter​ro​ri. A un tratto vidi venire dal fondo della strada che proveniva dal 4
  • 10. Nilo tre cavalieri che montavano destrieri arabi portati al trotto. Il mio inconscio si tese e sapeva che quando avveniva ciò vi era qual‐ cosa di sospetto nell’aria. Quando le figure furono abbastanza vici‐ ne, mi resi conto che il primo dei tre cavalieri era europeo e gli altri due indigeni: gli uomini erano provvisti del necessario da viaggio, il che faceva supporre che venivano da lontano. Il gruppo, a un cenno del bianco, si fermò a pochi passi da me e l’Europeo smontò da ca‐ vallo: era un uomo d’alta statura, dalla cosiddetta sagoma a fiasco, spalle strette e fianchi larghi, gambe arcuate non per uso di sella ma per nascita. Mentre mi si avvicinava, mi colpì il suo volto dal contor‐ no ovoidale, dagli occhi piccoli piantati alla radice di un nasone sot‐ to di cui s’apriva una bocca dalle labbra sottili e dalla piega legger‐ mente amara: quel volto rivelava un’espressione d’imperioso co‐ man​do e di su​per​bia me​schi​na e cru​de​le. Si fermò di fronte a me, mi guardò accigliato squadrando il mio abbigliamento non di certo impeccabile e, ponendo le mani sui lar‐ ghi fian​chi, mi si ri​vol​se in in​gle​se: - Good eve​ning, mi​ster - Lo guardai negli occhi, alzando la tesa del mio cappellaccio di pa‐ glia e capii che egli era francese come me, al che gli restituii il saluto nel​la no​stra lin​gua na​ta​le: - Buo​na sera, si​gno​re - Egli mi guardò stupito e poi le sue labbra si atteggiarono in un brut​to sor​ri​so: - Ha! Sie​te fran​ce​se! Mi fa pia​ce​re in​con​tra​re un com​pa​trio​ta - Poi, rivoltosi agli Egiziani di scorta, comandò loro d’attendere e, poi​ché il pa​dro​ne del caf​fè si af​fac​cia​va in​cu​rio​si​to, gli or​di​nò in pes​‐ si​mo ara​bo: - Iddîli kur​si! - L’interpellato si affrettò a portare una sedia e l’Europeo, non appe‐ na si fu se​du​to, or​di​nò un tè: - In questo dannato paese si è costretti a bere un tè che è buono solo a sciac​qua​re le bu​del​la! - E mi guardò sperando che io condividessi la sua opinione: ma non ri​spo​si, li​mi​tan​do​mi ad ac​cen​de​re una si​ga​ret​ta. 5
  • 11. - Sie​te in Egit​to per di​por​to? - mi chie​se ghi​gnan​do di nuo​vo. - No - - Sie​te dun​que un so​li​ta​rio? - - For​se - - Permettete che mi presenti: tenente della polizia del Cairo, Eustache du Ma​lheu​reux. - Lo guardai e pensai al suo buffo cognome: Eustacchio dell’Infelice! Sorrisi, mio malgrado, e quello interpretò il mio sorriso come un cenno di confidenza. Il padrone del caffè portò il tè: arricciando il naso, du Ma​lheu​reux an​nu​sò la be​van​da e die​de un pic​co​lo sor​so. - Non mi abituerò mai a questa porcheria! - disse storcendo la bocca - E voi, come vi chia​ma​te? - Gettai sul tavolino poche piastre e mi alzai infastidito dalla compa‐ gnia di quel compatriota, io che ero fuggito dalla mia terra per un torto subìto e che non volevo ricordare. L’uomo allora mi si rivolse con aria meno gen​ti​le: - Ebbene! Perché ve ne andate? Perché non volete fornirmi le vostre gene‐ ralità? Avete dimenticato forse le buone maniere? Ricordate che sono un fun​zio​na​rio di po​li​zia e che... - - E che... ? Con​ti​nua​te pure! - - E che po​trei ot​te​ne​re la ri​spo​sta da voi con mez​zi più con​vin​cen​ti - - Con qua​le di​rit​to, di gra​zia? - - Con quel​lo del​l’au​to​ri​tà, per​bac​co! - La mia mano corse istintivamente alla Colt che portavo appesa alla cintura: i due Egiziani armarono precipitosamente i loro fucili puntandoli alle mie spalle. Du Malheureux sorseggiò rumorosamen‐ te il suo tè guar​dan​do​mi con leg​ge​ra ma​li​gni​tà. - Al​lo​ra? - fece ghi​gnan​do. Sor​ri​si, pre​so dal​la cu​rio​si​tà, e dis​si: - È giusto: non c’è ragione perché debba nascondere la mia identità. Il mio nome è Abd el-Hamîd - - Ho, ho! Un nome ara​bo? Là, là, non dite pan​za​ne! - - Perché dovrei prendervi in giro? Se avessi voluto, a quest’ora vi avrei fatto fuori tutti e tre! Da anni io vivo in questo paese, mi piace, mi ci trovo 6
  • 12. bene e ho voluto assumere un nome arabo. Sapete benissimo che è una cosa pos​si​bi​le: ecco i miei do​cu​men​ti! - Portai la mano alla tasca interna della mia giacca e lui si tese leg‐ germente sfiorando la rivoltella: io gli porsi i miei documenti. Egli li esaminò attentamente e me li restituì con un’espressione di disap‐ pun​to e di de​lu​sio​ne. - Sicché avete rinnegato la vostra nazionalità per assumere quella di un lu​ri​do orien​ta​le! E di che vi​ve​te, di gra​zia? - - Questi sono affari miei. Ma levatemi una curiosità, ora che ho soddisfat‐ to le vo​stre: che fate da que​ste par​ti con due in​di​ge​ni di scor​ta? - Egli mi scrutò e il suo sguardo divenne acuto come una punta d’ac​cia​io sot​to le so​prac​ci​glia ce​spu​glio​se: - Sono sulle tracce di un Francese che ha lasciato una scia di sangue per tutto l’Egitto: un tipo che ha un passato più o meno tenebroso e che, al mo‐ mento opportuno, sparisce e sa mimetizzarsi. Un uomo che ha conti in sospe‐ so con il Service des Antiquités del Bulâq* e che, però, sembra avere un di‐ screto conto in banca al Cairo... È un avventuriero che ha assassinato parec‐ chi Eu​ro​pei e che va​rie vol​te mi è sfug​gi​to, devo am​met​ter​lo... - - Il nome di co​stui? - - Per​ché vo​le​te sa​per​lo? - - Mah, po​trei aver​lo in​con​tra​to nei miei anni di per​ma​nen​za in Egit​to - - Georges Denon, un tipo di media statura, occhi verdastri, capelli color ful​vo scu​ro... - - No... Credo di non averlo mai avvicinato. Ora vi saluto e, come si dice da que​ste par​ti, la pace sia su di voi - - Ar​ri​ve​der​ci, mon​sieur… - Il sole andava al tramonto e la notte era prossima. Pian piano me ne tornai alla locanda, dove alloggiavo. Mi sedetti a un tavolino nella piccola sala da pranzo e accesi una sigaretta: ormai il piano era quasi completo. Le notizie combaciavano alla perfezione e non sembrava‐ no esserci dubbi sulla riuscita della mia impresa che avevo sognato da qual​che tem​po. Ripensai alle coincidenze accadutemi in quegli anni nel Basso Egitto, al deposito del Bulâq, al Cairo, a Saqqâra, a Abydos e i docu‐ menti che avevo raccolto, o trafugato, mi portavano tutti a un nome: 7
  • 13. Né​fert-Ahyt, una dama egiziana della XVIII dinastia vissuta, secondo i miei cal​co​li, al​l’e​po​ca del re Thu​th​mo​se III. Fu un pe​rio​do d’oro e di gloria per l’antico Egitto, ma ancora parecchie tessere mancavano al mosaico della storia di quel tempo. Ma ciò che più mi faceva riflettere era il ricordo di sensazioni strane che mi assalivano quando esaminavo e ripassavo tra le mani i reperti che avevo raccol‐ to e che avevo portato con me nelle mie peregrinazioni nella terra dei faraoni. Spesso avevo la certezza di un combinarsi d’avvenimen‐ ti antichi e presenti e il nome della dama Néfert-ahyt mi provocava dei turbamenti strani che sovente avevano una matrice comune, an‐ che se as​sur​da: amo​re. [1] Per i ter​mi​ni con aste​ri​sco, vedi Di​zio​na​riet​to. 8
  • 14. - Di​cia​mo di sì... e scu​sa​mi se... - - Non devi scusarti con nessuno. Ognuno di noi ha diritto di sfogarsi come vuole... Per me non esistono quei dogmi che la società ha imposto: virilità, onore, forza d’animo… tutte puttanate! Il rospo bisogna buttarlo fuori con ogni mez​zo… e bea​to chi lo rie​sce a fare! - Ci sedemmo e accendemmo il fornelletto a petrolio per scaldare un po’ di ac​qua per il tè: nel frat​tem​po ce​nam​mo. - Ti voglio rispondere alla domanda di prima: si tratta di un periodo del‐ la mia vita. Io sono di Marsiglia e quindi siamo concittadini. La mia fami‐ glia, composta dai miei genitori, era in amicizia pluriennale con un’altra famiglia composta da tre sorelle. Due di queste, M.me Anne e M.me Ra‐ phaëline erano entrambe vedove. La prima non aveva avuto figli e aveva adottato un ragazzo orfano, Lucius che, crescendo, aveva dato discrete sod‐ disfazioni alla donna, intraprendendo la sua stessa strada, cioè quella della pittura. La seconda aveva due figli: Laure e Hélios. Laure non era molto bella, ma abbastanza simpatica, così come il fratello, rosso di capelli, ma brut​to come il de​bi​to. Poi queste tre sorelle avevano un fratello, sempre a Marsiglia, sposato e con tre figli: due sorelle e un maschio di nome Charles, anch’egli versato nel‐ la pittura e nelle belle arti. Mia madre e M.me Anne erano state amiche a scuola e, negli anni, era rimasta quest’amicizia. Non nego che io, Lucius, Hélios e Charles avevamo formato un’allegra combriccola: spesso uscivamo insieme, oppure ci davamo a passeggiate in calesse, colazioni in campagna, giocate a carte, inseguimenti di belle fanciulle... insomma la vita trascorreva discretamente in meri passatempi e piaceri mondani, medio borghesi: ma, in fondo, eravamo spensierati e quindi felici. Per alcuni periodi estivi si anda‐ va tut​ti in​sie​me, noi gio​va​ni e re​la​ti​ve fa​mi​glie, in vil​leg​gia​tu​ra in un pae​si​‐ no lontano da Marsiglia, in montagna, godendoci un paio di mesetti di pace e di​sten​sio​ne. Orbene, con l'andar del tempo, mi ero accorto che Laure era alquanto sim‐ patica, cordiale e, in fondo, non da gettar via. Io avevo quasi terminato gli studi universitari, potevo svolgere un lavoro interessante e quindi iniziai ad accarezzare l’idea di fare la corte a codesta signorina. Del resto ero avvan‐ taggiato dal fatto che le nostre famiglie già si conoscevano e perciò si elimi‐ 52