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Di padre in figlia.
Leadership femminili in Asia
il potere
del sangue.
la politica come
affare di famiglia
Francesco Montessoro È stato spesso notato l’importante ruolo
politico che, in molti Paesi dell’Asia, è
stato svolto nel corso degli ultimi decenni
dalle leadership femminili: dall’Indonesia
al Pakistan, dall’India al Giappone,
dalle Filippine al Bangladesh, dallo Sri
Lanka alla Corea del Sud. La presenza
delle donne al vertice del potere, più
che in altre parti del mondo, è stata
talvolta considerata come l’espressione
degli importanti cambiamenti sociali e
di mentalità intervenuti in quei Paesi
sotto la spinta della modernizzazione.
In realtà queste leadership sono state
e sono in gran parte espressione di una
cultura politica e di una visione del potere
fortemente condizionata dall’elemento
dinastico-famigliare. Le donne al potere in
Asia sono state e sono, quasi sempre, le
mogli, le figlie o le sorelle di capiclan, di
fondatori di dinastie e di leader carismatici
tragicamente scomparsi: una forma di
eredità politica che implica un elemento
“tragico”, in senso classico, di grande
interesse dal punto di vista dell’analisi
storico-politica.
1. Per la lista delle donne che
hanno occupato posizioni di
vertice si veda Worldwide Gui-
de to Women in Leadership
(www.guide2womenleaders.
com). Cfr. anche b. s. stein-
berg, Women in Power: The
Personalities and Leadership
Styles of Indira Gandhi, Golda
Meir, and Margaret Thatcher,
McGill-Queen’s University
Press, Montreal 2008.
27
Leadership di genere in Asia?
L’Asia, pur essendo stata caratterizzata nel periodo successivo alla Seconda
guerra mondiale da instabilità politica ed economica, nell’ambito di condizioni
di arretratezza e di faticosa fuoriuscita dal sottosviluppo, ha rappresentato
un singolare esempio di affermazione di leadership femminili. Mentre nei
pur aperti ed emancipati paesi dell’Occidente le donne sono assurte con re-
lativamente scarsa frequenza al vertice delle istituzioni – dopo Golda Meir in
Israele, questo è accaduto soprattutto in area scandinava, in Gran Bretagna
con Margaret Thatcher e in Germania con Angela Merkel – in Asia non sono
mancati esempi tanto cospicui in termini quantitativi quanto sorprendenti
per gli innegabili tratti comuni1
. Dopo il 1945, infatti, nella regione che va dal
Pakistan al Giappone (dunque in ambienti culturali e politici assai difformi)
rivista di politica 3
28 2. È l’italiana Sonia Maino,
nata nel 1946 e naturalizzata
indiana dopo aver sposato il
figlio di Indira Gandhi, Rajiv.
3. L’articolo è stato consegnato
in redazione nel maggio 2015
e licenziato per la stampa il 30
luglio successivo. A queste date
non era stata ancora fissata
l’esatta scadenza dell’appun-
tamento elettorale [N. d. R].
4. a. reid, Female Roles in
Pre-colonial Southeast Asia,
in «Modern Asian Studies»,
XXII, 3, 1988, pp. 629-45 e
f. montessoro, Il ruolo delle
donne nell’Asia sud-orientale
tradizionale, in m. scarpari,
t. lippiello (a cura di), Caro
Maestro… Scritti in onore di
Lionello Lanciotti per l’ottan-
tesimo compleanno, Cafoscari-
na, Venezia 2005, pp. 827-39.
5. Si veda b. s. steinberg,
The Making of Female Presi-
dents and Prime Ministers:
The Impact of Birth Order, Sex
of Siblings, and Father-Dau-
ghter Dynamics, in «Political
Psychology», XXII, n. 1, 2001,
pp. 89-110.
6. a. fleschenberg, Asia’s
Women Politicians at the Top:
Roaring Tigresses or Tame Kit-
tens? in k. iwanaga (a cura
di), Women’s Political Parteci-
pation and Representation in
Asia: Obstacles and Challen-
ges, Nias Press, Copenhagen
2008, pp. 23-54.
circa quindici donne sono ascese al vertice dello stato, occupando posizioni
ragguardevoli come presidente della repubblica, primo ministro o, in alcuni
casi, assumendo il ruolo di leader di un importante partito.
I casi più rilevanti si registrano negli anni ’60 con Sirimavo Bandaranaike
(1916-2000) nello Sri Lanka e Indira Gandhi (1917-1984) in India che raggiun-
gono posizioni di vero potere nei rispettivi paesi. Negli anni ’80 e ’90, dopo Co-
razon Aquino (1933-2009) nelle Filippine, si afferma una nuova generazione
con Suu Kyi in Myanmar (l’ex Birmania), Begum Khaleda Zia in Bangladesh e
Chandrika Kumaratunga nello Sri Lanka (nate nel 1945). Appartengono allo
stesso gruppo Sonia Gandhi2
in India, Sheik Hasina Wajed, in Bangladesh,
Megawati in Indonesia e Gloria Macapagal Arroyo nelle Filippine (tutte nate
nel 1947), Wan Azizah Wan Ismail in Malaysia e Park Geun-hye nella Corea del
sud (entrambe del 1952), Benazir Bhutto (1953-2007) in Pakistan. A questa
generazione può essere associata la giapponese Tanaka Makiko (1944) che
ha ricoperto cariche ministeriali pur senza emergere in posizioni di vertice,
così come l’indiana Pratibha Patil (1934) diventata presidente dell’Unione
Indiana anche se ha mantenuto un basso profilo. Più recentemente è comparsa
sulla scena pubblica thailandese Yingluck Shinawatra (1967). Talvolta, a un
ruolo politico preminente non corrisponde un’effettiva presa sul potere dello
stato: Suu Kyi e Wan Azizah Wan Ismail hanno rappresentato per anni la
voce dell’opposizione nei loro rispettivi paesi senza assumere responsabilità di
governo; non sarebbe però sorprendente se la prima, a seguito delle elezioni
previste per il 2015, ascendesse a una posizione apicale3
.
È legittimo interrogarsi sulle ragioni di quest’affermazione e se vi siano effet-
tivamente elementi comuni tra percorsi personali e politici maturati in paesi
senz’altro diversi per sviluppo economico e sociale, dotati di istituzioni non
comparabili, caratterizzati da culture, lingue, religioni differenti. Leadership
femminili si sono affermate soprattutto nell’ambito di democrazie parlamen-
tari, ma non mancano esempi connessi a sistemi paternalistici e autoritari e
anche, come nel caso birmano e in Indonesia, a regimi militari: spesso sono
state proprio le donne a impersonare la lotta per la libertà e la democrazia.
Questa eterogeneità si conferma anche in ambito religioso poiché leader di
sesso femminile sono ascese al vertice in paesi di cultura induista, come l’India,
in area buddhista (Sri Lanka e Myanmar) e nelle cattoliche Filippine; anche
il mondo islamico condivide questa tendenza e può anzi essere interessante
notare come leadership femminili siano presenti in tutti i paesi musulmani
dell’Asia meridionale e sudorientale – Pakistan, Bangladesh, Malaysia e In-
donesia – con la sola eccezione del sultanato del Brunei.
Le ragioni di questa ascesa non sembrano spiegabili in termini diacronici:
pur essendo stata notata in Asia sudorientale la frequenza di «monarchie
femminili» tra il XIV e il XVII secolo, e in generale siano attestate in epoca
precoloniale condizioni relativamente favorevoli alle donne in termini sociali
ed economici, non pare possibile far risalire le prassi contemporanee a fasi
troppo distanti4
. Così come sono altrettanto poco suffragabili ipotesi di tipo
sociologico, connesse alla composizione familiare e, in particolare, all’ordine
di nascita e al genere dei figli5
; oppure a una supposta emancipazione femmi-
nile, poiché in questi paesi le donne hanno in realtà un ruolo sostanzialmente
marginale, soprattutto in ciò che concerne la sfera pubblica6
. Le leadership
femminili, infatti, si sono affermate in aree caratterizzate da culture patriarcali,
da misoginia, da diseguaglianza di genere e da una tendenziale ostilità verso
29
il potere del sangue.
7. Il diritto di voto alle donne
sarà introdotto nel 1931 nello
Sri Lanka e nel 1935 in Birma-
nia (a quell’epoca colonie bri-
tanniche), nel 1932 in Thailan-
dia, nel 1937 nelle Filippine. In
altri paesi dell’area – Pakistan,
India, Indonesia, Malaysia,
Bangladesh  –  si dovrà atten-
dere l’indipendenza dopo la
Seconda guerra mondiale. Cfr.
k. iwanaga, Introduction. Wo-
men and Politics in Asia: A
Comparative Perspective, in
iwanaga (a cura di), Women’s
Political Partecipation and
Representation in Asia, cit.,
pp. 1-2. Si veda anche a. atta-
nayake, Elitism in Women’s
Political Participation in Sri
Lanka within a South Asian
Context, in Ibidem, pp. 253-75.
8. Cfr. Inter-Parliamentary
Union. Women in National
Parliaments (www.ipu.org/
wmn-e/classif.html). Per un
approccio comparativo si
veda f. jalalzai, m. l. krook,
Beyond Hillary and Benazir:
Women’s Political Leadership
Worldwide, in «International
Political Science Review»,
XXXI, n. 1, 2010, pp. 5-21.
9. Solo Song Qingling (1893-
1981), la vedova di Sun Yat-
sen, ricoprirà la carica di vice
presidente della repubblica tra
il 1959 e il 1975 e, solo per al-
cuni giorni alla vigilia della sua
morte, di presidente onorario
della RPC.
10. Oltre all’Asia solo in Ame-
rica latina sono presenti casi
con lo stesso carattere. Cfr.
jalalzai, krook, Beyond
Hillary and Benazir, cit., pp.
13-14.
la partecipazione delle donne alla vita sociale moderna. Anche se il voto alle
donne è stato introdotto in alcuni paesi dell’area già nel corso degli anni ’307
,
in generale la loro quota in cariche elettive o ruoli dirigenziali, con l’indicativa
esclusione delle posizioni apicali, è inferiore rispetto ad altre parti del mondo
e della stessa Asia. All’inizio del XXI secolo, in Cina le donne rappresentano
il 23,6% dei membri del Parlamento, in India il 12, in Malaysia il 10,4 e in
Giappone il 9,5. Buona la posizione di Pakistan (20,7) e Bangladesh (20),
mentre l’Indonesia si attesta al 17,1. Meglio della Cina, solo le Filippine con
il 27,2%. In coda rimangono il Myanmar (6,2), la Thailandia (6,1) e, sorpren-
dentemente, lo Sri Lanka (5,8)8
.
Nell’area di matrice culturale cinese (e in particolare in Cina e Vietnam) la
partecipazione femminile alla gestione della cosa pubblica è maggiore, anche
se non vi è un’effettiva ascesa delle donne ai vertici delle istituzioni. Nella
Repubblica popolare cinese colpisce soprattutto che, a dispetto di un dibattito
intellettuale e di tendenze politiche favorevoli all’emancipazione delle donne
di durata ormai secolare e a una loro apprezzabile presenza istituzionale, al
vertice del Partito comunista al potere non vi siano mai state esponenti di
sesso femminile9
. Così come non vi sono state a Taiwan e a Singapore.
Il carattere dinastico della leadership femminile
Per quanto possa essere sorprendente, l’affermazione di una leadership fem-
minile è connessa in Asia all’esistenza di forti vincoli di tipo familiare, se non
a vere e proprie «dinastie», poiché le donne assurte a posizioni di rilievo sono
senza eccezione figlie, mogli, vedove di uomini che hanno variamente segnato
i processi politici del proprio paese10
. Anche in Corea del sud e in Giappone,
dove il successo politico di Park Geun-Hye e Tanaka Makiko – rispettivamente
figlie di Park Chung-Hee, presidente dal 1963 al 1979, e di Tanaka Kakuei,
primo ministro dal 1972 al 1974 – sembra dovuto a regole di tipo dinastico,
ma in base a meccanismi che tendono a privilegiare il semplice ruolo del
prestigio paterno e non condividono con gli altri casi molti fattori comuni;
anche Gloria Macapagal Arroyo – figlia di Diosdato Macapagal, presidente
filippino tra il 1961 e il 1965 e ultimo eletto democraticamente prima della
dittatura di Marcos – appartiene a questo gruppo.
Occorre precisare che per «dinastia» si intende la possibilità da parte dei
membri di una élite di trasmettere il potere politico sulla base della consan-
guineità o dell’affinità, a prescindere dal carattere autocratico o democratico
del sistema. Si tratta dunque di prassi che favoriscono la scelta dei leader
nazionali all’interno di una ristretta compagine che coincide con una deter-
minata famiglia, in termini non formalizzati da un diritto stabilito a priori.
Da questa analisi saranno dunque escluse le dinastie formalmente costituite,
vale a dire quelle espresse da un sistema monarchico e che riguardano Giap-
pone, Thailandia, Cambogia, Malaysia, Brunei. Non sarà considerata, inoltre,
l’atipica dinastia – atipica, in questo ambito, perché maschile – rappresentata
dalla Corea del nord, dove in seno a un regime autoritario, socialista e repub-
blicano si sono succeduti al potere Kim Il Sung, suo figlio e infine suo nipote.
Nei casi di leadership femminile riguardanti l’Asia meridionale e sudorientale
vi sono alcuni elementi comuni. Innanzi tutto, si tratta sempre di donne di
elevato status sociale ed economico, legate a famiglie preminenti che hanno
rivista di politica 3
30 11. Cfr. d. hellmann-raja-
nayagam, The Living Sacrifi-
ce? Heroes, Victims, Martyrs,
in a. fleschenberg, d. hel-
lmann-rajanayagam (a cura
di), Goddesses, Heroes, Sacrifi-
ces: Female Political Power in
Asia, Lit Verlag, Berlin 2008,
pp. 206-31.
12. Chandrika, invece, si af-
fermerà essendo figlia di due
ex primi ministri (Sirimavo e
Solomon Bandaranaike) anche
se nella sua vita vi è, nel 1988,
l’assassinio del marito, Vija-
ya Kumaratunga. Si veda t.
bartholomeusz, Mothers of
Buddhas, Mothers of Nations:
Kumaratunga and Her Meteo-
ric Rise to Power in Sri Lanka,
in «Feminist Studies», XXV, n.
1, 1999, pp. 211-25.
13. r. chatterjee, Sonia Gan-
dhi: The Lady in Shadow, Bu-
tala, Delhi 1998.
14. v. boudreau, Corazon
Aquino: Gender, Class, and the
People-Power President, in f.
d’amico, pr. beckman (a cura
di), Women in World Politics:
An Introduction, Bergin-Gar-
vey, Westport 1995, pp. 71-81.
15. f. n. anderson, Benazir
Bhutto and Dynastic Politics:
Her Father’s Daughter, Her Pe-
ople’s Sister, in m. a. genovese
(a cura di), Women as National
Leaders, Sage, London 1993,
pp. 41-69; a. fleschenberg,
Benazir Bhutto: Her People’s
Sister? A Contestual Analy-
sis of Female Islamic Gover-
nment, in c. derichs, m. r.
thompson (a cura di), Dy-
nasties and Female Political
Leaders in Asia. Gender, Power
and Pedigree, Lit, Wien-Berlin
2013, pp. 63-111.
16. r. gerlach, Female Poli-
tical Leadership and Duelling
Dynasties in Bangladesh, in
derichs, thomspon (a cura
di), Dynasties and Female Po-
litical Leaders in Asia, cit.,
pp. 113-49; si vedano anche
k. uddin ahmed, Women
and Politics in Bangladesh, in
iwanaga (a cura di), Women’s
avuto un ruolo non trascurabile nella vita politica del proprio paese. In genere
queste leader sono dotate di un eccellente background scolastico, avendo
conseguito titoli universitari (talvolta all’estero e anche in istituti importanti
come Harvard, Oxford, Cambridge, la Sorbona). Nelle fasi che precedono la
loro ascesa, tuttavia, queste donne non hanno quasi mai acquisito competenze
amministrative, né fatto vere esperienze politiche, non avendo alle spalle
una «carriera» in seno a un partito, in organi rappresentativi o in agenzie di
governo. Il loro ingresso sulla scena pubblica, anzi, appare determinato dalla
casualità poiché molte volte – com’è evidente nel
caso di Suu Kyi – sono le circostanze imprevedibili
della vita a stabilire un percorso in precedenza
non necessariamente considerato o auspicato.
Di solito l’incertezza delle protagoniste, dovuta a
inesperienza e assenza di ambizione politica, è su-
perata solo dopo l’insistente opera di convinzione
dell’entourage familiare e di partito.
Soprattutto, l’ingresso in politica di queste donne
è caratterizzato dal ruolo di «vittima» che le contraddistingue. Infatti, con
tre eccezioni – Indira Gandhi, Gloria Macapagal Arroyo e Chandrika Kuma-
ratunga – tutte ascendono a posizioni di vertice per l’eliminazione, spesso
cruenta, di un leader politico di rilievo con cui esse sono imparentate11
. La
cingalese Sirimavo Ratwatte Dias Bandaranaike assume la guida del Freedom
party e la premiership dopo l’assassinio, nel 1959, del marito Solomon Ban-
daranaike, fino ad allora esponente principale del partito e del governo12
. In
India, Indira Gandhi diventa premier nel 1966, succedendo – dopo il breve
governo di Lal Bahadur Shastri – al padre Jawaharlal Nehru, deceduto nel
1964, di cui è ritenuta l’erede politica; se la sua ascesa non è stata il frutto di
un evento traumatico, il suo assassinio nel 1984 porta al potere prima il figlio
Rajiv e, dopo la morte violenta di questi, la nuora Sonia. Per la sua origine
straniera, però, quest’ultima non ha mai rivestito cariche istituzionali e di
governo conservando comunque un ruolo preminente e un’effettiva capacità
decisionale in seno al partito del Congresso13
.
Corazon Aquino compare alla ribalta politica filippina dopo l’assassinio, nel
1983, del marito, Benigno Aquino Jr, il principale esponente dell’opposizione
a Ferdinand Marcos14
. Benazir Bhutto sale al vertice del Pakistan people’s
party, e più tardi assume responsabilità di governo, a seguito all’estromis-
sione del padre, Zulfikar Ali Bhutto, dall’esecutivo. Nel 1977, infatti, il colpo
di stato del generale Zia ul-Haq depone l’esponente pakistano dalla carica
di premier decretandone, nel 1979, la condanna a morte15
. In Bangladesh,
Sheik Hasina Wajed guida a più riprese l’esecutivo dopo l’uccisione, nel 1975,
del padre Sheik Mujibur Rahman, premier dal 1971; a sua volta, sempre in
Bangladesh, l’assassinio di Ziaur Rahman nel 1981 permette alla sua vedova,
Khaleda Zia, di imporsi al vertice del Partito nazionalista e infine di diventare
primo ministro nel 199116
.
La malese Wan Azizah Wan Ismail, invece, entra in politica dopo l’arresto
nel 1998 del marito Anwar Ibrahim, un ex esponente di spicco del governo
da allora escluso dalla vita pubblica. In Thailandia, Yingluck Shinawatra
si afferma nelle elezioni del 2011, diventando premier; carica dalla quale
è rimossa nel 2014 da un colpo di stato. La sua figura è legata al fratello,
Thaksin Shinawatra, il discusso affarista che ha dominato la scena politica
Political Partecipation and Re-
presentation in Asia, cit., pp.
276-96 e n. chowdhury, Ban-
gladesh: Gender Issues and
Politics in a Patriarchy, in b.
j. nelson. n. chowdhury (a
cura di), Women and Politics
Worldwide, Yale University
Press, New Haven 1994, pp.
92-112.
31
il potere del sangue.
17. Dopo l’assassinio di Aung
San, comunque, la sua vedova
Khin Kyi, madre di Suu Kyi, fu
nominata «membro tempora-
neo» del Parlamento al posto
del marito per poi diventare
ministro nel gabinetto di U
Nu e infine ambasciatrice in
India. Cfr. mi mim khaing,
The World of Burmese Women,
Zed Books, London 1984, p.
159 e j. silverstein, Aung
San Suu Kyi: Is She Burma’s
Woman of Destiny? in «Asian
Survey», XXX, n. 10, 1990,
p. 1009.
18. a. mcintyre, Megawati
Sukarnoputri: From Presi-
dent’s Daughter to Vice Presi-
dent, in «Bulletin of Concer-
ned Asian Scholars», XXXII,
n. 1-2, pp. 105-12.
19. b. lintner, Aung San Suu
Kyi and Burma’s Unfinished
Renaissance, Peacock Press,
Bangkok 1990, p. 18.
20. m. r. thompson, Fema-
le Leadership of Democratic
Transitions in Asia, in «Pacific
Affairs», LXXV, n. 4, 2002-
2003, p. 544.
thailandese tra il 2001 e il 2006. Costretto all’esilio da un pronunciamento
militare, e dall’ostilità riservatagli da parti cospicue della società e delle isti-
tuzioni thailandesi, Thaksin ha infine trasferito alla sorella la sua notevole e
fedele base elettorale.
Anche nei casi dell’indonesiana Megawati e della birmana Suu Kyi è ri-
conoscibile il carattere ereditario della trasmissione del potere, anche se
questa si è manifestata a distanza di anni. Le due esponenti politiche, figlie
rispettivamente di Sukarno e di Aung San17
, non si sono affermate in virtù del
potere esercitato direttamente dai padri, poiché tra l’uscita di scena di questi
e l’ingresso in politica di Suu Kyi e di Megawati sussiste uno iato temporale
considerevole: la prima farà il suo ingresso nella vita politica birmana nel
1988 (al tempo della rivolta popolare che scuote il regime militare), quaranta
anni dopo l’assassinio di Aung San; la seconda inizia la sua ascesa nel 1987
quando aderisce al Partai demokrasi Indonesia, la formazione in cui nel 1974
era confluito ciò che restava del Partito nazionalista di Sukarno. Megawati,
nel 1993, si afferma poi come leader dell’opposizione diventando protagoni-
sta della lotta contro il regime autoritario del generale Suharto e principale
artefice della transizione alla democrazia avviata nel 1998, giungendo infine a
ricoprire la carica di presidente del più grande paese musulmano del mondo
tra il 2001 e il 200418
.
Perché scegliere una donna?
La forza della famiglia e il carattere dinastico della successione avrebbero
potuto riversarsi nella scelta di un erede maschio? In termini fattuali, sa-
rebbe stato possibile in più di una circostanza, tuttavia un simile caso si è
verificato solo in India, con Rajiv Gandhi. Nelle Filippine è invece abortito
nel 1983 il tentativo di indicare Agapito Aquino, il fratello di Benigno, alla
guida delle forze di opposizione che sceglieranno poi Corazon, la vedova del
leader assassinato. Benigno Aquino III, figlio di quest’ultima e di Benigno
Aquino, sarà eletto presidente nel 2010, a diciotto anni dalla conclusione del
mandato della madre e a un anno dalla sua morte: per quanto l’influenza di
una famiglia importante abbia pesato, non può essere ritenuto propriamente
un tipico esempio di successione dinastica.
L’ascesa di una donna alla leadership, pur essendo decisa all’interno di un
gruppo familiare, non sembra dovuta all’impatto di fattori come l’ordine di
nascita o il sesso dei figli poiché, nei paesi asiatici considerati, questi elementi
non hanno un carattere irrefutabile. Escludendo Indira Gandhi, che era figlia
unica, la primogenitura riguarda solo tre casi (Sirimavo Bandaranaike, Benazir
Bhutto e Sheik Hasina Wajed) mentre Corazon Aquino, Suu Kyi, Megawati
e Gloria Macapagal Arroyo avevano tutte fratelli maggiori; Khaleda Zia e
Chandrika Kumaratunga erano secondogenite con una sorella maggiore. Può
essere indicativo, soprattutto, che dove erano presenti figli maschi potenziali
eredi della leadership paterna, il tentativo di coinvolgerli nell’attività politi-
ca sia sempre fallito. In Myanmar è il caso di Oo, fratello maggiore di Suu
Kyi19
, mentre in Indonesia si era pensato in primo luogo a Guntur (1944),
il primogenito di Sukarno20
. Anche se entrambi hanno rifiutato l’impegno
politico, le scelte degli esponenti superstiti delle formazioni create da Aung
San e Sukarno sono sembrate orientate innanzi tutto a coinvolgere le figlie.
rivista di politica 3
32 21. thompson, Female Leader-
ship of Democratic Transitions
in Asia, cit.
22. Cfr. per l’Asia sudorien-
tale c. h. landé, Networks
and Groups in Southeast
Asia: Some Observations on
the Group Theory of Politics,
in s. w. schmidt, j. c. scott,
c. h. landé, l. guasti (a cura
di), Friends, Followers, and
Factions. A Reader in Poli-
tical Clientelism, University
of California Press, Berkeley
1977, pp. 75-99; j. c. scott,
Patron-client Politics and Po-
litical Change in Southeast
Asia, in Ibidem, pp. 123-46; j.
sidel, Bossism and democracy
in the Philippines, Thailand,
and Indonesia: towards an
alternative framework for the
study of “local strongmen”, in
j. harriss, k. stokke, o. tor-
nquist (a cura di), Politicising
Democracy: the New Local Po-
litics of Democratisation, Pal-
grave Macmillan, Basingstoke
2004, pp. 51-74.
23. rounaq jahan, Women
in South Asian Politics, in
«Third World Quarterly», IX,
n. 3, 1987, pp. 848-71; l. k.
richter, Exploring Theories
of Female Leadership in South
and Southeast Asia, in «Pacific
Affairs», LXIII, n. 4, 1990-91,
pp. 524-40.
24. Condanna ribadita, dopo il
suo rilascio nel 2008, ancora
nel 2015.
Un atteggiamento favorevole a una successione politica di tipo femminile.
Quali vantaggi, dunque, comporta la scelta di una donna?
L’ascesa di un leader di genere femminile è connessa non solo all’evidente
carattere dinastico della successione, ma anche ad alcuni fattori specifici di
ordine sociale, politico e culturale. In tutti i casi sembra rilevante il processo di
consolidamento della democrazia tipico dell’Asia meridionale e sudorientale
nella seconda metà del ’900, quando nascono istituti di tipo democratico-par-
lamentare all’insegna dell’affermazione dei grandi partiti di massa21
. Tutte le
figure femminili che sono ascese al vertice in questi paesi (con l’eccezione di
Sonia Gandhi nei confronti della quale pesa una forma di ostracismo dovuta
alle sue origini) hanno ricevuto una legittimazione democratica tramite la
vittoria elettorale o, in alcuni casi, per l’azione di movimenti popolari che
poi sono sfociati in un voto.
Questi partiti, soprattutto, hanno in generale sviluppato forti caratteri clien-
telari, in continuità con un modello sociale che nella regione ha vigorose
radici22
. Il cosiddetto «bossism» e i rapporti di tipo patrono-clientelare che
presiedono alla formazione dell’opinione pubblica, all’organizzazione del
consenso politico e alla gestione del governo e degli apparati dello stato (e che
sono all’origine anche di rilevanti fenomeni corruttivi), spiegano il carattere
familista e la forte impronta personale che, in questi paesi, tende ad assumere
la leadership dei partiti. Le donne che giungono a occupare posizioni premi-
nenti sono tutte, senza eccezione, integrate in famiglie che hanno o hanno
avuto un ruolo dominante esercitando un controllo di natura personale sul
sistema politico: per costoro l’ascesa in politica non corona un’autonoma
aspirazione e una carriera perseguita nel tempo, ma è piuttosto il frutto di
una cooptazione all’interno di una famiglia importante23
.
Nello Sri Lanka, i Bandaranaike controllano il Freedom Party, come in India
la «dinastia» Gandhi il Congresso; i Bhutto, in Pakistan, hanno nel Partito
del popolo il loro strumento di influenza, mentre in Bangladesh Sheik Hasina
Wajed guida la Lega Awami che fu del padre e Khaleda Zia tiene in pugno
il Partito nazionalista di Ziaur Rahman. Nelle Filippine, Corazon Aquino
si è legata al Partito liberale del marito; in Myanmar Suu Kyi ha raccolto
idealmente l’eredità del partito egemone nella lotta per l’indipendenza
fondato nel 1944 dal padre (e rinominato nel 1945 Anti-Fascist People’s
Freedom League). In Indonesia, le fortune di Megawati sono riposte in ciò
che resta della formazione nazionalista che Sukarno aveva creato nel 1927. In
questi ultimi due casi, le figlie hanno ritrovato la base elettorale dei padri, la
constituency originaria che sia in Myanmar sia in Indonesia si è conservata
sostanzialmente indenne oltre la parentesi dei regimi autoritari instaurati
nei due paesi nel 1962 e nel 1966. Wan Azizah Wan Ismail, invece, con l’e-
sclusione nel 1998 di Anwar Ibrahim dal vertice della governativa UMNO
(United Malays National Organisation) e con la sua successiva condanna a
un lungo periodo di detenzione24
, diventa nel 2003 presidente di un nuovo
partito, Parti Keadilan Rakyat (Partito della giustizia del popolo) ispirato
dal marito. In Thailandia, Yingluck Shinawatra è al vertice del partito Pheu
Thai, supplendo il fratello Thaksin.
Anche i membri delle nuove generazioni iniziano a essere considerati dei
possibili candidati alla successione in seno ai partiti dei padri e delle madri:
è il caso di Benigno Aquino III nelle Filippine, di Rahul e Priyanka Gandhi,
figli di Rajiv e Sonia (sarebbero la quinta generazione in politica), della pri-
33
il potere del sangue.
mogenita di Anwar Ibrahim e Wan Azizah Wan Ismail (Nurul Izzah Anwar,
nata nel 1980), di Bilawal Bhutto Zardari, figlio di Benazir.
La scelta di una leadership femminile, comunque, si è imposta in circostanze
precise, segnate dall’eliminazione dalla vita politica di un leader. Questa im-
provvisa e traumatica scomparsa di un capo dotato di carisma e di forte presa
personale sull’organizzazione, ha obbligato gli altri esponenti a colmare in
tempi brevi quello che si configura come un vuoto di potere destinato a indebo-
lire o compromettere il capitale sociale del partito. In queste circostanze, una
leadership femminile è stata ritenuta particolarmente adatta a disinnescare
le lotte interne per la successione, anche in virtù del convincimento che una
donna sia in sé debole e meno competitiva, dunque manipolabile o sostitui-
bile una volta esaurita la sua funzione. L’ascesa di una leadership femminile,
dunque, potrebbe essere stata favorita dall’assenza di un’esplicita competizione
con esponenti di sesso maschile, ritenuti in sé pregiudizialmente più capaci.
La scelta di una donna in seno alla famiglia, comunque, ha un alto valore sim-
bolico, consolida l’immagine della nuova leader e accresce il favore popolare
nei suoi confronti: un elemento insostituibile in termini di lealtà e rispetto
verso chi sembra aver ereditato il «capitale morale» del padre o del marito.
La scelta di una leadership femminile, infine, si spiega con il fatto che un
erede maschio avrebbe dovuto rivelarsi dotato in sé di una forza paragonabile
a quella del padre, mentre le figlie, o le mogli, sono percepite dalla popola-
zione e soprattutto dalle constituency dei partiti personali di cui è in gioco la
successione, come le continuatrici della missione del padre o marito, il vero
leader di cui esse riflettono il carisma. Esemplare è il caso di Megawati e Suu
Kyi, le vere eredi politiche di Sukarno e di Aung San, la cui analisi potrebbe
gettare luce anche sulle altre esperienze fin qui considerate.
Il carisma di Sukarno e Aung San
A molti uomini politici asiatici del XX secolo è stato associato un carattere
carismatico: Jawaharlal Nehru, l’ex sovrano cambogiano Sihanouk, Mao
Zedong, Ho Chi Minh e naturalmente Aung San e Sukarno. Questi ultimi
hanno esercitato nei rispettivi paesi una leadership sostanziale e duratura: il
primo come padre della patria e maggior esponente politico e militare nella
fase della lotta che precede la nascita della Birmania indipendente; Sukarno
come espressione del nazionalismo indonesiano degli anni ’30 e ’40, come
fondatore dello stato e come presidente tra il 1945 e il 1966, quando fu defe-
nestrato al tempo della svolta autoritaria del generale Suharto. Entrambi sono
sopravvissuti alla propria fine, divenendo – in virtù di un carisma intangibile
anche nella sconfitta – l’emblema imbarazzante, e travisato, dei regimi militari
nati dopo la loro uscita di scena. Carisma che Megawati e Suu Kyi sembrano
aver ereditato in virtù di un passaggio «di padre in figlia».
Occorre considerare, innanzi tutto, come il carattere carismatico del potere
assuma in Asia sudorientale un significato peculiare che esula dal quadro
analitico invalso nella scienza politica novecentesca sulla scorta dei contributi
teorici di Max Weber. Nella misura in cui è possibile riconoscere tratti comuni
alle civiltà dell’Asia sudorientale, si può rilevare tra questi una coincidente
idea del potere. In Myanmar e in Indonesia (ma anche altrove nella regione)
sono presenti tradizioni di pensiero politico-religioso che, fatte salve alcune
rivista di politica 3
34 25. g. cœdès, Les états hin-
douisés d’Indochine et d’In-
donésie, De Boccard, Paris
1964.
26. b. r. o’g. anderson, The
Idea of Power in Javanese
Culture, in c. holt (a cura
di), Culture and Politics in
Indonesia, Cornell University
Press, Ithaca 1972, pp. 1-69 (si
cita dalla versione riedita in b.
r. o’g. anderson, Language
and Power. Exploring Political
Cultures in Indonesia, Cornell
University Press, Ithaca 1990,
pp. 17-77). Si vedano anche w.
h. rassers, On the Javanese
Kris, nel volume che racco-
glie i saggi di rassers, Pañji,
the Culture Hero. A Structu-
ral Study of Religion in Java,
Nijhoff, The Hague 1982, pp.
217-97; koentjaraningrat,
Javanese Terms for God and
Supernatural Beings and the
Idea of Power, in r. schefold,
j. w. schoorl, j. tenneker
(a cura di), Man, Meaning
and History: Essays in Ho-
nour of Prof. Dr. H. G. Schulte
Nordholt, Nijhoff, The Hague
1980, pp. 127-39; koentja-
raningrat, Javanese Cultu-
re, Oxford University Press,
Oxford-Singapore 1985, pp.
39 e 343-45; n. mulder, The
Ideology of Javanese-Indone-
sian Leadership, in h. ant-
löv, s. cederroth (a cura di),
Leadership on Java. Gentle
Hints, Authoritarian Rule,
Curzon-Nias, Richmond 1994,
pp. 66-67.
27. l. w. pye, m. w. pye, Asian
Power and Politics: The Cul-
tural Dimensions of Authori-
ty, Harvard University Press,
Cambridge 1985; r. kershaw,
Monarchy in South-East Asia:
The Faces of Tradition in Tran-
sition, Routledge, London
2001. Si vedano anche moer-
tono, State and Statecraft in
Old Java, Modern Indonesia
Project, Cornell University,
Ithaca 1968, aye kyaw, The
Institution of Kingship in Bur-
ma and Thailand, in «Journal
distinzioni, possono essere ritenute coerenti con origini largamente condivise
e rinviabili all’influenza che un comune modello «indianizzato» ha esercitato
in fasi decisive della costituzione degli stati tradizionali tra il VI e il XIII
secolo25
, e di cui ancora nel XIX era percepibile il retaggio.
A differenza di ciò che contraddistingue la tradizione occidentale, in Asia
sudorientale il «potere» ha un significato concreto, è un’entità cui cor-
risponde – come si evince dall’esemplare caso giavanese – una «energia»
dispensata in quantità costanti e omogenee26
. In questo ambito culturale
non ha alcun senso interrogarsi sulla legittimità
dell’uso della forza, come in Occidente, poiché
nel Sudest asiatico prevale piuttosto l’interesse
per la sua concentrazione e per il suo accumulo.
Negli stati tradizionali il sovrano occupa il centro
dell’universo e questo comporta il possesso di un
potere spirituale di natura magica che si accresce
e s’irradia dalla sua persona: allo splendore del
re corrisponde il benessere dell’intera comunità.
Questa potenza, energia, forza – kasekten nella
tradizione giavanese di matrice induista, hpòn
in quella birmana di ascendenza buddhista – si
trasferisce dal sovrano divinizzato ai suoi consan-
guinei, poi all’aristocrazia e ai sacerdoti, fino agli
elementi subordinati della popolazione27
. Si tratta
di un’energia destinata ad affievolirsi via via che
si allontana dal centro, e all’accumulo di potere
in un individuo corrisponde una diminuzione
altrove. Il carisma di un capo si rivela in questa
«potenza» e si conserva, si alimenta e si accresce
con esercizi di meditazione, atti cerimoniali, pos-
sesso di amuleti, pratiche magiche, esibizioni di
forza e di status28
.
Sukarno, a dispetto del suo profilo politico e
intellettuale progressista e moderno, affascinato
dal marxismo, ostenta gli attributi del potere
in termini tradizionali e fa convergere sulla sua
persona tutto ciò che – siano cariche istituzionali,
decorazioni, titoli, collezioni d’arte, donne, po-
tenza sessuale – accresce il suo carisma29
. Questo
carisma, nella visione del leader indonesiano, si
rivela fisicamente come luce che irradia dal volto
del capo sotto forma di «aureola»30
. Anche le idee
concorrono alla concentrazione della forza: sotto il profilo ideologico, Sukarno
(formalmente un musulmano «nominale», un abangan, influenzato ben più
profondamente dalla tradizione religiosa giavanese, l’agama jawi), si farà
portatore di una visione sincretica, tesa a unificare le correnti di pensiero
espresse dagli ambienti politici attivi a Giava negli anni ’20 e ’30, come il
marxismo, il nazionalismo e l’islamismo. Per l’esponente indonesiano queste
tre tendenze si fondono in un’unica entità – Sukarno creerà l’acronimo NASA-
KOM, per nasionalisme, agama (religione), komunisme – non per coerenza
dottrinaria, innovazione teorica o programma politico, ma perché attributi
of the Burma Research So-
ciety», n. 42, 1979, pp. 121-
75 e i. w. mabbett, Kingship
in Angkor, in «Journal of the
Siam Society», LXVI, n. 2,
1978, pp. 1-58.
28. s. j. tambiah, World Con-
queror and World Renouncer.
A Study of Buddhism and
Polity in Thailand against a
Historical Background, Cam-
bridge University Press, Cam-
bridge 1976, p. 485.
29. b. dahm, Sukarno and
the Struggle for Indonesian
Independence, Cornell Uni-
versity Press, Ithaca 1969; p.
labrousse, The Second Life
of Bung Karno. Analysis of the
Myth (1978-1981), in «Indone-
sia», n. 57, 1993, pp. 175-96.
30. Sukarno, in un discorso
del 1963, traduce l’olandese
aureool con il termine gia-
vanese teja che definisce la
luce che s’irradia dal volto di
un leader carismatico (Sukar-
no considera Adolf Hitler un
caso esemplare). b. r. o’g. an-
derson, Further Adventures
of Charisma, in anderson,
Language and Power, cit., pp.
78-93. Si vedano anche an-
derson, The Idea of Power,
cit., f. montessoro, La for-
mazione ideologica di Sukar-
no, in «Rivista di storia con-
temporanea», n. 4, 1986, pp.
556-83 e a. mcintyre, Marx
versus Carlyle: Sukarno’s View
of Hitler’s Role in History, in
«Review of Indonesian and
Malay Affairs», XXXXIII, n.
2, 2009, pp. 131-63.
35
il potere del sangue.
31. Uno dei suoi ultimi di-
scorsi è stato Tahun «vivere
pericoloso» (L’anno del vivere
pericoloso), in sukarno, Di-
bawah bendera revolusi (Sotto
il vessillo della rivoluzione),
Panitya Penerbit Dibawah
Bendera Revolusi, Giacarta
1963, II, pp. 557-98. Sukarno
poteva citare nella lingua ori-
ginale Dante Alighieri e al’Af-
ghani, Rousseau e Garibaldi,
poi Washington, Kautsky, Re-
nan, Troelstra, Kemal Ataturk
o inventare neologismi come
«aggiornamento», reso con
l’anglo-indonesiano «ke-up to
date-an».
32. j. m. van der kroef, Java-
nese Messianic Expectations:
Their Origin and Cultural
Context, in «Comparative Stu-
dies in Society and History», I,
n. 4, 1959, pp. 299-323.
33. labrousse, The Second
Life of Bung Karno, cit., pp.
178-81.
34. Aung San, assassinato nel
luglio del 1947, non vedrà rea-
lizzato il suo progetto politico.
Cfr. maung maung, Burmese
Nationalist Movements, 1940-
48, University of Hawaii Press,
Honolulu 1989; utili i testi
raccolti da j. silverstein (a
cura di), The Political Legacy
of Aung San, Cornell Univer-
sity Southeast Asian Program,
Ithaca, 1993; a. naw, Aung
San and the Struggle for Bur-
mese Independence, Nias, Co-
penhagen 2001.
35. m. nash, The Golden Road
to Modernity: Village Life in
Contemporary Burma, Wiley,
New York 1965, p. 272.
di un potere che si manifesta eminentemente come forza centripeta, tesa
all’unità, e destinata a convergere nella sua persona.
Nello stesso modo si deve intendere l’apparente eccentricità di Sukarno,
oratore straordinario e inventivo che sfoggia nei suoi scritti e discorsi cita-
zioni e parole nelle più diverse lingue straniere; il primo presidente della
Repubblica indonesiana richiama con grande frequenza, spesso davanti a
folle ignare, autori e termini olandesi, inglesi, tedeschi, russi, francesi, arabi,
spagnoli, italiani31
. Parole e riferimenti che non servono ad argomentare e a
difendere una tesi, ma piuttosto ad accrescere con la loro intrinseca forza il
carisma del leader.
Sukarno, peraltro, è precocemente circondato da un mito che attribuisce
alla sua nascita un’aura magico-religiosa con la manifestazione di segni
soprannaturali (il passaggio di una cometa, l’eruzione del Monte Kelut) che
accrediterebbero le sue origini regali. Già negli anni ’30 l’attività politica del
futuro presidente indonesiano, anche se inquadrabile in un moderno discorso
nazionalista, assume un tono profetico che si mescola alla credenza del pros-
simo arrivo del Ratu Adil, il millenaristico «principe giusto» della tradizione
giavanese32
. A Sukarno, inoltre, saranno sempre più frequentemente attribuite
le qualità taumaturgiche di un dukun, un guaritore dotato di poteri magici.
Da piccolo il nonno gli fa leccare le ferite dei malati, per sanarle; il giovane
Sukarno sa indovinare il patronimico di bambini che gli sono presentati per
la prima volta; a Bali si riteneva che potesse far cadere la pioggia; possedeva
un bastone magico, kris, frammenti di ferro meteorico, oggetti dotati di forza
soprannaturale33
.
Nell’ambito della cultura birmana, il carisma si rivela in termini sostan-
zialmente non difformi dalla tradizione giavanese. Aung San, il maggior
esponente politico e militare del nazionalismo birmano al tempo della
relativamente breve stagione politica che porta alla proclamazione dell’in-
dipendenza, è considerato il padre della patria e chi più ne ha rappresen-
tata l’anima popolare. Pur essendo stato addestrato in Giappone nei primi
anni ’40, dopo il 1944 il padre di Suu Kyi (originariamente influenzato
dal marxismo e dal socialismo fabiano) guarderà agli Alleati e al sistema
rappresentativo britannico favorendo la nascita degli istituti democratici
della Birmania indipendente e lasciando un’impronta duratura sulla fase
successiva alla Seconda guerra mondiale34
.
La leadership di Aung San, indiscussa negli anni ’30 e ’40, si caratterizza per
una particolare forza di attrazione esercitata mediante la capacità di coin-
volgere, persuadere e guidare i suoi seguaci; nel lessico religioso (buddhista
e birmano) questa capacità si definisce àwza, «influenza», un termine che
è posto in relazione con il concetto di hpòn (energia, forza) concorrendo a
definire un modello di azione politica fondato sulla partecipazione; la parola
birmana che più si avvicina a un’idea occidentale di potere, ana o «autori-
tà», implica invece l’uso della coercizione e rinvia a metodi di comando che
richiamano la forza militare. Il termine ana non è mai impiegato, come
l’àwza, in relazione a un potere politico benigno e tollerante o alla gerarchia
monacale buddhista. In questo senso, il leader che detiene hpòn, e dunque
àwza,non ha bisogno di imporsi con la forza «poiché il suo potere si irradia
e la gente gli offre lealtà, servizi e fiducia»35
. In una prospettiva buddhista, il
leader carismatico – si noti: dal carattere unicamente maschile – si contraddi-
stingue per un karma positivo che gli conferisce successo in virtù dei meriti
rivista di politica 3
36 36. h. kawanami, Charisma,
Power(s), and the Arahant
Ideal in Burmese-Myan-
mar Buddhism, in «Asian
Ethnology», LXVIII, n. 2,
2009, p. 222-24. Sul carat-
tere maschile del carisma si
veda m. e. spiro, Kingship
and Marriage in Burma: A
Cultural and Psychodynamic
Analysis, University of Cali-
fornia Press, Berkeley 1977,
pp. 270-71; si veda anche j.
mills, Militarism, Civil War
and Women’s Status: A Burma
Case Study, in l. edwards,
m. roces (a cura di), Women
in Asia. Tradition, Modernity
and Globalisation, University
of Michigan Press, Ann Arbor
2000, pp. 265-90.
37. g. houtman, Mental Cul-
ture in Burmese Crisis Politics.
Aung San Suu Kyi and the
National League for Demo-
cracy, Institute for the Study
of Languages and Cultures of
Asia and Africa, Tokyo Univer-
sity of Foreign Studies, Tokyo
1999, pp. 157-76 e 243-63.
Si veda anche g. houtman,
Spiritual and Familial Con-
tinuities in Burma’s “Secular”
Politics, in «Buddhist Appro-
aches to Global Crisis», UN
Vesak Day, Bangkok, 4-6 May
2009.
38. g. houtman, Sacralizing
or Demonizing Democracy?
Aung San Suu Kyi’s “Persona-
lity Cult”, in m. skidmore (a
cura di), Burma at the Turn of
the 21st Century, University of
Hawaii Press, Honolulu 2005,
pp. 133-53 e, dello stesso auto-
re, il già citato Mental Culture
in Burmese Crisis Politics.
39. j. p. ferguson, e. m.
mendelson, Masters of the
Buddhist Occult: The Burmese
Weikzas, in «Contributions to
Asian Studies», n. 16, pp. 62-
88; e. sarkisyanz, Buddhist
Backgrounds of the Burmese
Revolution, Nijhoff, The Ha-
gue 1965; s. j. tambiah, The
Buddhist Saints of the Forest
and the Cult of Amulets. A Stu-
acquisiti nelle vite precedenti e per questo esercita un’attrazione centripeta
nei confronti dei suoi seguaci36
.
Come nel caso di Sukarno, Aung San – e con lui U Nu e il generale Ne Win,
autore del colpo di stato del 1962 – rivela accanto all’adesione ai principi
occidentali moderni un più sostanziale riferimento alla cultura tradizionale.
Di fatto, le idee di resistenza al colonialismo britannico e di lotta per l’indi-
pendenza nazionale (ma anche la traduzione di basilari concetti marxisti) si
esprimono nella Birmania della prima metà del XX secolo esclusivamente
in termini buddhisti: per Aung San la politica
rinvia a parole che richiamano la scienza ma anche
l’insegnamento inteso come «insegnamento del
Buddha»37
.
Anche se è comprensibile nell’ambito dei principi
e della prassi politica democratica occidentale, il
carisma di Aung San si colloca più propriamente
nell’alveo della tradizione religiosa birmana, cui ci
si appella in tempi di crisi ricorrendo a pratiche di
purificazione e tecniche di controllo della mente.
Tecniche che comprendono la meditazione e la
contemplazione interiore, oltre a forme di cono-
scenza magico-religiosa che assumono tratti meno
elevati, come la numerologia e l’esoterismo38
.
Lo stesso Aung San, alla vigilia della Seconda
guerra mondiale, è associato a Bo Bo Aung, un
weikza, un «saggio» dotato di poteri magici che
all’inizio del XIX secolo aveva incarnato tendenze
millenariste39
. Questo weikza avrebbe guidato la
lotta per estromettere gli inglesi dalla Birmania e
favorire l’ascesa di un minlaung, il «re che sta per
arrivare», sulla base delle concezioni cosmologi-
che del buddhismo theravada che concernono il
carattere ciclico di ere e dinastie40
. Al tempo del
dominio britannico i moti anticoloniali assumono
un carattere millenaristico, come nel caso di Saya
San che nel 1930-32 guida una ribellione presto
stroncata41
.
Nell’ottobre 1939 i partiti nazionalisti birmani, e
tra questi la Dobama asiayon di Aung San, si allea-
no e formano quello che in inglese è comunemente
definito Freedom bloc. In birmano, però, il nome
originale Htwet yat gaing rinvia alla salvezza e al
passaggio a uno stato superiore: quello di un weik-
za che ha raggiunto la perfezione trascendendo il
ciclo delle rinascite. Gaing, in termini più specifici,
denomina una fazione monastica di tipo millenaristico e un «centro» in cui
il futuro leader si manifesterà per restaurare il regno e fondare una nuova
dinastia42
. La costituzione del Freedom bloc è seguita dalla diffusione di voci
sul «ritorno» di Bo Bo Aung e sulla prossima venuta di un minlaung che
molti, negli strati popolari e nell’azione propagandistica dei nazionalisti, asso-
ceranno a Aung San, il vero capo politico e militare che guida l’eroico gruppo
dy in Charisma, Hagiography,
Sectarianism, and Millenial
Buddhism, Cambridge Uni-
versity Press, Cambridge 1987.
40. m. aung-thwin, Divini-
ty, Spirit, and Human: Con-
ceptions of Classical Burmese
Kingship, in l. gesick (a cura
di), Centers, Symbols, and
Hierarchies: Essays on the
Classical States of Southeast
Asia, Yale University Southeast
Asia Studies, New Haven 1983,
pp. 45-86.
41. r. l. solomon, Saya San
and the Burmese Rebellion,
in «Modern Asian Studies»,
III, n. 3, 1969, pp. 209-23 e p.
herbert, The Saya San Rebel-
lion (1930-1932) Reappraised,
Monash University Centre of
Southeast Asia Studies, Mel-
bourne 1982. Si veda anche
e. sarkisyanz, Messianic
Folk-Buddhism as Ideology of
Peasant Revolts in Nineteenth
and Early Twentieth Century
Burma, in «Review of Reli-
gious Research», n. 10, 1968,
pp. 32-38.
42. e. m. mendelson, A Mes-
sianic Buddhist Association
in Upper Burma, in «Bulletin
of the School of Oriental and
African Studies», XXIV, n.
3, 1961, pp. 560-80 e, dello
stesso autore, Sangha and the
State in Burma. The Study in
Monastic Sectarianism and
Leadership, Cornell Universi-
ty Press, Ithaca 1975. Si veda
anche il notevole contributo
di s. prager, Coming of the
“Future King”: Burmese Min-
laung Expectations Before and
During the Second World War,
in «The Journal of Burma Stu-
dies», n. 8, pp. 1-32.
37
il potere del sangue.
43. Nella tradizione dinastica
birmana, peraltro, era assai
diffusa la presenza di «com-
pagni» associati all’ascesa di
un nuovo sovrano. Cfr. in pro-
posito prager, Coming of the
“Future King”, cit., p. 17.
44. houtman, Spiritual and
Familial Continuities in Bur-
ma’s “Secular” Politics, cit.; si
veda anche il testo di Aung
San sulla leadership incluso da
Joseph Silverstein in r. m. smi-
th (a cura di), Southeast Asia.
Documents of Political Deve-
lopment and Change, Cornell
University Press, Ithaca 1974,
pp. 93-94.
45. In Myanmar e in Indone-
sia non si usa il cognome ma
solo il nome personale. Cfr. g.
houtman, Burmese Personal
Names: A Critical Survey of
Choice, Types and Some Fun-
ctions of Names, Department
of Religious Affairs, Rangoon
1982; a. kohar rony, Indo-
nesian Names: A Guide to Bi-
bliographic Listing, in «Indo-
nesia», n. 10, 1970, pp. 27-36.
46. a. fleschenberg, Min
Laung or Fighting Peacock?
Aung San Suu Kyi’s Political
Leadership Via Moral Capital,
in derichs, thompson (a cura
di), Dynasties and Female Po-
litical Leaders in Asia, cit., pp.
210-11. Nel suo primo discorso
in pubblico, il 26 agosto 1988,
Suu Kyi affermerà esservi una
profonda frattura «tra la vec-
chia e la giovane generazione»,
una divisione che era necessa-
rio superare. Cfr. Speech to a
Mass Rally at the Shwedagon
Pagoda, in aung san suu kyi,
Freedom from Fear and Other
Writings, a cura di m. aris,
Penguin Books, London 1995
(seconda edizione), p. 196.
47. Speech to a Mass Rally at
the Shwedagon Pagoda, cit.,
p. 193.
dei cosiddetti «Trenta compagni»43
. All’inizio degli anni ’40 il mito di Aung
San è ormai stabilito e il giovane leader – all’epoca non è ancora trentenne – è
indicato come il re guerriero destinato a riunificare il paese. Nel 1946, alla
vigilia dell’indipendenza, il nazionalista birmano ammetterà di godere di una
notevole popolarità, ma di non essere né un dio né un mago: testimonianza
dell’esistenza del culto della sua personalità e conferma del suo carisma44
.
Se i caratteri che l’idea di potere assume in Aung San e Sukarno differiscono
nei loro termini culturali (opera nel primo caso l’ascendenza buddhista e, nel
secondo, il retaggio giavanese) si tratta comunque di una concezione della
leadership dai forti tratti carismatici. Questo carisma come si trasferisce, o
si riflette, nelle rispettive figlie? Suu Kyi e Megawati riescono ad attingere
alla forza dei padri ed entrambe adotteranno significativamente il nome del
proprio genitore, diventando Aung San Suu Kyi e Megawati Sukarnoputri,
appunto «figlia di Sukarno»45
.
«Figlia di mio padre». Il caso di Aung San Suu Kyi
Suu Kyi, come altre leader in Asia, è stata prescelta e sostenuta nella sua ascesa
politica innanzi tutto perché «figlia di suo padre». Nella primavera del 1988
Suu Kyi torna a Rangoon per assistere la madre morente ed è coinvolta nelle
vicende politiche del suo paese d’origine. Negli ambienti democratici, nel corso
dei giorni convulsi di luglio e agosto quando monta la protesta contro il regime
militare di Ne Win, si afferma il proposito di offrire a Suu Kyi la leadership
dell’opposizione proprio poiché è figlia dell’eroe e del martire dell’indipen-
denza. Sarà però ritenuta idonea alla leadership della Lega nazionale per la
democrazia – il nuovo partito di opposizione nato il 27 settembre 1988 – anche
per altre ragioni. In termini politici, il magmatico movimento che si forma a
Rangoon e nelle principali città birmane nel corso del 1988 è guidato all’inizio
da un gruppo eterogeneo, formato da fazioni diverse per origine personale
e generazionale. Accanto agli anziani esponenti emarginati dal potere dopo
il colpo di stato del 1962, e tra questi spicca la figura di U Nu, vi sono alcuni
ex militari in rotta con il regime (Tin Oo, ministro della Difesa nel 1974-76,
l’ex vice primo ministro Maung Lwin) e una nuova e inesperta generazione
di leader studenteschi e di intellettuali. La quarantenne Suu Kyi sembra assi-
curare un ricambio generazionale se non propriamente una guida46
. Peraltro,
avendo vissuto per molti anni all’estero ed essendo cittadina britannica (ha
sposato nel 1972 Michael Aris, uno studioso di cultura tibetana), la figlia di
Aung San è ritenuta sufficientemente debole da poter garantire le fazioni in
cui è diviso il movimento popolare.
L’ingresso sulla scena politica di Suu Kyi avviene in un luogo simbolico: il 26
agosto 1988, davanti alla pagoda Shwedagon a Rangoon, la figlia di Aung San
arringa la folla presentandosi come l’erede spirituale di suo padre. Questi, un
anno prima dell’indipendenza, aveva pronunciato nello stesso posto uno dei
suoi più importanti discorsi. Nella sua prima apparizione in pubblico, Suu
Kyi richiamerà più volte la figura, il messaggio, le parole paterne. «Come
figlia di mio padre – afferma in un passaggio cruciale – non posso restare
indifferente»47
.
Dalle prime azioni, Suu Kyi rivela di essere dotata di notevole capacità
politica e di una leadership naturale che le permetteranno di guidare la
rivista di politica 3
38 48. Freedom from Fear, in
aung san suu kyi, Freedom
from Fear, cit., pp. 180-85;
si veda anche il già citato
houtman, Mental Culture in
Burmese Crisis Politics, pp.
295-304.
49. houtman, Sacralizing or
Demonizing Democracy? Aung
San Suu Kyi’s “Personality
Cult”, cit.
50. houtman, Spiritual and
Familial Continuities in Bur-
ma’s “Secular” Politics, cit.,
pp. 8-11.
51. In Quest of Democracy, in
aung san suu kyi, Freedom
from Fear, cit., p. 169.
52. In Quest of Democracy,
cit., p. 170. Cfr. anche s. col-
lins, Nirvana and Other Bud-
dhist Felicities: Utopias of the
Pali Imaginaire, Cambridge
University Press, Cambridge
1998, pp. 460 e sgg.; p. sch-
midt-leukel, Buddhism and
the Idea of Human Rights: Re-
sonances and Dissonances, in
«Buddhist-Christian Studies»,
XXVI, 2006, p. 37.
Lega nazionale per la democrazia nei mesi e negli anni successivi, segna-
ti dalla straordinaria vittoria elettorale del 1990 e dalla seguente lunga
fase repressiva. Tuttavia, così come i meriti della figlia di Aung San non
sono stati all’origine del suo ingresso nella vita politica birmana, così non
ne hanno determinato semplicemente la capacità di resistere per più di
vent’anni alla detenzione e agli arresti domiciliari. Per due decenni Suu Kyi
vive in condizioni d’isolamento personale e di solitudine politica, mentre
le autorità del nuovamente consolidato regime militare colpiscono i fragili
apparati e i vulnerabili attivisti della Lega nazionale per la democrazia e
delle altre formazioni di opposizione. La figlia di Aung San, tuttavia, a di-
spetto dell’impotenza cui è costretta riuscirà a conservare e a sviluppare il
suo ascendente su larga parte della popolazione. Un ascendente che – come
nel caso del padre e, in altri contesti, di Mandela e Vàclav Havel – si nutre
della condizione del martire.
La resistenza di Suu Kyi si esprime innanzi tutto in un profondo legame con
i principi della tradizione liberale e democratica occidentale. In un saggio del
1989 la leader della Lega nazionale per la democrazia rivendica il governo
rappresentativo, le libere elezioni, il rispetto dei diritti umani. Si tratta però
di considerazioni da intendersi in una prospettiva più precisamente religio-
sa: in Birmania la democrazia e l’idea di libertà si legano alla ricerca della
liberazione, in termini buddhisti, dalle costrizioni di questo mondo. Suu Kyi
parlerà di «libertà dalla paura», un’idea cui associa Aung San e Gandhi, e di
ciò che definisce la «rivoluzione dello spirito»48
. In questo ambito gli aspetti
politici risultano essere secondari rispetto alla pratica di forme di meditazione
che permettono di coltivare compassione, amore, gentilezza; si tratta di quella
«contemplazione interiore», vipassana, che Suu Kyi coltiva nei lunghi periodi
agli arresti a cui è costretta dal regime, seguendo gli insegnamenti del monaco
U Pandita, maestro della tradizione mahasi49
. Negli anni ’90 le scelte politiche
della leader della Lega nazionale per la democrazia si contraddistingueran-
no sempre di più per la rinuncia all’uso della violenza e per l’atteggiamento
benevolente – metta nel lessico del buddhismo birmano – anche nei confronti
di chi esercita con brutalità il potere50
.
Queste forme di meditazione sono elementi fondamentali della leadership e
della riflessione sulla politica e sulle questioni del governo. «Quando una so-
cietà cadeva dal suo stato originale di purezza nel caos morale e sociale – scrive
Suu Kyi – un re era eletto per restaurare la pace e la giustizia». Si tratta di un
sovrano buddhista, conosciuto con i titoli di «mahasammata, poiché governa
con il consenso unanime del popolo; khattiya, poiché è il signore della terra
coltivata; e raja, poiché conquista l’affetto del popolo mediante l’osservanza
del dhamma»51
. Per Suu Kyi questo è un «contratto sociale» valido anche
per il presente.
Nell’ambito della tradizione culturale birmana, e nei testi buddhisti, le virtù di
un sovrano sono considerate con attenzione; per la figlia di Aung San hanno
rilievo in particolare le dieci virtù che canonicamente contraddistinguono un
rajadhamma, il re che si affida al dhamma, la legge buddhista. Queste virtù
sono codificate e corrispondono a generosità, moralità, spirito di sacrificio,
integrità, mitezza, disciplina spirituale, pacatezza, non violenza, sopporta-
zione, assenza di atteggiamenti offensivi52
. L’esercizio del potere da parte di
un leader, come ricorda Suu Kyi, deve essere in accordo con il dhamma se
questi vuole conquistare l’affezione del popolo.
39
il potere del sangue.
53. fleschenberg, Min
Laung or Fighting Peacock?
Aung San Suu Kyi’s Political
Leadership, cit., p. 217.
54. aung san suu kyi, The
Voice of Hope: Conversations
with Alan Clements, with Con-
tributions by U Kyi Maung
and U Tin U, Penguin Books,
London 1997, pp. 212-13.
55. houtman, Sacralizing or
Demonizing Democracy? Aung
San Suu Kyi’s “Personality
Cult”, cit.
56. labrousse, The Second
Life of Bung Karno, cit., p. 183.
Il vuoto lasciato dall’assassinio di Aung San nel 1947 non è veramente colmato
né da un leader democratico che pur ebbe grande popolarità, U Nu, né dal
temuto generale Ne Win: uomini esperti che in altri paesi probabilmente
sarebbero stati ritenuti non privi di carisma. In Birmania, tuttavia, non sono
mai stati veramente associati al padre della patria poiché quello di Aung
San è il carisma di un minlaung, un «re che sta per arrivare», destinato a
sconfiggere i nemici e salvare il paese: un rajadhamma, dunque. Anche se in
Suu Kyi non si trova propriamente questo tipo di carisma, in lei – che coltiva
la virtù – si riflette la forza del padre.
Dopo il 1988 la leader birmana concentrerà nella sua persona la «potenza»
di Aung San non soltanto adeguando i propri comportamenti ai precetti
buddhisti, come l’elemosina e il sostegno alla comunità monastica, ma an-
che con la pratica della meditazione, con l’isolamento e la lontananza dalla
famiglia, con il sacrificio della libertà personale per coerenza con le proprie
posizioni53
. Suu Kyi è figlia di un martire e martire essa stessa. Il regime
militare le ha imposto condizioni restrittive durissime per oltre due decenni
senza poterla espellere dal paese né eliminarla definitivamente dalla scena
politica, e questa sorta d’intoccabilità è testimonianza di carisma. Come il
padre, sentirà il bisogno di mettere in guardia dall’essere ritenuta dotata di
poteri straordinari. «Ve lo dico con franchezza, non sono un mago – affermerà
nel corso di una conversazione –. Non possiedo nessun potere speciale che
mi permetterà di darvi la democrazia»54
.
Suu Kyi sarà tuttavia considerata un nat, uno spirito, e un bodhisattva. Come
riferisce Gustaaf Houtman, nel 1990, quando si tennero le elezioni che sa-
rebbero state inutilmente vinte dalla Lega nazionale per la democrazia, in
molte località del paese si era sparsa la voce del rigonfiamento della mam-
mella sinistra di varie statue e immagini del Buddha, come segno portentoso
dell’imminente salita al potere di Aung San Suu Kyi. Così non è stato, ma il
carisma della figlia di Aung San si è da allora accresciuto55
.
Megawati, figlia di Sukarno
A differenza di Suu Kyi, rimasta orfana precocemente e cresciuta senza aver
conosciuto il padre, Megawati ha ventitré anni quando, nel 1970, muore Sukar-
no. I figli del primo presidente della Repubblica indonesiana non hanno avuto
una vita facile: il primogenito Guntur nasce nel 1944, seguito da Megawati
nel 1947, al tempo della guerra scatenata dall’Olanda per riconquistare l’ex
colonia. Vi saranno poi altre due sorelle, Rachmawati e Sukmawati, prima che
nel 1954 nasca Guruh, l’ultimo figlio della seconda moglie, Fatmawati (che
abbandonerà proprio in questo periodo la residenza presidenziale dove si è
installata una terza sposa, Hartini, cui ne seguiranno altre tre, e altri quattro
figli)56
. Megawati e i fratelli minori saranno lasciati al padre che avrà, nella
misura in cui gli sarà concesso dalla cura degli affari di stato, una notevole
influenza sulla loro formazione culturale.
Quando nel 1966 si costituisce formalmente il regime dell’Ordine nuovo,
Sukarno è estromesso dal vertice dello stato e sottoposto ad arresti domiciliari
fino alla sua morte, il 21 giugno 1970. La caduta del presidente indonesiano
ha conseguenze di rilievo per tutti i membri della famiglia. Megawati non ter-
minerà gli studi universitari e nel 1970, poco dopo la morte del padre, perderà
rivista di politica 3
40 57. Nel 1973 il regime rior-
ganizza il sistema politico
autorizzando tre soli raggrup-
pamenti: accanto al filogover-
nativo GOLKAR, le formazioni
islamiche sono riunite in una
nuova compagine mentre i
partiti nazionalisti e cristia-
ni sono obbligati a unirsi nel
Partai demokrasi Indonesia
(PDI). Si tratta di organizza-
zioni eterogenee, senza iden-
tità, deboli e manipolabili
dall’élite militare al potere. Cfr.
r. w. liddle, Regime: The New
Order, in d. k. emmerson (a
cura di), Indonesia Beyond
Suharto. Polity, Economy,
Society, Transition, Sharpe,
Armonk 1999, pp. 39-69;
mcintyre, Megawati Sukar-
noputri, cit., pp. 106 e sgg.
58. k. brooks, The Rustle of
Ghosts: Bung Karno in the
New Order, in «Indonesia», n.
60, 1995, pp. 61-99.
in un sospetto incidente aereo il primo marito, Surindro Supjarso, ufficiale
dell’aviazione militare. Per oltre quindici anni la figlia di Sukarno conduce una
vita ritirata e priva di una vera dimensione pubblica fino a quando, nel 1987,
accetta la candidatura del Partito democratico57
. In realtà, Megawati salirà
alla ribalta della politica indonesiana in sordina, da un lato per l’ostilità delle
sorelle al suo impegno, dall’altro perché è una «seconda scelta»: il leader del
PDI, Suryadi, cerca in primo luogo di coinvolgere il primogenito di Sukarno,
Guntur. La leadership del Partito democratico, in sostanza, intende sfruttare
il nome del primo presidente indonesiano per consolidarsi sul piano elettorale
(con circa l’otto per cento dei suffragi, il PDI è una formazione marginale).
Nelle elezioni del 1987, tuttavia, il Partito democratico avanza fino all’undici
per cento e, cinque anni più tardi, cresce ancora; si tratta di risultati positivi
e inaspettati, attribuibili in una certa misura alla stessa Megawati.
La figlia di Sukarno, pur essendo una casalinga trentanovenne priva di espe-
rienza politica, riesce ad acquisire un notevole successo personale richiamando
nella campagna elettorale i temi sociali e l’appello alla gente comune che
più di vent’anni prima erano stati al centro degli appassionati discorsi del
padre. Le immagini dell’ex leader, in particolare, suscitano forti emozioni e
accendono l’entusiasmo di coloro che ascoltano la figlia del carismatico ex
presidente. L’impegno politico di Megawati si dispiega, in realtà, nell’ambito
di circostanze nuove in cui si segnala soprattutto la cautela del regime. Il ge-
nerale Suharto, privo del carisma del suo predecessore ma ben più potente,
si muove con accortezza nei confronti di Sukarno, sia quando questi esce di
scena sia nel caso delle esequie e della conservazione della memoria dell’ex
leader. Dopo circa un decennio di silenzio – Sukarno era pur sempre sospet-
tato di essere colluso con i comunisti, accusati di aver organizzato un colpo di
stato nel 1965 e per questo annientati – nel 1978 il regime sembra disposto a
una riabilitazione del primo presidente. Ciò comporta l’attribuzione del suo
nome all’aeroporto di Giacarta e una tumulazione monumentale dei suoi
resti, oltre a rendere ufficiale la dottrina dei Pancasila – i «Cinque principi»
associati alla nascita della Repubblica indonesiana e allo stesso Sukarno – con
l’obbligo per tutti i partiti, nel 1985, di sottoscriverla. Si tratta di una scelta
che contribuisce sorprendentemente alla rinascita del mito dell’ex presidente,
sia in termini di attenzione mediatica e editoriale, sia per una crescente e
inattesa devozione popolare58
.
Negli anni ’80, dunque, cercando di appropriarsi della figura di Sukarno a
beneficio del regime, Suharto celebra il fondatore della Repubblica indone-
siana. L’ingresso di Megawati sulla scena politica avviene in questo periodo,
senza che gli ambienti ufficiali mostrino nei suoi confronti eccessiva preoc-
cupazione o ostilità. Tuttavia, il consolidarsi nel 1992 del successo elettorale
del PDI e l’aprirsi nel 1993 di uno scontro per la successione al vertice del
partito – con la regia dei servizi di sicurezza che ormai mirano a escludere la
figlia di Sukarno da una posizione preminente – comporteranno la divisione
di questa formazione politica. Megawati diventerà dunque presidente di
una nuova forza, il Partito democratico di lotta, Partai demokrasi Indonesia
perjuangan, schierata in termini sempre più netti all’opposizione di Suharto.
Nella seconda metà degli anni ’90 la figlia di Sukarno sarà così in prima fila
nel propiziare la caduta del regime e animare, dopo il 1998, una fase di tran-
sizione alla democrazia che la vedrà protagonista fino ad ascendere nel 2001
alla presidenza. La carriera politica di Megawati si rispecchia nei risultati
41
il potere del sangue.
59. Nel 2001 Megawati su-
bentra nell’incarico a causa
delle dimissioni dell’allora
presidente Abdurrahman
Wahid. La leader del Partito
democratico di lotta sconta
l’ostilità dei musulmani non
solo perché donna, ma per
appartenere alla comunità
giavanese abangan. L’islam
indonesiano è disomogeneo:
a Giava coloro che sono ligi
al dettato coranico, i santri,
si distinguono dai musulmani
nominali, gli abangan. Questi
ultimi, legati a credenze sin-
cretiche, hanno spesso soste-
nuto le formazioni politiche
di orientamento nazionalista
e comunista. I musulmani più
rigorosi, peraltro, si divido-
no tra correnti moderniste e
tradizionaliste, con approcci
dottrinari e politici diversi.
Cfr. c. geertz, The Religion
of Java, The Free Press, New
York 1960; r. r. jay, Religion
and Politics in Rural Central
Java, Yale University Southe-
ast Asian Studies Cultural Re-
port, New Haven 1963.
elettorali del suo partito che passerà dal successo del 1999, quando sull’onda
della riconquistata democrazia ottiene il 33,7 per cento dei voti, a risultati
meno positivi nel 2004 (18,5) e nel 2009 (14) fino alla ripresa del 2014 quan-
do, con il 19 per cento, torna a essere la formazione di maggioranza relativa.
Anche se la figlia di Sukarno, a causa dei veti imposti dalle formazioni di orien-
tamento islamico, non è mai stata eletta presidente59
, la sua presenza nella
vita politica indonesiana non pare effimera, dimostrando di aver acquisito in
termini sostanziali la constituency del vecchio Partito nazionalista: Megawati è
a pieno titolo erede della leadership e del messaggio di emancipazione sociale
e nazionale di Sukarno. Se le alterne fortune elettorali del Partai demokrasi
Indonesia perjuangan possono essere determinate dalla qualità delle specifi-
che scelte politiche compiute nel corso di quindici anni, e in particolare dalla
delusione delle aspettative di emancipazione sociale ed economica seguite
alla caduta di Suharto, non sussistono dubbi sulla capacità di Megawati di
mantenere il saldo controllo degli apparati del partito, soprattutto nelle regioni
di Giava e di Bali che rappresentano la base del suo consenso.
La figlia di Sukarno, tuttavia, non sembra dotata delle virtù carismatiche del
padre. Innanzi tutto, ha conservato un’attitudine personale schiva – è nota per
le sue modeste capacità oratorie e per i suoi pervicaci silenzi che contrastano
palesemente con lo stile fiammeggiante del primo presidente della Repubblica
indonesiana – e, in secondo luogo, ha scelto di richiamarsi semplicemente
al nome, all’immagine, alle parole del padre: un patrimonio di energia e di
potenza che Megawati «riflette» soltanto.
Conclusione
In Asia meridionale e sudorientale nella seconda metà del XX secolo circa
quindici donne sono ascese al vertice dello stato, occupando rilevanti posizioni
di potere in paesi non omogenei per ciò che concerne il modello di sviluppo
economico e sociale, non comparabili sul piano istituzionale, caratterizzati
da culture, lingue, religioni diverse. Non si tratta di casi di emancipazione
femminile, poiché in realtà in queste aree le donne hanno ruoli marginali;
leadership femminili sembrano affermarsi, infatti, in paesi caratterizzati da
una tendenziale ostilità per l’autonomia delle donne, in ambiti dove sono
prevalenti culture patriarcali e misogine che generano forti diseguaglianze
di genere. Queste leadership femminili, piuttosto, sembrano connesse all’im-
portanza assunta da vincoli familiari che attribuiscono un carattere dinastico
all’attività politica e alla gestione del potere: le donne assurte a posizioni di
rilievo sono senza eccezione figlie, mogli o vedove di uomini che hanno lasciato
una forte impronta sulla vita pubblica del proprio paese. Spesso queste donne
entrano in politica perché hanno perduto, talvolta in modi cruenti, un fami-
liare potente. L’affermazione di leader di genere femminile è però connessa
anche a fattori specifici di ordine sociale e culturale, oltre a partiti politici
dai forti caratteri clientelari che difendono l’egemonia di famiglie o di clan
importanti. Per queste donne, dunque, le scelte politiche non corrispondono
necessariamente al soddisfacimento di aspirazioni personali o ideali, ma
sono frutto della cooptazione familiare o del gruppo dirigente di un partito.
Il fattore decisivo che permette la nomina di una donna a capo di una forza
politica, però, è l’improvvisa scomparsa di un capo carismatico che impone
rivista di politica 3
42
di colmare un pericoloso vuoto di potere. In questi casi è preferibile affi-
darsi alla leadership di una donna – legata a un capo carismatico da vincoli
familiari – poiché essa, meglio di un maschio, può rafforzare lo spirito di
lealtà e la fiducia della constituency originaria del partito verso chi eredita
la missione del padre o del marito, il vero leader di cui esse riflettono il
carisma. Questi leader, com’è evidente nel caso di Sukarno e di Aung San,
sono «carismatici». Suu Kyi e Megawati si inseriscono dunque nella vita
politica dei propri paesi in virtù della forza dei padri, interpretando però
in termini differenti il proprio ruolo: la prima alimentandosi alla fonte del
carisma paterno ma cogliendo in modo profondo e vitale gli aspetti salienti
della tradizione culturale buddhista, la seconda riflettendo in termini meno
alti l’inesauribile energia di Sukarno.

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  • 1.
  • 2. Di padre in figlia. Leadership femminili in Asia il potere del sangue. la politica come affare di famiglia Francesco Montessoro È stato spesso notato l’importante ruolo politico che, in molti Paesi dell’Asia, è stato svolto nel corso degli ultimi decenni dalle leadership femminili: dall’Indonesia al Pakistan, dall’India al Giappone, dalle Filippine al Bangladesh, dallo Sri Lanka alla Corea del Sud. La presenza delle donne al vertice del potere, più che in altre parti del mondo, è stata talvolta considerata come l’espressione degli importanti cambiamenti sociali e di mentalità intervenuti in quei Paesi sotto la spinta della modernizzazione. In realtà queste leadership sono state e sono in gran parte espressione di una cultura politica e di una visione del potere fortemente condizionata dall’elemento dinastico-famigliare. Le donne al potere in Asia sono state e sono, quasi sempre, le mogli, le figlie o le sorelle di capiclan, di fondatori di dinastie e di leader carismatici tragicamente scomparsi: una forma di eredità politica che implica un elemento “tragico”, in senso classico, di grande interesse dal punto di vista dell’analisi storico-politica. 1. Per la lista delle donne che hanno occupato posizioni di vertice si veda Worldwide Gui- de to Women in Leadership (www.guide2womenleaders. com). Cfr. anche b. s. stein- berg, Women in Power: The Personalities and Leadership Styles of Indira Gandhi, Golda Meir, and Margaret Thatcher, McGill-Queen’s University Press, Montreal 2008. 27 Leadership di genere in Asia? L’Asia, pur essendo stata caratterizzata nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale da instabilità politica ed economica, nell’ambito di condizioni di arretratezza e di faticosa fuoriuscita dal sottosviluppo, ha rappresentato un singolare esempio di affermazione di leadership femminili. Mentre nei pur aperti ed emancipati paesi dell’Occidente le donne sono assurte con re- lativamente scarsa frequenza al vertice delle istituzioni – dopo Golda Meir in Israele, questo è accaduto soprattutto in area scandinava, in Gran Bretagna con Margaret Thatcher e in Germania con Angela Merkel – in Asia non sono mancati esempi tanto cospicui in termini quantitativi quanto sorprendenti per gli innegabili tratti comuni1 . Dopo il 1945, infatti, nella regione che va dal Pakistan al Giappone (dunque in ambienti culturali e politici assai difformi)
  • 3. rivista di politica 3 28 2. È l’italiana Sonia Maino, nata nel 1946 e naturalizzata indiana dopo aver sposato il figlio di Indira Gandhi, Rajiv. 3. L’articolo è stato consegnato in redazione nel maggio 2015 e licenziato per la stampa il 30 luglio successivo. A queste date non era stata ancora fissata l’esatta scadenza dell’appun- tamento elettorale [N. d. R]. 4. a. reid, Female Roles in Pre-colonial Southeast Asia, in «Modern Asian Studies», XXII, 3, 1988, pp. 629-45 e f. montessoro, Il ruolo delle donne nell’Asia sud-orientale tradizionale, in m. scarpari, t. lippiello (a cura di), Caro Maestro… Scritti in onore di Lionello Lanciotti per l’ottan- tesimo compleanno, Cafoscari- na, Venezia 2005, pp. 827-39. 5. Si veda b. s. steinberg, The Making of Female Presi- dents and Prime Ministers: The Impact of Birth Order, Sex of Siblings, and Father-Dau- ghter Dynamics, in «Political Psychology», XXII, n. 1, 2001, pp. 89-110. 6. a. fleschenberg, Asia’s Women Politicians at the Top: Roaring Tigresses or Tame Kit- tens? in k. iwanaga (a cura di), Women’s Political Parteci- pation and Representation in Asia: Obstacles and Challen- ges, Nias Press, Copenhagen 2008, pp. 23-54. circa quindici donne sono ascese al vertice dello stato, occupando posizioni ragguardevoli come presidente della repubblica, primo ministro o, in alcuni casi, assumendo il ruolo di leader di un importante partito. I casi più rilevanti si registrano negli anni ’60 con Sirimavo Bandaranaike (1916-2000) nello Sri Lanka e Indira Gandhi (1917-1984) in India che raggiun- gono posizioni di vero potere nei rispettivi paesi. Negli anni ’80 e ’90, dopo Co- razon Aquino (1933-2009) nelle Filippine, si afferma una nuova generazione con Suu Kyi in Myanmar (l’ex Birmania), Begum Khaleda Zia in Bangladesh e Chandrika Kumaratunga nello Sri Lanka (nate nel 1945). Appartengono allo stesso gruppo Sonia Gandhi2 in India, Sheik Hasina Wajed, in Bangladesh, Megawati in Indonesia e Gloria Macapagal Arroyo nelle Filippine (tutte nate nel 1947), Wan Azizah Wan Ismail in Malaysia e Park Geun-hye nella Corea del sud (entrambe del 1952), Benazir Bhutto (1953-2007) in Pakistan. A questa generazione può essere associata la giapponese Tanaka Makiko (1944) che ha ricoperto cariche ministeriali pur senza emergere in posizioni di vertice, così come l’indiana Pratibha Patil (1934) diventata presidente dell’Unione Indiana anche se ha mantenuto un basso profilo. Più recentemente è comparsa sulla scena pubblica thailandese Yingluck Shinawatra (1967). Talvolta, a un ruolo politico preminente non corrisponde un’effettiva presa sul potere dello stato: Suu Kyi e Wan Azizah Wan Ismail hanno rappresentato per anni la voce dell’opposizione nei loro rispettivi paesi senza assumere responsabilità di governo; non sarebbe però sorprendente se la prima, a seguito delle elezioni previste per il 2015, ascendesse a una posizione apicale3 . È legittimo interrogarsi sulle ragioni di quest’affermazione e se vi siano effet- tivamente elementi comuni tra percorsi personali e politici maturati in paesi senz’altro diversi per sviluppo economico e sociale, dotati di istituzioni non comparabili, caratterizzati da culture, lingue, religioni differenti. Leadership femminili si sono affermate soprattutto nell’ambito di democrazie parlamen- tari, ma non mancano esempi connessi a sistemi paternalistici e autoritari e anche, come nel caso birmano e in Indonesia, a regimi militari: spesso sono state proprio le donne a impersonare la lotta per la libertà e la democrazia. Questa eterogeneità si conferma anche in ambito religioso poiché leader di sesso femminile sono ascese al vertice in paesi di cultura induista, come l’India, in area buddhista (Sri Lanka e Myanmar) e nelle cattoliche Filippine; anche il mondo islamico condivide questa tendenza e può anzi essere interessante notare come leadership femminili siano presenti in tutti i paesi musulmani dell’Asia meridionale e sudorientale – Pakistan, Bangladesh, Malaysia e In- donesia – con la sola eccezione del sultanato del Brunei. Le ragioni di questa ascesa non sembrano spiegabili in termini diacronici: pur essendo stata notata in Asia sudorientale la frequenza di «monarchie femminili» tra il XIV e il XVII secolo, e in generale siano attestate in epoca precoloniale condizioni relativamente favorevoli alle donne in termini sociali ed economici, non pare possibile far risalire le prassi contemporanee a fasi troppo distanti4 . Così come sono altrettanto poco suffragabili ipotesi di tipo sociologico, connesse alla composizione familiare e, in particolare, all’ordine di nascita e al genere dei figli5 ; oppure a una supposta emancipazione femmi- nile, poiché in questi paesi le donne hanno in realtà un ruolo sostanzialmente marginale, soprattutto in ciò che concerne la sfera pubblica6 . Le leadership femminili, infatti, si sono affermate in aree caratterizzate da culture patriarcali, da misoginia, da diseguaglianza di genere e da una tendenziale ostilità verso
  • 4. 29 il potere del sangue. 7. Il diritto di voto alle donne sarà introdotto nel 1931 nello Sri Lanka e nel 1935 in Birma- nia (a quell’epoca colonie bri- tanniche), nel 1932 in Thailan- dia, nel 1937 nelle Filippine. In altri paesi dell’area – Pakistan, India, Indonesia, Malaysia, Bangladesh  –  si dovrà atten- dere l’indipendenza dopo la Seconda guerra mondiale. Cfr. k. iwanaga, Introduction. Wo- men and Politics in Asia: A Comparative Perspective, in iwanaga (a cura di), Women’s Political Partecipation and Representation in Asia, cit., pp. 1-2. Si veda anche a. atta- nayake, Elitism in Women’s Political Participation in Sri Lanka within a South Asian Context, in Ibidem, pp. 253-75. 8. Cfr. Inter-Parliamentary Union. Women in National Parliaments (www.ipu.org/ wmn-e/classif.html). Per un approccio comparativo si veda f. jalalzai, m. l. krook, Beyond Hillary and Benazir: Women’s Political Leadership Worldwide, in «International Political Science Review», XXXI, n. 1, 2010, pp. 5-21. 9. Solo Song Qingling (1893- 1981), la vedova di Sun Yat- sen, ricoprirà la carica di vice presidente della repubblica tra il 1959 e il 1975 e, solo per al- cuni giorni alla vigilia della sua morte, di presidente onorario della RPC. 10. Oltre all’Asia solo in Ame- rica latina sono presenti casi con lo stesso carattere. Cfr. jalalzai, krook, Beyond Hillary and Benazir, cit., pp. 13-14. la partecipazione delle donne alla vita sociale moderna. Anche se il voto alle donne è stato introdotto in alcuni paesi dell’area già nel corso degli anni ’307 , in generale la loro quota in cariche elettive o ruoli dirigenziali, con l’indicativa esclusione delle posizioni apicali, è inferiore rispetto ad altre parti del mondo e della stessa Asia. All’inizio del XXI secolo, in Cina le donne rappresentano il 23,6% dei membri del Parlamento, in India il 12, in Malaysia il 10,4 e in Giappone il 9,5. Buona la posizione di Pakistan (20,7) e Bangladesh (20), mentre l’Indonesia si attesta al 17,1. Meglio della Cina, solo le Filippine con il 27,2%. In coda rimangono il Myanmar (6,2), la Thailandia (6,1) e, sorpren- dentemente, lo Sri Lanka (5,8)8 . Nell’area di matrice culturale cinese (e in particolare in Cina e Vietnam) la partecipazione femminile alla gestione della cosa pubblica è maggiore, anche se non vi è un’effettiva ascesa delle donne ai vertici delle istituzioni. Nella Repubblica popolare cinese colpisce soprattutto che, a dispetto di un dibattito intellettuale e di tendenze politiche favorevoli all’emancipazione delle donne di durata ormai secolare e a una loro apprezzabile presenza istituzionale, al vertice del Partito comunista al potere non vi siano mai state esponenti di sesso femminile9 . Così come non vi sono state a Taiwan e a Singapore. Il carattere dinastico della leadership femminile Per quanto possa essere sorprendente, l’affermazione di una leadership fem- minile è connessa in Asia all’esistenza di forti vincoli di tipo familiare, se non a vere e proprie «dinastie», poiché le donne assurte a posizioni di rilievo sono senza eccezione figlie, mogli, vedove di uomini che hanno variamente segnato i processi politici del proprio paese10 . Anche in Corea del sud e in Giappone, dove il successo politico di Park Geun-Hye e Tanaka Makiko – rispettivamente figlie di Park Chung-Hee, presidente dal 1963 al 1979, e di Tanaka Kakuei, primo ministro dal 1972 al 1974 – sembra dovuto a regole di tipo dinastico, ma in base a meccanismi che tendono a privilegiare il semplice ruolo del prestigio paterno e non condividono con gli altri casi molti fattori comuni; anche Gloria Macapagal Arroyo – figlia di Diosdato Macapagal, presidente filippino tra il 1961 e il 1965 e ultimo eletto democraticamente prima della dittatura di Marcos – appartiene a questo gruppo. Occorre precisare che per «dinastia» si intende la possibilità da parte dei membri di una élite di trasmettere il potere politico sulla base della consan- guineità o dell’affinità, a prescindere dal carattere autocratico o democratico del sistema. Si tratta dunque di prassi che favoriscono la scelta dei leader nazionali all’interno di una ristretta compagine che coincide con una deter- minata famiglia, in termini non formalizzati da un diritto stabilito a priori. Da questa analisi saranno dunque escluse le dinastie formalmente costituite, vale a dire quelle espresse da un sistema monarchico e che riguardano Giap- pone, Thailandia, Cambogia, Malaysia, Brunei. Non sarà considerata, inoltre, l’atipica dinastia – atipica, in questo ambito, perché maschile – rappresentata dalla Corea del nord, dove in seno a un regime autoritario, socialista e repub- blicano si sono succeduti al potere Kim Il Sung, suo figlio e infine suo nipote. Nei casi di leadership femminile riguardanti l’Asia meridionale e sudorientale vi sono alcuni elementi comuni. Innanzi tutto, si tratta sempre di donne di elevato status sociale ed economico, legate a famiglie preminenti che hanno
  • 5. rivista di politica 3 30 11. Cfr. d. hellmann-raja- nayagam, The Living Sacrifi- ce? Heroes, Victims, Martyrs, in a. fleschenberg, d. hel- lmann-rajanayagam (a cura di), Goddesses, Heroes, Sacrifi- ces: Female Political Power in Asia, Lit Verlag, Berlin 2008, pp. 206-31. 12. Chandrika, invece, si af- fermerà essendo figlia di due ex primi ministri (Sirimavo e Solomon Bandaranaike) anche se nella sua vita vi è, nel 1988, l’assassinio del marito, Vija- ya Kumaratunga. Si veda t. bartholomeusz, Mothers of Buddhas, Mothers of Nations: Kumaratunga and Her Meteo- ric Rise to Power in Sri Lanka, in «Feminist Studies», XXV, n. 1, 1999, pp. 211-25. 13. r. chatterjee, Sonia Gan- dhi: The Lady in Shadow, Bu- tala, Delhi 1998. 14. v. boudreau, Corazon Aquino: Gender, Class, and the People-Power President, in f. d’amico, pr. beckman (a cura di), Women in World Politics: An Introduction, Bergin-Gar- vey, Westport 1995, pp. 71-81. 15. f. n. anderson, Benazir Bhutto and Dynastic Politics: Her Father’s Daughter, Her Pe- ople’s Sister, in m. a. genovese (a cura di), Women as National Leaders, Sage, London 1993, pp. 41-69; a. fleschenberg, Benazir Bhutto: Her People’s Sister? A Contestual Analy- sis of Female Islamic Gover- nment, in c. derichs, m. r. thompson (a cura di), Dy- nasties and Female Political Leaders in Asia. Gender, Power and Pedigree, Lit, Wien-Berlin 2013, pp. 63-111. 16. r. gerlach, Female Poli- tical Leadership and Duelling Dynasties in Bangladesh, in derichs, thomspon (a cura di), Dynasties and Female Po- litical Leaders in Asia, cit., pp. 113-49; si vedano anche k. uddin ahmed, Women and Politics in Bangladesh, in iwanaga (a cura di), Women’s avuto un ruolo non trascurabile nella vita politica del proprio paese. In genere queste leader sono dotate di un eccellente background scolastico, avendo conseguito titoli universitari (talvolta all’estero e anche in istituti importanti come Harvard, Oxford, Cambridge, la Sorbona). Nelle fasi che precedono la loro ascesa, tuttavia, queste donne non hanno quasi mai acquisito competenze amministrative, né fatto vere esperienze politiche, non avendo alle spalle una «carriera» in seno a un partito, in organi rappresentativi o in agenzie di governo. Il loro ingresso sulla scena pubblica, anzi, appare determinato dalla casualità poiché molte volte – com’è evidente nel caso di Suu Kyi – sono le circostanze imprevedibili della vita a stabilire un percorso in precedenza non necessariamente considerato o auspicato. Di solito l’incertezza delle protagoniste, dovuta a inesperienza e assenza di ambizione politica, è su- perata solo dopo l’insistente opera di convinzione dell’entourage familiare e di partito. Soprattutto, l’ingresso in politica di queste donne è caratterizzato dal ruolo di «vittima» che le contraddistingue. Infatti, con tre eccezioni – Indira Gandhi, Gloria Macapagal Arroyo e Chandrika Kuma- ratunga – tutte ascendono a posizioni di vertice per l’eliminazione, spesso cruenta, di un leader politico di rilievo con cui esse sono imparentate11 . La cingalese Sirimavo Ratwatte Dias Bandaranaike assume la guida del Freedom party e la premiership dopo l’assassinio, nel 1959, del marito Solomon Ban- daranaike, fino ad allora esponente principale del partito e del governo12 . In India, Indira Gandhi diventa premier nel 1966, succedendo – dopo il breve governo di Lal Bahadur Shastri – al padre Jawaharlal Nehru, deceduto nel 1964, di cui è ritenuta l’erede politica; se la sua ascesa non è stata il frutto di un evento traumatico, il suo assassinio nel 1984 porta al potere prima il figlio Rajiv e, dopo la morte violenta di questi, la nuora Sonia. Per la sua origine straniera, però, quest’ultima non ha mai rivestito cariche istituzionali e di governo conservando comunque un ruolo preminente e un’effettiva capacità decisionale in seno al partito del Congresso13 . Corazon Aquino compare alla ribalta politica filippina dopo l’assassinio, nel 1983, del marito, Benigno Aquino Jr, il principale esponente dell’opposizione a Ferdinand Marcos14 . Benazir Bhutto sale al vertice del Pakistan people’s party, e più tardi assume responsabilità di governo, a seguito all’estromis- sione del padre, Zulfikar Ali Bhutto, dall’esecutivo. Nel 1977, infatti, il colpo di stato del generale Zia ul-Haq depone l’esponente pakistano dalla carica di premier decretandone, nel 1979, la condanna a morte15 . In Bangladesh, Sheik Hasina Wajed guida a più riprese l’esecutivo dopo l’uccisione, nel 1975, del padre Sheik Mujibur Rahman, premier dal 1971; a sua volta, sempre in Bangladesh, l’assassinio di Ziaur Rahman nel 1981 permette alla sua vedova, Khaleda Zia, di imporsi al vertice del Partito nazionalista e infine di diventare primo ministro nel 199116 . La malese Wan Azizah Wan Ismail, invece, entra in politica dopo l’arresto nel 1998 del marito Anwar Ibrahim, un ex esponente di spicco del governo da allora escluso dalla vita pubblica. In Thailandia, Yingluck Shinawatra si afferma nelle elezioni del 2011, diventando premier; carica dalla quale è rimossa nel 2014 da un colpo di stato. La sua figura è legata al fratello, Thaksin Shinawatra, il discusso affarista che ha dominato la scena politica Political Partecipation and Re- presentation in Asia, cit., pp. 276-96 e n. chowdhury, Ban- gladesh: Gender Issues and Politics in a Patriarchy, in b. j. nelson. n. chowdhury (a cura di), Women and Politics Worldwide, Yale University Press, New Haven 1994, pp. 92-112.
  • 6. 31 il potere del sangue. 17. Dopo l’assassinio di Aung San, comunque, la sua vedova Khin Kyi, madre di Suu Kyi, fu nominata «membro tempora- neo» del Parlamento al posto del marito per poi diventare ministro nel gabinetto di U Nu e infine ambasciatrice in India. Cfr. mi mim khaing, The World of Burmese Women, Zed Books, London 1984, p. 159 e j. silverstein, Aung San Suu Kyi: Is She Burma’s Woman of Destiny? in «Asian Survey», XXX, n. 10, 1990, p. 1009. 18. a. mcintyre, Megawati Sukarnoputri: From Presi- dent’s Daughter to Vice Presi- dent, in «Bulletin of Concer- ned Asian Scholars», XXXII, n. 1-2, pp. 105-12. 19. b. lintner, Aung San Suu Kyi and Burma’s Unfinished Renaissance, Peacock Press, Bangkok 1990, p. 18. 20. m. r. thompson, Fema- le Leadership of Democratic Transitions in Asia, in «Pacific Affairs», LXXV, n. 4, 2002- 2003, p. 544. thailandese tra il 2001 e il 2006. Costretto all’esilio da un pronunciamento militare, e dall’ostilità riservatagli da parti cospicue della società e delle isti- tuzioni thailandesi, Thaksin ha infine trasferito alla sorella la sua notevole e fedele base elettorale. Anche nei casi dell’indonesiana Megawati e della birmana Suu Kyi è ri- conoscibile il carattere ereditario della trasmissione del potere, anche se questa si è manifestata a distanza di anni. Le due esponenti politiche, figlie rispettivamente di Sukarno e di Aung San17 , non si sono affermate in virtù del potere esercitato direttamente dai padri, poiché tra l’uscita di scena di questi e l’ingresso in politica di Suu Kyi e di Megawati sussiste uno iato temporale considerevole: la prima farà il suo ingresso nella vita politica birmana nel 1988 (al tempo della rivolta popolare che scuote il regime militare), quaranta anni dopo l’assassinio di Aung San; la seconda inizia la sua ascesa nel 1987 quando aderisce al Partai demokrasi Indonesia, la formazione in cui nel 1974 era confluito ciò che restava del Partito nazionalista di Sukarno. Megawati, nel 1993, si afferma poi come leader dell’opposizione diventando protagoni- sta della lotta contro il regime autoritario del generale Suharto e principale artefice della transizione alla democrazia avviata nel 1998, giungendo infine a ricoprire la carica di presidente del più grande paese musulmano del mondo tra il 2001 e il 200418 . Perché scegliere una donna? La forza della famiglia e il carattere dinastico della successione avrebbero potuto riversarsi nella scelta di un erede maschio? In termini fattuali, sa- rebbe stato possibile in più di una circostanza, tuttavia un simile caso si è verificato solo in India, con Rajiv Gandhi. Nelle Filippine è invece abortito nel 1983 il tentativo di indicare Agapito Aquino, il fratello di Benigno, alla guida delle forze di opposizione che sceglieranno poi Corazon, la vedova del leader assassinato. Benigno Aquino III, figlio di quest’ultima e di Benigno Aquino, sarà eletto presidente nel 2010, a diciotto anni dalla conclusione del mandato della madre e a un anno dalla sua morte: per quanto l’influenza di una famiglia importante abbia pesato, non può essere ritenuto propriamente un tipico esempio di successione dinastica. L’ascesa di una donna alla leadership, pur essendo decisa all’interno di un gruppo familiare, non sembra dovuta all’impatto di fattori come l’ordine di nascita o il sesso dei figli poiché, nei paesi asiatici considerati, questi elementi non hanno un carattere irrefutabile. Escludendo Indira Gandhi, che era figlia unica, la primogenitura riguarda solo tre casi (Sirimavo Bandaranaike, Benazir Bhutto e Sheik Hasina Wajed) mentre Corazon Aquino, Suu Kyi, Megawati e Gloria Macapagal Arroyo avevano tutte fratelli maggiori; Khaleda Zia e Chandrika Kumaratunga erano secondogenite con una sorella maggiore. Può essere indicativo, soprattutto, che dove erano presenti figli maschi potenziali eredi della leadership paterna, il tentativo di coinvolgerli nell’attività politi- ca sia sempre fallito. In Myanmar è il caso di Oo, fratello maggiore di Suu Kyi19 , mentre in Indonesia si era pensato in primo luogo a Guntur (1944), il primogenito di Sukarno20 . Anche se entrambi hanno rifiutato l’impegno politico, le scelte degli esponenti superstiti delle formazioni create da Aung San e Sukarno sono sembrate orientate innanzi tutto a coinvolgere le figlie.
  • 7. rivista di politica 3 32 21. thompson, Female Leader- ship of Democratic Transitions in Asia, cit. 22. Cfr. per l’Asia sudorien- tale c. h. landé, Networks and Groups in Southeast Asia: Some Observations on the Group Theory of Politics, in s. w. schmidt, j. c. scott, c. h. landé, l. guasti (a cura di), Friends, Followers, and Factions. A Reader in Poli- tical Clientelism, University of California Press, Berkeley 1977, pp. 75-99; j. c. scott, Patron-client Politics and Po- litical Change in Southeast Asia, in Ibidem, pp. 123-46; j. sidel, Bossism and democracy in the Philippines, Thailand, and Indonesia: towards an alternative framework for the study of “local strongmen”, in j. harriss, k. stokke, o. tor- nquist (a cura di), Politicising Democracy: the New Local Po- litics of Democratisation, Pal- grave Macmillan, Basingstoke 2004, pp. 51-74. 23. rounaq jahan, Women in South Asian Politics, in «Third World Quarterly», IX, n. 3, 1987, pp. 848-71; l. k. richter, Exploring Theories of Female Leadership in South and Southeast Asia, in «Pacific Affairs», LXIII, n. 4, 1990-91, pp. 524-40. 24. Condanna ribadita, dopo il suo rilascio nel 2008, ancora nel 2015. Un atteggiamento favorevole a una successione politica di tipo femminile. Quali vantaggi, dunque, comporta la scelta di una donna? L’ascesa di un leader di genere femminile è connessa non solo all’evidente carattere dinastico della successione, ma anche ad alcuni fattori specifici di ordine sociale, politico e culturale. In tutti i casi sembra rilevante il processo di consolidamento della democrazia tipico dell’Asia meridionale e sudorientale nella seconda metà del ’900, quando nascono istituti di tipo democratico-par- lamentare all’insegna dell’affermazione dei grandi partiti di massa21 . Tutte le figure femminili che sono ascese al vertice in questi paesi (con l’eccezione di Sonia Gandhi nei confronti della quale pesa una forma di ostracismo dovuta alle sue origini) hanno ricevuto una legittimazione democratica tramite la vittoria elettorale o, in alcuni casi, per l’azione di movimenti popolari che poi sono sfociati in un voto. Questi partiti, soprattutto, hanno in generale sviluppato forti caratteri clien- telari, in continuità con un modello sociale che nella regione ha vigorose radici22 . Il cosiddetto «bossism» e i rapporti di tipo patrono-clientelare che presiedono alla formazione dell’opinione pubblica, all’organizzazione del consenso politico e alla gestione del governo e degli apparati dello stato (e che sono all’origine anche di rilevanti fenomeni corruttivi), spiegano il carattere familista e la forte impronta personale che, in questi paesi, tende ad assumere la leadership dei partiti. Le donne che giungono a occupare posizioni premi- nenti sono tutte, senza eccezione, integrate in famiglie che hanno o hanno avuto un ruolo dominante esercitando un controllo di natura personale sul sistema politico: per costoro l’ascesa in politica non corona un’autonoma aspirazione e una carriera perseguita nel tempo, ma è piuttosto il frutto di una cooptazione all’interno di una famiglia importante23 . Nello Sri Lanka, i Bandaranaike controllano il Freedom Party, come in India la «dinastia» Gandhi il Congresso; i Bhutto, in Pakistan, hanno nel Partito del popolo il loro strumento di influenza, mentre in Bangladesh Sheik Hasina Wajed guida la Lega Awami che fu del padre e Khaleda Zia tiene in pugno il Partito nazionalista di Ziaur Rahman. Nelle Filippine, Corazon Aquino si è legata al Partito liberale del marito; in Myanmar Suu Kyi ha raccolto idealmente l’eredità del partito egemone nella lotta per l’indipendenza fondato nel 1944 dal padre (e rinominato nel 1945 Anti-Fascist People’s Freedom League). In Indonesia, le fortune di Megawati sono riposte in ciò che resta della formazione nazionalista che Sukarno aveva creato nel 1927. In questi ultimi due casi, le figlie hanno ritrovato la base elettorale dei padri, la constituency originaria che sia in Myanmar sia in Indonesia si è conservata sostanzialmente indenne oltre la parentesi dei regimi autoritari instaurati nei due paesi nel 1962 e nel 1966. Wan Azizah Wan Ismail, invece, con l’e- sclusione nel 1998 di Anwar Ibrahim dal vertice della governativa UMNO (United Malays National Organisation) e con la sua successiva condanna a un lungo periodo di detenzione24 , diventa nel 2003 presidente di un nuovo partito, Parti Keadilan Rakyat (Partito della giustizia del popolo) ispirato dal marito. In Thailandia, Yingluck Shinawatra è al vertice del partito Pheu Thai, supplendo il fratello Thaksin. Anche i membri delle nuove generazioni iniziano a essere considerati dei possibili candidati alla successione in seno ai partiti dei padri e delle madri: è il caso di Benigno Aquino III nelle Filippine, di Rahul e Priyanka Gandhi, figli di Rajiv e Sonia (sarebbero la quinta generazione in politica), della pri-
  • 8. 33 il potere del sangue. mogenita di Anwar Ibrahim e Wan Azizah Wan Ismail (Nurul Izzah Anwar, nata nel 1980), di Bilawal Bhutto Zardari, figlio di Benazir. La scelta di una leadership femminile, comunque, si è imposta in circostanze precise, segnate dall’eliminazione dalla vita politica di un leader. Questa im- provvisa e traumatica scomparsa di un capo dotato di carisma e di forte presa personale sull’organizzazione, ha obbligato gli altri esponenti a colmare in tempi brevi quello che si configura come un vuoto di potere destinato a indebo- lire o compromettere il capitale sociale del partito. In queste circostanze, una leadership femminile è stata ritenuta particolarmente adatta a disinnescare le lotte interne per la successione, anche in virtù del convincimento che una donna sia in sé debole e meno competitiva, dunque manipolabile o sostitui- bile una volta esaurita la sua funzione. L’ascesa di una leadership femminile, dunque, potrebbe essere stata favorita dall’assenza di un’esplicita competizione con esponenti di sesso maschile, ritenuti in sé pregiudizialmente più capaci. La scelta di una donna in seno alla famiglia, comunque, ha un alto valore sim- bolico, consolida l’immagine della nuova leader e accresce il favore popolare nei suoi confronti: un elemento insostituibile in termini di lealtà e rispetto verso chi sembra aver ereditato il «capitale morale» del padre o del marito. La scelta di una leadership femminile, infine, si spiega con il fatto che un erede maschio avrebbe dovuto rivelarsi dotato in sé di una forza paragonabile a quella del padre, mentre le figlie, o le mogli, sono percepite dalla popola- zione e soprattutto dalle constituency dei partiti personali di cui è in gioco la successione, come le continuatrici della missione del padre o marito, il vero leader di cui esse riflettono il carisma. Esemplare è il caso di Megawati e Suu Kyi, le vere eredi politiche di Sukarno e di Aung San, la cui analisi potrebbe gettare luce anche sulle altre esperienze fin qui considerate. Il carisma di Sukarno e Aung San A molti uomini politici asiatici del XX secolo è stato associato un carattere carismatico: Jawaharlal Nehru, l’ex sovrano cambogiano Sihanouk, Mao Zedong, Ho Chi Minh e naturalmente Aung San e Sukarno. Questi ultimi hanno esercitato nei rispettivi paesi una leadership sostanziale e duratura: il primo come padre della patria e maggior esponente politico e militare nella fase della lotta che precede la nascita della Birmania indipendente; Sukarno come espressione del nazionalismo indonesiano degli anni ’30 e ’40, come fondatore dello stato e come presidente tra il 1945 e il 1966, quando fu defe- nestrato al tempo della svolta autoritaria del generale Suharto. Entrambi sono sopravvissuti alla propria fine, divenendo – in virtù di un carisma intangibile anche nella sconfitta – l’emblema imbarazzante, e travisato, dei regimi militari nati dopo la loro uscita di scena. Carisma che Megawati e Suu Kyi sembrano aver ereditato in virtù di un passaggio «di padre in figlia». Occorre considerare, innanzi tutto, come il carattere carismatico del potere assuma in Asia sudorientale un significato peculiare che esula dal quadro analitico invalso nella scienza politica novecentesca sulla scorta dei contributi teorici di Max Weber. Nella misura in cui è possibile riconoscere tratti comuni alle civiltà dell’Asia sudorientale, si può rilevare tra questi una coincidente idea del potere. In Myanmar e in Indonesia (ma anche altrove nella regione) sono presenti tradizioni di pensiero politico-religioso che, fatte salve alcune
  • 9. rivista di politica 3 34 25. g. cœdès, Les états hin- douisés d’Indochine et d’In- donésie, De Boccard, Paris 1964. 26. b. r. o’g. anderson, The Idea of Power in Javanese Culture, in c. holt (a cura di), Culture and Politics in Indonesia, Cornell University Press, Ithaca 1972, pp. 1-69 (si cita dalla versione riedita in b. r. o’g. anderson, Language and Power. Exploring Political Cultures in Indonesia, Cornell University Press, Ithaca 1990, pp. 17-77). Si vedano anche w. h. rassers, On the Javanese Kris, nel volume che racco- glie i saggi di rassers, Pañji, the Culture Hero. A Structu- ral Study of Religion in Java, Nijhoff, The Hague 1982, pp. 217-97; koentjaraningrat, Javanese Terms for God and Supernatural Beings and the Idea of Power, in r. schefold, j. w. schoorl, j. tenneker (a cura di), Man, Meaning and History: Essays in Ho- nour of Prof. Dr. H. G. Schulte Nordholt, Nijhoff, The Hague 1980, pp. 127-39; koentja- raningrat, Javanese Cultu- re, Oxford University Press, Oxford-Singapore 1985, pp. 39 e 343-45; n. mulder, The Ideology of Javanese-Indone- sian Leadership, in h. ant- löv, s. cederroth (a cura di), Leadership on Java. Gentle Hints, Authoritarian Rule, Curzon-Nias, Richmond 1994, pp. 66-67. 27. l. w. pye, m. w. pye, Asian Power and Politics: The Cul- tural Dimensions of Authori- ty, Harvard University Press, Cambridge 1985; r. kershaw, Monarchy in South-East Asia: The Faces of Tradition in Tran- sition, Routledge, London 2001. Si vedano anche moer- tono, State and Statecraft in Old Java, Modern Indonesia Project, Cornell University, Ithaca 1968, aye kyaw, The Institution of Kingship in Bur- ma and Thailand, in «Journal distinzioni, possono essere ritenute coerenti con origini largamente condivise e rinviabili all’influenza che un comune modello «indianizzato» ha esercitato in fasi decisive della costituzione degli stati tradizionali tra il VI e il XIII secolo25 , e di cui ancora nel XIX era percepibile il retaggio. A differenza di ciò che contraddistingue la tradizione occidentale, in Asia sudorientale il «potere» ha un significato concreto, è un’entità cui cor- risponde – come si evince dall’esemplare caso giavanese – una «energia» dispensata in quantità costanti e omogenee26 . In questo ambito culturale non ha alcun senso interrogarsi sulla legittimità dell’uso della forza, come in Occidente, poiché nel Sudest asiatico prevale piuttosto l’interesse per la sua concentrazione e per il suo accumulo. Negli stati tradizionali il sovrano occupa il centro dell’universo e questo comporta il possesso di un potere spirituale di natura magica che si accresce e s’irradia dalla sua persona: allo splendore del re corrisponde il benessere dell’intera comunità. Questa potenza, energia, forza – kasekten nella tradizione giavanese di matrice induista, hpòn in quella birmana di ascendenza buddhista – si trasferisce dal sovrano divinizzato ai suoi consan- guinei, poi all’aristocrazia e ai sacerdoti, fino agli elementi subordinati della popolazione27 . Si tratta di un’energia destinata ad affievolirsi via via che si allontana dal centro, e all’accumulo di potere in un individuo corrisponde una diminuzione altrove. Il carisma di un capo si rivela in questa «potenza» e si conserva, si alimenta e si accresce con esercizi di meditazione, atti cerimoniali, pos- sesso di amuleti, pratiche magiche, esibizioni di forza e di status28 . Sukarno, a dispetto del suo profilo politico e intellettuale progressista e moderno, affascinato dal marxismo, ostenta gli attributi del potere in termini tradizionali e fa convergere sulla sua persona tutto ciò che – siano cariche istituzionali, decorazioni, titoli, collezioni d’arte, donne, po- tenza sessuale – accresce il suo carisma29 . Questo carisma, nella visione del leader indonesiano, si rivela fisicamente come luce che irradia dal volto del capo sotto forma di «aureola»30 . Anche le idee concorrono alla concentrazione della forza: sotto il profilo ideologico, Sukarno (formalmente un musulmano «nominale», un abangan, influenzato ben più profondamente dalla tradizione religiosa giavanese, l’agama jawi), si farà portatore di una visione sincretica, tesa a unificare le correnti di pensiero espresse dagli ambienti politici attivi a Giava negli anni ’20 e ’30, come il marxismo, il nazionalismo e l’islamismo. Per l’esponente indonesiano queste tre tendenze si fondono in un’unica entità – Sukarno creerà l’acronimo NASA- KOM, per nasionalisme, agama (religione), komunisme – non per coerenza dottrinaria, innovazione teorica o programma politico, ma perché attributi of the Burma Research So- ciety», n. 42, 1979, pp. 121- 75 e i. w. mabbett, Kingship in Angkor, in «Journal of the Siam Society», LXVI, n. 2, 1978, pp. 1-58. 28. s. j. tambiah, World Con- queror and World Renouncer. A Study of Buddhism and Polity in Thailand against a Historical Background, Cam- bridge University Press, Cam- bridge 1976, p. 485. 29. b. dahm, Sukarno and the Struggle for Indonesian Independence, Cornell Uni- versity Press, Ithaca 1969; p. labrousse, The Second Life of Bung Karno. Analysis of the Myth (1978-1981), in «Indone- sia», n. 57, 1993, pp. 175-96. 30. Sukarno, in un discorso del 1963, traduce l’olandese aureool con il termine gia- vanese teja che definisce la luce che s’irradia dal volto di un leader carismatico (Sukar- no considera Adolf Hitler un caso esemplare). b. r. o’g. an- derson, Further Adventures of Charisma, in anderson, Language and Power, cit., pp. 78-93. Si vedano anche an- derson, The Idea of Power, cit., f. montessoro, La for- mazione ideologica di Sukar- no, in «Rivista di storia con- temporanea», n. 4, 1986, pp. 556-83 e a. mcintyre, Marx versus Carlyle: Sukarno’s View of Hitler’s Role in History, in «Review of Indonesian and Malay Affairs», XXXXIII, n. 2, 2009, pp. 131-63.
  • 10. 35 il potere del sangue. 31. Uno dei suoi ultimi di- scorsi è stato Tahun «vivere pericoloso» (L’anno del vivere pericoloso), in sukarno, Di- bawah bendera revolusi (Sotto il vessillo della rivoluzione), Panitya Penerbit Dibawah Bendera Revolusi, Giacarta 1963, II, pp. 557-98. Sukarno poteva citare nella lingua ori- ginale Dante Alighieri e al’Af- ghani, Rousseau e Garibaldi, poi Washington, Kautsky, Re- nan, Troelstra, Kemal Ataturk o inventare neologismi come «aggiornamento», reso con l’anglo-indonesiano «ke-up to date-an». 32. j. m. van der kroef, Java- nese Messianic Expectations: Their Origin and Cultural Context, in «Comparative Stu- dies in Society and History», I, n. 4, 1959, pp. 299-323. 33. labrousse, The Second Life of Bung Karno, cit., pp. 178-81. 34. Aung San, assassinato nel luglio del 1947, non vedrà rea- lizzato il suo progetto politico. Cfr. maung maung, Burmese Nationalist Movements, 1940- 48, University of Hawaii Press, Honolulu 1989; utili i testi raccolti da j. silverstein (a cura di), The Political Legacy of Aung San, Cornell Univer- sity Southeast Asian Program, Ithaca, 1993; a. naw, Aung San and the Struggle for Bur- mese Independence, Nias, Co- penhagen 2001. 35. m. nash, The Golden Road to Modernity: Village Life in Contemporary Burma, Wiley, New York 1965, p. 272. di un potere che si manifesta eminentemente come forza centripeta, tesa all’unità, e destinata a convergere nella sua persona. Nello stesso modo si deve intendere l’apparente eccentricità di Sukarno, oratore straordinario e inventivo che sfoggia nei suoi scritti e discorsi cita- zioni e parole nelle più diverse lingue straniere; il primo presidente della Repubblica indonesiana richiama con grande frequenza, spesso davanti a folle ignare, autori e termini olandesi, inglesi, tedeschi, russi, francesi, arabi, spagnoli, italiani31 . Parole e riferimenti che non servono ad argomentare e a difendere una tesi, ma piuttosto ad accrescere con la loro intrinseca forza il carisma del leader. Sukarno, peraltro, è precocemente circondato da un mito che attribuisce alla sua nascita un’aura magico-religiosa con la manifestazione di segni soprannaturali (il passaggio di una cometa, l’eruzione del Monte Kelut) che accrediterebbero le sue origini regali. Già negli anni ’30 l’attività politica del futuro presidente indonesiano, anche se inquadrabile in un moderno discorso nazionalista, assume un tono profetico che si mescola alla credenza del pros- simo arrivo del Ratu Adil, il millenaristico «principe giusto» della tradizione giavanese32 . A Sukarno, inoltre, saranno sempre più frequentemente attribuite le qualità taumaturgiche di un dukun, un guaritore dotato di poteri magici. Da piccolo il nonno gli fa leccare le ferite dei malati, per sanarle; il giovane Sukarno sa indovinare il patronimico di bambini che gli sono presentati per la prima volta; a Bali si riteneva che potesse far cadere la pioggia; possedeva un bastone magico, kris, frammenti di ferro meteorico, oggetti dotati di forza soprannaturale33 . Nell’ambito della cultura birmana, il carisma si rivela in termini sostan- zialmente non difformi dalla tradizione giavanese. Aung San, il maggior esponente politico e militare del nazionalismo birmano al tempo della relativamente breve stagione politica che porta alla proclamazione dell’in- dipendenza, è considerato il padre della patria e chi più ne ha rappresen- tata l’anima popolare. Pur essendo stato addestrato in Giappone nei primi anni ’40, dopo il 1944 il padre di Suu Kyi (originariamente influenzato dal marxismo e dal socialismo fabiano) guarderà agli Alleati e al sistema rappresentativo britannico favorendo la nascita degli istituti democratici della Birmania indipendente e lasciando un’impronta duratura sulla fase successiva alla Seconda guerra mondiale34 . La leadership di Aung San, indiscussa negli anni ’30 e ’40, si caratterizza per una particolare forza di attrazione esercitata mediante la capacità di coin- volgere, persuadere e guidare i suoi seguaci; nel lessico religioso (buddhista e birmano) questa capacità si definisce àwza, «influenza», un termine che è posto in relazione con il concetto di hpòn (energia, forza) concorrendo a definire un modello di azione politica fondato sulla partecipazione; la parola birmana che più si avvicina a un’idea occidentale di potere, ana o «autori- tà», implica invece l’uso della coercizione e rinvia a metodi di comando che richiamano la forza militare. Il termine ana non è mai impiegato, come l’àwza, in relazione a un potere politico benigno e tollerante o alla gerarchia monacale buddhista. In questo senso, il leader che detiene hpòn, e dunque àwza,non ha bisogno di imporsi con la forza «poiché il suo potere si irradia e la gente gli offre lealtà, servizi e fiducia»35 . In una prospettiva buddhista, il leader carismatico – si noti: dal carattere unicamente maschile – si contraddi- stingue per un karma positivo che gli conferisce successo in virtù dei meriti
  • 11. rivista di politica 3 36 36. h. kawanami, Charisma, Power(s), and the Arahant Ideal in Burmese-Myan- mar Buddhism, in «Asian Ethnology», LXVIII, n. 2, 2009, p. 222-24. Sul carat- tere maschile del carisma si veda m. e. spiro, Kingship and Marriage in Burma: A Cultural and Psychodynamic Analysis, University of Cali- fornia Press, Berkeley 1977, pp. 270-71; si veda anche j. mills, Militarism, Civil War and Women’s Status: A Burma Case Study, in l. edwards, m. roces (a cura di), Women in Asia. Tradition, Modernity and Globalisation, University of Michigan Press, Ann Arbor 2000, pp. 265-90. 37. g. houtman, Mental Cul- ture in Burmese Crisis Politics. Aung San Suu Kyi and the National League for Demo- cracy, Institute for the Study of Languages and Cultures of Asia and Africa, Tokyo Univer- sity of Foreign Studies, Tokyo 1999, pp. 157-76 e 243-63. Si veda anche g. houtman, Spiritual and Familial Con- tinuities in Burma’s “Secular” Politics, in «Buddhist Appro- aches to Global Crisis», UN Vesak Day, Bangkok, 4-6 May 2009. 38. g. houtman, Sacralizing or Demonizing Democracy? Aung San Suu Kyi’s “Persona- lity Cult”, in m. skidmore (a cura di), Burma at the Turn of the 21st Century, University of Hawaii Press, Honolulu 2005, pp. 133-53 e, dello stesso auto- re, il già citato Mental Culture in Burmese Crisis Politics. 39. j. p. ferguson, e. m. mendelson, Masters of the Buddhist Occult: The Burmese Weikzas, in «Contributions to Asian Studies», n. 16, pp. 62- 88; e. sarkisyanz, Buddhist Backgrounds of the Burmese Revolution, Nijhoff, The Ha- gue 1965; s. j. tambiah, The Buddhist Saints of the Forest and the Cult of Amulets. A Stu- acquisiti nelle vite precedenti e per questo esercita un’attrazione centripeta nei confronti dei suoi seguaci36 . Come nel caso di Sukarno, Aung San – e con lui U Nu e il generale Ne Win, autore del colpo di stato del 1962 – rivela accanto all’adesione ai principi occidentali moderni un più sostanziale riferimento alla cultura tradizionale. Di fatto, le idee di resistenza al colonialismo britannico e di lotta per l’indi- pendenza nazionale (ma anche la traduzione di basilari concetti marxisti) si esprimono nella Birmania della prima metà del XX secolo esclusivamente in termini buddhisti: per Aung San la politica rinvia a parole che richiamano la scienza ma anche l’insegnamento inteso come «insegnamento del Buddha»37 . Anche se è comprensibile nell’ambito dei principi e della prassi politica democratica occidentale, il carisma di Aung San si colloca più propriamente nell’alveo della tradizione religiosa birmana, cui ci si appella in tempi di crisi ricorrendo a pratiche di purificazione e tecniche di controllo della mente. Tecniche che comprendono la meditazione e la contemplazione interiore, oltre a forme di cono- scenza magico-religiosa che assumono tratti meno elevati, come la numerologia e l’esoterismo38 . Lo stesso Aung San, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, è associato a Bo Bo Aung, un weikza, un «saggio» dotato di poteri magici che all’inizio del XIX secolo aveva incarnato tendenze millenariste39 . Questo weikza avrebbe guidato la lotta per estromettere gli inglesi dalla Birmania e favorire l’ascesa di un minlaung, il «re che sta per arrivare», sulla base delle concezioni cosmologi- che del buddhismo theravada che concernono il carattere ciclico di ere e dinastie40 . Al tempo del dominio britannico i moti anticoloniali assumono un carattere millenaristico, come nel caso di Saya San che nel 1930-32 guida una ribellione presto stroncata41 . Nell’ottobre 1939 i partiti nazionalisti birmani, e tra questi la Dobama asiayon di Aung San, si allea- no e formano quello che in inglese è comunemente definito Freedom bloc. In birmano, però, il nome originale Htwet yat gaing rinvia alla salvezza e al passaggio a uno stato superiore: quello di un weik- za che ha raggiunto la perfezione trascendendo il ciclo delle rinascite. Gaing, in termini più specifici, denomina una fazione monastica di tipo millenaristico e un «centro» in cui il futuro leader si manifesterà per restaurare il regno e fondare una nuova dinastia42 . La costituzione del Freedom bloc è seguita dalla diffusione di voci sul «ritorno» di Bo Bo Aung e sulla prossima venuta di un minlaung che molti, negli strati popolari e nell’azione propagandistica dei nazionalisti, asso- ceranno a Aung San, il vero capo politico e militare che guida l’eroico gruppo dy in Charisma, Hagiography, Sectarianism, and Millenial Buddhism, Cambridge Uni- versity Press, Cambridge 1987. 40. m. aung-thwin, Divini- ty, Spirit, and Human: Con- ceptions of Classical Burmese Kingship, in l. gesick (a cura di), Centers, Symbols, and Hierarchies: Essays on the Classical States of Southeast Asia, Yale University Southeast Asia Studies, New Haven 1983, pp. 45-86. 41. r. l. solomon, Saya San and the Burmese Rebellion, in «Modern Asian Studies», III, n. 3, 1969, pp. 209-23 e p. herbert, The Saya San Rebel- lion (1930-1932) Reappraised, Monash University Centre of Southeast Asia Studies, Mel- bourne 1982. Si veda anche e. sarkisyanz, Messianic Folk-Buddhism as Ideology of Peasant Revolts in Nineteenth and Early Twentieth Century Burma, in «Review of Reli- gious Research», n. 10, 1968, pp. 32-38. 42. e. m. mendelson, A Mes- sianic Buddhist Association in Upper Burma, in «Bulletin of the School of Oriental and African Studies», XXIV, n. 3, 1961, pp. 560-80 e, dello stesso autore, Sangha and the State in Burma. The Study in Monastic Sectarianism and Leadership, Cornell Universi- ty Press, Ithaca 1975. Si veda anche il notevole contributo di s. prager, Coming of the “Future King”: Burmese Min- laung Expectations Before and During the Second World War, in «The Journal of Burma Stu- dies», n. 8, pp. 1-32.
  • 12. 37 il potere del sangue. 43. Nella tradizione dinastica birmana, peraltro, era assai diffusa la presenza di «com- pagni» associati all’ascesa di un nuovo sovrano. Cfr. in pro- posito prager, Coming of the “Future King”, cit., p. 17. 44. houtman, Spiritual and Familial Continuities in Bur- ma’s “Secular” Politics, cit.; si veda anche il testo di Aung San sulla leadership incluso da Joseph Silverstein in r. m. smi- th (a cura di), Southeast Asia. Documents of Political Deve- lopment and Change, Cornell University Press, Ithaca 1974, pp. 93-94. 45. In Myanmar e in Indone- sia non si usa il cognome ma solo il nome personale. Cfr. g. houtman, Burmese Personal Names: A Critical Survey of Choice, Types and Some Fun- ctions of Names, Department of Religious Affairs, Rangoon 1982; a. kohar rony, Indo- nesian Names: A Guide to Bi- bliographic Listing, in «Indo- nesia», n. 10, 1970, pp. 27-36. 46. a. fleschenberg, Min Laung or Fighting Peacock? Aung San Suu Kyi’s Political Leadership Via Moral Capital, in derichs, thompson (a cura di), Dynasties and Female Po- litical Leaders in Asia, cit., pp. 210-11. Nel suo primo discorso in pubblico, il 26 agosto 1988, Suu Kyi affermerà esservi una profonda frattura «tra la vec- chia e la giovane generazione», una divisione che era necessa- rio superare. Cfr. Speech to a Mass Rally at the Shwedagon Pagoda, in aung san suu kyi, Freedom from Fear and Other Writings, a cura di m. aris, Penguin Books, London 1995 (seconda edizione), p. 196. 47. Speech to a Mass Rally at the Shwedagon Pagoda, cit., p. 193. dei cosiddetti «Trenta compagni»43 . All’inizio degli anni ’40 il mito di Aung San è ormai stabilito e il giovane leader – all’epoca non è ancora trentenne – è indicato come il re guerriero destinato a riunificare il paese. Nel 1946, alla vigilia dell’indipendenza, il nazionalista birmano ammetterà di godere di una notevole popolarità, ma di non essere né un dio né un mago: testimonianza dell’esistenza del culto della sua personalità e conferma del suo carisma44 . Se i caratteri che l’idea di potere assume in Aung San e Sukarno differiscono nei loro termini culturali (opera nel primo caso l’ascendenza buddhista e, nel secondo, il retaggio giavanese) si tratta comunque di una concezione della leadership dai forti tratti carismatici. Questo carisma come si trasferisce, o si riflette, nelle rispettive figlie? Suu Kyi e Megawati riescono ad attingere alla forza dei padri ed entrambe adotteranno significativamente il nome del proprio genitore, diventando Aung San Suu Kyi e Megawati Sukarnoputri, appunto «figlia di Sukarno»45 . «Figlia di mio padre». Il caso di Aung San Suu Kyi Suu Kyi, come altre leader in Asia, è stata prescelta e sostenuta nella sua ascesa politica innanzi tutto perché «figlia di suo padre». Nella primavera del 1988 Suu Kyi torna a Rangoon per assistere la madre morente ed è coinvolta nelle vicende politiche del suo paese d’origine. Negli ambienti democratici, nel corso dei giorni convulsi di luglio e agosto quando monta la protesta contro il regime militare di Ne Win, si afferma il proposito di offrire a Suu Kyi la leadership dell’opposizione proprio poiché è figlia dell’eroe e del martire dell’indipen- denza. Sarà però ritenuta idonea alla leadership della Lega nazionale per la democrazia – il nuovo partito di opposizione nato il 27 settembre 1988 – anche per altre ragioni. In termini politici, il magmatico movimento che si forma a Rangoon e nelle principali città birmane nel corso del 1988 è guidato all’inizio da un gruppo eterogeneo, formato da fazioni diverse per origine personale e generazionale. Accanto agli anziani esponenti emarginati dal potere dopo il colpo di stato del 1962, e tra questi spicca la figura di U Nu, vi sono alcuni ex militari in rotta con il regime (Tin Oo, ministro della Difesa nel 1974-76, l’ex vice primo ministro Maung Lwin) e una nuova e inesperta generazione di leader studenteschi e di intellettuali. La quarantenne Suu Kyi sembra assi- curare un ricambio generazionale se non propriamente una guida46 . Peraltro, avendo vissuto per molti anni all’estero ed essendo cittadina britannica (ha sposato nel 1972 Michael Aris, uno studioso di cultura tibetana), la figlia di Aung San è ritenuta sufficientemente debole da poter garantire le fazioni in cui è diviso il movimento popolare. L’ingresso sulla scena politica di Suu Kyi avviene in un luogo simbolico: il 26 agosto 1988, davanti alla pagoda Shwedagon a Rangoon, la figlia di Aung San arringa la folla presentandosi come l’erede spirituale di suo padre. Questi, un anno prima dell’indipendenza, aveva pronunciato nello stesso posto uno dei suoi più importanti discorsi. Nella sua prima apparizione in pubblico, Suu Kyi richiamerà più volte la figura, il messaggio, le parole paterne. «Come figlia di mio padre – afferma in un passaggio cruciale – non posso restare indifferente»47 . Dalle prime azioni, Suu Kyi rivela di essere dotata di notevole capacità politica e di una leadership naturale che le permetteranno di guidare la
  • 13. rivista di politica 3 38 48. Freedom from Fear, in aung san suu kyi, Freedom from Fear, cit., pp. 180-85; si veda anche il già citato houtman, Mental Culture in Burmese Crisis Politics, pp. 295-304. 49. houtman, Sacralizing or Demonizing Democracy? Aung San Suu Kyi’s “Personality Cult”, cit. 50. houtman, Spiritual and Familial Continuities in Bur- ma’s “Secular” Politics, cit., pp. 8-11. 51. In Quest of Democracy, in aung san suu kyi, Freedom from Fear, cit., p. 169. 52. In Quest of Democracy, cit., p. 170. Cfr. anche s. col- lins, Nirvana and Other Bud- dhist Felicities: Utopias of the Pali Imaginaire, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp. 460 e sgg.; p. sch- midt-leukel, Buddhism and the Idea of Human Rights: Re- sonances and Dissonances, in «Buddhist-Christian Studies», XXVI, 2006, p. 37. Lega nazionale per la democrazia nei mesi e negli anni successivi, segna- ti dalla straordinaria vittoria elettorale del 1990 e dalla seguente lunga fase repressiva. Tuttavia, così come i meriti della figlia di Aung San non sono stati all’origine del suo ingresso nella vita politica birmana, così non ne hanno determinato semplicemente la capacità di resistere per più di vent’anni alla detenzione e agli arresti domiciliari. Per due decenni Suu Kyi vive in condizioni d’isolamento personale e di solitudine politica, mentre le autorità del nuovamente consolidato regime militare colpiscono i fragili apparati e i vulnerabili attivisti della Lega nazionale per la democrazia e delle altre formazioni di opposizione. La figlia di Aung San, tuttavia, a di- spetto dell’impotenza cui è costretta riuscirà a conservare e a sviluppare il suo ascendente su larga parte della popolazione. Un ascendente che – come nel caso del padre e, in altri contesti, di Mandela e Vàclav Havel – si nutre della condizione del martire. La resistenza di Suu Kyi si esprime innanzi tutto in un profondo legame con i principi della tradizione liberale e democratica occidentale. In un saggio del 1989 la leader della Lega nazionale per la democrazia rivendica il governo rappresentativo, le libere elezioni, il rispetto dei diritti umani. Si tratta però di considerazioni da intendersi in una prospettiva più precisamente religio- sa: in Birmania la democrazia e l’idea di libertà si legano alla ricerca della liberazione, in termini buddhisti, dalle costrizioni di questo mondo. Suu Kyi parlerà di «libertà dalla paura», un’idea cui associa Aung San e Gandhi, e di ciò che definisce la «rivoluzione dello spirito»48 . In questo ambito gli aspetti politici risultano essere secondari rispetto alla pratica di forme di meditazione che permettono di coltivare compassione, amore, gentilezza; si tratta di quella «contemplazione interiore», vipassana, che Suu Kyi coltiva nei lunghi periodi agli arresti a cui è costretta dal regime, seguendo gli insegnamenti del monaco U Pandita, maestro della tradizione mahasi49 . Negli anni ’90 le scelte politiche della leader della Lega nazionale per la democrazia si contraddistingueran- no sempre di più per la rinuncia all’uso della violenza e per l’atteggiamento benevolente – metta nel lessico del buddhismo birmano – anche nei confronti di chi esercita con brutalità il potere50 . Queste forme di meditazione sono elementi fondamentali della leadership e della riflessione sulla politica e sulle questioni del governo. «Quando una so- cietà cadeva dal suo stato originale di purezza nel caos morale e sociale – scrive Suu Kyi – un re era eletto per restaurare la pace e la giustizia». Si tratta di un sovrano buddhista, conosciuto con i titoli di «mahasammata, poiché governa con il consenso unanime del popolo; khattiya, poiché è il signore della terra coltivata; e raja, poiché conquista l’affetto del popolo mediante l’osservanza del dhamma»51 . Per Suu Kyi questo è un «contratto sociale» valido anche per il presente. Nell’ambito della tradizione culturale birmana, e nei testi buddhisti, le virtù di un sovrano sono considerate con attenzione; per la figlia di Aung San hanno rilievo in particolare le dieci virtù che canonicamente contraddistinguono un rajadhamma, il re che si affida al dhamma, la legge buddhista. Queste virtù sono codificate e corrispondono a generosità, moralità, spirito di sacrificio, integrità, mitezza, disciplina spirituale, pacatezza, non violenza, sopporta- zione, assenza di atteggiamenti offensivi52 . L’esercizio del potere da parte di un leader, come ricorda Suu Kyi, deve essere in accordo con il dhamma se questi vuole conquistare l’affezione del popolo.
  • 14. 39 il potere del sangue. 53. fleschenberg, Min Laung or Fighting Peacock? Aung San Suu Kyi’s Political Leadership, cit., p. 217. 54. aung san suu kyi, The Voice of Hope: Conversations with Alan Clements, with Con- tributions by U Kyi Maung and U Tin U, Penguin Books, London 1997, pp. 212-13. 55. houtman, Sacralizing or Demonizing Democracy? Aung San Suu Kyi’s “Personality Cult”, cit. 56. labrousse, The Second Life of Bung Karno, cit., p. 183. Il vuoto lasciato dall’assassinio di Aung San nel 1947 non è veramente colmato né da un leader democratico che pur ebbe grande popolarità, U Nu, né dal temuto generale Ne Win: uomini esperti che in altri paesi probabilmente sarebbero stati ritenuti non privi di carisma. In Birmania, tuttavia, non sono mai stati veramente associati al padre della patria poiché quello di Aung San è il carisma di un minlaung, un «re che sta per arrivare», destinato a sconfiggere i nemici e salvare il paese: un rajadhamma, dunque. Anche se in Suu Kyi non si trova propriamente questo tipo di carisma, in lei – che coltiva la virtù – si riflette la forza del padre. Dopo il 1988 la leader birmana concentrerà nella sua persona la «potenza» di Aung San non soltanto adeguando i propri comportamenti ai precetti buddhisti, come l’elemosina e il sostegno alla comunità monastica, ma an- che con la pratica della meditazione, con l’isolamento e la lontananza dalla famiglia, con il sacrificio della libertà personale per coerenza con le proprie posizioni53 . Suu Kyi è figlia di un martire e martire essa stessa. Il regime militare le ha imposto condizioni restrittive durissime per oltre due decenni senza poterla espellere dal paese né eliminarla definitivamente dalla scena politica, e questa sorta d’intoccabilità è testimonianza di carisma. Come il padre, sentirà il bisogno di mettere in guardia dall’essere ritenuta dotata di poteri straordinari. «Ve lo dico con franchezza, non sono un mago – affermerà nel corso di una conversazione –. Non possiedo nessun potere speciale che mi permetterà di darvi la democrazia»54 . Suu Kyi sarà tuttavia considerata un nat, uno spirito, e un bodhisattva. Come riferisce Gustaaf Houtman, nel 1990, quando si tennero le elezioni che sa- rebbero state inutilmente vinte dalla Lega nazionale per la democrazia, in molte località del paese si era sparsa la voce del rigonfiamento della mam- mella sinistra di varie statue e immagini del Buddha, come segno portentoso dell’imminente salita al potere di Aung San Suu Kyi. Così non è stato, ma il carisma della figlia di Aung San si è da allora accresciuto55 . Megawati, figlia di Sukarno A differenza di Suu Kyi, rimasta orfana precocemente e cresciuta senza aver conosciuto il padre, Megawati ha ventitré anni quando, nel 1970, muore Sukar- no. I figli del primo presidente della Repubblica indonesiana non hanno avuto una vita facile: il primogenito Guntur nasce nel 1944, seguito da Megawati nel 1947, al tempo della guerra scatenata dall’Olanda per riconquistare l’ex colonia. Vi saranno poi altre due sorelle, Rachmawati e Sukmawati, prima che nel 1954 nasca Guruh, l’ultimo figlio della seconda moglie, Fatmawati (che abbandonerà proprio in questo periodo la residenza presidenziale dove si è installata una terza sposa, Hartini, cui ne seguiranno altre tre, e altri quattro figli)56 . Megawati e i fratelli minori saranno lasciati al padre che avrà, nella misura in cui gli sarà concesso dalla cura degli affari di stato, una notevole influenza sulla loro formazione culturale. Quando nel 1966 si costituisce formalmente il regime dell’Ordine nuovo, Sukarno è estromesso dal vertice dello stato e sottoposto ad arresti domiciliari fino alla sua morte, il 21 giugno 1970. La caduta del presidente indonesiano ha conseguenze di rilievo per tutti i membri della famiglia. Megawati non ter- minerà gli studi universitari e nel 1970, poco dopo la morte del padre, perderà
  • 15. rivista di politica 3 40 57. Nel 1973 il regime rior- ganizza il sistema politico autorizzando tre soli raggrup- pamenti: accanto al filogover- nativo GOLKAR, le formazioni islamiche sono riunite in una nuova compagine mentre i partiti nazionalisti e cristia- ni sono obbligati a unirsi nel Partai demokrasi Indonesia (PDI). Si tratta di organizza- zioni eterogenee, senza iden- tità, deboli e manipolabili dall’élite militare al potere. Cfr. r. w. liddle, Regime: The New Order, in d. k. emmerson (a cura di), Indonesia Beyond Suharto. Polity, Economy, Society, Transition, Sharpe, Armonk 1999, pp. 39-69; mcintyre, Megawati Sukar- noputri, cit., pp. 106 e sgg. 58. k. brooks, The Rustle of Ghosts: Bung Karno in the New Order, in «Indonesia», n. 60, 1995, pp. 61-99. in un sospetto incidente aereo il primo marito, Surindro Supjarso, ufficiale dell’aviazione militare. Per oltre quindici anni la figlia di Sukarno conduce una vita ritirata e priva di una vera dimensione pubblica fino a quando, nel 1987, accetta la candidatura del Partito democratico57 . In realtà, Megawati salirà alla ribalta della politica indonesiana in sordina, da un lato per l’ostilità delle sorelle al suo impegno, dall’altro perché è una «seconda scelta»: il leader del PDI, Suryadi, cerca in primo luogo di coinvolgere il primogenito di Sukarno, Guntur. La leadership del Partito democratico, in sostanza, intende sfruttare il nome del primo presidente indonesiano per consolidarsi sul piano elettorale (con circa l’otto per cento dei suffragi, il PDI è una formazione marginale). Nelle elezioni del 1987, tuttavia, il Partito democratico avanza fino all’undici per cento e, cinque anni più tardi, cresce ancora; si tratta di risultati positivi e inaspettati, attribuibili in una certa misura alla stessa Megawati. La figlia di Sukarno, pur essendo una casalinga trentanovenne priva di espe- rienza politica, riesce ad acquisire un notevole successo personale richiamando nella campagna elettorale i temi sociali e l’appello alla gente comune che più di vent’anni prima erano stati al centro degli appassionati discorsi del padre. Le immagini dell’ex leader, in particolare, suscitano forti emozioni e accendono l’entusiasmo di coloro che ascoltano la figlia del carismatico ex presidente. L’impegno politico di Megawati si dispiega, in realtà, nell’ambito di circostanze nuove in cui si segnala soprattutto la cautela del regime. Il ge- nerale Suharto, privo del carisma del suo predecessore ma ben più potente, si muove con accortezza nei confronti di Sukarno, sia quando questi esce di scena sia nel caso delle esequie e della conservazione della memoria dell’ex leader. Dopo circa un decennio di silenzio – Sukarno era pur sempre sospet- tato di essere colluso con i comunisti, accusati di aver organizzato un colpo di stato nel 1965 e per questo annientati – nel 1978 il regime sembra disposto a una riabilitazione del primo presidente. Ciò comporta l’attribuzione del suo nome all’aeroporto di Giacarta e una tumulazione monumentale dei suoi resti, oltre a rendere ufficiale la dottrina dei Pancasila – i «Cinque principi» associati alla nascita della Repubblica indonesiana e allo stesso Sukarno – con l’obbligo per tutti i partiti, nel 1985, di sottoscriverla. Si tratta di una scelta che contribuisce sorprendentemente alla rinascita del mito dell’ex presidente, sia in termini di attenzione mediatica e editoriale, sia per una crescente e inattesa devozione popolare58 . Negli anni ’80, dunque, cercando di appropriarsi della figura di Sukarno a beneficio del regime, Suharto celebra il fondatore della Repubblica indone- siana. L’ingresso di Megawati sulla scena politica avviene in questo periodo, senza che gli ambienti ufficiali mostrino nei suoi confronti eccessiva preoc- cupazione o ostilità. Tuttavia, il consolidarsi nel 1992 del successo elettorale del PDI e l’aprirsi nel 1993 di uno scontro per la successione al vertice del partito – con la regia dei servizi di sicurezza che ormai mirano a escludere la figlia di Sukarno da una posizione preminente – comporteranno la divisione di questa formazione politica. Megawati diventerà dunque presidente di una nuova forza, il Partito democratico di lotta, Partai demokrasi Indonesia perjuangan, schierata in termini sempre più netti all’opposizione di Suharto. Nella seconda metà degli anni ’90 la figlia di Sukarno sarà così in prima fila nel propiziare la caduta del regime e animare, dopo il 1998, una fase di tran- sizione alla democrazia che la vedrà protagonista fino ad ascendere nel 2001 alla presidenza. La carriera politica di Megawati si rispecchia nei risultati
  • 16. 41 il potere del sangue. 59. Nel 2001 Megawati su- bentra nell’incarico a causa delle dimissioni dell’allora presidente Abdurrahman Wahid. La leader del Partito democratico di lotta sconta l’ostilità dei musulmani non solo perché donna, ma per appartenere alla comunità giavanese abangan. L’islam indonesiano è disomogeneo: a Giava coloro che sono ligi al dettato coranico, i santri, si distinguono dai musulmani nominali, gli abangan. Questi ultimi, legati a credenze sin- cretiche, hanno spesso soste- nuto le formazioni politiche di orientamento nazionalista e comunista. I musulmani più rigorosi, peraltro, si divido- no tra correnti moderniste e tradizionaliste, con approcci dottrinari e politici diversi. Cfr. c. geertz, The Religion of Java, The Free Press, New York 1960; r. r. jay, Religion and Politics in Rural Central Java, Yale University Southe- ast Asian Studies Cultural Re- port, New Haven 1963. elettorali del suo partito che passerà dal successo del 1999, quando sull’onda della riconquistata democrazia ottiene il 33,7 per cento dei voti, a risultati meno positivi nel 2004 (18,5) e nel 2009 (14) fino alla ripresa del 2014 quan- do, con il 19 per cento, torna a essere la formazione di maggioranza relativa. Anche se la figlia di Sukarno, a causa dei veti imposti dalle formazioni di orien- tamento islamico, non è mai stata eletta presidente59 , la sua presenza nella vita politica indonesiana non pare effimera, dimostrando di aver acquisito in termini sostanziali la constituency del vecchio Partito nazionalista: Megawati è a pieno titolo erede della leadership e del messaggio di emancipazione sociale e nazionale di Sukarno. Se le alterne fortune elettorali del Partai demokrasi Indonesia perjuangan possono essere determinate dalla qualità delle specifi- che scelte politiche compiute nel corso di quindici anni, e in particolare dalla delusione delle aspettative di emancipazione sociale ed economica seguite alla caduta di Suharto, non sussistono dubbi sulla capacità di Megawati di mantenere il saldo controllo degli apparati del partito, soprattutto nelle regioni di Giava e di Bali che rappresentano la base del suo consenso. La figlia di Sukarno, tuttavia, non sembra dotata delle virtù carismatiche del padre. Innanzi tutto, ha conservato un’attitudine personale schiva – è nota per le sue modeste capacità oratorie e per i suoi pervicaci silenzi che contrastano palesemente con lo stile fiammeggiante del primo presidente della Repubblica indonesiana – e, in secondo luogo, ha scelto di richiamarsi semplicemente al nome, all’immagine, alle parole del padre: un patrimonio di energia e di potenza che Megawati «riflette» soltanto. Conclusione In Asia meridionale e sudorientale nella seconda metà del XX secolo circa quindici donne sono ascese al vertice dello stato, occupando rilevanti posizioni di potere in paesi non omogenei per ciò che concerne il modello di sviluppo economico e sociale, non comparabili sul piano istituzionale, caratterizzati da culture, lingue, religioni diverse. Non si tratta di casi di emancipazione femminile, poiché in realtà in queste aree le donne hanno ruoli marginali; leadership femminili sembrano affermarsi, infatti, in paesi caratterizzati da una tendenziale ostilità per l’autonomia delle donne, in ambiti dove sono prevalenti culture patriarcali e misogine che generano forti diseguaglianze di genere. Queste leadership femminili, piuttosto, sembrano connesse all’im- portanza assunta da vincoli familiari che attribuiscono un carattere dinastico all’attività politica e alla gestione del potere: le donne assurte a posizioni di rilievo sono senza eccezione figlie, mogli o vedove di uomini che hanno lasciato una forte impronta sulla vita pubblica del proprio paese. Spesso queste donne entrano in politica perché hanno perduto, talvolta in modi cruenti, un fami- liare potente. L’affermazione di leader di genere femminile è però connessa anche a fattori specifici di ordine sociale e culturale, oltre a partiti politici dai forti caratteri clientelari che difendono l’egemonia di famiglie o di clan importanti. Per queste donne, dunque, le scelte politiche non corrispondono necessariamente al soddisfacimento di aspirazioni personali o ideali, ma sono frutto della cooptazione familiare o del gruppo dirigente di un partito. Il fattore decisivo che permette la nomina di una donna a capo di una forza politica, però, è l’improvvisa scomparsa di un capo carismatico che impone
  • 17. rivista di politica 3 42 di colmare un pericoloso vuoto di potere. In questi casi è preferibile affi- darsi alla leadership di una donna – legata a un capo carismatico da vincoli familiari – poiché essa, meglio di un maschio, può rafforzare lo spirito di lealtà e la fiducia della constituency originaria del partito verso chi eredita la missione del padre o del marito, il vero leader di cui esse riflettono il carisma. Questi leader, com’è evidente nel caso di Sukarno e di Aung San, sono «carismatici». Suu Kyi e Megawati si inseriscono dunque nella vita politica dei propri paesi in virtù della forza dei padri, interpretando però in termini differenti il proprio ruolo: la prima alimentandosi alla fonte del carisma paterno ma cogliendo in modo profondo e vitale gli aspetti salienti della tradizione culturale buddhista, la seconda riflettendo in termini meno alti l’inesauribile energia di Sukarno.