La storia, ambientata alla fine dell’Ottocento, si svolge in Egitto. La narrazione, in stile autobiografico, è imperniata sulla ricerca della tomba della principessa Néfert-ahyt, vissuta all’inizio della XVIII dinastia. La vicenda, ricca di colpi di scena, si dipana fra strani fenomeni e avvenimenti che collegano l’Egitto faraonico a quello del XIX secolo, avendo come filo conduttore un amore spezzato tremila anni prima e magicamente rivissuto all’epoca della vicenda. Il finale, originale e a sorpresa, capovolge alcuni valori tradizionali in nome dell’immanenza di una giustizia e di una magia determinata e atemporale.
5. CAPITOLO 24 240
CAPITOLO 25 257
CAPITOLO 26 275
CAPITOLO 27 294
CAPITOLO 28 311
DIZIONARIETTO 322
TAVOLE 325
TAVOLA I 326
TAVOLA II 327
TAVOLA III 328
TAVOLA IV 329
TAVOLA V 331
TAVOLA VI 333
TAVOLA VII 334
TAVOLA VIII 335
TAVOLA IX 336
TAVOLA X 338
7. PREFAZIONE
Alcuni anni fa, al Cairo, conobbi per una serie di coincidenze un
dignitoso Egiziano, monsieur Abd el-Hamîd Ibn Hasan. La sua attività
era più che proficua, essendo dirigente di una fabbrica di riciclaggio
di mezzi meccanici.
Notai in ogni modo che quell’Egiziano aveva modi di fare e tratti
del volto che, a parte il colore dell’epidermide, indicavano un forte
ascendente europeo. Entrammo in amicizia e spesso io ero ospite a
casa sua, una bella villetta del tardo Ottocento in Sharia Sabri Bâsha,
nel quartiere di Zamâlek.
In una delle mie tante visite egli mi accennò ai suoi antenati e ven‐
ni a sapere che il suo bisnonno era un Francese, un certo monsieur
Georges Denon che s’era stabilito al Cairo nel 1890, aveva sposato
una ricca donna cairota ed aveva costruito la villa, attuale residenza
del dignitoso egiziano. Pian piano costui mi narrò alcuni episodi del‐
la vita del suo antenato, e mi mostrò degli oggetti e degli arredi con‐
servati in un ambiente dalla porta blindata. Si trattava di splendidi
manufatti egizi della XVIII dinastia appartenuti a una principessa il
cui nome era Nafârat-iâhy. La cosa sorprendente era che i reperti
erano in ottime condizioni pur non essendo mai stati sottoposti a re‐
stauro.
La questione m’interessò a tal punto che pregai l’Egiziano di for‐
nirmi maggiori chiarimenti e informazioni sulla vita del suo avo,
sempre che lo desiderasse: egli considerò la mia richiesta e sorrise.
Un giorno mi porse un voluminoso e antico manoscritto assicu‐
randomi che era una specie di diario autobiografico appartenuto a
un sâhib kebîr (grande amico) del suo avo: il nome del sâhib era Abd
el-Hamîd, un Francese naturalizzato arabo. L’Egiziano mi fece anche
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8. presente che da tre generazioni i maschi portavano tale nome e le
femmine quello di el-Alâtia el-Gamîla (la-bella-musicante).
Sarebbe superfluo affermare che lessi quelle memorie di un fiato.
Ne rimasi tanto sconvolto, che ne volli parlare con l’Egiziano. Egli
non rispose, ma mi fece entrare nella stanza blindata e disse:
- Monsieur, ecco le prove di quanto è scritto in quei fogli. Questi ricordi
risalgono a millenni fa, ma appartennero al mio bisnonno. Osservateli con
calma e le conclusioni che ne trarrete non mi riguarderanno -
Ebbene, l’unica conclusione che trassi da quanto letto e osservato,
era che bisognava rendere nota quella vicenda.
Pietro Testa
Il Cairo, febbraio 1984.
In questo romanzo i nomi degli egittologi francesi sono storici. Gli
altri sono immaginari.
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9. CAPITOLO 1
Il primo incontro
Nel tardo pomeriggio del 25 giugno dell’anno 1881 me ne stavo se‐
duto su una sedia mezzo sgangherata di un piccolo caffè al limitare
del villaggio di Lùqsor: al mio fianco vi era un tavolino tondo in fer‐
ro battuto e dal ripiano di marmo. Un bicchiere di tè scuro fumante
mi teneva compagnia mentre guardavo la distesa di fertile terreno,
oltre il quale scorreva il maestoso Nilo, e le aspre montagne della
Bibân el-Mulûk che s’intravedevano all’orizzonte tremolante. Alcuni
bambini sporchi e coperti di pochi cenci si rincorrevano gridando
nel vicolo ove si trovava il piccolo caffè, mentre poco distante da me
v’era un gruppetto d’indigeni che, seduti in circolo, si beavano a fu‐
mare una shîsha* 1 comune, sputando ogni tanto nella polvere della
viuzza e scambiando qualche parola.
Gli odori dell’Egitto mi erano ormai familiari da lungo tempo, così
come la sua lingua, più semplice dell’arabo e forse più dolce e armo‐
niosa: eppure spesso mi accadeva di sentire un aroma nuovo o un
lezzo non conosciuto. Lo stesso valeva per le tinte dei dintorni di Lù‐
qsor, l’antica Tebe, differenti da quelli del territorio del Cairo, o del
Medio Egitto o del Delta.
Gustando il mio tè inseguivo i miei pensieri e formulavo progetti
riguardo a ciò che avevo raccolto negli anni e nei mesi precedenti e
a quanto avevo dedotto da alcuni reperti archeologici in mio posses‐
so. Il piano era quasi pronto, e pochi dettagli occorrevano per ren‐
derlo completo: una speranza si era accesa da qualche tempo nel
mio animo spesso offuscato da oscuri e vaghi terrori.
A un tratto vidi venire dal fondo della strada che proveniva dal
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10. Nilo tre cavalieri che montavano destrieri arabi portati al trotto. Il
mio inconscio si tese e sapeva che quando avveniva ciò vi era qual‐
cosa di sospetto nell’aria. Quando le figure furono abbastanza vici‐
ne, mi resi conto che il primo dei tre cavalieri era europeo e gli altri
due indigeni: gli uomini erano provvisti del necessario da viaggio, il
che faceva supporre che venivano da lontano. Il gruppo, a un cenno
del bianco, si fermò a pochi passi da me e l’Europeo smontò da ca‐
vallo: era un uomo d’alta statura, dalla cosiddetta sagoma a fiasco,
spalle strette e fianchi larghi, gambe arcuate non per uso di sella ma
per nascita. Mentre mi si avvicinava, mi colpì il suo volto dal contor‐
no ovoidale, dagli occhi piccoli piantati alla radice di un nasone sot‐
to di cui s’apriva una bocca dalle labbra sottili e dalla piega legger‐
mente amara: quel volto rivelava un’espressione d’imperioso co‐
mando e di superbia meschina e crudele.
Si fermò di fronte a me, mi guardò accigliato squadrando il mio
abbigliamento non di certo impeccabile e, ponendo le mani sui lar‐
ghi fianchi, mi si rivolse in inglese:
- Good evening, mister -
Lo guardai negli occhi, alzando la tesa del mio cappellaccio di pa‐
glia e capii che egli era francese come me, al che gli restituii il saluto
nella nostra lingua natale:
- Buona sera, signore -
Egli mi guardò stupito e poi le sue labbra si atteggiarono in un
brutto sorriso:
- Ha! Siete francese! Mi fa piacere incontrare un compatriota -
Poi, rivoltosi agli Egiziani di scorta, comandò loro d’attendere e,
poiché il padrone del caffè si affacciava incuriosito, gli ordinò in pes‐
simo arabo:
- Iddîli kursi! -
L’interpellato si affrettò a portare una sedia e l’Europeo, non appe‐
na si fu seduto, ordinò un tè:
- In questo dannato paese si è costretti a bere un tè che è buono solo a
sciacquare le budella! -
E mi guardò sperando che io condividessi la sua opinione: ma non
risposi, limitandomi ad accendere una sigaretta.
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11. - Siete in Egitto per diporto? - mi chiese ghignando di nuovo.
- No -
- Siete dunque un solitario? -
- Forse -
- Permettete che mi presenti: tenente della polizia del Cairo, Eustache du
Malheureux. -
Lo guardai e pensai al suo buffo cognome: Eustacchio dell’Infelice!
Sorrisi, mio malgrado, e quello interpretò il mio sorriso come un
cenno di confidenza. Il padrone del caffè portò il tè: arricciando il
naso, du Malheureux annusò la bevanda e diede un piccolo sorso.
- Non mi abituerò mai a questa porcheria! - disse storcendo la bocca -
E voi, come vi chiamate? -
Gettai sul tavolino poche piastre e mi alzai infastidito dalla compa‐
gnia di quel compatriota, io che ero fuggito dalla mia terra per un
torto subìto e che non volevo ricordare. L’uomo allora mi si rivolse
con aria meno gentile:
- Ebbene! Perché ve ne andate? Perché non volete fornirmi le vostre gene‐
ralità? Avete dimenticato forse le buone maniere? Ricordate che sono un
funzionario di polizia e che... -
- E che... ? Continuate pure! -
- E che potrei ottenere la risposta da voi con mezzi più convincenti -
- Con quale diritto, di grazia? -
- Con quello dell’autorità, perbacco! -
La mia mano corse istintivamente alla Colt che portavo appesa
alla cintura: i due Egiziani armarono precipitosamente i loro fucili
puntandoli alle mie spalle. Du Malheureux sorseggiò rumorosamen‐
te il suo tè guardandomi con leggera malignità.
- Allora? - fece ghignando.
Sorrisi, preso dalla curiosità, e dissi:
- È giusto: non c’è ragione perché debba nascondere la mia identità. Il
mio nome è Abd el-Hamîd -
- Ho, ho! Un nome arabo? Là, là, non dite panzane! -
- Perché dovrei prendervi in giro? Se avessi voluto, a quest’ora vi avrei
fatto fuori tutti e tre! Da anni io vivo in questo paese, mi piace, mi ci trovo
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12. bene e ho voluto assumere un nome arabo. Sapete benissimo che è una cosa
possibile: ecco i miei documenti! -
Portai la mano alla tasca interna della mia giacca e lui si tese leg‐
germente sfiorando la rivoltella: io gli porsi i miei documenti. Egli li
esaminò attentamente e me li restituì con un’espressione di disap‐
punto e di delusione.
- Sicché avete rinnegato la vostra nazionalità per assumere quella di un
lurido orientale! E di che vivete, di grazia? -
- Questi sono affari miei. Ma levatemi una curiosità, ora che ho soddisfat‐
to le vostre: che fate da queste parti con due indigeni di scorta? -
Egli mi scrutò e il suo sguardo divenne acuto come una punta
d’acciaio sotto le sopracciglia cespugliose:
- Sono sulle tracce di un Francese che ha lasciato una scia di sangue per
tutto l’Egitto: un tipo che ha un passato più o meno tenebroso e che, al mo‐
mento opportuno, sparisce e sa mimetizzarsi. Un uomo che ha conti in sospe‐
so con il Service des Antiquités del Bulâq* e che, però, sembra avere un di‐
screto conto in banca al Cairo... È un avventuriero che ha assassinato parec‐
chi Europei e che varie volte mi è sfuggito, devo ammetterlo... -
- Il nome di costui? -
- Perché volete saperlo? -
- Mah, potrei averlo incontrato nei miei anni di permanenza in Egitto -
- Georges Denon, un tipo di media statura, occhi verdastri, capelli color
fulvo scuro... -
- No... Credo di non averlo mai avvicinato. Ora vi saluto e, come si dice
da queste parti, la pace sia su di voi -
- Arrivederci, monsieur… -
Il sole andava al tramonto e la notte era prossima. Pian piano me
ne tornai alla locanda, dove alloggiavo. Mi sedetti a un tavolino nella
piccola sala da pranzo e accesi una sigaretta: ormai il piano era quasi
completo. Le notizie combaciavano alla perfezione e non sembrava‐
no esserci dubbi sulla riuscita della mia impresa che avevo sognato
da qualche tempo.
Ripensai alle coincidenze accadutemi in quegli anni nel Basso
Egitto, al deposito del Bulâq, al Cairo, a Saqqâra, a Abydos e i docu‐
menti che avevo raccolto, o trafugato, mi portavano tutti a un nome:
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13. Néfert-Ahyt, una dama egiziana della XVIII dinastia vissuta, secondo i
miei calcoli, all’epoca del re Thuthmose III. Fu un periodo
d’oro e di gloria per l’antico Egitto, ma ancora parecchie tessere
mancavano al mosaico della storia di quel tempo. Ma ciò che più mi
faceva riflettere era il ricordo di sensazioni strane che mi assalivano
quando esaminavo e ripassavo tra le mani i reperti che avevo raccol‐
to e che avevo portato con me nelle mie peregrinazioni nella terra
dei faraoni. Spesso avevo la certezza di un combinarsi d’avvenimen‐
ti antichi e presenti e il nome della dama Néfert-ahyt mi provocava
dei turbamenti strani che sovente avevano una matrice comune, an‐
che se assurda: amore.
[1] Per i termini con asterisco, vedi Dizionarietto.
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14. - Diciamo di sì... e scusami se... -
- Non devi scusarti con nessuno. Ognuno di noi ha diritto di sfogarsi come
vuole... Per me non esistono quei dogmi che la società ha imposto: virilità,
onore, forza d’animo… tutte puttanate! Il rospo bisogna buttarlo fuori con
ogni mezzo… e beato chi lo riesce a fare! -
Ci sedemmo e accendemmo il fornelletto a petrolio per scaldare
un po’ di acqua per il tè: nel frattempo cenammo.
- Ti voglio rispondere alla domanda di prima: si tratta di un periodo del‐
la mia vita. Io sono di Marsiglia e quindi siamo concittadini. La mia fami‐
glia, composta dai miei genitori, era in amicizia pluriennale con un’altra
famiglia composta da tre sorelle. Due di queste, M.me Anne e M.me Ra‐
phaëline erano entrambe vedove. La prima non aveva avuto figli e aveva
adottato un ragazzo orfano, Lucius che, crescendo, aveva dato discrete sod‐
disfazioni alla donna, intraprendendo la sua stessa strada, cioè quella della
pittura. La seconda aveva due figli: Laure e Hélios. Laure non era molto
bella, ma abbastanza simpatica, così come il fratello, rosso di capelli, ma
brutto come il debito.
Poi queste tre sorelle avevano un fratello, sempre a Marsiglia, sposato e
con tre figli: due sorelle e un maschio di nome Charles, anch’egli versato nel‐
la pittura e nelle belle arti. Mia madre e M.me Anne erano state amiche a
scuola e, negli anni, era rimasta quest’amicizia. Non nego che io, Lucius,
Hélios e Charles avevamo formato un’allegra combriccola: spesso uscivamo
insieme, oppure ci davamo a passeggiate in calesse, colazioni in campagna,
giocate a carte, inseguimenti di belle fanciulle... insomma la vita trascorreva
discretamente in meri passatempi e piaceri mondani, medio borghesi: ma, in
fondo, eravamo spensierati e quindi felici. Per alcuni periodi estivi si anda‐
va tutti insieme, noi giovani e relative famiglie, in villeggiatura in un paesi‐
no lontano da Marsiglia, in montagna, godendoci un paio di mesetti di pace
e distensione.
Orbene, con l'andar del tempo, mi ero accorto che Laure era alquanto sim‐
patica, cordiale e, in fondo, non da gettar via. Io avevo quasi terminato gli
studi universitari, potevo svolgere un lavoro interessante e quindi iniziai ad
accarezzare l’idea di fare la corte a codesta signorina. Del resto ero avvan‐
taggiato dal fatto che le nostre famiglie già si conoscevano e perciò si elimi‐
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