In gazzetta ufficiale il decreto crescita e internazionalizzazione
Final Paper
1. Anno Accademico 2014/2015
Scuola di
Giurisprudenza
Corso di Laurea in
Giurisprudenza
L’imposizione delle
multinazionali digitali:
dal Progetto BEPS alla Digital Tax.
Relatore
Professor Roberto Cordeiro Guerra
Candidato
Joele Sapienza
2. I
INDICE
INTRODUZIONE 1
CAPITOLO PRIMO: L’ECONOMIA DIGITALE E IL DIRITTO 4
1. LE CARATTERISTICHE E LO SVILUPPO DELL’ECONOMIA DIGITALE 4
1.1. L’economia globalizzata 4
1.2. Le digital companies 12
2. LA DISCIPLINA DELL’IMPOSIZIONE DELLE PERSONE GIURIDICHE 23
2.1. La disciplina internazionale 23
2.2. La disciplina dell’Unione Europea 37
2.3. La disciplina nazionale italiana 43
3. IL RAPPORTO TRA IL GRUPPO DEI 20 E IL DIRITTO 44
3.1. La nascita di un nuovo organismo internazionale 44
3.2. Le origini storico-politiche del G-20 e la sua capacità normativa 45
3.3. Le aree di influenza nel diritto tributario internazionale 48
CAPITOLO SECONDO: CRITICITÀ FISCALI NELL’IMPOSIZIONE DELLE
MULTINAZIONALI DIGITALI 50
1. IL TRANSFER PRICING 50
1.1. L’analisi dell’OCSE 50
1.2. Il Double Irish with Dutch Sandwich 62
1.3. Transfer Pricing e multinazionali digitali 66
2. IL CONTRASTO DELLA DISCIPLINA CON L’ECONOMIA DIGITALE 68
2.1. Riqualificazione della nozione di stabile organizzazione 68
2.2. Il ruolo del dato digitale 69
2.3. Il luogo della creazione del valore 71
2.4. Il monopolio 72
2.5. Le imposte indirette 73
3. GLI EFFETTI SULLA REVENUE DEGLI STATI – IL CASO STARBUCKS 75
CAPITOLO TERZO: GLI INTERVENTI INTERNAZIONALI: IL BEPS
PROJECT DELL’OCSE E L’UNIONE EUROPEA 82
1. IL PROGETTO BEPS 82
1.1. Action n. 1 83
1.2. Action n. 2 90
3. II
1.3. Action n. 3 98
1.4. Action n. 4 104
1.5. Action n. 5 109
1.6. Action n. 6 111
1.7. Action n. 7 113
1.8. Actions nn. 8-10 122
1.9. Action n. 11 122
1.10. Action n. 12 125
1.11. Action n. 13 127
1.12. Action n. 14 133
1.13. Action n. 15 135
2. L’ANALISI DELL’UNIONE EUROPEA 138
2.1. In tema di imposte dirette 143
2.2. In tema di imposte indirette 147
CAPITOLO QUARTO: DAL BEPS PROJECT ALLA DIGITAL TAX 149
1. LA TEORIA CONTRARIA 149
1.1. La “lotta” alla lotta all’elusione fiscale 149
1.2. Le critiche alle proposte 153
2. LE ISTITUZIONI POLITICHE E LE SOLUZIONI 154
2.1. L’approvazione degli Stati Uniti 154
2.2. Alcune riflessioni dottrinali 157
2.3. I pregressi tentativi 161
2.3.1. La proposta italiana 162
2.3.2. La proposta spagnola 163
2.3.3. La proposta ungherese 165
2.3.4. Il rapporto Colin-Collin 168
2.3.5. La proposta britannica 173
2.4. La Digital Tax italiana 176
CONCLUSIONI 180
BIBLIOGRAFIA 189
RINGRAZIAMENTI 202
4. 1
INTRODUZIONE
La società globalizzata ha salutato il nuovo millennio con l’avvento di uno
strumento rivoluzionario, che ha modificato in pochi anni le abitudini private e
professionali di centinaia di milioni di persone. Questo strumento si chiama internet
ed è supportato da una serie di elementi tecnologici che permettono il suo sfruttamento
e che negli anni si sono evoluti per essere sempre più funzionali e mobili. Da personal
computers e telefoni cellulari, siamo rapidamente passati ad iPads e smartphones. In
questo nuovo scenario, si modificano, rectius sono già state modificate, le quotidiane
abitudini di una parte enorme della popolazione mondiale. Tal fatto rappresenta sia
l’origine che la conseguenza1
del cambiamento che l’avvento dell’era digitale ha
portato anche nel ramo dell’economia, modificando in maniera radicale tutti i
precedenti e rodati modelli di business che hanno regolato l’andamento economico
globale fino ad allora. Più rilevantemente ai fini della presente analisi e come sempre
accade, anche il diritto è stato toccato da questa rivoluzione, sia a causa del mutato
contesto sociale, sia (e maggiormente) a causa degli appena descritti mutamenti nella
gestione dell’attività economica delle imprese di qualsiasi settore e livello. Diritto ed
economia sono due discipline, da sempre, strettamente collegate, due isole
comunicanti il cui scambio di informazioni e la cui evoluzione porta a regolare con
attualità la vita dei soggetti appartenenti ad un gruppo sociale ormai sempre più
uniforme, omogeneo, globalizzato. Il “ponte”, per usare una metafora, che collega
queste due grandi aree dello sviluppo della mente dell’uomo è costituito dal diritto
tributario, la cui qualifica di internazionale ormai appare quasi superflua.
L’intensificarsi degli scambi commerciali tra soggetti residenti in giurisdizioni
differenti, infatti, non è più un elemento di novità o di nicchia, bensì la realtà
preponderante dell’attività economica della maggior parte dei Paesi della Terra. Al
pari di come l’aggettivo “digitale” legato al sostantivo “economia” rappresenta una
precisazione quasi non più necessaria, data la difficoltà oggettiva di separare ciò che è
1
Origine, nel senso che le imprese pionieristiche del settore digitale hanno portato con le loro novità al
cambiamento sociale a cui stiamo assistendo negli ultimi dieci anni; conseguenza, poiché
inevitabilmente, l’enorme exitus che questo cambiamento ha avuto, ha portato allo sviluppo di una
galassia di investimenti nel settore, con un proliferare enorme di imprese dedite all’offerta di beni e
servizi digitali.
5. 2
digitale da ciò che non lo è, tanta è l’ingerenza della prima anche nella seconda, così
non appare possibile disquisire di diritto tributario senza riferirsi ad un contesto che
esuli dai confini nazionali. È per questa ragione che, in virtù dell’ampliamento
incontrollato del “traffico” che giornalmente si dispiega su questo punto di
collegamento, anche la struttura stessa del diritto tributario (internazionale) così come
sviluppato ed assodato nei decenni scorsi, è stato messo in discussione, a partire dalla
superficie di questo “ponte”, costituito dai singoli istituti giuridici affinati nel dibattito
internazionale sviluppatosi in particolare a partire dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale, fino ai pilastri della struttura portante dello stesso, costituiti dai principi
guida di disciplina della materia fiscale internazionale.
L’analisi della situazione attuale e dei meccanismi che regolano la disciplina
dell’imposizione del reddito societario a livello globale è materia complessa, e questo
scritto si propone l’umile scopo di cercare di inquadrare tale situazione globale dal
punto di vista più obiettivo possibile, con il vaglio delle proposte effettuate dalle più
importanti giurisdizioni del Pianeta, che a seguito dello scandalo, anche mediatico, che
talune imprese del settore digitale hanno scatenato in relazione alla presunta facilità di
ottenere un, quantomeno non etico, risparmio d’imposta, si sono rese necessarie e
urgenti.
L’oggetto della presente analisi è quindi il rapporto tra gli istituti di diritto
tributario internazionale, ove campeggia indiscusso l’importante e costante lavoro
dell’OCSE, specie attraverso il suo Modello di convenzione contro la doppia
imposizione e il mutato scenario economico di cui la comunità internazionale pare
essersi resa conto solo con l’avvento di gigantesche multinazionali del settore digitale,
che per la loro penetrazione della società e per la loro impressionante forza economica,
vengono, anche dal quisque de populo, considerate come entità meta-giuridiche, o
forse più correttamente über-giuridiche, nel senso che si pongono come interlocutori
privilegiati nel dibattito internazionale tra i Governi del Mondo per la risoluzione delle
questioni fiscali che le riguardano direttamente. Oltre al problema, quindi, della
maggiore difficoltà che ha il Legislatore internazionale di doversi rapportare con
destinatari della disciplina particolarmente forti e consapevoli, vi è la complicazione
ulteriore (e principale) che il contesto in cui questo dibattito ha luogo è un “terreno
senza territorio”.
6. 3
Ciò sta a significare che, intanto la sovranità territoriale come storicamente
concepita è un elemento di forza dei Governi che è venuto meno proprio con lo
sviluppo volutamente incontrollato di internet e del mondo digitale in generale. La
“battaglia” contro le grandi multinazionali del settore digitale non è una battaglia che
può essere intrapresa solus dal legislatore di uno Stato, ma deve essere il risultato di
uno sforzo combinato tra grandi aggregazioni di Paesi, come di fatto è avvenuto tra G-
20 e membri dell’OCSE. Inoltre, si è preso piano piano coscienza del fatto che esiste
un territorio virtuale, che è dove questa battaglia ha luogo, che risponde a regole
completamente differenti da quelle che disciplinavano la territorialità materialmente
intesa. Il cyberspazio, per usare un termine già quasi obsoleto, è un luogo non fisico
caratterizzato da rapidità, immediatezza e superficialità, che è esattamente il contrario
del contesto in cui il diritto è abituato a “muoversi”.
Senza presunzione alcuna di esaustività in merito all’ampio dibattito in corso,
che è destinato a durare ancora per lungo tempo, il presente lavoro cerca di cogliere
gli aspetti maggiormente innovativi della nuova economia digitale, correlandoli agli
ormai incompatibili dogmi della disciplina più classica della produzione normativa,
nel tentativo di inquadrare un’aurea mediocritas oraziana, un equilibrio tra la spinta
travolgente verso l’alto, portata dall’incessante sviluppo dell’economia digitale e la
pesante ponderatezza della produzione normativa che, correttamente, caratterizza
l’approccio del Legislatore al momento di disciplinare i fenomeni sociali bisognosi di
essere regolati.
7. 4
CAPITOLO PRIMO
L’ECONOMIA DIGITALE E IL DIRITTO
1. LE CARATTERISTICHE E LO SVILUPPO DELL’ECONOMIA DIGITALE
1.1. L’economia globalizzata
Internet ha cambiato la quotidianità delle persone, ha cambiato le loro abitudini,
ha cambiato il loro modo di essere consumatori e ha cambiato il modo in cui le aziende
competono nel mercato. Tutti questi cambiamenti, hanno generato una rivoluzione
anche nel mondo dell’economia, delle imprese e del diritto. In particolare, sia lo
sviluppo della tecnologia digitale che quello del web in generale, hanno avuto
un’evoluzione talmente rapida per cui, non solo è possibile verificare i cambiamenti
appena evidenziati con chiarezza lampante, ma l’importanza di questa evoluzione,
nella società, ha acquisito una rilevanza tale da non poter essere più considerata una
mera innovazione di un mezzo di scambio di informazioni.
Anche nel mondo del diritto, l’avvento di internet ha portato a dover riqualificare
ed adeguare una serie di istituti giuridici che, altrimenti, così per come erano stati
concepiti, non avrebbero trovato applicazione: si pensi, ad esempio, al di fuori della
materia tributaria, alla diffamazione ex art. 595, co. 3, c.p. o ancora alla disciplina dei
contratti stipulati telematicamente. L’ingerenza, profonda e a volte eccessiva, del
digitale in tutti i settori della vita dell’uomo è ormai un dato di fatto e per tale motivo
il diritto, sia nazionale, sia comunitario e sia internazionale, si è mosso e continua a
muoversi per la creazione di una nuova branca, un diritto dell’internet, in grado di
disciplinare tale ingerenza, proprio perché i fenomeni descritti hanno assunto una
rilevanza sociale tale da non permettere più di considerare il problema come
marginale.
Tralasciando una “fisiologica” quota della società, infatti, è ormai un dato
assodato che quasi tutta la popolazione dei Paesi sviluppati, con una percentuale
esponenzialmente crescente anche nei Paesi in via di sviluppo, è “connessa” ad
internet e che quasi tutta la generazione delle persone nate dagli anni ’90 in poi può
considerarsi la generazione dei c.d. “nativi digitali”.2
2
PRENSKY, M., Digital Natives, Digital Immigrants, Part II. Do They Really Think Differently?, in On
the Horizon, MBC University Press, vol. 9, n. 6, dicembre 2001.
8. 5
Solo a titolo esemplificativo, partendo dalla “macchina”, e cioè lo strumento
attraverso il quale la connessione ad internet viene effettuata, è rilevante analizzare
una serie di dati storici. Inizialmente, quando è nato il web, poco più di vent’anni fa,
lo strumento unico utilizzabile per l’accesso alla rete di dati era il personal computer.
Lo sviluppo della tecnologia, dei materiali e il minor costo dei prodotti tecnologici
hanno portato ad un cambiamento anche sotto questo punto di vista, che si è
manifestato con l’impennata del numero di dispositivi connessi alla rete. Mentre un
tempo era tendenzialmente presente un solo computer per famiglia (famiglie, peraltro,
di un certo livello socio-economico), oggigiorno è la singola persona, appartenente a
qualsiasi livello di reddito, ad avere più di un device con il quale “essere connesso”.
Cisco Systems, Inc. stima che nel 2014 la media di dispositivi connessi fosse di 10-15
miliardi a fronte di una popolazione mondiale di circa 7,2 miliardi di persone.3
Dal punto di vista che qui maggiormente interessa, l’avvento di internet è
importante comprenderlo più dal punto di vista della sua “produzione” che non degli
effetti che esso ha sul consumatore. Questo enorme successo nella società alimenta (ed
è alimentato da) un’importante industria di c.d. imprese digitali che costituiscono una
fetta importante del tessuto produttivo del settore dei servizi, in particolare negli Stati
Uniti d’America per la proprietà intellettuale e in Cina per la produzione dei
dispositivi.
L’enorme sviluppo anche economico di queste società digitali ha portato
rapidamente l’economia latu sensu intesa a non essere così distinta dal ramo
dell’economia digitale, ma ad essere considerata come un unicuum, quando non
considerata esclusivamente come digitale. Tale definizione, infatti, ha ormai perso
l’aggettivo che lo contraddistingueva da un’economia, per così dire, analogica,
classica, in quanto a ben vedere, l’economia “non digitale”, non esiste più. O meglio,
essa esiste ed esisterà per sempre, ma a causa del progresso, essa non costituisce più
l’economia in senso stretto, non può più essere utilizzata come modello di riferimento
di un modo di concepire gli scambi di beni e servizi, in quanto la fetta a questo modello
riservata (quello analogico), è ormai particolarmente ristretta. Piuttosto, una volta
appurato che l’economia digitale è l’economia di oggi, può assumere rilievo, semmai,
3
OECD, BEPS Action 1: Address the Tax Challenges of the Digital Economy, Paris, 2014, p.14.
9. 6
la qualificazione contraria, ovvero la specificazione di quella parte dell’economia che
ancora non sia digitale. Come correttamente rilevato in sede OCSE, infatti «because
the digital economy is increasingly becoming the economy itself, it would be more
difficult, if not impossible, to ring-fence the digital economy from the rest of the
economy».4
Ad ulteriore riconferma di quanto appena evidenziato, l’OCSE stessa ha redatto
un grafico relativo alle imprese (suddivise in piccole, medie e grandi) e alla
percentuale di esse, per ogni Stato membro, che utilizza una connessione a banda larga;
ne deriva da tale grafico, che, con qualche eccezione quale ad esempio il Messico o la
Grecia, la media delle imprese che utilizzano una connessione con la rete internet si
attesti tra il 90 e il 100% delle esistenti.5
Il dato è naturalmente significativo del fatto
che è possibile a tutti gli effetti considerare la nostra come l’epoca del digitale; e
l’epoca del digitale si manifesta, nel settore economico, nelle modalità più disparate,
riuscendo a influenzare molti settori, magari apparentemente ad essa sconnessi,
comunque salvaguardando le differenze peculiari del tipo di attività cui i modelli
imprenditoriali si riferiscono.
Così, ad esempio, vengono registrati rilevanti cambiamenti nei seguenti settori
• Vendita al dettaglio;
• Trasporti e logistica;
• Servizi finanziari;
• Settore manifatturiero e agricoltura;
• Educazione;
• Sanità;
• Televisione e media.
Prima di sviluppare un’ulteriore riflessione su tale, fondamentale, aspetto della ricerca,
è opportuno notare come, in tutti questi differenti settori, lo schema attraverso il quale
la tecnologia entra nella vita imprenditoriale sia sempre lo stesso.
Sebbene le funzioni, le ragioni, la ratio per così dire, che giustificano
un’applicazione del digitale anche ad un settore apparentemente da esso distante siano
4
ibidem, p. 24.
5
OECD, Science, Technology and Industry Scoreboard 2013: Innovation for Growth, Paris, 2013.
Consultabile su oecd.org/sti/scoreboard.
10. 7
completamente diverse le une dalle altre, a seconda del ramo dell’economia cui si
debbono applicare, lo schema attraverso il quale questo inserimento avviene è sempre
il medesimo.
Esso costituisce, infatti, lo scheletro portante dell’economia digitale, costituito
da una concatenazione di elementi che hanno sempre la stessa origine, e che si
orientano in direzioni differenti a seconda del campo di applicazione con cui si devono
interfacciare. In particolare, si classificano sei livelli di interazione uomo-macchina
attraverso cui si realizza la creazione di strumenti volti all’efficientamento del settore
di riferimento.
Tali settori sono
1. Infrastruttura;
2. Risorse software;
3. Accessibilità;
4. Applicazioni;
5. Interfaccia utente;
6. Utenti.
A sua volta, questa catena “produttiva” del digitale ha portato ad una
segmentazione del mercato con riguardo ai vari livelli di competenza, tutti
convergenti, man mano che si scende di livello, verso una sempre più ampia apertura
al maggior numero di contributori possibile. Nello specifico, i primi livelli sono
riservati alle poche imprese che svolgono servizi di providing, generalmente
indentificate con la sigla ISP (internet service provider), mentre all’avvicinarsi agli
ultimi livelli della scala, si nota come un numero sempre più ampio di imprese
partecipa alla produzione dei servizi identificativi del livello stesso. L’ultimo livello,
infine, quello degli “utenti” comprende infatti non le imprese, bensì il consumatore
finale che, nell’economia digitale, rectius nell’economia di oggi, svolge un ruolo
preminente e assolutamente fondamentale, anche ai fini della creazione del valore.
In tema di valore, un’altra delle novità portate dallo sviluppo tecnologico della
comunicazione attraverso la rete globale è la crescente importanza, soprattutto
economica, che sta assumendo il “dato digitale”. Ogni grande rivoluzione economica
è sempre stata accompagnata dallo sfruttamento massiccio di un bene determinato, che
è proprio il moto propulsore dell’innovativa spinta economica. È stato così per la
11. 8
“febbre dell’oro” divampata negli Stati Uniti d’America nella seconda metà del XIX
secolo così come per la rivoluzione petrolifera, sempre avvenuta negli Stati Uniti
d’America nella prima metà del secolo successivo. Dopo quasi cento anni, e con le
dovute marcate differenze, senza dubbio si è fatto spazio in questa rivoluzione
tecnologica un nuovo bene, che può essere preso come simbolo di questa stessa
rivoluzione.
Infatti, l’entità, peraltro non fisica e non tangibile, che ha maggior valore
nell’economia del 2000 è senza dubbio il dato. Tali dati, di cui è possibile identificare
la diversa natura in base all’utilizzo che ne viene fatto ed alla natura della loro
ricezione, sono ciò che muovono le grandi operazioni commerciali del nuovo
millennio. Se, da una parte, comunque, il valore di determinate materie prime, come i
metalli o gli idrocarburi, ancora rimangono il motore effettivo del progresso
tecnologico della società, è indubbio come il valore del singolo dato, rectius del dato
aggregato di un numero consistente di persone, sia qualcosa per cui le imprese sono
disposte a pagare cifre che solo fino a vent’anni fa non erano concepibili.
In merito, rispetto alla tradizionale concezione economica, secondo cui l’oggetto
della produzione può essere un bene o un servizio, ma null’altro, è stata avanzata la
teoria6
secondo cui il dato, che (al pari di quella che è la concezione del fotone nella
fisica moderna) fa proprie talune caratteristiche del bene (come la possibilità di essere
immagazzinato per essere utilizzato in un secondo momento) e talune caratteristiche
del servizio (come la sua sostanziale intangibilità), assurga a terzo elemento oggetto
di produzione da parte dell’economia; terzo elemento attualmente sottostimato sia
dall’industria, sia dalla politica, ma che riveste un ruolo sempre più centrale nelle
scelte decisive, sia dell’una, che dell’altra.
Un esempio emblematico di questo dato di fatto è l’acquisizione da parte della
società Facebook, Inc. (d’ora in poi anche solo Facebook), del servizio di
messaggistica istantanea chiamato Whatsapp (posseduto dall’omonima società), che
per un’irrisoria quota annuale (79 centesimi di euro nei Paesi della comunità monetaria
e per cifre equivalenti nel resto del mondo) permette di scambiarsi, attraverso la rete
dati, dei messaggi di testo (oltre ad altri media come files audio, immagini, video).
6
MANDEL, M., Beyond Good and Services: The (Unmeasured) Rise of the Data-Driven Economy,
Progressive Policy Institute Memo, 2012, progressivepolicy.org, p. 2.
12. 9
Tale operazione, cioè l’acquisizione della società che sviluppa l’app che svolge
questo servizio, è costata a Facebook l’importo di 19 miliardi di dollari americani,
cifra che economicamente non può essere giustificata dagli introiti dell’annuale
sottoscrizione del servizio da parte degli utenti, all’epoca dell’acquisizione stimati in
circa 450 milioni.7
È, infatti, l’acquisizione dei dati degli utenti stessi, e di un servizio, leader nella
propria categoria, che permette lo scambio privato di dati, di molteplice natura, che dà
valore all’acquisizione della compagnia. A ben vedere, peraltro, è la stessa Facebook,
attraverso il proprio portale di social networking, che ha contribuito in maniera
pionieristica allo sviluppo del valore del dato. Il suo portale facebook.com, infatti,
offre la possibilità per gli utenti registrati di scambiarsi informazioni, dati,
comunicazioni ed accedere all’intero database dei soggetti iscritti, i quali, attraverso
il meccanismo dell’accettazione dell’ “amicizia” sul portale, quindi attraverso un
filtro, permette di diversificare le informazioni visibili a seconda delle scelte
dell’utente, solitamente effettuate tramite il paragone con il livello di conoscenza
effettiva degli altri utenti.
I soggetti iscritti, volontariamente e gratuitamente, inseriscono dati relativi alla
propria educazione, alla propria posizione lavorativa e alla propria “situazione
sentimentale”, oltre alla definizione delle proprie preferenze e gusti nei più disparati
ambiti, dalla musica allo sport fino alle scelte politiche. Tutte queste informazioni, poi,
vengono utilizzate dallo stesso Facebook per offrire a terzi alcuni strumenti ormai
comunemente denominati di social media marketing attraverso cui creare delle
campagne pubblicitarie molto mirate e che appaiono durante la navigazione sul portale
in una colonna a ciò adibita, posta sulla destra di tutte le pagine del sito. Tutti gli
enormi introiti generati dalla società sono relativi alla vendita di questi spazi
pubblicitari, che tra l’altro sono essi stessi una novità nel mondo dell’advertisement,
in quando caratterizzati da un sistema di pagamento tecnicamente molto differente
dagli (ex) standard in materia.
In particolare, si divide tra CPC (cost per click) in cui l’inserzionista paga ogni
qual volta l’utente clicca sul link di rimando, CPM (cost per thousand) in cui
7
Facebook compra WhatsApp per 19 miliardi di dollari, in Il Sole 24 Ore, 19 febbraio 2014.
13. 10
l’inserzionista paga per “pacchetti” di mille apparizioni del proprio annuncio e CPA
(cost per action) in cui l’inserzionista paga ogni qual volta l’utente finale compie una
determinata azione che si presuppone sia finalizzata all’acquisto del prodotto
sponsorizzato. Il dato in questa rivoluzione del sistema pubblicitario, il dato assume
un’importanza cruciale in quanto il vero valore aggiunto non sta tanto nell’innovativo
sistema di pagamento o nell’ampio bacino di utenza che è possibile raggiungere
tramite detto portale (che a gennaio 2015 contava oltre 1,4 miliardi di utenti attivi), ma
la possibilità di segmentare le inserzioni e personalizzarle a livelli mai visti prima in
nessun altro marketing media.
Tramite Facebook, infatti, grazie proprio ai dati inseriti dagli utenti,
l’inserzionista è in grado di scegliere personalmente il target cui rivolgere le proprie
inserzioni, potendo segmentarlo per sesso, età, situazione sentimentale, area
geografica di appartenenza, frequenza attuale o passata di un determinato istituto
educativo, collaborazione con una determinata impresa, interesse (il c.d. like) nei
confronti di una qualsiasi delle c.d. “pagine” (riferite a personaggi pubblici, artisti di
ogni genere ed epoca, determinati sport, leghe o associazioni sportive, società e brand
di fama internazionale e più in generale di qualsiasi cosa abbia una certa rilevanza in
termini di notorietà), man mano riducendo e raffinando il bacino di utenza degli utenti
cui rivolgersi per ottenere la più alta percentuale possibile di “conversioni”, ovvero di
acquisto del bene o servizio offerto in seguito alla visualizzazione dell’inserzione.
Quindi, a partire dal quasi miliardo e mezzo di utenti, e attraverso le chiavi di
fine tuning appena descritte, è possibile creare un’inserzione per poche centinaia di
soggetti, ed indirizzarla quindi verso un pubblico particolarmente qualificato. Numero
di soggetti raggiunti dall’inserzione, inoltre, che viene precisamente identificato prima
della pubblicazione stessa dell’inserzione, cosicché l’inserzionista sia perfettamente
conscio del numero di utenti cui si sta rivolgendo. I numeri legati a questo nuovo
business sono sicuramente molto rilevanti. Solo in materia B2C (business to consumer)
e nel solo 2012, le vendite relative all’e-commerce hanno superato i mille miliardi di
dollari americani. Le nuove principali frontiere della vendita online, e più
precisamente della vendita diretta online si possono dividere in più macro categorie
- App;
- Pubblicità online;
14. 11
- Cloud computing;
- Servizi di pagamento;
- Trading;
- Piattaforme partecipative.
Tutti questi elementi sono accumunati da alcune caratteristiche. Sicuramente, uno
degli elementi più peculiari è la mobilità, dato il solo bisogno, per poter operare, di
possedere un server allocato dove è maggiormente conveniente e la non necessità di
dover avere una presenza stabile in tutti i territori ove si trovino i clienti. Un altro
elemento di distacco è la dipendenza dai dati. Come già accennato, il dato digitale
assume pertanto una grande rilevanza nell’economia odierna in quanto principale
motore e elemento essenziale dei servizi offerti attraverso la rete.
Altri aspetti, poi, hanno carattere maggiormente negativo, e cioè rappresentano
una di quelle caratteristiche che potenzialmente si presenta come potenzialmente
“pericolosa” in quanto limitativa dei principi universalmente ormai accettati vigenti in
economia, come la libera concorrenza. Ed ecco che, in tema di digital companies, una
delle caratteristiche è la tendenza verso il monopolio o oligopolio. La creazione di un
software, di una piattaforma o di un portale che presenti anche un minimo elemento di
differenza rispetto alla concorrenza, può facilmente generare la nascita quasi
spontanea ed immeditata di un monopolio nel settore (è possibile portare ad esempio,
nell’ambito dei portali che trattano di viaggi e vacanze e di recensioni sulle varie
attività turistico-ricettive, il portale tripadvisor.com, che conta centinaia di milioni di
recensioni e di iscritti, un numero di gran lunga superiore a qualsiasi altro suo
competitor).
Altra caratteristica non tanto negativa, quanto rischiosa per coloro i quali si
addentrano in questo tipo di economia, è la volatilità del successo di una digital
company. La facilità di accesso e la sostanziale economicità di avviamento di una
compagnia con dette caratteristiche, oltre a poter generare enormi acquisizioni di
valore in pochissimo tempo (basti pensare alla già citata Facebook, creata 10 anni fa e
adesso nella top five delle aziende con la più alta capitalizzazione nel mondo), può
d’altra parte determinare anche un rapidissimo insuccesso commerciale e portare al
fallimento, come avvenuto, di migliaia di piccole start up che non ricevono, per una
serie di fattori non sempre addebitabile alla capacità di chi le amministra, il favore del
15. 12
pubblico.
Una volta scartato e analizzato il “pacchetto” delle nuove regole dell’economia
digitale, è opportuno identificare quali siano i punti di contatto con il sistema tributario
internazionale attuale, che inevitabilmente si presentano anche come i punti di maggior
attrito, sui cui la comunità degli esperti si vari organismi (dall’OCSE all’ONU) sta
lavorando per ottenere un nuovo equilibrio normativo.
1.2. Le digital companies
Nel 2013 il Governo francese ha elaborato un rapporto sulla fiscalité de
l’économie numérique, che si è tradotto in un’attenta analisi delle problematiche fiscali
che la Francia avrebbe dovuto affrontare per adeguarsi al cambiamento dell’economia
in atto ed evitare di perdere ingenti imposte per a causa di una legislazione che non
fosse al passo con i tempi. Ne è nato ciò che nella comunità internazionale è noto come
il “Rapporto Colin-Collin” dal nome dei due autori e che si presenta come un elaborato
particolarmente qualitativo ed estremamente esaustivo.
Inizialmente, gli autori individuano una serie di punti cardine che, a loro dire,
costituiscono le caratteristiche principali dell’economia digitale, che qui di seguito
vengono riportati per essere meglio analizzati. I sei punti cardine del lavoro dei due
studiosi francesi sono
1. L’economia digitale accelera il ritmo dell’innovazione e la diffusione di nuovi beni
e servizi. È stato necessario un terzo del tempo per dare alla maggior parte dei
francesi internet rispetto al tempo impiegato per dargli il telefono. Un’applicazione
come Facebook ha acquisito un miliardo di utenti in meno di 8 anni.8
Viene analizzata dapprima la posizione maggiormente precaria delle
multinazionali digitali. Esse infatti sono molto più soggette alle oscillazioni del
mercato rispetto ad una multinazionale classica, in quando la mobilità del “successo”
in questo settore permette rapide ascese, ma altrettanto rapide ricadute. Per questo
motivo le grandi imprese del settore digitale hanno il fisiologico bisogno di investire
ingenti quantità di denaro in innovazione e migliorare anche con teorie particolarmente
8
COLIN, N. – COLLIN, P., Mission d’expertise sur la fiscalité de l’économie numérique, Paris, 2013, pp.
1-2. Traduzione libera.
16. 13
rivoluzionarie il modello di business da seguire. Un esempio della necessità di
evoluzione continua che ha questo tipo di impresa ci viene dato da Apple, Inc., il
grande colosso produttore di computers e smartphones, allo stato l’azienda privata con
la maggior capitalizzazione di mercato, oltre 700 miliardi di dollari9
, che nel 1997 ha
rischiato il fallimento, proprio a causa della mancanza di una spinta di innovazione,
arrivata soltanto con il ritorno dello storico fondatore STEVE JOBS. La vincente
strategia che ha permesso all’azienda di risollevarsi è partita da un’area
apparentemente di secondaria importanza per un produttore di dispositivi tecnologici
e cioè quella dell’industria musicale, sviluppandosi poi nel prodotto di maggiore esito
della casa, l’iPod e nello store musicale iTunes.
Una delle principali differenze dell’industria digitale rispetto a quella classica è,
quindi, l’alta volatilità del successo delle imprese, e della totale assenza di modelli di
gestione duraturi. Le ragioni di questo movimento continuo, di questa costante
necessità di innovazione è dovuta ad almeno due fattori tra di loro correlati: in primis,
lo sviluppo tecnologico, che porta da un anno all’altro un prodotto da non plus ultra
ad oggetto tecnologicamente superato10
, in secundis, il fatto che né il fornitore del
servizio né l’utilizzatore finale sono sottoposti al pagamento di un prezzo marginale
per l’utilizzo della rete, così permettendo una sperimentazione ed una libertà di
sviluppo non concepibile nelle tradizionali “catene” di creazione del valore.
Quest’ultimo aspetto è forse una delle caratteristiche più peculiari di internet.
Con l’avvento della tecnologia ADSL, infatti, attraverso una semplice sottoscrizione
mensile, è possibile accedere alla rete mondiale e sfruttarla senza limiti di consumo.
Non vengono infatti, a parte rarissimi casi, posti dei limiti alla c.d. “banda” in
download o in upload. L’unico elemento distintivo tra le varie offerte è la velocità di
connessione, e cioè la “larghezza” della banda, in altre parole quanto è veloce il flusso
di dati.
Questo fatto ha costituito, e non solo nel mondo economico, il grande motore
del rapido sviluppo di internet e dell’ingerenza del mondo digitale nella realtà
9
Apple sempre più regina: il valore di mercato vola a 700 miliardi di dollari, in Il Sole 24 Ore, 24
novembre 2014.
10
La “legge di Moore”, uno dei fondatori della più grande produttrice di microprocessori, la Intel, Inc.,
afferma che il numero di transistors per pollice presenti sulla superficie dei microprocessori raddoppia
ogni due anni.
17. 14
quotidiana. Uno strumento accessibile a tutti, illimitato e che offre una quantità di
informazioni praticamente infinita. L’estrema libertà che ne deriva, libertà
particolarmente cara agli utilizzatori assidui di internet, e la sua grande accessibilità,
sono stati motori di un rinnovamento sociale che ha portato anche l’economia, sia di
larga che di piccola scala, come vedremo, a rinnovarsi completamente.
2. Grazie al capitale di rischio, l’economia digitale muove degli ingenti investimenti,
accompagnata da una forte esigenza di rendimento per quelle imprese che
ottengono successo e si sviluppano in grande scala.
Le società dell’economica digitalizzata nascono con una struttura ed
un’organizzazione particolarmente efficienti. Mosse da una parte dalle forti spinte
motivazionali dei creatori, che sovente iniziano attraverso una start up e cercano
cospicui finanziamenti, e dalla loro consapevolezza di poter e voler «cambiare il
mondo»11
e dal ricorso massiccio al capitale di rischio dall’altra, queste società sono
potenzialmente, dal punto di vista dello sviluppo, inarrestabili.
Buona parte di questa forza motrice è data proprio dal mix di queste due
componenti: per una società già affermata nel mercato è molto più difficile poter
modificare la propria struttura senza rischiare seriamente di perdere fetta di mercato o
buona parte degli utili, mentre al contrario, queste giovani start up sono più malleabili
alle circostanze del mercato, essendo per loro molto più facile acquisire (ma si badi
bene, anche perdere) un numero di clienti spropositato in pochissimo tempo.12
Gli Stati
Uniti sono stati pionieri nell’incentivare questo tipo di economia e questo tipo di
imprese. Nel solo 2010 sono stati investiti oltre 22 miliardi di dollari e secondo uno
studio personale portato avanti da LO MIN MING, programmatore alle dipendenze sia
di Microsoft che di Google, dal 1998 al 2012, negli Stati Uniti, grazie agli investimenti
di capitale di rischio, ogni 3 mesi è nata un’impresa che ha raggiunto il miliardo di
dollari di capitalizzazione.13
11
Celebre frase del già citato STEVE JOBS, pronunciata al fine di convincere il CEO di Pepsi, Co., JOHN
SCULLEY, ad amministrare la Apple, Inc.
12
Pinterest.com, un portale di social networking, ha stabilito il record di velocità nel raggiungere i 10
milioni di visitatori unici sul proprio sito: a partire dalle poche centinaia di migliaia nel maggio 2011,
nei soli Stati Uniti, ha raggiunto quasi i 12 milioni al gennaio 2012.
http://www.comscore.com/Insights/Data-Mine/Is-Pinterest-the-Next-Big-Social-Network-in-Europe
13
MIN MING, L., A billion dollar software tech company is founded every 3 months in U.S., in
blog.minming.net, 2012.
18. 15
Le caratteristiche dell’investimento tramite capitale di rischio sono
effettivamente le più adeguate al modello di business utilizzato dalle compagnie
digitali. L’estrema dinamicità del settore non permette, infatti, l’utilizzo di tecniche di
investimento finalizzate alla crescita di società nel lungo periodo, con investimenti
mirati destinati ad essere ripagati in un arco temporale di molti anni. In questo senso,
uno dei principali dogmi dell’investitore WARREN BUFFETT, «Only buy something that
you’d be perfectly happy to hold if the market shut down for 10 years»14
non sarebbe
applicabile all’economia digitale.
L’estrema aleatorietà del successo di queste imprese, collegata alla conseguente
minima probabilità di successo, costringe gli investitori a puntare su un numero
relativamente elevato di imprese di talché anche il successo di uno solo dei progetti
finanziati sia in grado di ripagare non solo l’investimento a lui dedicato, ma anche
quello degli altri progetti falliti, fatto assolutamente possibile nell’economia digitale,
dove la capitalizzazione di società nate appena qualche anno prima raggiunge spesso
le 9 cifre.
3. Grazie a degli spettacolari effetti di «trazione», l’economia digitale conduce
frequentemente all’acquisizione di posizioni dominanti. Essa mette in concorrenza,
non imprese in mercati ben identificati, ma degli ecosistemi interi ed inglobati in
differenti mercati tra di loro connessi.
Le imprese che operano nel mondo digitale, a causa della corsa costante
all’innovazione che, per le ragioni che saranno spiegate, hanno la necessità fisiologica
di intraprendere e complice anche la facilità con cui si spostano gli utenti da un servizio
(e quindi da un fornitore) all’altro, rende più probabile l’acquisizione di posizioni
dominanti all’interno della macro-area dei servizi su internet. Si è parlato, in proposito,
di modello winner-takes-all15
, proprio a rimarcare la maggiore possibilità di ritagliarsi
(ma anche di perdere) fette dominanti di mercato con estrema rapidità, in stretta
connessione con la capacità di innovazione dei servizi. Tale maggiore possibilità è
determinata dal fatto che le imprese multinazionali operanti nel settore digitale creano
14
WARREN BUFFET è considerato tra i più grandi investitori nella storia della finanza ed è classificato
come 3° uomo più ricco del mondo nel 2015 dalla rivista Forbes.
15
COMMISSION EUROPÉENNE, Commission expert group on taxation of the digital economy, Report,
Bruxelles, 28 maggio 2014, p. 12.
19. 16
una serie di servizi accessori e connessi con il core business aziendale tali che il
consumatore finale ha la tendenza (o quantomeno dovrebbe) ad utilizzare sempre lo
stesso fornitore per tutte le proprie necessità correlate all’esperienza nel mondo di
internet.
Può accadere, inoltre, che proprio a causa dell’estrema sperimentazione e
utilizzo di capitale per R&D (Research and development), un’azienda si trovi ad essere
«il primo attore a guidare un mercato immaturo [che], combinato con il basso costo
incrementale può rendere possibile che la compagnia raggiunga una posizione
dominante in un lasso di tempo particolarmente breve».16
Questo fenomeno genera,
inoltre, nella mente dell’utente stesso, un senso di attaccamento nei confronti del
marchio e dell’immagine dell’azienda per cui esse non sono semplicemente viste come
mere fornitrici di servizi online, ma vengono seguite con particolare interesse, per così
dire, “empatico”. Non a caso, da parte di una certa dottrina, in merito alla “forza”,
anche semplicemente politica con la quale le grandi majors del settore hanno
affrontato le prima controversie contro le Amministrazioni fiscali di alcuni Paesi
industrializzati, è stato coniato il termine «Repubbliche digitali», proprio a voler
enfatizzare che, un po’ per la grande mole di servizi anche eterogenei, un po’ per la
grande influenza che si riverbera nella quotidianità di milioni di persone, esse non sono
percepite come semplici aziende, ma possono addirittura essere paragonate a veri e
propri Stati.17
4. L’economia digitale è basata su un modello di reinvestimento dei profitti piuttosto
che della distribuzione dei dividendi, gli azionisti guadagnano grazie agli eventuali
guadagni di capitale. In questa economia, il rifiuto di spartire i dividendi è
considerato come il segno di intenso sforzo di innovazione.
Questa è una delle caratteristiche più importanti, uno degli elementi di maggior
distinzione tra un modello di business classico e uno avanguardistico. Le
multinazionali del settore digitale hanno la tendenza a non spartire i dividendi tra gli
azionisti e, anche se allo stato, in seguito alla pressione dei mercati, hanno iniziato a
16
op. cit. OECD, Beps Action 1, p. 41. Traduzione libera.
17
così CIPOLLINA, S., I redditi “nomadi” delle società multinazionali nell’economia globalizzata, in
Rivista di Diritto Finanziario e Scienza delle Finanze, fasc. 1, 2014, pag. 24.
20. 17
farlo con maggiore frequenza18
, la ragione iniziale si è rivelata estremamente
vantaggiosa per due motivi. La scelta principale è dettata dalla struttura societaria volta
al maggior risparmio possibile d’imposta. Da un lato infatti, tali società riescono
tramite matrioske di imprese controllate, a spostare una parte ingente dei propri profitti
esteri (rispetto alla sede della casa madre) verso Paesi a fiscalità privilegiata,
sottraendoli alle imposizioni dei Paesi a fiscalità ordinaria in cui operano e da cui
provengono tali profitti, dall’altro, detta quantità di denaro non può rientrare negli Stati
Uniti in quanto verrebbe tassata al 35%19
, il che vanificherebbe tutti gli sforzi
intrapresi per evitare l’imposizione alla fonte del reddito.
La normativa statunitense prevede infatti, al contrario di molti altri Paesi
sviluppati, l’applicabilità del consolidato fiscale mondiale attraverso l’utilizzo della
regola del c.d. check the box, che permette alle imprese multinazionali di non
dichiarare talune delle proprie controllate estere come società, preservandole
dall’imposizione fiscale a patto di non far rientrare negli Stati Uniti tale capitale. La
conseguenza di questo fatto è, non solo che tali società riescono a pagare percentuali
minime sui redditi prodotti nell’area extra-U.S.20
, ma anche che esse ogni anno
dispongano di ingenti somme di denaro da destinare allo sviluppo e all’innovazione,
il c.d. R&D, come supra visto, linfa vitale per le multinazionali del settore digitale che
hanno per loro fisiologia natura la necessità, da una parte di espandersi verso i mercati
connessi a quelli in cui operano e hanno raggiunto una certa stabilità, dall’altra di
innovare, possibilmente prima e meglio degli altri, i punti di forza dei loro prodotti e
servizi, a causa dell’estrema volatilità che caratterizza il successo o il fallimento di
un’impresa del settore digitale, dovuta alla condizione per cui la clientela, che si sposta
nell’ordine delle milioni di persone, qualora scoprisse l’esistenza di un servizio
ritenuto migliore e offerto da un concorrente, migrerebbe quasi istantaneamente verso
quella direzione, creando un elevatissimo rischio di fallimento per l’altra impresa.
Dette società, inoltre, sono solite utilizzare un sistema remunerativo dei propri
quadri dirigenziali consistente in salari molto elevati e l’elargizione di stock options.
18
Steve Jobs Wouldn't Have Paid a Dividend, in Forbes.com, 19 marzo 2012.
19
Gli Stati Uniti hanno l’aliquota per le imposte societarie (corporate tax) più alta tra i Paesi
industrializzati.
20
U. S. SECURITIES AND EXCHANGE COMMISSION, 10-K Form of Apple, Inc., anno fiscale 2013
21. 18
Ciò genera un aumento degli azionisti e una diluizione delle azioni stesse, con
conseguente necessità di aggiornamento del relativo valore. Questo sistema permette
alle imprese trasferire questo valore agli azionisti senza però dividere gli utili e quindi
essere sottoposti alla pesante tassazione americana in materia.
Le conseguenze negative dell’elargizione dei dividendi sarebbero non soltanto
di natura fiscale, ma anche “politica”. Una volta che si allenta la presa e si procede a
versamenti di dividendi più ravvicinati nel tempo, l’aspettativa del mercato e degli
azionisti è che questa linea continui. Pertanto una volta che si è innescato un
meccanismo per il quale la spartizione è più frequente, il mercato non permette di
tornare indietro. I dividendi, rectius la loro spartizione, hanno inoltre cominciato ad
essere interpretati dagli azionisti come segnali negativi dell’andamento e del successo
dell’impresa. Questa caratteristica non è propria ed esclusiva delle multinazionali
digitali, ma in questo settore i suoi effetti sono amplificati. Se una società ricorre
troppo spesso alla spartizione degli utili, nella mente dell’azionista si innesca un
ragionamento logico per cui tale azione è correlata ad un minor investimento nel ramo
R&D, e pertanto quell’impresa non può più essere considerata innovativa, cioè si
ritiene aver smesso di “crescere” e svilupparsi.21
5. L’economia digitale è in rapido e perpetuo movimento, in tutti i settori, di talché
non è agevole identificarne un punto di stabilità, incluso per l’imposizione fiscale.
Né la tecnologia, né i modelli di business, né i servizi resi possono essere
considerati come perenni
A partire dagli assunti appena analizzati, in particolare sub 1) e 3), è facilmente
possibile comprendere come l’economia digitale sia in «perenne ristrutturazione»22
e
le imprese che ivi operano non concentrino i propri sforzi in un unico settore, dovendo
indirizzare i propri sforzi di innovazione e sviluppi verso un numero ampio di mercati
differenti, cercando di creare un rapporto privilegiato con la clientela, alla quale fornire
tutta una serie di strumenti al fine di alimentare un “ecosistema” di servizi tali che
dette imprese possano essere considerate dagli utilizzatori come unico punto di accesso
per l’utilizzo di una serie disomogenea di funzioni.
21
CHENG, R., Why technology companies loathe dividends, in CNET, 19 marzo 2012
22
op. cit. COLIN, N. – COLLIN, P., Mission d’expertise sur la fiscalité de l’économie numérique, p. 12.
Traduzione libera.
22. 19
Infatti, ognuna delle quattro grandi multinazionali del settore digitale, e cioè
Apple, Amazon, Google e Facebook, definite «i quattro cavalieri dell’apocalisse»23
,
per la loro capacità di aver rivoluzionato completamente il mercato a partire dai primi
anni 2000, concentra i propri sforzi attraverso canali definiti “prioritari” proprio per
raggiungere un livello di affiliazione massima con il cliente, che con quel marchio si
deve indentificare. Apple, per esempio, avendo rivoluzionato per prima il settore degli
smartphones, si propone come leader del settore grazie ad una user experience sempre
più evoluta, dovuta anche al fatto che sia la produzione dell’hardware che quella del
software che modella il sistema operativo, sono direttamente creati, gestiti ed
aggiornati dalla stessa Apple. Amazon, invece, si era inizialmente proposta sul mercato
come “la più grande libreria del mondo”, in un momento in cui l’evoluzione
tecnologica sembrava suggerire una contrazione del mercato della carta stampata in
favore dei c.d. e-books24
, per poi diversificare ampiamente il proprio market attraverso
la vendita di qualsiasi oggetto commerciabile, proponendosi come il “più grande
mercato del mondo”, sempre mantenendo un rapporto privilegiato con la clientela di
lettori, attraverso lo strumento denominato Kindle e cioè un dispositivo portatile che
consente la lettura degli ebook, che, se acquistati attraverso il canale di Amazon, sono
in un formato proprietario e leggibili solo attraverso quel particolare dispositivo
ovvero tramite un software proprietario. Google ha come missione quella di
«organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili
e utili»25
, attraverso il proprio motore di ricerca, che ha letteralmente spazzato via la
concorrenza in materia che aveva animato il mercato intorno agli anni ’90 e
arricchendo l’esperienza degli utenti con strumenti affini ma completamente differenti,
come la ricerca di immagini, l’acquisizione del più grande database di video privati e
professionali del mondo, YouTube, l’applicazione Google Libri che digitalizza un
numero sempre crescente di volumi, lo strumento Google Maps, che contiene le
immagini satellitari e quelle stradali di quasi tutto il Pianeta, oltre ad una serie di
23
NUSCA, A., Kleiner Perkins’ Doerr: Google, Facebook, Amazon, Apple the “four great horsemen of
the internet”, in ZDNet, 2010.
24
Fatto poi effettivamente verificatosi nel 2011 quando le vendite degli ebook sul portale Amazon.com
hanno superato del 5% le vendite di libri cartacei, http://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-
1388779/The-end-paperback-Kindle-ebook-sales-exceed-print-sales-time-ever.html
25
https://www.google.it/intl/it/about/company/.
23. 20
strumenti non minori ma sicuramente meno unici, quali ad esempio il servizio di posta
elettronica Gmail, il servizio di traduzione automatica Google Translator, etc.
Facebook, invece, si propone come il social network attraverso cui «connettere il
mondo», con un numero di utenti attivi estremamente elevato e un sistema di gestione
delle inserzioni pubblicitarie assolutamente all’avanguardia nel settore. La
differenziazione, nel mercato digitale, è ciò che permette alle multinazionali di tenersi
sempre su altissimi livelli di produttività e guadagnare posizioni di mercato.
Una volta ottenuta una certa stabilità e avendo conquistato il mercato in un
determinato settore, queste imprese aggrediscono i rami al proprio settore connessi, al
pari di come un tempo le nazioni a carattere imperialistico-coloniale operavano le
proprie espansioni territoriali.26
Uno degli ambiti in cui l’investimento per lo sviluppo
è maggiore è quello della pubblicità e delle nuove performances legati ai servizi per i
consumatori. In una materia già ampiamente sviluppata nei decenni precedenti, come
quella della pubblicità a pagamento, il c.d. marketing diretto, le frontiere aperte dalle
multinazionali digitali (in particolare Google e Facebook) sono considerabilmente
innovative, in quanto lo strumento attraverso il quale gli inserzionisti si presentano al
pubblico è particolarmente affinato da un lato e trasversale, nel senso dell’applicabilità
a tutti i supporti digitali, dall’altro.
Quasi tutta l’attività effettuata dall’utente, che sfrutta i servizi che gratuitamente
le due società mettono a disposizione, è tracciata attraverso lo strumento dei c.d.
cookies, che permette di archiviare le preferenze dell’utente e di mostrargli, attraverso
un complesso algoritmo, soltanto quelle inserzioni che si ritengono possano essere più
facilmente convertite in acquisti. È in questo che le due aziende sono state
rivoluzionarie e innovative: l’estrema personalizzazione dell’utenza da raggiungere,
attraverso il c.d. targeting, ha ampliato le frontiere del marketing diretto come non mai
prima d’ora.27
La portata di questa innovazione, che comunque ha destato qualche
problema relativamente alla privacy degli utenti28
, ha una conseguenza importante
26
In riferimento a tale fenomeno di “neocolonialismo americano”, è stato coniato in Francia l’acronimo
GAFA (Google, Amazon, Facebook e Apple), http://qz.com/303947/us-cultural-imperialism-has-a-
new-name-gafa/.
27
AULETTA, K., Googled, The end of the World as we know it, New York City, 2011.
28
ex plurimis, la storica decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che condannando
Google con la sentenza pronunciata nel procedimento C-131/12, ha stabilito il c.d. principio del diritto
all’oblio.
24. 21
anche dal lato del consumatore: l’internauta di oggi è un utente che ha un’attenzione
minore rispetto al consumatore finale classico, in parte perché la quotidianità sempre
più dinamica delle persone non permette loro di applicare la stessa “profondità” di
pensiero rispetto ad un tempo, in parte anche perché la rapidità e la superficialità delle
nozioni che si apprendono attraverso lo strumento internet sono due delle
caratteristiche peculiari di questo strumento. Pertanto, il consumatore è meno
“attento”, perlomeno durante una delle fasi dell’acquisto, cioè quello del
consolidamento della scelta ed è a questo punto che gli strumenti messi a punto da
Google e Facebook vengono in suo aiuto, presentando «l’informazione giusta, al
momento giusto e alla persona giusta».29
6. Infine, l’economia digitale elimina in maniera sistematica la relazione tra luogo di
stabilimento e luogo di consumo. Conseguentemente, è sempre più difficile
localizzare il valore creato da questa economia e di applicarne le regole di un
diritto fiscale ormai inadatto
Tutti i gruppi multinazionali digitali sono organizzati in modo particolarmente
efficiente dal punto di vista fiscale. Questa efficienza è dettata in parte dalle
caratteristiche peculiari già analizzate delle imprese digitali, in parte dall’iniziale
struttura societaria, con imprese interne al gruppo create ad hoc per una migliore
gestione dei profitti e conseguente riduzione del livello di tassazione.
Questa intensa attività di efficientamento delle spese tributarie prende il nome
di tax planning, una pratica utilizzata spesso dalle multinazionali di tutti i tipi, ma che
ha raggiunto l’apice del suo perfezionamento proprio grazie all’attività e alle strategie
delle multinazionali digitali. Rispetto ad un gruppo multinazionale classico, le società
che operano su internet non hanno bisogno di regolari riorganizzazioni interne: esse
sono già ottimizzate dal punto di vista tributario e non temono confronti diretti con le
Amministrazioni fiscali dei Paesi in cui operano.30313233
29
op. cit. COLIN – COLLIN, Mission d’expertise sur la fiscalité de l’économie numérique, p. 16.
Traduzione Libera.
30
Fisco ancora dribblato da Google. Nel 2012 solo 1,8 milioni di tasse in Italia, in Il Sole 24 Ore, 20
luglio 2013
31
Posizione dominante, Google risponde a muso duro all'Ue: «Accuse infondate», in Il Sole 24 Ore, 27
agosto 2015
32
Tax avoidance hearing: Google, Microsoft and Apple tell Senate committee they fully comply with
Australian laws, in Sidney Morning Herald, 29 aprile 2015
33
The Debate: Recording – Public Accounts Committee Hearing (12/11/2012) on Taxation of
25. 22
Le multinazionali digitali, inoltre, sono società tendenzialmente giovani, che si
sviluppano, come visto, molto rapidamente, per cui la loro organizzazione originaria,
sicuramente più attenta a tali problematiche è più che sufficiente per una gestione
ottimale del carico fiscale, senza alcun bisogno di operare modifiche interne. Gli
strumenti più comuni attraverso i quali tali società riescono a diminuire il carico
fiscale, soprattutto nei confronti dei Paesi europei a fiscalità ordinaria in cui operano,
sono molteplici e basati sull’utilizzo massiccio degli intangibles. In particolare, si
possono identificare quattro operazioni principali che tutti e quattro i “cavalieri
dell’apocalisse” utilizzato per l’ottimizzazione del carico tributario
1. Riqualificazione di talune attività nella catena di creazione del valore al fine di
diminuire i profitti e assicurare l’assenza di una stabile organizzazione nel
territorio in cui operano: le imprese collegate e create nei Paesi a fiscalità
ordinaria vengono strutturate in modo da risultare appartenenti alle categorie del
par. 4 dell’art. 5 del Modello di convenzione OCSE (in questo capitolo infra
analizzato), che permette di non considerarle come stabili organizzazioni e
quindi di non applicare l’imposizione fiscale locale sulla tassazione degli utili
societari.
2. Localizzazione strategia in particolari Stati (generalmente Irlanda, Lussemburgo
e Paesi Bassi) per approfittare dei vantaggi fiscali da dette Amministrazioni
regolate attraverso leggi nazionali o accordi bilaterali: è il caso del Double Irish
with Dutch Sandwich, che sarà oggetto di approfondita analisi successivamente,
un meccanismo nato negli anni ’80 (prima, quindi, della rivoluzione digitale)
attraverso il quale le multinazionali possono spostare grande parte degli utili nei
c.d. paradisi fiscali.34
3. Grazie ad un attento utilizzo degli intangibles finanziari, come la proprietà
intellettuale o diritti di sfruttamento del marchio, tali società sono in grado di
destinare grande parte degli utili prodotti al di fuori del Paese ove la casa madre
ha sede (quindi gli Stati Uniti d’America), attraverso operazioni infragruppo e
Multinational Corporations, http://www.parliamentlive.tv/Event/Index/ab52a9cd-9d51-49a3-ba3d-
e127a3af018c
34
‘Double Irish With a Dutch Sandwich’, in New York Times, 28 aprile 2012, grafico
http://www.nytimes.com/interactive/2012/04/28/business/Double-Irish-With-A-Dutch-Sandwich.html
26. 23
una struttura societaria come quella sopra descritta, verso Paesi la cui tassazione
sugli utili è prossima allo zero.
4. Queste operazioni infragruppo, poi, sono influenzate nel quantum dallo
strumento del transfer pricing, e cioè dal prezzo a cui tali operazioni vengono
compiute, si ritiene spesso maggiorato35
rispetto al prezzo ottenibile in regime
di concorrenza di mercato (quindi nel caso in cui la stessa operazione
commerciale fosse stata portata avanti tra due società non appartenenti alla stessa
controllante) per aumentare il capitale esportato verso i Paesi a regime fiscale
agevolato.
Il rapporto, inoltre, analizza dal punto di vista economico il già citato fenomeno
dell’acquisizione massiccia di dati, soprattutto personali. Gli utenti che forniscono
volontariamente e gratuitamente i propri dati alle grandi multinazionali digitali, che
questi dati trasformano in enormi profitti generati dagli introiti pubblicitari, vengono
considerati come dei veri e propri “lavoratori”, paragonabili ai dipendenti di una
grande industria. Il fatto, però, che il “lavoro” svolto dagli utenti non sia retribuito, se
non sotto la forma di libera fruizione di una serie di servizi offerti, dà a queste imprese
un grandissimo vantaggio competitivo rispetto ad una del settore classico.
Inoltre, viene rilevato come a questo massiccio uso dei dati dei cittadini, in
questo caso francesi, non corrisponda una correlata contribuzione fiscale sul territorio
ove i soggetti, si ribadisce nel rapporto, «“travaillent” gratuitement».36
2. LA DISCIPLINA DELL’IMPOSIZIONE DELLE PERSONE GIURIDICHE
2.1. La disciplina internazionale
In ambito fiscale, la struttura normativa internazionale è peculiare e si distingue
da tutte le altre branche del diritto. Le fonti del diritto tributario internazionale infatti,
al contrario, ad esempio, del diritto internazionale pubblico o delle branche civilistiche
del diritto internazionale privato o commerciale, sono costituite da un complicato
intreccio tra norme consuetudinarie e pattizie bilaterali o multilaterali. Le fonti più
35
INTERNATIONAL TAX REVIEW, Transfer Pricing 17th edition, Tax Reference Library n. 99, 2015, p.
24.
36
ibidem, COLIN – COLLIN, Mission d’expertise sur la fiscalité de l’économie numérique, p. 2.
27. 24
antiche sono le norme consuetudinarie, che si sono sviluppate in un arco temporale
molto ampio e che tendenzialmente sono frutto di prassi diplomatiche completamente
riconosciute.
A livello quantitativo, comunque, occorre rilevare come questo tipo di fonte
costituisca una minima parte della disciplina normativa del diritto tributario
internazionale, ove le norme pattizie sono sicuramente la fonte che maggior peso
riveste nella regolamentazione della materia. La consuetudine, comunque, è una delle
fonti del diritto, ma per poter avere una rilevanza giuridica, deve rispondere a
determinati requisiti. Essendo la fonte del diritto caratterizzata da minor “certezza”, in
quanto sono completamente assenti i riferimenti scritti alla disciplina, ed essendo,
quindi, unicamente costituita da comportamenti ripetuti nel tempo, ha bisogno di taluni
“paletti” per poter essere considerata tale a tutti gli effetti. Per questo motivo, affinché
un comportamento costante e ripetuto rivesta un ruolo giuridico a tutti gli effetti è
necessario che tale comportamento sia caratterizzato da
- diuturnitas
- opinio iuris sive necessitatis
Il primo elemento è ciò che in rerum natura identifica comunemente la prassi,
quindi è il comportamento “quotidianamente” ripetuto nel tempo, ovvero un’azione o
un insieme di azioni che instaurano un rapporto giuridico tra Stati differenti e che è
rimasto uguale e costante nel tempo.37
Il secondo elemento, invece, è l’elemento che serve a dare quel quid di certezza
in più che, come già accennato, manca a questo tipo di fonte; l’opinio iuris, infatti, è
la convinzione, da parte dei soggetti chiamati a mettere in atto una determinata prassi,
che tale comportamento costituisca per loro un obbligo giuridico. Questo elemento
riguarda l’approccio soggettivo nei confronti della norma consuetudinaria, che viene
quindi identificata da coloro che la devono applicare, come un fatto giuridico non
contestabile, non opinabile, ma una vera e propria prescrizione normativa, al pari di
qualsiasi altra fonte scritta. A ben vedere, quindi, quest’ultimo elemento è ciò che
distingue il mero “uso” da una consuetudine che può assurgere a fonte del diritto.
Nella materia tributaria, i riferimenti alla consuetudine sono pochi e nell’ambito
37
CORDEIRO GUERRA, R. (a cura di), Diritto Tributario Internazionale – Istituzioni, Padova, 2012, pp.
102-105.
28. 25
dello studio qui intrapreso, di scarso rilievo. La presenza di questa fonte, comunque,
testimonia da un lato il fatto che il diritto tributario internazionale sia una disciplina
“giovane”, che si è evoluta soltanto di recente e che quindi presenta ancora in
determinati ambiti qualche refuso di una produzione normativa, per così dire,
primordiale.
Lo sviluppo della materia ha subito un grande impulso solo a partire dalla metà
del secolo scorso, con l’intensificazione dei rapporti commerciali internazionali e la
sentita esigenza da parte delle Amministrazioni finanziare di intercettare questo flusso
economico fino ad allora non regolato e soprattutto non sottoposto ad imposizione. È
infatti per questo motivo che nascono i primi accordi internazionali, prima in sede
Società delle Nazioni, (come era inizialmente conosciuta l’ONU) e successivamente
in seno all’organismo internazionale che maggiore importanza riveste in sede
tributaria, l’OCSE.
L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, infatti, è
un’organizzazione che conta 34 membri attivi rappresentanti di Paesi sviluppati aventi
in comune un sistema di governo di tipo democratico ed un’economia di mercato e
finalizzata alla risoluzione dei problemi comuni, l’identificazione di pratiche
commerciali ed il coordinamento delle politiche locali ed internazionali dei Paesi
membri.38
È in questa sede che, nei decenni, si sono sviluppati le regole più largamente
condivise per la disciplina internazionale della materia tributaria, attraverso
l’elaborazione di norme pattizie prevalentemente bilaterali, che costituiscono l’hard
core del diritto tributario internazionale.
In particolare, l’OCSE ha sviluppato un documento, chiamato Modello contro la
doppia imposizione internazionale, ampiamente utilizzato dagli Stati per stipulare
trattati bilaterali sulla gestione dell’imposizione fiscale relativa a fattispecie con
elementi di estraneità. Tale Modello riveste un ruolo centrale ed è frutto di uno studio
continuo più che cinquantennale. La prima versione del Modello risale al 1963 e la sua
struttura rispondeva ai parametri economici del tempo, relativi quindi ad un’economia
certamente non statica, ma altrettanto certamente non mutevole come quella attuale. Il
primo aggiornamento del Modello, risale poi a quasi 15 anni dopo, e cioè al 1977,
38
OECD – About, http://www.oecd.org/about/whatwedoandhow/.
29. 26
anche se le modifiche apportate non furono di grande rilevanza. È a partire dal 1991
che il Comitato per gli Affari Fiscali dell’OCSE ha adottato un criterio dinamico di
aggiornamento continuo del Modello e, a partire dall’anno successivo, ha introdotto
un importante strumento di supporto, il Commentario, per l’interpretazione delle
norme redatte. Il Modello OCSE è un modello snello, costituito da soli 30 articoli. In
tale sintetica esposizione, però, è racchiuso praticamente ogni aspetto della
regolamentazione dell’imposizione fiscale in caso di doppia pretesa impositiva.
Il Modello è composto da 7 Capitoli, che possono essere divisi in due aree, quella
delle nozioni e definizioni e quella delle singole categorie reddituali. Alla prima
appartengono i Capitoli 1 e 2 e i Capitoli 6 e 7, più precisamente
- gli artt. 1 e 2 identificano quelli che sono i soggetti attivi e passivi della disciplina
del Modello
- gli artt. 3, 4 e 5 contengono le definizioni essenziali per l’analisi del testo
normativo
- le disposizioni di cui al Capitolo VI, invece, contengono le regole e le procedure
da seguire per l’applicazione effettiva del trattato e saranno oggetto di maggiore
approfondimento infra
La seconda categoria di norme comprende, come detto, le singole categorie
reddituali, ma tra quelle di maggior rilievo per il caso che qui ci occupa, spiccano gli
artt. 10, 11, 12 e 13, che trattano rispettivamente dei dividendi, interessi, royalties e
capital gains, anch’esse oggetto di esegesi, infra.
Una delle più importanti nozioni sviluppate dall’OCSE per la disciplina della
tassazione internazionale e meritevole di specifica analisi è quello della “stabile
organizzazione” (d’ora in poi anche SO), regolata e definita dall’art. 5 del Modello,
che «designa una sede fissa di affari in cui l'impresa esercita in tutto o in parte la sua
attività».39
La finalità dell’istituto è quello di permettere ad uno Stato contraente di
esercitare la propria potestà impositiva sui profitti generati da un’impresa residente
nell’altro Stato contraente qualora eserciti la propria attività commerciale attraverso
una delle modalità descritte dalla norma.40
La SO quindi costituisce il criterio di
39
Par. 1, Art. 5, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2014, Paris, 2014.
40
CORDEIRO GUERRA, R. – MASTELLONE, P., Recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di stabile
organizzazione, in La stabile organizzazione, Milano, 11-12 ottobre 2013, p. 103.
30. 27
collegamento come presupposto per l’imposizione di un’attività economica svolta da
un soggetto in un Paese diverso da quello di residenza.41
Il Modello distingue poi due categorie di stabile organizzazione: la SO materiale
e quella personale, i cui connotati rispondono a caratteristiche differenti. I paragrafi 2
e 3 dell’art. 5 esemplificano una serie di situazioni in cui è possibile identificare una
SO materiale, accomunate dal fatto di implicare una presenza fisica, all’interno dello
Stato di non residenza, di un qualche tipo di mezzo organizzato dall’imprenditore
straniero42
; la riconducibilità di un’installazione alla nozione di stabile organizzazione
materiale è, comunque, più ampia ed è ricompresa anche nel costantemente aggiornato
Commentario al Modello.
A prescindere dall’esemplificazione, quindi, la stabile organizzazione materiale
deve rispondere a determinati requisiti, che sono
a) l’esistenza di un’installazione di affari nello Stato contraente,
b) la presenza stabile, sia geografica che temporale, di tale installazione,
c) la sua riconducibilità all’ordinario esercizio di impresa,
d) l’idoneità dell’installazione a produrre reddito.
La prima caratteristica è propria anche della stabile organizzazione personale ed
identifica proprio il quid minimo per giustificare la pretesa impositiva da parte dello
Stato di non residenza dell’impresa. Il concetto di stabilità, poi, è uno degli elementi
cardine della caratterizzazione della SO, oltre ad essere uno dei fattori che più ha
messo in crisi questo istituto alla luce delle novità relative alla new economy.
Avendo riguardo sia alle esemplificazioni del par. 2, sia alla specificazione
temporale del par. 3, si intuisce come tale elemento caratterizzi un peculiare tipo di
organizzazione societaria, definibile classica, per cui lo sviluppo extra-territoriale di
41
VALENTE, P., Manuale di governance fiscale, Milano, 2011, p. 879.
42
«2. L'espressione "stabile organizzazione" comprende in particolare:
a) una sede di direzione;
b) una succursale;
c) un ufficio;
d) un'officina:
e) un laboratorio;
f) una miniera, un pozzo di petrolio o di gas, una cava o altro luogo di estrazione di risorse
naturali;
3. Un cantiere di costruzione o di montaggio è considerato stabile organizzazione solamente se ha
una durata superiore ai dodici mesi», art. 5, parr. 2 e 3, OECD, Model Tax Convention on Income
and on Capital 2014, Paris, 2014.
31. 28
un’impresa era legata ad una presenza materiale ben visibile sul territorio straniero.
Questo fatto, alla luce della maggiore mobilità delle strutture societarie delle
multinazionali odierne, determina la non applicabilità della disciplina a tutte quelle
aziende che abbiano un indice di sviluppo digitale significativo, precludendo quindi
alle Amministrazioni finanziare dei Paesi “ospitanti” la possibilità di imporre la
tassazione sul reddito prodotto da tali società sul proprio territorio.
Inoltre, le previsioni del par. 443
alimentano la questa difficoltà impositiva, in
quanto il Modello OCSE esplicitamente esclude dalla nozione di SO tutta una serie di
circostanze che, in realtà, sono più tipiche delle moderne imprese digitalizzate. Come
si vedrà infra, infatti, una delle soluzioni proposte per arginare tale problema consiste
proprio nell’eliminazione di tale paragrafo.
Come anticipato, alla nozione di SO materiale si affianca quella di SO personale,
disciplinata dai parr. 5 e 6 dell’art. 5. A ben vedere, il primo dei due paragrafi identifica
una situazione fattuale che è ricompresa nella nozione di SO, mentre il secondo
esclude che la situazione ivi prospettata possa essere inquadrata all’interno di tale
istituto.
Il tratto comune tra le due ipotesi è la presenza sul territorio straniero non di
un’installazione fisica, materiale, ma di un agente. La differenza consiste
sostanzialmente nel tipo di “qualifica” data all’agente stesso, in quanto nel primo caso,
quello in cui si può parlare di SO personale, denominato “agente dipendente”, egli
agisca in nome e per conto dell’impresa, mentre nel secondo caso, denominato “agente
43
ibidem, «4. Nonostante le precedenti disposizioni di questo articolo, non si considera che vi sia una
"stabile organizzazione" se:
a) si fa uso di una installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna di merci
appartenenti alla impresa;
b) le merci appartenenti all'impresa sono immagazzinate ai soli fini di deposito, di esposizione o
di consegna;
c) le merci appartenenti all'impresa sono immagazzinate ai soli fini della trasformazione da parte
di un'altra impresa;
d) una sede fissa di affari è utilizzata ai soli fini di acquistare merci o di raccogliere informazioni
per la impresa;
e) una sede fissa di affari è utilizzata, per l'impresa, ai soli fini di pubblicità, di fornire
informazioni, di ricerche scientifiche o di attività analoghe che abbiano carattere preparatorio o
ausiliare per l’impresa.
f) una sede fissa di affari è utilizzata unicamente per qualsiasi combinazione delle attività citate
ai paragrafi da a) a e), purché l’attività della sede fissa nel suo insieme, quale risulta da tale
combinazione, sia di carattere preparatorio o ausiliare».
32. 29
indipendente”, egli agisca in nome proprio ma per conto dell’impresa.44
Infine,
l’ultimo paragrafo dell’art. 5 stabilisce un principio che, nel caso delle multinazionali,
in particolare quelle digitali, si presenta come una valvola di salvezza rispetto alla
necessità di operare come una stabile organizzazione all’interno del territorio straniero.
L’assunto di partenza è che «il fatto che una società residente in uno Stato
contraente controlli una società residente nell'altro Stato contraente o sia da questa
controllata, ovvero svolga attività in questo altro Stato non costituisce di per sé motivo
sufficiente per far considerare una qualsiasi delle dette società una stabile
organizzazione dell'altra».45
Le implicazioni di questa norma sono rilevanti. Le multinazionali digitali o
digitalizzate, seppur potenzialmente potrebbero svolgere la propria attività senza alcun
ausilio nel territorio straniero dove si trova una parte rilevante della propria clientela,
spesso utilizzano delle controllate per compiere determinate operazioni in loco, che
esse giustificano come rientranti nelle previsioni del par. 4, quindi ad esempio attività
di ricerca di informazioni, pubblicità o attività preparatorie a quella d’impresa, a volte
mascherando una vera e propria attività rientrante nei parametri della SO.46
Un caso particolare è costituito dai server e dalla disciplina dettata dal
Commentario OCSE in merito alla loro qualificazione come stabili organizzazioni. La
circostanza non è irrilevante proprio in virtù del fatto che (vedi supra) la stragrande
maggioranza delle imprese dei Paesi sviluppati utilizza un sito internet per promuovere
la propria attività o addirittura come canale di vendita. I dati che formano i siti web,
44
ibidem, «5. Nonostante le disposizioni dei paragrafi 1 e 2, quando una persona diversa da un agente
che goda di uno status indipendente, cui si applichi il paragrafo 6 agisce per conto di un'impresa oppure
abitualmente esercita in uno Stato contraente il potere di concludere contratti a nome dell'impresa, si
può ritenere che l’impresa abbia una stabile organizzazione in detto Stato in relazione ad ogni attività
intrapresa dalla suddetta persona per l'impresa, a meno che l’attività di tale persona sia limitata
all’attività citata al precedente paragrafo 4 che, se esercitata a mezzo di una sede fissa di affari, non
farebbe di tale sede fissa di affari una stabile organizzazione ai sensi delle disposizioni di detto
paragrafo.
6. Non si considera che un'impresa di uno Stato contraente abbia una stabile organizzazione nell'altro
Stato contraente per il solo fatto che essa eserciti in detto Stato la propria attività per mezzo di un
mediatore, di un commissionario generale o di un qualsiasi altro intermediario che goda di uno status
indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell'ambito della loro ordinaria attività».
45
ibidem, par. 6. Traduzione Libera.
46
Così, per esempio, è stato dimostrato nel noto caso Philip Morris (Cass. Civ., nn. 3367 e 3368 del 7
marzo 2002, n. 10925 del 25 luglio 2002 e n. 7682 del 25 maggio 2002), nel quale la Suprema Corte ha
identificato l’attività svolta da alcune società del gruppo del tabacco come stabile organizzazione,
mentre la casa madre le considerava semplici controllate svolgenti un’attività ausiliaria pari a quella
disciplinata dal par.4 dell’art. 5 del Modello OCSE.
33. 30
necessariamente, debbono essere “salvati” su di un server, da qui l’interrogativo di
poter considerare tali macchine, che comunque sono strutture fisse, come una stabile
organizzazione, ancorché peculiare, di un’impresa, data anche l’attitudine a generare
redditi attraverso i siti web.
Il Commentario riserva ampio spazio a questa precisa problematica,
individuando tre casi da disciplinare. Nel primo caso, si prende in considerazione il
sito web in sé per sé, quindi a prescindere dalla sua “collocazione”, ma come entità
formata da dati digitali e software per l’elaborazione di tali dati, non rilevando,
nell’analisi, quale sia il supporto ove tali dati siano salvati, anche se, evidentemente,
essi siano salvati su di un server di proprietà di un ISP, in forza di un contratto c.d. di
hosting.47
In questo caso non si può parlare di SO in quanto «l’impresa non ha nemmeno
una presenza fisica in quella sede, considerato che il sito web non è un bene tangibile.
In questi casi, non può ritenersi che l’impresa abbia acquisito una sede d’affari in
forza di quel contratto di hosting».
48
Diversa la disciplina del server. In questo caso,
infatti, una presenza fisica è indiscutibile, ma il Commentario subordina l’applicabilità
della SO ad un’ulteriore serie di fattori.
Uno di questi fattori è la materiale disponibilità del bene stesso. Un ISP, che
offre servizi di hosting, è naturalmente proprietario dei server che utilizza per offrire i
propri servizi e detti server sono nella sua materiale disponibilità, quindi secondo
l’OCSE, tale circostanza configura una stabile organizzazione.
Parimenti, un’impresa che non si occupa di offrire servizi di hosting, ma più
semplicemente ha deciso, per la gestione del proprio portale, di acquistare essa stessa
un server, ed essendo tale server nella materiale disponibilità della stessa impresa,
qualora tale strumento si trovi in uno Stato diverso da quello della sede dell’impresa,
sarà configurabile una stabile organizzazione. Così infatti il Commentario «Se
l’impresa che svolge la propria attività attraverso un sito web ha la piena disponibilità
del server, per esempio perché lo possiede o lo affitta, e gestisce il server dove il sito
web è salvato e utilizzato, il luogo dove si trova il server può costituire una stabile
47
Dall’inglese, per l’appunto, “ospitare”.
48
Par. 42.3, OECD, Commentary to the OECD Model, 2010. Traduzione libera.
34. 31
organizzazione se gli altri requisiti dell’Articolo sono soddisfatti».49
Una volta stabilito il requisito della disponibilità uti dominus e della fissità del
server, il Commentario ricorda la differenza tra attività preparatorie ed ausiliarie e
attività più direttamente finalizzate alla produzione di reddito (par. 4, art. 5 Modello
OCSE). Nel primo caso, infatti, il server non costituirà una stabile organizzazione, in
quanto «se queste attività sono meramente preparatorie o ausiliarie all’attività di
vendita dei prodotti attraverso internet (per esempio, la sede è utilizzata per gestire
un server che ospita un sito web, come spesso accade, utilizzato esclusivamente per
scopi pubblicitari, attraverso l’esposizione di un catalogo prodotti o il chiarimento su
di essi attraverso informazioni date ai potenziali clienti), il paragrafo 4 sarà applicato
e la sede non costituirà una stabile organizzazione».
50
Nel secondo caso, invece,
qualora l’attività svolta attraverso il server sia una vera e propria attività di vendita,
con pagamenti effettuati online, allora «tali attività non potranno essere considerate
come mere attività preparatorie o ausiliarie».51
Data la rapida evoluzione di tutte le vicende legate al mondo della digital
economy, l’OCSE ha correttamente ritenuto di dover aggiornare con frequenza il
proprio Commentario al Modello contro le doppie imposizioni, che pur non rivestendo
alcun ruolo ufficiale e non essendo allegato ai trattati bilaterali, costituisce comunque
lo strumento principe per l’interpretazione di tutte le Convenzioni. La scelta di
modificare il Commentario, rispetto ad una modifica costante del Modello, si è rivelata
vincente e i paragrafi appena citati sulla disciplina del server come stabile
organizzazione ne sono una prova.
Spostandoci verso la tassazione del reddito generato dalla SO, disciplinato nel
Modello OCSE dall’art. 7, par. 1, che stabilisce che «i profitti di un’impresa di uno
Stato contraente sono tassati solo in tale Stato, a meno che l’impresa svolga la propria
attività nell’altro Stato contraente attraverso una stabile organizzazione ivi stabilita.
Se l’impresa svolge un’attività come sopra detto, i profitti imputabili alla stabile
organizzazione, in virtù delle disposizioni del paragrafo 2, possono essere tassati in
tale altro Stato» è opportuno rilevare che due sono le interpretazioni che gli Stati
49
Ibidem. Traduzione libera.
50
Ibidem, par. 42.9. Traduzione libera.
51
Ibidem. Traduzione libera.
35. 32
hanno offerto e che sono definite “functionally separate entity” approach e “relevant
business activity” approach. Secondo la prima, che è anche l’interpretazione autentica,
i profitti imputati alla stabile organizzazione, e quindi tassati dallo Stato di non
residenza, sono quelli ottenuti dall’installazione considerata come un’impresa del tutto
indipendente dalla casa madre. La seconda interpretazione, invece, considera come
profitti dell’impresa solo i profitti dell’attività in cui una stabile organizzazione ha una
determinata partecipazione attiva.
Con riguardo alla disciplina delle singole categorie reddituali, invece, come
anticipato, assumono rilievo gli artt. 10, 11 e 12 che trattano rispettivamente di
dividendi, interessi e royalties. L’importanza di questi articoli è correlata ad una
caratteristica comune a tutti e quattro gli istituti: essi costituiscono intangibles, ovvero
quegli strumenti finanziari, per l’appunto, intangibili, che spesso sono stati oggetto di
abuso da parte delle imprese multinazionali al fine di limitare l’imposizione fiscale e
sono per questo motivo stati oggetti di specifica analisi da parte dell’OCSE all’interno
del più ampio lavoro contro il Base Erosion and Profit Shifting (infra oggetto di
approfondita analisi), che è costituito da 15 Action Plans in merito proprio ai problemi
derivanti da e alle soluzioni proposte contro il fenomeno appena descritto; l’Action
Plan 8 è proprio indirizzato all’uso degli intangibles52
e si propone di «Sviluppare
regole per prevenire il fenomeno BEPS attraverso lo spostamenti di intangibles tra
membri di un stesso gruppo societario. Ciò includerà una netta, chiara e delineata
definizione di intangibles e l’assicurazione che i profitti associati con il trasferimento
e l’uso di intangibles siano propriamente allocati in relazione al luogo della creazione
del valore (piuttosto che da esso separati).53
Il primo di questi intangibles disciplinati dal modello OCSE è l’istituto dei
dividendi, normato dall’art. 10, il cui par. 1 stabilisce che «i dividendi pagati da una
società residente in uno stato contraente ad un residente di un altro stato sono tassati
in detto altro Stato»54
pertanto prevedendo la possibilità (mancando nella norma
l’avverbio soltanto) che essa sia una potestà impositiva concorrente con il Paese di
52
Il titolo del lavoro dell’OCSE è, infatti, Guidance on Transfer Pricing Aspects of Intangibles, Paris,
2014.
53
ibidem, p.11. Traduzione libera.
54
Art. 10, par. 1, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2014, Paris, 2014.
Traduzione libera.
36. 33
residenza della società erogante. Di tale possibilità, infatti si occupa il paragrafo 2, il
quale specifica che, vi è la possibilità che i dividendi siano tassati anche nello Stato
del quale la società pagante è residente in base alla disciplina di tale Stato, ma se il
beneficiario dei dividendi è residente nell’altro Stato, l’imposta non può eccedere
determinati limiti.55
Tale strumento è stato utilizzato nel processo di BEPS da
numerose multinazionali, seguendo l’ormai celebre schema del Double Irish with
Dutch Sandwich, un meccanismo più ampiamente analizzato infra nel Capitolo
Secondo del presente testo, che si basa sullo sfruttamento delle regole sulla tassazione
dei dividendi, stabilite dai Paesi Bassi, sulla base dell’articolo appena descritto.56
Lo sfruttamento della libertà lasciata agli Stati contraenti il Modello OCSE, si
rinviene anche nei successivi articoli riguardanti le altre figure di intangibles che, per
le loro caratteristiche intrinseche e “volatili” si prestano perfettamente a manipolazioni
funzionali allo scopo delle multinazionali di ottenere una pressione fiscale minore.57
L’art. 11 del Modello OCSE, infatti, si occupa degli interessi e si applica
unicamente agli interessi derivanti in uno Stato contraente e pagati a un soggetto
residente dell’altro Stato. Anche in questo caso, al pari di quanto già visto per i
dividendi, il paragrafo 2 limita il diritto di tassazione degli interessi da parte dello Stato
della residenza del percipiente stabilendo l’applicazione di un’aliquota «che non può
eccedere il 10% dell’ammontare lordo dell’interesse».58
Di particolare rilevanza per il caso che qui ci occupa, il paragrafo 6, il quale
contiene il dispositivo in materia di transfer pricing con riferimento al pagamento di
interessi tra soggetti appartenenti allo stesso gruppo societario, stabilendo che
«qualora l’ammontare degli interessi ecceda l’importo che sarebbe stato concordato
55
ibidem, «a) il 5 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi se il beneficiario
economico è una società (diversa da una società di persone) che detiene
almeno il 25 per cento del capitale della società che paga i dividendi;
b) il 15 per cento dell’ammontare lordo dei dividendi in tutti gli altri casi.
Le autorità competenti degli Stati contraenti disporranno di comune accordo
le modalità applicative di queste limitazioni.
Questo paragrafo non riguarda la tassazione della società sugli utili dai quali
derivano i dividendi».
56
GALLO, F., Indagine conoscitiva sulla fiscalità nell’economia digitale, Audizione alla Camera dei
Deputati della Repubblica Italiana, 24 febbraio 2015, pp. 6-7.
57
ibidem, p. 4.
58
Art. 11, par. 2, OECD, Model Tax Convention on Income and on Capital 2014, Paris, 2014.
Traduzione Libera.
37. 34
tra il debitore e il creditore in assenza di tale relazione, le previsioni del presente
Articolo si applicheranno unicamente a quest’ultimo importo».59
La norma è rilevante
in quanto il citato strumento di transfer pricing applicato a strumenti finanziari come
gli intangibles, è largamente utilizzato dalle multinazionali, non solo del settore
digitale, per limitare il carico fiscale. Le operazioni infragruppo, ed in particolar modo
i pagamenti degli interessi tra società interne, è uno dei mezzi “classici” (come meglio
analizzato infra) attraverso il quale ottenere un risparmio d’imposta e nei confronti del
quale l’OCSE e gli organismi internazionali già citati (il G-20, e come analizzato
successivamente, anche l’Unione Europea) stanno elaborando dei sistemi alternativi
finalizzati a porre fine a tali pratiche.60
Sempre in tema di intangibles, l’articolo
successivo a quello appena analizzato norma uno degli istituti più caratteristici di
questo tipo di strumenti finanziari: le royalties.
Il paragrafo 2 dell’articolo dà una definizione di ciò che vengono considerate tali
ai fini della Convenzione e cioè «compensi di qualsiasi natura corrisposti per l’uso o
la concessione in uso di beni immateriali». È proprio l’essenza “immateriale” di tale
strumento che lo rende particolarmente apprezzato dai pianificatori fiscali delle grandi
multinazionali, che lo sfruttano per giustificare i trasferimenti infra-gruppo sovente
utilizzati; o quantomeno, queste sono le accuse a loro mosse dalle Amministrazioni
fiscali di più parti del Mondo, per abbassare la base imponibile delle società operanti
in Paesi a fiscalità ordinaria.61
Per quanto riguarda la disciplina della ripartizione degli
oneri fiscali, il paragrafo 1, art. 12, prevede il principio della tassazione esclusiva nello
Stato di residenza dell’effettivo beneficiario dei canoni provenienti da uno Stato
contraente e pagati ad un residente dell’altro stato contraente.62
Il paragrafo 2, poi,
59
ibidem, par. 6. Traduzione libera.
60
AZAM, R., The Political Feasibility of a Global E-Commerce Tax, in The University of Memphis Law
Review, vol. 43, 2013, pp. 749-753.
61
Senza presunzione di esaustività si citano, ex plurimis, alcune audizioni di rappresentanti di
multinazionali, non sempre legate al mondo digitale, al cospetto degli organi parlamentari del Regno
Unito, dell’Australia e degli Stati Uniti: in ordine, HOUSE OF COMMONS, Public Accounts Committee
Hearing, Taxation of Multinational Corporations, 12 novembre 2012; WADE, M., Tax avoidance
hearing: Google, Microsoft and Apple tell Senate committee they fully comply with Australian laws,
Sydney Morning Herald, 9 aprile 2015; U.S HOUSE OF REPRESENTATIVES Committee on Ways and
Means, Earing titled “Tax reform: Tax havens, Base Erosion and profit-shifting”, audizione del Prof.
EDWARD D. KLEINBARD, 13 giugno 2013.
62
«(…) shall be taxable only in that other State», par. 1, art. 12, OECD, Model Tax Convention on
Income and on Capital, Paris, 2014.
38. 35
prevede la non applicabilità del regime qualora il beneficiario effettivo dei canoni
operi nello Stato della fonte mediante stabile organizzazione ovvero se i diritti o i beni
generatori dei canoni si ricollegano effettivamente alla stabile organizzazione. In tal
caso, infatti, si considera quale Stato della fonte quello in cui è sita la stabile
organizzazione, con conseguente applicazione dell’art. 7 del Modello.63
L’ultimo
paragrafo, infine, in applicazione del c.d. arm’s length principle, prevede che in caso
di stabili organizzazioni o di rapporti di controllo societario tra beneficiario e debitore,
la disciplina agevolata appena descritta si applichi soltanto ai canoni che non eccedono
quelli che sarebbero stati convenuti in assenza di detta relazione tra i contraenti.64
Questa sommaria esposizione della disciplina stabilita dal Modello OCSE sarà
utilizzata successivamente per specificare i punti di rottura del sistema, così come è
stato pensato, rispetto alle multinazionali digitali.
Infine, un altro articolo che ha rivestito e che riveste un ruolo estremamente
importante nella disciplina internazionale è l’art. 26 e cioè l’articolo relativo allo
scambio di informazioni tra i Paesi contraenti. Prima di addentrarsi in un’analisi storica
di ciò che ha significato questo articolo, occorre partire da un assunto differente, che
ha costituito il leitmotiv dell’evoluzione di questo istituto. Tradizionalmente, gli Stati,
hanno cercato di custodire gelosamente i più importanti baluardi di sovranità che sono
ad Essi riservati: la materia penale e la materia fiscale.
In un mondo sempre più, globalizzato, la tendenza è quella di cedere meno
“fetta” di sovranità possibile, per non snaturare del tutto la rilevanza dell’istituzione
statale.65
Tale custodia rispetto alla materia tributaria internazionalmente concepita ha
portato, oltre al lento sviluppo della normativa, come già accennato, anche ad una
determinata negazione della collaborazione tra Stati in materia di scambio di
informazioni (art. 26) e cooperazione per la riscossione (art. 27). La materia tributaria
è sempre stata collegata intrinsecamente al territorio, nasceva e finiva all’interno dei
confini dello Stato e ciò che al di fuori di questi confini succedeva, veniva ignorato. A
63
«The provisions of paragraph 1 shall not apply if the beneficial owner (…) carries on business (…)
through a permanent establishment», ibidem.
64
in proposito, il Modello utilizza l’espressione «relazione speciale tra il debitore e il beneficiario»,
ibidem. Traduzione libera.
65
A tal proposito, SACCHETTO (1992) afferma che «il principio di territorialità [è] fondato sul
riconoscimento della sovranità degli Stati».
39. 36
maggior motivo, non si comprendeva il senso di dover addirittura scambiare
informazioni con un altro Stato in merito ad un residente non cittadino e men che mai
era concepibile che uno Stato A, impiegando risorse umane e finanziarie, aiutasse lo
Stato B a ottenere la soddisfazione, ad esempio, di un credito tributario utilizzando i
beni che il soggetto debitore possedeva nello Stato A.
La tendenza, quindi, era quella di guardare esclusivamente “al proprio giardino”,
in quanto ciò che succedeva al di fuori della propria giurisdizione era qualcosa cui gli
Stati non erano interessati. A tale riguardo, eloquenti sono le parole del Giudice Lord
MANSFIELD, il quale sosteneva che: «no country ever takes notice of the revenue laws
of another»66
Con l’evolversi del commercio internazionale, però, anche le dinamiche
politiche e i punti saldi della manifestazione della sovranità territoriale sono
cambiati.67
Il primo passo, in realtà, era frutto non tanto della lotta alla doppia non
imposizione, esigenza che nel lontano 1963 non si sentiva, ma era un passo fatto per
agevolare gli scambi commerciali e eliminare le restrizioni dovute ai casi di doppia
imposizione. Nasce in questo contesto la c.d. “piccola clausola di assistenza
amministrativa”, uno strumento che permetteva la cooperazione per l’attuazione
dell’accordo bilaterale stesso. Successivamente, e non troppo tempo dopo, con
l’intensificarsi degli scambi commerciali, più precisamente nel 1977, si è allargato la
portata di tale strumento anche per l’attuazione delle normative fiscali nazionali, ma
solo se “relative alle imposte previste dalla Convenzione”. Già da questo primo
passaggio si nota come le esigenze della comunità internazionale erano nel frattempo
cambiate.
Da una tutela nei confronti delle norme contenute nell’accordo, quindi una tutela
tutta positiva, volta a rendere maggiormente certa l’applicazione della convenzione, si
passa ad una tutela contro gli illeciti commessi, all’interno della giurisdizione di uno
Stato contraente, relativi alle imposte che fossero oggetto dell’accordo. Il grande
passo, però, avviene molti anni dopo, nel 2005, con l’istituzione della c.d. grande
clausola di assistenza amministrativa, che per la prima volta estese “alle imposte di
66
Holman vs. Johnson (1775) 1 Cowp 341; 98 ER 1120.
67
Secondo CORDEIRO GUERRA (2012) tale cambiamento è dovuto a due fattori: l’internazionalizzazione
dell’economia e il cambiamento conosciuto dai sistemi fiscali degli Stati più evoluti.
40. 37
qualsiasi genere o denominazione” l’applicabilità dell’art. 26. Art. 26 che, fino allo
spartiacque costituito dal G-20 di Londra dell’aprile del 2009, ha sofferto di un grave
handicap, che ha quasi del tutto vanificato la portata della norma. Tale grave
menomazione era dovuta all’esistenza del segreto bancario.
L’articolo, infatti, al proprio paragrafo 3, inserisce una serie di limitazioni
all’obbligo di cooperazione disciplinato dai paragrafi precedenti In particolare, lo Stato
interpellato non è tenuto
a) ad adottare provvedimenti in deroga alla propria legislazione o alla prassi
amministrativa interna o dell’altro Stato contraente;
b) a fornire informazioni che lo Stato richiedente non potrebbe ottenere in base alla
propria legislazione o nel quadro della propria normale prassi amministrativa.
c) a fornire informazioni che potrebbero rivelare un segreto commerciale,
industriale, professionale o un processo commerciale, oppure la cui
comunicazione sarebbe contraria all’ordine pubblico.
Tale lettera c) costituiva l’elemento di appiglio attraverso il quale gli Stati a
fiscalità privilegiata, in primis la Svizzera, si opponevano allo scambio di informazioni
bancarie con gli altri Stati contraenti. Nella convenzione tra Italia e Svizzera, ad
esempio, ciò era esplicitamente formulato: “non potranno essere scambiate
informazioni suscettibili di rilevare segreti commerciali, bancari, industriali o
professionali o metodi commerciali”. Tal fatto, causava la sostanziale inefficacia
dell’art. 26, che perdeva quasi completamente la propria utilità, non potendo, le
Amministrazioni finanziarie, in tal modo, “rincorrere” tutti i soggetti considerati
potenziali evasori, poiché non era possibile dimostrare che avessero dei conti aperti in
alcuno dei paradisi fiscali fino a qualche anno fa esistenti.
Tale esenzione, comunque, è stata del tutto eliminata a seguito del G-20 di
Londra 2009, di cui si analizzeranno gli effetti più avanti.
2.2. La disciplina dell’Unione Europea
In tema di imposizione fiscale internazionale, e anche avendo riguardo al tema
in oggetto, la rilevanza dell’Unione Europea e della disciplina comunitaria in materia
di tassazione delle imprese è centrale e meritevole di un’approfondita analisi. Tra gli
41. 38
Stati dell’Unione vige il principio che in ambito di tassazione diretta si applichi il c.d.
principio di concorrenza fiscale, secondo il quale gli Stati membri sono liberi di
determinare la propria disciplina tributaria per poter attrarre più investimenti stranieri.
In tema di imposte indirette, invece, l’Unione Europea regola direttamente
attraverso una serie di Direttive l’imposta sul valore aggiunto, lasciando agli Stati
membri solo la possibilità di scegliere l’aliquota all’interno di una “forbice”
determinata. A prima vista, la libertà di concorrenza fiscale sembra non conformarsi
troppo con lo spirito di armonizzazione legislativa dell’Unione, ma può essere
inquadrata nella storica “gelosia” degli Stati a disciplinare la materia tributaria
autonomamente, esprimendo così il massimo del loro potere sovrano.
La scelta della corretta policy fiscale, comunque, è un’impresa tutt’altro che
scontata, in quanto gli interessi contrapposti sono molteplici e gli esiti sempre non
determinabili; da una parte, la maggiore mobilità del capitale può spingere i Governi
ad abbassare la pressione fiscale per apparire più “attraenti”, dall’altra, l’integrazione
economica e la conseguente maggiore presenza di operatori stranieri nel territorio,
potrebbe indurre il Governo ad alzare le imposte nei loro confronti. È per queste
ragioni che in tema di concorrenza fiscale il dibattito è stato incessante. Dottrina
autorevole68
, invece, ha criticato l’eccessiva libertà lasciata agli Stati di determinare le
proprie politiche fiscali nelle aree ove i fallimenti del mercato fossero di maggiore
entità, senza tener conto degli altri soggetti dell’Unione, mentre altri69
hanno
evidenziato il rischio della c.d. race to the bottom, e cioè della corsa al ribasso delle
aliquote con conseguente contrazione del gettito. Gli obiettivi dell’originaria
Comunità Europea erano quelli di un miglioramento della qualità della vita, sviluppo
economico e tutela dell’ambiente, che si ottenevano tramite la creazione di un mercato
comune e di un’economia monetaria unitaria. Tale processo di unificazione è avvenuto
attraverso varie fasi.
In seguito al dominio dei trattati bilaterali in tema di imposizione diretta, negli
anni ’90 sono state promulgate una serie di Direttive in materia di imposizione
societaria: in materia di fusioni, scissioni e trasferimenti di attività (90/434/CEE), la
68
È la tesi di Sørensen (2001), secondo il quale è controproducente lasciare agire liberamente la
concorrenza ove vi siano fallimenti di mercato e quelli dello Stato fossero di maggiore entità.
69
Si veda ad esempio Oates (2001).