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Le dinamiche criminali
a Reggio Emilia
Enzo Ciconte
1
11 gennaio 2008
Le dinamiche criminali
a Reggio Emilia
Enzo Ciconte
2
Introduzione
Nell’ultimo decennio la Regione Emilia-Romagna,
in accordo con alcuni comuni tra i quali quello di Reggio
Emilia, ha dedicato una particolare attenzione allo studio e
alla ricerca sulla presenza della criminalità organizzata
nelle città e nei comuni emiliano-romagnoli. Dieci anni
sono un periodo ampio e sufficientemente lungo per
delineare il quadro della eventuale esistenza, presenza ed
attività sul territorio regionale di formazioni criminali e
mafiose italiane alle quali si sono aggiunte, negli ultimi
tempi, agglomerati criminali d’origine straniera. Una scelta
così prolungata nel tempo mostra come essa rientri
nell’alveo di un programma della Regione e dei comuni
interessati finalizzato alla conoscenza della realtà del
proprio territorio.
Un impegno di così vasta portata va segnalato per la
sua importanza strategica soprattutto perché tocca un tema
sensibile come quello della criminalità e della sicurezza
che normalmente si fa di tutto per nascondere o per non
evidenziare più di tanto. Nelle aree cosiddette non
tradizionali, come quelle del centro e del nord Italia, di
solito si tende a sottovalutare il problema, a sottostimarlo, a
dire che in fondo l’esistenza della criminalità organizzata è
un problema solo del sud. Simili opinioni non sono nuove,
anzi hanno durata pluridecennale e anche quando sono
espresse con le migliori intenzioni – la salvaguardia della
reputazione e dell’immagine della propria città o regione –
in realtà finiscono con l’impedire la piena comprensione di
quanto stia succedendo nella realtà perché, così facendo,
non si va a guardare quanto accade sotto la superficie delle
cose e ci si accontenta solo delle apparenze. Trovare
3
amministrazioni pubbliche in controtendenza con questo
andazzo è raro e quando succede va sottolineato come un
evento positivo perché conoscere il proprio territorio
rappresenta la condizione essenziale per salvaguardarlo
dalle infiltrazioni di presenze pericolose come quelle della
criminalità organizzata. Siffatto percorso di conoscenza è
ancora più apprezzabile perché consente l’adozione di
politiche di prevenzione mirate a costruire consapevolezza
diffusa tra i cittadini e barriere adeguate per tentare di
fermare ulteriori casi di infiltrazione o di inserimento.
Conoscere il proprio territorio e i soggetti criminali che lo
abitano è dunque essenziale per chi amministra e voglia
farsi carico dei problemi della sicurezza e della criminalità
che tanto interessano i cittadini.
L’attuale ricerca si muove in continuità con quelle
precedenti, ne costituisce il proseguimento naturale, un
ulteriore aggiornamento delle conoscenze. Il punto di
partenza del presente lavoro – che occuperà, seppure
parzialmente, un pezzo della prima parte – sarà quello di
esporre una sintesi, una riscrittura e una rielaborazione
delle precedenti ricerche, e ciò allo scopo di fornire un
quadro del punto di partenza, dello stato iniziale dell’intero
lavoro di questi anni. In via preliminare, e tentando una
prima sintesi dell’intera ricerca è necessario dire che ci
sono molti elementi di continuità che indicano l’esistenza
di una attività oramai strutturata della criminalità
organizzata nella città, ma ci sono anche alcuni altri
elementi che segnano delle novità.
Il dato più significativo è la conferma che a Reggio il
mondo della criminalità è dominato dalla ‘ndrangheta
seppure con caratteristiche diverse rispetto al passato
perché la crescente guerra che è intercorsa a cavallo del
passaggio del millennio e che è proseguita fino a qualche
anno fa e le conseguenti attività di indagine e di contrasto
4
della magistratura reggiana e calabrese hanno portato a
risultati importanti modificando sensibilmente il panorama
mafioso che opera a Reggio Emilia. Accanto a questa
presenza ingombrante ci sono altre presenze di criminalità
d’origine straniera che creano notevole allarme sociale per
i reati che commettono – furti, scippi, rapine, spaccio di
droga, prostituzione – ma che non hanno la potenza e la
proiezione nazionale che ha la ‘ndrangheta. Mente si
stanno scrivendo queste pagine la ‘ndrangheta è
considerata l’organizzazione più forte a livello italiano ed
europeo, quella che ha maggiori presenze e filiali al centro-
nord Italia.
La ‘ndrangheta che agisce a Reggio Emilia è una
criminalità che ha forti legami con la cosca principale che è
originaria di Cutro dove c’è la storia familiare e dove
risiede il punto di comando, il centro nevralgico di tutte le
attività calabresi che hanno una ricaduta su quelle reggiane.
E’ bene partire da un dato della realtà senza il quale non si
comprenderebbe quello che è avvenuto o avviene a Reggio
Emilia: il mafioso che dimora a Reggio Emilia dipende da
chi sta in Calabria ed è subordinato funzionalmente ai capi
che vi risiedono. Il cervello della ‘ndrina rimane in
Calabria. Questa caratteristica rende forte la ‘ndrangheta
che è l’unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi, la
principale in Calabria e le altre sparse per il resto delle
regioni italiane.
Questa caratteristica troverà un’impressionante
conferma nelle intercettazioni ambientali il cui protagonista
principale è stato il vecchio Antonio Dragone. E’ rimasto
carcerato per circa un ventennio, ma ha sempre cercato di
tenere le fila dell’organizzazione. Una volta uscito di
prigione e fino al giorno prima di essere trucidato, dava
indicazioni concrete ed operative ai suoi affiliati per
compiere estorsioni a Reggio Emilia in danno di
5
imprenditori originari di Cutro o del circondario di
Crotone. Dragone era informato in tempo reale delle mosse
degli affiliati, delle risposte delle vittime, consigliava,
ordinava, dava delle indicazioni. Operava attivamente a
Reggio Emilia pur essendo fisicamente a Cutro.
Quella che agisce a Reggio Emilia può essere
considerata, dal punto di vista mafioso, una filiale di quella
che opera nella lontana Calabria. Ma, com’è ovvio, i due
mondi hanno una realtà criminale che è una opposta
all’altra. Tra Reggio Emilia e la Calabria c’è una prima,
fondamentale diversità: nei comuni calabresi dove opera la
‘ndrangheta c’è un’occupazione del territorio, con un
controllo asfissiante, opprimente, totalizzante di quasi tutte
le attività, da quelle economiche a quelle politiche e a
quelle di relazione. A Reggio Emilia non c’è alcun
controllo del territorio. Non c’è stato nel passato non c’è
adesso.
La ‘ndrangheta agisce a Reggio Emilia e in altre
parti dell’Emilia-Romagna come se operasse in terra
straniera; anzi, per essere più precisi: in terra nemica. Si
muove in terra nemica. Così doveva sentirsi uno degli
uomini di Antonio Dragone il 4 marzo 2004 quando si recò
a chiedere il pizzo a un imprenditore d’origine cutrese.
L’uomo telefonò a Dragone e si rivolse con l’appellativo di
zio in segno di rispetto. Gli disse: “Zio Totò, io vi dico
sempre le cose come sono …....se uno è cutrese che so che
la pensa alla cutrese è un conto…ma se uno che è reggiano,
perché questo qua, parecchie volte ha cominciato magari
ad offendere un poco, hai capito?..... che parla un pochino
alla reggiana, hai capito…… cercate di capirmi…… a me
le persone che parlano un po’ alla reggiana poco mi stanno
bene..; ha capito?”. Queste parole schiudono un mondo.
L’uomo è incerto, insicuro, avverte di muoversi su un
terreno scivoloso, intuisce la trasformazione
6
dell’imprenditore che, pur essendo originario di Cutro,
dopo anni trascorsi a Reggio Emilia ha una mentalità
reggiana che appare diversa e ostile rispetto a quella
‘ndranghetista. Involontariamente l’uomo fa un elogio
delle politiche di inclusione, delle scelte seguite nel corso
degli anni che hanno portato a una fuoriuscita dalla
mentalità mafiosa. Non è cosa di poco conto.
Terra nemica è un concetto che occorre tenere a
mente sin dall’inizio se si vogliono cogliere in tutta la loro
portata sia la potenza della ‘ndrangheta che opera a Reggio
Emilia, e sia le risorse che ci sono state e che ci sono in
città per contrastarla e per impedire che essa possa
espandersi e radicarsi. Terra nemica, perché nel corso degli
anni, nonostante una presenza oramai pluridecennale, i
mafiosi non sono riusciti a penetrare la corazza costituita
del comportamento delle istituzioni locali, a partire dal
Comune, da tutti i partiti, dai sindacati, dalle cooperative,
dalla società civile, dall’associazionismo, dal mondo
cattolico. Queste realtà che hanno operato o singolarmente,
ognuno nel proprio ambito, o a volte insieme, ognuna per
la propria parte e con la necessaria diversità e grado di
intensità nell’impegno, hanno contribuito ad impedire,
almeno sino ad oggi, la penetrazione della ‘ndrangheta nel
tessuto sociale e politico cittadino. Reggio Emilia, pur
avendo ospitato una robusta comunità di ‘ndranghetisti non
ha ceduto ad essi un palmo del suo territorio. E non lo ha
fatto anche perché ci sono state indagini importanti della
magistratura, dei carabinieri, della polizia, della guardia di
finanza che hanno contrastato passo passo l’avanzare
mafioso; indagini condotte in collegamento ed in parallelo
con i loro colleghi calabresi.
Eppure i mafiosi calabresi hanno agito in città;
eccome se hanno agito. Hanno organizzato la distribuzione
di droga, hanno richiesto e riscosso il pizzo, hanno riciclato
7
denaro sporco. Hanno infierito sulla vasta comunità di
cittadini provenienti da Cutro che da decenni oramai
vivono e lavorano a Reggio Emilia, hanno loro
rappresentanti nelle istituzioni locali, sono commercianti,
artigiani o imprenditori affermati e stimati, lavorano in vari
campi del settore dell’edilizia, sono insegnanti o impiegati;
insomma fanno parte dei settori produttivi e sociali di
Reggio Emilia. Sono le persone originarie di Cutro ad
essere le principali vittime – le più dirette – delle estorsioni
degli ‘ndranghetisti. L’estorsione è una maledizione che da
tempo accompagna i calabresi fuori dalla loro regione, che
essi si portano appresso come una cattiva compagnia.
Perché succede questo è presto detto: lo ‘ndranghetista
chiede il pizzo ad un altro calabrese perché sa che costui
farà fatica a dire di no dal momento che un rifiuto potrebbe
determinare ritorsioni sui familiari rimasti in Calabria.
L’essenza della forza di questi mafiosi che agiscono a
Reggio Emilia non risiede a Reggio Emilia, ma in Calabria
perché è là che possono valersi sui familiari. La riprova sta
nel fatto che gli operatori economici, i commercianti
d’origine reggiana non sono sottoposti al taglieggiamento
perché costoro non riescono ad apprezzare la potenza del
rappresentante della ‘ndrina che perciò appare debole dal
momento che non è conosciuta e non è radicata sul
territorio.
Reggio Emilia è considerata dai mafiosi una città
inospitale. Lo conferma un singolare episodio raccontato
da Francesco Fonti, un importante collaboratore di giustizia
calabrese che nel recente passato ha avuto un ruolo
fondamentale a Reggio Emilia in particolar modo nel
traffico di stupefacenti. Costui, dopo uno dei tanti arresti
collezionati durante la sua vita criminale, disse ai giudici
reggiani che la droga di cui era in possesso era andata a
prenderla a Milano da Bruno Nirta, “noto mafioso di San
8
Luca legato ai Romeo, nel frattempo ucciso in un agguato”.
Il fatto non era vero. Perché Fonti raccontò il falso? Perché
affermando di avere preso la droga a Milano tentava di
spostare la competenza del processo da Reggio Emilia a
Milano ove riteneva di poter avere una condanna più lieve1
.
Naturalmente prima di pronunciare un nome così
importante Fonti cercò il consenso dei Romeo e dei Nirta.
Entrambe le famiglie mafiose diedero il via libera: “Io
chiesi l’autorizzazione a San Luca, al Capo Società, che
avevo bisogno di fare un nome per poter spostare questo
procedimento”2
.
L'episodio è di un’importanza straordinaria. Fonti
probabilmente riteneva che la magistratura di Reggio
Emilia fosse meno avvicinabile di quella di Milano.
Evidentemente a Reggio Emilia non aveva possibilità di
intervenire sulla magistratura mentre a Milano riteneva di
poterlo fare. Questo episodio, a saperlo leggere bene,
dimostra anche un’altra cosa: il maggior radicamento della
‘Ndrangheta a Milano rispetto a Reggio Emilia e i rapporti
più solidi con diversi ambienti, compresi quelli della
magistratura, o, comunque, in grado di influenzare o di
avvicinare qualche magistrato.
L’incontro con la criminalità locale – a parte
l’inquietante figura di Paolo Bellini – negli ultimi anni è
stata ricondotta nell’alveo dei rapporti normali, come quelli
che accadono un po’ dappertutto dove la criminalità
mafiosa domina quella locale perché ha un modello
organizzativo più efficiente ed una forza militare più
potente. La realtà di Reggio Emilia ha una sua specificità
per il fatto che ha operato una cosca familiare le cui
vicissitudini, nate e sviluppatesi nella lontana – e vicina –
1
Questura di Bologna, Squadra Mobile, Rapporto a carico di Romeo Antonio +
74, 1994, p. 24.
2
Reggio Emilia, n. 87/97, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, p. 99.
9
Cutro, si sono riverberate anche in città dove si sono
prodotti fatti di sangue, il che rappresenta una sicura
anomalia. Infatti, di solito i mafiosi in genere, e in
particolare quelli calabresi, fanno di tutto per passare
inosservati, per non destare allarme sociale, per non
richiamare attenzioni indesiderate soprattutto quando sono
attivi ed operano fuori dai loro territori d’origine. A Reggio
Emilia, invece, questa regola è stata infranta più volte. Ci
sono stati omicidi che hanno insanguinato Reggio Emilia.
Le motivazioni di quelle morti sono tutte interne alle
vicende e alla vita delle cosche o, meglio, della cosca
principale che prima era unitaria e che dopo, per varie
ragioni – in particolare in seguito agli arresti di uomini di
punta delle ‘ndrine e al conseguente mutamento degli
equilibri interni – si è divisa in due tronconi determinando
rivalità e gelosie che hanno prodotto guerre selvagge,
addirittura di sterminio come si vedrà più avanti, per la
conquista del potere interno e, dunque, per la gestione degli
affari. Le ragioni del conflitto nascono dai ripetuti
sommovimenti delle ‘ndrine a Cutro e nei comuni attorno
a Crotone dove la ‘ndrangheta gestisce rilevanti e corposi
interessi economici.
Non si può parlare della criminalità mafiosa a
Reggio Emilia se non si parla di quella esistente a Cutro.
Questo è il motivo per cui verranno seguite molte di quelle
lontane vicende, perché dal loro sviluppo sono dipesi molti
degli episodi accaduti a Reggio Emilia. Ma, prima di
passare a questa descrizione, è bene sintetizzare quanto
accaduto negli anni passati perché così si capirà meglio lo
sviluppo ulteriore degli avvenimenti.
E’ bene fare una precisazione importante: tutti i
nomi riportati da vari documenti – giudiziari, della polizia
e dei carabinieri, delle commissioni parlamentari antimafia
o del ministero dell’interno, della DNA, della DIA, –
10
indicano persone che sono ancora in attesa di un giudizio
definitivo e, dunque, vale per tutte, come bene
costituzionalmente tutelato, la presunzione d’innocenza
fino a sentenza passata in cosa giudicata. Come per tutte le
precedenti ricerche, anche per questa quello che interessa
delineare non è il percorso personale o giudiziario delle
persone volta a volta coinvolte, ma la descrizione del
fenomeno mafioso, dei suoi sviluppi, del grado di
penetrazione nella realtà reggiana, non la descrizione delle
posizioni processuali dei singoli imputati. Conoscere
l’esito processuale fa parte di un’altra storia e potrebbe
avere una sua importanza per valutare la capacità della
magistratura locale – reggiana e calabrese – di sanzionare
penalmente reati a carattere associativo o mafioso. Il
racconto storico e l’affermazione di responsabilità penale
in un pubblico processo sono cose distinte e separate.
D’altra parte i documenti giudiziari sui quali si fonda gran
parte di questa ricerca sono, per loro intrinseca natura,
limitati perché descrivono solo la ‘verità’ giudiziaria
accertata in quel determinato momento storico, e non altro.
Essi ci danno un’informazione parziale e, dunque, devono
essere utilizzati con il necessario distacco critico e con
l’ausilio di altre fonti – quelle istituzionali o giornalistiche
– per meglio valutare quanto è già avvenuto e, se possibile,
le linee di tendenza della criminalità organizzata in un
futuro più o meno prossimo.
La storia di numerosi mafiosi ci ha insegnato che
molti tribunali italiani, per varie ragioni – perché non si era
riusciti a raggiungere la prova certa, perché i testimoni
erano stati impauriti, perché le indagini non erano state
condotte bene, per la difficoltà obiettiva di accertare fuori
dalla realtà meridionale l’esistenza e l’operatività di una
cosca mafiosa – non avevano accertato la responsabilità
penale di fior di mafiosi che sono stati assolti per
11
insufficienza di prove, come recitava la formula di un
tempo, o, addirittura, per non aver commesso il fatto.
L’esempio di Francesco Fonti è quello più calzante.
Nel 1997 Fonti venne arrestato e poi processato assieme ad
altri. Con sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 28
novembre 1988, confermata in appello e poi passata in cosa
giudicata, Fonti e gli altri vennero assolti dal reato
associativo loro contestato per insufficienza di prove e
condannati a varie pene detentive solo per spaccio di
stupefacenti3
. Quando Fonti decise di collaborare e di
raccontare tutto il suo percorso criminale ammise che
essendo un mafioso affiliato alla ‘ndrangheta aveva
organizzato e diretto un importante traffico di stupefacenti,
compreso quello dal quale era rimasto assolto. Eppure,
nonostante la stampa locale avesse per tempo indicato il
carattere mafioso di quel traffico di stupefacenti,
investigazioni e vari elementi portati dall’accusa in
dibattimento davanti al Tribunale non erano riusciti a
provare con sicurezza che era operante un’associazione
finalizzata al traffico di stupefacenti.
La sintesi che verrà fatta farà riferimento alle attività
dei personaggi che sono più significativi per descrivere
quanto è accaduto o per delineare le tendenze utili a farci
comprendere quanto potrebbe accadere in un prossimo
futuro. Per queste ragioni saranno privilegiate le potenziali
linee di fondo, gli scenari, i meccanismi di sviluppo di un
fenomeno che è stato esportato ma che, finora, non è
riuscito a mettere radici e a germogliare come ha fatto in
altre regioni del nord, a cominciare dalla vicina Lombardia
dove la realtà mafiosa ha tutt’altra robustezza ed è riuscita
a penetrare in profondità sicuramente in alcuni paesi
dell’hinterland milanese o del varesotto.
3
Tribunale di Reggio Emilia, Baiamonte Giuseppe + 19, 1997.
12
PARTE PRIMA
L’arrivo dei Dragone a Reggio Emilia
Com’è ampiamente noto, i mafiosi arrivarono nelle
zone del centro-nord con il soggiorno obbligato.
Nonostante l’opposizione dei sindaci locali, furono inviati
in quelle realtà dei mafiosi che, non sapendo fare altro,
tentarono di infiltrarsi e di occupare porzioni di territorio. I
soggiornanti obbligati cercarono di stringere rapporti con
persone provenienti dalla stessa regione. Gli esempi da fare
sarebbero tanti, ma per la realtà reggiana la storia
dell’insediamento di un gruppo familiare molto noto come
quello dei Dragone è particolarmente significativa. La
storia ha inizio con l’invio al soggiorno obbligato di
Antonio Dragone, che all’epoca era custode della scuola
elementare di Cutro. I Dragone, secondo Fonti, avevano a
Reggio Emilia un ‘locale’ di ‘ndrangheta, il che significa
poter disporre di molti uomini, avere forze, avere un peso,
contare nel panorama mafioso. Antonio Dragone arriva nel
giugno del 1982, appena scampato in Calabria ad un
agguato mafioso; il 13 gennaio di quell’anno al suo posto
muoiono il nipote Salvatore Dragone e il maresciallo dei
carabinieri Pantaleone Borrelli. Va ad abitare a
Montecavolo di Quattro Castella. Appena giunto, decine di
giovani cutresi si recano a riverire il boss e a rendergli
omaggio. Nel reggiano arriva come uno sconosciuto –
nessuno, oltre i suoi compaesani lo conosce – ma la stampa
locale di Crotone descrive esplicitamente il bagaglio
criminale che si porta dietro.
Ne fa fede un articolo de “Il Crotonese” del 14
maggio 2004 che riprende un vecchio ritratto uscito molti
13
anni prima sullo stesso periodico che si occupava di
Dragone la cui carriera era iniziata già all’età di 14 anni:
“Il suo esordio è del 1957 col reato di danneggiamento a
cui segue nel 1961 quello di minaccia aggravata; solo un
anno dopo le minacce diventano vie di fatto e si
trasformano in una denuncia per rissa e lesioni che il
Dragone subisce in Germania. Da questo momento la lista
delle violazioni al codice penale è una continua escalation:
nel 1965 il Dragone è responsabile di tentato omicidio e,
sempre nello stesso anno, di rapina: ancora nel 1967 viene
denunciato per detenzione abusiva di armi e l’anno
successivo ancora per rapina aggravata. Il 1972 è l’anno
della faida con un’altra famiglia di Cutro e Dragone è
imputato di strage e detenzione di armi da guerra, ma ciò
non lo distoglie dagli affari che gli costeranno nel 1975 una
denuncia per tentata truffa allo Stato e una per estorsione
aggravata; quello stesso anno Dragone mette la sua firma
anche in un sequestro di persona. Nel 1979 ancora una
tentata estorsione ai danni di una cooperativa di Crotone. Il
6 marzo del 1980 il boss è inquisito per l’omicidio
Colacino, ma nel dicembre dell’anno successivo la Corte
d’Assise lo assolve per insufficienza di prove, una sentenza
alla quale si appella la Procura Generale;
contemporaneamente il Dragone è oggetto di una
comunicazione giudiziaria in merito ad un altro omicidio. I
guai seri per il capo ’ndrangheta tuttavia non finiscono qui,
il 13 gennaio del 1982 rimane egli stesso vittima di un
attentato mafioso: sotto i colpi del killer però cadono un
nipote e un maresciallo dei carabinieri. Conviene ormai
cambiare aria al Dragone che in giugno dello stesso anno
arriva al soggiorno obbligato di Quattro Castella a bordo di
una mercedes 3000; sono almeno una trentina e tutti cutresi
i guaglioni che si recano a riverire il boss e a rendergli
omaggio”.
14
L’arrivo in Emilia sembra mettere Antonio Dragone
al riparo dagli effetti della faida scoppiata a Cutro nel
lontano 1972 quando i Dragone e gli Oliverio si erano
affrontati, armi in pugno, per le vie del paese. Uno scontro
cruento per il controllo del territorio, una selvaggia contesa
per stabilire a chi toccasse il potere locale e la conseguente
gestione degli affari criminali. Ma l’idea di poter scampare
a tutti i percoli è solo un’illusione che dura qualche mese,
fino a quando nell’ottobre del 1982 non vengono, per
ordine del sostituto procuratore della Repubblica Giancarlo
Tarquini, prima fermate e poi arrestate due persone con
l’accusa di aver voluto compiere un attentato contro
Dragone. Passa meno di un anno e nel maggio 1983
Antonio Dragone viene arrestato per ordine di cattura
firmato dal giudice istruttore presso il Tribunale di Crotone
con l’accusa di associazione a delinquere di stampo
mafioso, estorsione e detenzione di armi. L’interrogatorio
che rende subito dopo è un documento importante per il
tipo di risposte che dà agli inquirenti. Sono risposte
straordinarie, da manuale, perché ci descrivono il modo di
pensare del mafioso di quei tempi, il mondo in cui era
vissuto e aveva operato uno come Dragone. Sono risposte
dove, con linguaggio allusivo, dice tutto a chi ha voglia di
capire, ma non dice niente per gli inquirenti che vogliono
ammissioni nette che confermino o smentiscano le accuse a
lui rivolte. Dà molto allo studioso, niente ai magistrati.
Alla contestazione di estorsione in danno di un
imprenditore che è stato costretto a pagare, risponde così:
“Da noi accade che quando una Ditta ha dei lavori in corso
e deve lasciare esposto del materiale affida a qualcuno il
compito di guardiano, parliamo di guardiania”. In poche
righe è magistralmente espresso il concetto dell’estorsione
mascherata dalla guardiania in vigore sin dall’Ottocento e
praticata dagli ‘ndranghetisti in danno dei proprietari
15
terrieri. Con l’evoluzione della società anche l’estorsione
subirà profondi mutamenti. E così negli anni cinquanta e
sessanta del Novecento il sistema della guardiania si spostò
sui cantieri edili dato il particolare sviluppo che tale settore
ebbe in quel periodo. In molti casi la guardiania era un
modo legale per giustificare la richiesta di un pagamento
che il proprietario terriero o il titolare di una impresa edile
non aveva modo di evitare. Questo meccanismo, nato in
Calabria e nelle altre regioni a presenza mafiosa nel
Mezzogiorno, sarà esportato anche nel centro-nord e
servirà a mascherare pretese estorsive.
Alla contestazione del contenuto di una telefonata
nel corso della quale sarebbero stati chiesti dei soldi
risponde: “Voglio fare presente che da noi quando ci si
trova in difficoltà finanziarie ci si rivolge ad amici che
possono aiutare, ma non con intenti estorsivi, bensì a puro
titolo di amicizia. I cinque milioni di cui si parla in tale
telefonata erano semplicemente la richiesta di un prestito,
però debbo dire che io il particolare non lo ricordo, cioè
non rammento se fu fatta tale richiesta”. La tecnica
difensiva è abile: da una parte nega di sapere alcunché
sugli addebiti specifici, e dall’altra parte spiega al
magistrato che non si tratta di estorsioni, bensì di normali
rapporti tra persone regolati da antiche consuetudini locali.
Nel mondo descritto da Dragone gli istituti di credito
sarebbero votati al fallimento.
Di estremo interesse è la risposta che dà all’addebito
principale di aver costituito una associazione di tipo
mafioso: “Escludo nel modo più assoluto di aver costituito
o diretto una associazione di tipo mafioso o anche soltanto
di avervi fatto parte”. E per rafforzare ancor più questa
affermazione, aggiunge: “D’altra parte secondo
l’imputazione mi sarei associato con mio nipote e due miei
generi; se così avessi fatto li avrei dunque coinvolti in
16
un’attività criminosa ed è ovvio che se mai mi fosse venuto
in mente di creare una tale associazione non mi sarei mai
rivolto coinvolgendoli ai miei generi e a mio nipote. Io
sono rimasto detenuto complessivamente 12 anni e mezzo
e non ho avuto alcun contatto con ambienti mafiosi”4
.
Argomento che potrebbe essere valido forse se detto da un
mafioso siciliano, non certo per uno calabrese perché la
‘Ndrangheta, come oramai è ampiamente dimostrato, è
fondata essenzialmente sui rapporti parentali – di sangue o
acquisiti – dei loro membri più influenti anche se, com’è
ovvio, non sempre e non tutti i più stretti parenti di un
capobastone sono a loro volta ‘ndranghetisti. Alcuni
riescono a sfuggire alle regole generali della famiglia
mafiosa senza per questo contrapporsi ad essa.
Poi per Dragone arrivò la pesante condanna a 25
anni di reclusione per omicidio e si spalancarono le porte
del carcere per 20 lunghi anni. Antonio Dragone –
considerato già in quegli anni “il massimo esponente della
mafia locale”, “compare e amico” di Saverio Mammoliti
appartenente alla famiglia mafiosa responsabile del
sequestro di Paul Getty junior – esce di scena, ma altri
componenti della famiglia Dragone saranno presenti negli
anni successivi a Reggio Emilia e nel reggiano. La loro
potenza raggiungerà un livello tale che la Criminalpol
scrisse in una informativa del 1995 che “a Reggio Emilia e
a Modena la gestione del traffico di droga era nelle mani di
un clan di cutresi, il quale, per mantenere il monopolio del
mercato, e per affermare il suo esclusivo potere nelle zone
interessate, aveva financo commesso omicidi, sopprimendo
quanti avevano assunto condotte ostili, intolleranti o
comunque di ostacolo al loro agire criminoso”5
. La
Criminalpol esagerava e assegnava ai Dragone una
4
Tribunale di Reggio Emilia, Interrogatorio di Antonio Dragone, maggio 1983.
5
Criminalpol Emilia-Romagna, Informativa, 22.7.1995, p. 3.
17
capacità di distributori di droga che essi non avevano. O
era millantato credito da parte dei Dragone oppure, più
prevedibilmente, era un abbaglio investigativo della
Criminalpol. Erano certamente trafficanti di droga ma non
nelle dimensioni descritte. E, tuttavia, è indubbio che
questi ebbero un ruolo rilevante nelle vicende criminali di
Reggio Emilia e della sua provincia. La loro zona di
influenza si estendeva anche a Modena e, in altre province
italiane e paesi stranieri.
Con i Dragone ebbe rapporti di ‘lavoro’ Renato
Cavazzuti, un modenese che era stato direttore di una
filiale di banca prima di finire nelle mani della ‘ndrangheta.
Da loro, tra il 1991 e il 1992, comprò eroina. La rete messa
in piedi da Cavazzuti era molto efficiente e nel contempo
originale. Era a composizione mista – e a maggioranza
emiliana – anche se per le fonti di reperimento della droga
era dipendente dai calabresi, sia di quelli che operavano a
Reggio Emilia sia di quelli che agivano a Modena. Uno dei
componenti della rete era l’ex imprenditore Malavasi,
originario di Novi di Modena, che mise a disposizione la
sua abitazione per gli ‘imboschi’ di droga di Cavazzuti. La
sua esperienza, per quanto singolare possa apparire, non
era un caso unico, anzi, era comune ad altre persone – tutte
nate in Emilia-Romagna – che finirono in braccio alla
criminalità organizzata dopo una serie di disavventure
economiche6
.
Il racconto di Malavasi e di Cavazzuti conferma che
i Dragone erano riusciti a penetrare nel traffico di droga a
Modena. Valicavano i confini del loro storico
insediamento; e ciò era possibile perché tra le province di
Reggio Emilia e di Modena funzionava una “divisione
implicita e non scritta” del territorio. A Modena e nella
6
Su questo vedi Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta di rinvio a giudizio a
carico di Pellegrino Salvatore + 6, 1995.
18
“parte alta” della provincia – Sassuolo, Formigine e
Maranello – operavano i rosarnesi, mentre i cutresi agivano
nella parte Nord di Modena, a Carpi e a Mirandola. C’era
una pacifica divisione del territorio che era vasto,
appetibile e non occupato da altre cosche mafiose. Era un
territorio ancora vergine per cui fu facile la divisione. Oltre
a Modena i Dragone avevano interessi anche sulla riviera,
in particolare a Rimini7
. A capo dei Dragone, ai tempi di
Cavazzuti, c’era Raffaele Dragone, che “conduceva la
famiglia” in assenza di suo zio Antonio, considerato il capo
carismatico, che era ristretto in carcere8
. Raffaele Dragone
si era stabilito a Cavriago dopo un breve periodo trascorso
a Reggio Emilia. Cavazzuti lavorò insieme ai Dragone e
insieme ad essi venne arrestato nel 1993. Accusati di
traffico di droga finirono in manette Cavazzuti, Raffaele
Dragone, Domenico Lucente, Antonio Macrì, Salvatore
Cortese. Con loro alcuni modenesi e un reggiano che era
titolare di una impresa per l’allestimento di capannoni,
“cresciuta con i finanziamenti e le commesse pubbliche”9
.
Gli arresti provocarono notevole scalpore negli
ambienti cittadini di Modena e di Reggio Emilia. La
vicenda dimostrava un salto di qualità nell’agire mafioso
perché confermava la perdurante attività dei Dragone nel
traffico di droga, apriva uno squarcio nel rapporto
instaurato tra la criminalità mafiosa ed elementi locali e,
infine, faceva emergere l’assoluta novità rappresentata dal
coinvolgimento di un esponente significativo dei cosiddetti
7
Su questo vedi Tribunale di Modena, GIP, Sentenza a carico di Lucente
Giuseppe, 1994 e Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta per l’applicazione di
misure cautelari nei confronti di Masellis Saverio + 15, 1993. Tribunale di
Bologna, GIP, Ordinanza di custodia cautelare a carico di Masellis Saverio + 11,
1993.
8
DDA Bologna, Interrogatorio di Renato Cavazzuti in data 17.12.1994, p. 56; in
data 18.1.1995, p. 63; in data 18.2.1995, pp. 4-7, p. 24, p. 57, p. 68 e p. 71.
9
Su questo vedi F. Orlando, La mafia dietro casa, “l’Unità”, 16 luglio 1993.
19
colletti bianchi, di un uomo come Cavazzuti che fino a
poco prima era stato un rispettabile direttore di una filiale
di banca. La cosca Dragone già all’inizio degli anni
novanta viene colpita seriamente. Con l’arresto di
Cavazzuti si scopriva un soggetto del tutto nuovo,
incensurato, sconosciuto, insospettabile, che era
direttamente collegato ai Dragone. C’era sicuramente
sorpresa, ma anche preoccupazione per le dimensioni del
traffico e per la qualità dei soggetti coinvolti. Si era arrivati
ad arrestare Cavazzuti dopo l’arresto di Celestino Canapè il
quale, collaborando, portò i carabinieri da Cavazzuti:
Cavazzuti, ignorando che fossero carabinieri, portò i due
militari sotto copertura dai Dragone.
Cavazzuti e gli altri collaborati accuseranno i
Dragone nel corso del processo davanti ai giudici di
Reggio Emilia. Uno di questi è William Gambarelli, un
macellaio originario di Scandiano in provincia di Reggio
Emilia. Un altro che accusò i Dragone fu Rocco Gualtieri
che li conosceva “fin dall’infanzia” essendo dello stesso
paese. Nel marzo del 1989 “gli chiesero se voleva ‘mettersi
sotto di loro per spacciare la roba, eroina’”. Da quella data
e fino all’estate del 1991 Gualtieri disse di aver acquistato
dai Dragone 15 kg di stupefacente. Il collaboratore non si
limitò a parlare di droga; fece “riferimento esplicito
all’esistenza di un’organizzazione, alla ‘famiglia’ facente
capo, in ambito locale, a Dragone Raffaele: a livello locale
chi dava gli ordini era Dragone Raffaele” 10
.
Cavazzuti raccontò come l’arresto di Giuseppe
Lucente avesse creato problemi rilevanti ai Dragone perché
qualcuno aveva cercato di “alzare la testa”, di “prendere il
mercato, di prendersi il territorio” e per questo è stato
eliminato. Cavazzuti si riferiva agli omicidi di Nicola
10
Tribunale di Reggio Emilia, Dragone Raffaele + 14, 1995., p. 45, pp. 23-25, pp.
47-48, p. 30-37.
20
Vasapollo e Giuseppe Ruggiero. Vasapollo era agli arresti
domiciliari nella sua abitazione a Reggio Emilia quando
ricevette, il 21 settembre 1992, la visita di due persone le
quali, appena entrate, lo uccisero sparando 5 colpi di
pistola. Un mese dopo, la notte del 22 ottobre, toccò a
Ruggiero. Era a casa, a Brescello, con sua moglie quando
venne svegliato a notte fonda da due persone vestite con
l’uniforme dei carabinieri. La moglie era restia a farle
entrare, ma Ruggiero si decise ad aprire la porta ricevendo
in pieno i colpi d’arma da fuoco che gli furono sparati
contro. Le dichiarazioni di Celestino Canadè, di Rocco
Gualtieri e di Renato Cavazzuti portarono alla condanna
all’ergastolo da parte della Corte di Assise di Reggio
Emilia per Raffaele Dragone e per Domenico Lucente che
furono riconosciuti come i mandanti dei due omicidi11
.
Questi omicidi solo apparentemente mostrano la
forza del gruppo mafioso. In realtà sono il segno di una
profonda difficoltà, anzi di una debolezza molto grave. Di
solito la ‘ndrangheta ha sempre cercato di non attirare
l’attenzione delle forze dell’ordine, di fare in modo che
nessuno si accorgesse della sua presenza. Lo ha fatto in
Calabria, tranne che nei periodi di apro conflitto armato, lo
ha fatto in particolare in zone dove non c’è una tradizione
mafiosa. Uccidere significava creare allarme sociale,
significava indagini e pericolo di essere scoperti. E così
accadde. Le indagini portarono a risultati straordinari
perché furono colpiti i mandanti degli omicidi, cosa
difficilissima da fare, e poi perché fu inferto un colpo
decisivo a una ben oliata rete di trafficanti di droga che
aveva le caratteristiche di far lavorare insieme calabresi e
reggiani, ‘ndranghetisti e delinquenti locali.
11
Corte di assise di Reggio Emilia, Sentenza nella causa contro Dragone Raffaele
+ 4, 25.11.1994.
21
I Dragone, e non era cosa di poco conto, erano
riusciti a realizzare un rapporto proficuo con la criminalità
locale che a sua volta si era mostrata disponibile ad essere
coinvolta in traffici illeciti e criminali. E’ un dato della
realtà che va sottolineato perché sono le avvisaglie di
quanto emergerà dopo con il coinvolgimento e con la
successiva collaborazione di Bellini.
A metà degli anni novanta le condanne di Raffaele
Dragone, Antonio Lerose, Domenico e Giuseppe Lucente
colpiscono gli esponenti storici. A questo punto il clan, per
sopravvivere, deve affidarsi a nuove figure che devono
provare sul campo le loro capacità organizzative e di
comando. Ecco allora che sulla scena cominciano ad
affacciarsi nuovi personaggi. Fra essi Emilio Rossi,
originario di Crotone e residente a Montecchio Emilia, il
cui raggio di azione si estendeva nelle province di Parma e
di Reggio Emilia. Secondo Francesco Fonti Emilio Rossi,
era ritenuto un “esponente della famiglia Arena”. Tra i due
si stabilirono rapporti di scambio reciproco. Fonti vendeva
droga a Rossi e Rossi vendeva droga a Fonti12
.
Un’ulteriore conferma – una delle tante – dei
continui, frequenti, ininterrotti scambi tra mafiosi. C’è
cooperazione, non concorrenza. Nessuno, stando alle cose
che sappiamo, cerca di approfittarsi delle difficoltà
dell’altro per occupare fette di mercato. Solidarietà tra
mafiosi? Forse, ma più semplicemente, non c’era bisogno
di occupare le fette di mercato di un altro vista la vastità
del mercato reggiano. C’era posto per tutti senza bisogno di
rubare i clienti di un altro.
Durante le indagini fa capolino un nome nuovo che
risulta collegato a Rossi, Giuseppe Muzzupappa, originario
di Nicotera in provincia di Vibo Valentia. E’ l’avvisaglia
12
Tribunale di Reggio Emilia, Baiamonte Giuseppe + 19, cit., p. 95 e pp. 86-87.
22
che inizia ad avviarsi una nuova fase del clan; scendono in
campo uomini capaci di collegamenti più ampi rispetto a
quelli del passato. Muzzupappa era noto sin dall’inizio
degli anni settanta a Vibo Valentia, cittadina nella quale era
andato a vivere. Sottoposto alla misura della sorveglianza
speciale per tre anni nel comune di Reggiolo iniziò a
scontare quella pena il 21 marzo del 1975. Sebbene si fosse
trasferito a Reggiolo, continuò a mantenere i legami con la
sua terra di origine. I carabinieri di Tropea alla fine del
1983 lo sospettavano di appartenere al clan di Francesco
Mancuso di Limbadi che dominava l’intera zona del
vibonese. Diffidato di pubblica sicurezza, Muzzupappa
faceva parte della “manovalanza del clan”. Aveva
precedenti penali per associazione a delinquere, tentata
estorsione e sequestro di persona13
. Rimase impigliato nel
1985 in una grossa operazione di polizia - 200 indagati -
contro il clan dei Mancuso14
anche se non risultò tra i
condannati nel processo che ne seguì. Nel luglio del 1988
fu arrestato insieme ad altri due perché trovato in possesso
di 28 grammi di eroina che provenivano da Milano15
.
Nel 1993 una nuova cattura a Milano nel quadro di
una grossa operazione denominata Nord-Sud ordinata dal
magistrato Alberto Nobili della DDA di Milano contro le
cosche calabresi dei Sergi e dei Papalia operanti nel
capoluogo lombardo. Muzzupappa, secondo le
dichiarazioni di Saverio Morabito, acquistava droga – un
paio di etti di eroina per volta – dal gruppo Sergi16
.
13
Legione carabinieri di Catanzaro, Compagnia di Tropea, Attività antimafia in
Calabria, 16.11.1983.
14
Tribunale di Vibo Valentia, ufficio istruzione, Sentenza-ordinanza contro
Mancuso Francesco + 200, 1985.
15
I. Paterlini, La ‘roba’ arrivava da Milano, Gazzetta di Reggio, 19 luglio 1988.
16
Tribunale di Milano, GIP, Ordinanza di applicazione della misura di custodia
cautelare in carcere nei confronti di Agil Fuat + 164, 1993 e Corte d’assise di
Milano, Sentenza nella causa penale contro Agil Fuat + 132, 11.6.1997
23
Ritroviamo Muzzupappa nel 1995. Secondo la
Criminalpol, in questa fase, “assolve il delicato e
complesso compito di essere il centro motore nel reggiano
dell’organizzazione strettamente collegata a quella cutrese
in cui autorevolmente milita il Grande Aracri Nicolino”.
Ecco che spunta un altro nome nuovo che avremo modo di
trovare come protagonista in altre vicende di droga. In
quello stesso anno il nome di Grande Aracri fa ingresso nel
rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata che
ogni anno il Ministro dell’interno invia al Parlamento. Il
documento descrive così il suo peso in Calabria: “non
mancano figure emergenti di grande spicco nel panorama
malavitoso come Nicola Grande Aracri che, da feroce
killer al soldo di tradizionali capi clan ha recentemente
costituito un’autonoma e forte cosca con oltre 60 affiliati
ed un esteso territorio d’influenza, che va da Petilia
Policastro a San Mauro Marchesato”17
, comuni che fanno
parte della provincia di Crotone.
Si comincia, in questo periodo ad avvertire una
novità rilevante. L’arrivo in Emilia di Grande Aracri, che
sembra proiettare il clan Dragone molto al di là dei confini
– Reggio Emilia e Modena – entro i quali aveva operato.
Essi appaiono angusti, limitativi di una nuova espansione
degli affari illeciti. Si profilano interessi in Lombardia,
nella zona di Cremona, nella città di Genova e in paesi
stranieri come la Svizzera. Grande Aracri ha sempre e
ripetutamente protestato la sua innocenza rispetto a tutte le
accuse che gli sono state rivolte. Ancora di recente, il 23
maggio del 2003, davanti al Tribunale di Crotone, in
replica alle accuse formulate dal pubblico ministero
Pierpaolo Bruni ha affermato: “chiedo al Tribunale e al
17
Camera dei Deputati, Rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata
(anno 1995) presentato dal Ministro dell’interno, Doc. XXXVIII-bis, n° 1, 1996,
p. 124.
24
Presidente che dovete valutare queste situazione. Insomma,
mettiamo, il Pubblico Ministero se porta qualche cosa la
deve portare… la deve portare… se porta qualche
dichiarante o qualche testimone o qualche poliziotto e
carabiniere deve dire la mia partecipazione in questa
associazione che sto rispondendo insomma… se io mi
sono… ho socializzato con qualcuno dei coimputati allora
è giusto che io devo stare… devo stare qua in carcere. Ma
io non ho mai socializzato con nessuno dei coimputati, con
nessuno dei coimputati. Al di fuori mettiamo di qualche
mio paesano che conosco cosi ma solo perché… perché io
conosco qualche mio paesano, proprio di Cutro… e gli altri
non li ho mai visti, non li ho mai conosciuti. Non sono
stato mai associato con nessuno”18
.
In questo nuovo scenario il protagonista principale
appare Grande Aracri, descritto come “personaggio di
primaria grandezza nella realtà criminale cutrese”. Quando
è necessario, da Cutro si porta a Reggiolo “per curare e
controllare personalmente l’andamento della nuova fase di
traffico, non tanto sotto il profilo prettamente materiale,
quanto sotto il profilo economico, relativamente alla
movimentazione finanziaria e cioè alla riscossione dei
corrispettivi delle partite di sostanze cedute”. Grande
Aracri venne arrestato a Cutro nel giugno 1995 per
detenzione di armi da guerra19
.
Un nuovo arresto quando sta per spirare il 1996. Il
pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia
di Bologna Carlo Ugolini, nell’argomentare il
provvedimento di fermo nei suoi confronti, scrive:
18
Tribunale di Crotone, Procedimento contro Grande Aracri Nicolino + 39,
Udienza del 23 maggio 2003.
19
Criminalpol, Informativa, 1995, cit., p. 20, p. 15, p. 27, p. 67. Sul ritrovamento
di armi vedi anche P.C., Arrestato Nicola Grande Aracri, nella sua azienda
nascondeva pistole e kalashnicov, Gazzetta del Sud, 13 giugno 1995.
25
emergeva come il Grande Aracri nascesse dal punto di vista
criminale nel medesimo habitat cutrese che aveva originato la
famiglia Dragone; per chi interpreta in modo corretto talune aberranti
tradizioni della cultura mafiosa assume significato univoco, ad
esempio, la circostanza secondo la quale Grande Aracri Nicolino è
stato “compare d’anello” al matrimonio di Dragone Raffaele (figlio
del capo ‘ndrina Antonio). Ulteriori investigazioni consentivano di
verificare come Grande Aracri si atteggiasse nell’ultimo periodo a
punto di riferimento, anche nella realtà di origine, a capo emergente.
Il rapporto della Criminalpol descrive Grande Aracri
come un uomo che si sposta di frequente. Lo troviamo in
Calabria, a Reggio Emilia, in Belgio, in Germania, in
Svizzera. Alloggia a Brescello dove abitano due sue
sorelle, poi, per ragioni sentimentali, a Sarmato in
provincia di Piacenza dove può raggiungere facilmente le
province di Reggio Emilia, Parma e Cremona ove
risiedono uomini di sua fiducia20
. Di grande interesse sono
i rapporti con alcuni paesi stranieri. Grande Aracri
risulterebbe avere molteplici rapporti, anche di natura
finanziaria, in Svizzera in Belgio e in Germania21
. La
Germania, in ogni caso, rimase sempre un punto di
riferimento per le attività delle cosche di Cutro come
emerse sul finire del 2000 in seguito ad una indagine per
traffico di armi tra Germania, Cutro e Reggio Emilia22
.
E’ una ‘ndrangheta che si sprovincializza la sua, che
supera l’asse Reggio Emilia-Cutro. E’ un dinamismo
generale della ‘ndrangheta di quel periodo che sa cogliere
il vento, che capisce che occorre osare molto e muoversi su
diverse caselle della scacchiera criminale. In quel torno di
tempo si consolidano le basi che consentiranno alla
20
Tribunale di Bologna, DDA, Provvedimenti di fermo nei confronti di Caiazzo
Giovanni + 11, 1996.
21
Tribunale Bologna, DDA, Richiesta di misure cautelari nei confronti di Grande
Aracri Nicolino + 23, 1997. pp. 5-7, p. 40, pp. 92-98.
22
Su questo vedi Il Crotonese 22 dicembre 2000.
26
‘ndrangheta di assumere l’egemonia mafiosa in campo
nazionale dopo che l’attacco dello Stato contro cosa nostra,
responsabile delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio,
indebolirà notevolmente la mafia siciliana.
Alcuni degli uomini finiti in carcere erano
soggiornanti obbligati. Essi svolgevano molteplici attività,
non tutte illegali, che avrebbero potuto tornare utili al
momento del bisogno. Secondo un rapporto della
Criminalpol del 1979 questi soggiornanti diventavano
protettori dei loro compaesani che, giunti dalle province
siculo-calabresi, sono stati sistemati ed utilizzati secondo
precise finalità di lavoro onesto ed illecito”23
. In tal modo
gli ex soggiornanti svolgevano una ‘funzione sociale’ nei
confronti dei paesani che venivano ‘sistemati’ sia in lavori
legali sia impiegati in lavori illegali. Attraverso tali
modalità essi, titolari di questo ‘potere’, acquistavano
importanza e prestigio. Continuava così, in terra reggiana
un rapporto che era iniziato nella loro terra d’origine. La
‘ndrangheta, ad un certo punto della sua storia, fece la
scelta strategica di insediare fuori dalla Calabria pezzi di
‘ndrine perché le attività mafiose potessero continuare al
nord in modo indisturbato e radicalmente nuovo.
Gli uomini di ‘ndrangheta che agivano in ‘terra
straniera’ – cioè in contesti come quello di Reggio Emilia,
lontani dai loro luoghi di origine e ostili alla loro cultura –
hanno avuto la capacità di adattarsi con l’ambiente
circostante e di mimetizzarsi sfuggendo ai controlli e
perfino alla percezione della loro pericolosità. L’idea che
generalmente si ha dei mafiosi è quella di uomini rozzi,
volgari, incolti e violenti. Il convincimento che il mafioso
fosse essenzialmente o addirittura solamente violento
oscurava la realtà del mafioso che è anche – oltre che
23
Criminalpol, Rapporto 1979.
27
violento – un uomo d’affari impegnato ad inserirsi negli
interstizi di una società ricca ed opulenta per agire
illegalmente in tutti i campi economici dove fosse possibile
realizzare un utile; e perciò sfuggiva, oppure è stato
ampiamente sottovalutato, il problema del riciclaggio del
denaro accumulato con metodi illegali e criminali, il
reimpiego di questi capitali nell’economia legale e la
saldatura che in determinate vicende era possibile notare
tra mafiosi e uomini inseriti nel mondo dell’economia
locale, soprattutto quello bancario e finanziario. A ciò ha
contribuito il prevalere dell’antico adagio: pecunia non
olet; e siccome il denaro non ha odore, ha poca importanza
da dove arrivi e come sia stato accumulato. Gli ambienti
economici e finanziari – istituti di credito in testa – sono
stati, e sono, impregnati di questa convinzione.
La ‘ndrangheta a Reggio Emilia non sempre ha agito
sotto traccia. Anzi, ci sono stati momenti cruenti come
quelli, già ricordati, dell’autunno inverno del 1992 quando
furono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero. E’
questa una rilevante diversità rispetto a quella operante
nelle altre province emiliano-romagnole o nel centro-nord
Italia.
Il traffico di stupefacenti
Il traffico di sostanze stupefacenti ha rappresentato, e
ancora oggi rappresenta, il più grosso business per ogni
organizzazione mafiosa o per chiunque abbia intenzione di
intraprendere la strada dell’imprenditore del crimine.
Quello degli stupefacenti è un mercato particolare
governato da proprie leggi, economiche e mafiose. In
Emilia-Romagna non sono mai state sequestrate quantità di
droga neanche lontanamente paragonabili a quelle che sono
state sequestrate in Lombardia o in Piemonte. Da cosa
28
dipende questa particolarità? Dal fatto che in Emilia-
Romagna non c’è nessuna cosca che abbia il controllo del
territorio e dunque nessuno è in grado di custodire con una
certa sicurezza rilevanti quantità di droga che sul mercato
valgono parecchi milioni di euro. Ecco perché i grandi
depositi di droga si trovano altrove, in Lombardia, in
Piemonte, in Liguria.
L’Emilia-Romagna è una regione ‘di mercato’, un
enorme luogo ‘di consumo’ delle droghe, un vero e proprio
supermarket. Qui erano attivate reti di spaccio ed erano
reclutati i ‘cavalli’, spesso originari del luogo. Il ciclo della
droga è sicuramente complesso; ad esso, oltre ai mafiosi,
possono partecipare anche elementi non particolarmente
strutturati o radicati sul territorio, perlomeno ai livelli bassi
o intermedi. C’è, spesso, un intreccio e i mafiosi hanno
commerciato droga con altri personaggi che mafiosi non
sono ma che per le ragioni più varie hanno deciso di fare i
narcotrafficanti.
Nell’ultimo decennio si sono verificati mutamenti e
trasformazioni sia nei mercati criminali sia nei soggetti
protagonisti di queste trasformazioni. E’ continuata la
contaminazione tra la criminalità locale e quella mafiosa, la
prima in funzione ancillare rispetto alla seconda, ma si è
introdotto un potente fattore di novità: ai mercanti e ai
‘cavalli’ italiani si sono aggiunti gli stranieri in numero
sempre più crescente e provenienti da diverse nazionalità.
Tra italiani e stranieri esistono molteplici rapporti
che vanno da quelli più semplici rappresentati dai ‘cavalli’
di origine straniera che hanno sostituito i tossicodipendenti
italiani a quelli più complessi che invece riguardano partite
consistenti di droga dove i criminali stranieri hanno un
ruolo ben diverso e ben più complesso rispetto al passato.
Alle mafie italiane oggi si sono affiancate quelle straniere
29
che hanno mostrato una indubbia spregiudicatezza nell’uso
della violenza e nella capacità criminale.
Il racconto di Francesco Fonti, originario di
Bovalino nella Locride reggina e affiliato alla ‘Ndrangheta
con tanto di rito formale, ci aiuta a chiarire alcuni aspetti
importanti. Perché Fonti decise di venire in Emilia-
Romagna? Lo dirà lui stesso quando diventerà
collaboratore di giustizia. Racconterà che nell’agosto del
1986 sul lungomare di Bovalino e poi in una riunione
appositamente convocata dagli uomini della sua cosca di
appartenenza, quella dei Romeo di San Luca, gli venne
conferito l’incarico di organizzare il traffico di droga in
Emilia-Romagna, in particolare nelle province di Modena e
di Reggio Emilia24
.
Sembra un incarico qualsiasi, uno dei tanti che capita
di affidare a uno ‘ndranghetista, uno di quelli che si
potrebbero inquadrare nella scelta operata dalla
‘ndrangheta di spostare pezzi di cosca al nord. In parte è
così, ma solo in parte perché quelle parole rivelano un
particolare di estrema importanza: fino a quell’anno la
cosca cui apparteneva Fonti, che era una cosca storica con
un peso molto rilevante nella ‘Ndrangheta reggina, non
aveva seri punti di riferimento nella regione e ciò
determinò la decisione di inviare dall’esterno una
personalità esperta nel ramo e in grado di attivare una rete
di distribuzione. Non solo, ma poiché la cosca di
appartenenza non aveva “imposto vincoli di esclusività o
imposizione trattandosi di un terreno ancora vergine sotto il
profilo della presenza mafiosa”, lo stesso Fonti si sentirà
autorizzato a distribuire la droga anche per conto dei
Musitano i quali, a loro volta, erano privi di punti di
riferimento in Emilia-Romagna. L’unica differenza rispetto
24
Macrì, Interrogatorio di Francesco Fonti, 26.1.1994.
30
al traffico effettuato per conto dei Romeo è il fatto che
Fonti non era organico alla ‘ndrina dei Musitano25
.
Dunque, in quel periodo, la regione Emilia-Romagna
subisce l’attenzione di cosche storiche della provincia
reggina che cominciano a pensare di inviare i propri
rappresentanti per mettere in piedi una rete di trafficanti di
droga in grado di coprire un mercato sicuramente
appetibile e ricco come quello emiliano-romagnolo. A
Fonti tocca anche Reggio Emilia che ha già una presenza
rilevante, quella dei mafiosi originari del crotonese.
L’attività esclusiva di Fonti in Emilia è stata quella
di organizzare il traffico di stupefacente a Modena e a
Reggio Emilia. Fonti è riuscito ad organizzarlo in
dimensioni davvero straordinarie. Mise in piedi in poco
tempo una catena di distribuzione di eroina e di cocaina di
dimensioni tali da renderla la più rilevante degli ultimi
anni, almeno fra quelle finora conosciute. Inizia il periodo
emiliano ricorrendo al suo vecchio amico e compaesano
Antonio Artuso, che contatta informandolo che “c’era la
possibilità di smerciare dello stupefacente” e chiedendogli
“se lui poteva contattare, dato che abitava già da diversi
anni in Emilia, delle persone a cui consegnare questo
stupefacente. Lui si rese disponibile ad avere questi
contatti26
.
Antonio Artuso, prima di essere assassinato, aveva
trascorso numerosi anni della sua vita inizialmente in
provincia di Reggio Emilia e poi in quella di Modena. Nel
1984 si era stabilito a Corlo di Formigine poiché “aveva
avuto modo di ‘conoscere’ l’ambiente durante il periodo di
internamento presso la casa di lavoro di Castelnuovo
Emilia”27
. Non aveva iniziato la sua carriera nel mondo del
25
Informativa Fonti.
26
Reggio Emilia, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, pp. 69-70, pp. 82-84.
27
Informativa Fonti, p. 21.
31
crimine come trafficante di droga; anzi, era restio ad
avventurarsi in questa nuova attività, e fu solo nella
seconda metà degli anni ottanta che superò le sue riserve.
Infatti, i primi passi nel mondo del crimine li aveva mossi
come truffatore28
. Il grande salto lo effettuerà entrando in
contatto con Fonti che lo andò a trovare nella sua casa e lo
incaricò di approntare una rete di vendita. Da quel
momento in poi Antonio e Luigi Artuso, padre e figlio,
cominciarono a lavorare per Fonti.
Molti dei personaggi con i quali erano in contatto
Fonti e Artuso saranno processati in seguito all’operazione
‘Aspromonte’ e condannati dal Tribunale di Locri perché
riconosciuti colpevoli di associazione a delinquere di
stampo mafioso e di altri reati. In particolare il Tribunale
accertò una questione assai rilevante: “i medesimi soggetti
e gruppi criminali che storicamente gestivano, in forma
quasi di monopolio, il ‘primordiale’ settore dei sequestri di
persona, figuravano tra i protagonisti del più moderno
scenario dei delitti riconducibili al traffico di droga, che
venivano realizzati con la stessa professionalità ed
efficienza che avevano caratterizzata la originaria attività
criminale”. Le particolarità di questi agglomerati mafiosi
erano le seguenti: avevano continuato a fare
contemporaneamente, fino agli inizi degli anni novanta,
sequestri di persona e traffico di droga, mentre tutte le altre
‘ndrine avevano da tempo abbandonato la pratica dei
sequestri; i denari dei riscatti venivano investiti
nell’acquisto di narcotici. A partire da quella data cessano i
sequestri di persona organizzati da loro; la loro attività
prevalente è la gestione del traffico di stupefacenti”. Il
processo si interessò anche del traffico di droga a Modena
28
Questura di Bologna, Squadra Mobile, Rapporto a carico di Romeo Antonio +
74, 1994, p. 8 e pp. 15-18 e Questura di Bologna, Interrogatorio di Luigi Artuso del
27.10.1992.
32
e a Reggio Emilia ascoltando le parole di Fonti e di Artuso;
la descrizione di tali traffici occupa un posto di tutto rilievo
nella sentenza, oltre un centinaio di pagine29
.
E’ bene ricordare che il ‘locale’ di San Luca è molto
importante perché, per antica e mai dismessa consuetudine,
è nel suo territorio che si svolgono le annuali riunioni della
‘Ndrangheta che in gergo vengono chiamate riunioni del
‘Crimine’. Ad esse prendono parte i capi dei locali di tutta
Italia, compresi quelli del centro e del nord30
.
San Luca è stato al centro delle cronache nazionali
ed europee in seguito alla strage di Duisburg il 15 agosto
del 2007. Giornalisti italiani ed europei hanno raccontato la
realtà mafiosa esistente in quella cittadina. Alcuni hanno
scoperto la potenza della ‘ndrangheta in quella occasione,
altri hanno avuto la conferma di una tecnica abituale per la
‘ndrangheta, quella di insediare fuori dalla Calabria pezzi
di ‘ndrine. Reggio Emilia e Duisburg sono località molto
diverse tra loro; l’unico punto di contatto è dato dal fatto
che hanno agito a Regio Emilia e agiscono a Duisburg le
medesime cosche.
Le dichiarazioni di Fonti, fatte all’inizio della sua
collaborazione, furono confermate, ed ulteriormente
precisate, davanti al Tribunale di Reggio Emilia. “San Luca
ha una particolarità, perché nei pressi di San Luca c’è per
noi il famoso santuario della Madonna di Polsi, dove si
tenevano annualmente le riunioni di tutti i capi bastone di
‘Ndrangheta dei vari paesi e dove venivano anche a dare
conto al capo società personaggi che si erano trasferiti
all’estero, in Australia, in Francia, in Canada etc. Davano
conto delle attività criminali che erano in corso e versavano
il loro contributo a fondo perduto al capo società. Poi
29
Tribunale di Locri, Sentenza nei confronti di Barbaro Francesco + 49,
4.11.1995.
30
DDA Reggio Calabria, Interrogatorio di Francesco Fonti del 1.2.1994.
33
questi soldi venivano gestiti dal contabile della società per
chi era in difficoltà, per chi era in carcere, se la famiglia
aveva bisogno, per pagare gli avvocati e via di seguito”31
.
Il versamento di poche decine di milioni di lire al
‘locale’ di San Luca potrebbe apparire ben poca cosa se
rapportato ai guadagni delle singole ‘ndrine. Ciò è
sicuramente vero; e tuttavia, non è importante la quantità
del denaro versato, ma il fatto che tutti i mafiosi – compresi
quelli che operano al nord e all’estero – versino al ‘locale’
di San Luca, testimoniando in modo simbolico la
subordinazione all’antica ‘mamma’ della ‘Ndrangheta. Ciò
significa che i mafiosi che operano al nord continuano ad
essere attaccati – come un cordone ombelicale – alla casa-
madre calabrese. Anche per questa ragione l’uccisione di 6
persone a Duisburg in Germania il 15 agosto 2007 ha
destato enorme scalpore. La faida è esplosa in un paese che
è il centro nevralgico delle ‘ndrine calabresi.
Fonti si stabilisce nel reggiano e come attività di
copertura acquista il ristorante ‘La Perla’ a San Martino in
Rio dove ufficialmente svolge attività di direttore di sala.
E’ la conferma che al nord il mafioso cerca di
mimetizzarsi, di passare inosservato. Non ci sono mafiosi
con la coppola storta e con la lupara, ma mafiosi che
sembrano rispettabili e quieti signori piccolo-borghese che
si occupano solo dei loro affari. Fonti racconta che
l’acquisto del ristorante non fu fatto con soldi suoi, perché
“erano soldi che avevamo noi in cassa. Non si usavano mai
soldi personali, perché nella cassa della famiglia c’erano
sempre soldi a disposizione per determinate cose”32
.
Il racconto di Fonti conferma la permanenza di una
pratica antichissima, in vigore nella ‘Ndrangheta sin dai
tempi più remoti. Fa parte oramai della storia della
31
Reggio Emilia, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, pp. 61-62.
32
DDA Reggio Calabria, Interrogatorio di Francesco Fonti del 28.1.1994.
34
‘Ndrangheta il fatto che i mafiosi calabresi usassero
versare i proventi delle loro attività in una cassa comune
che a quell’epoca si chiamava ‘baciletta’ sin dalla seconda
metà dell’Ottocento33
. L’antico termine forse non è più in
vigore, ma è rimasta l’abitudine di versare il denaro in una
unica cassa che veniva utilizzata dagli associati secondo le
loro esigenze. I soldi ricavati dal traffico degli stupefacenti,
dice Fonti, “venivano portati, quando c’era una raccolta
grossa, nell’appartamento in Milano di via Popoli Uniti e
venivano messi nella cassa comune della nostra famiglia, la
nostra cosca Romeo”. Erano soldi a disposizione di tutti.
“Chi aveva bisogno prendeva quello di cui aveva bisogno”.
Senza formalità, senza giri burocratici, ognuno prendeva la
somma che gli occorreva. “Se io avevo un incasso di lire
500.000.000, mi servivano lire 100.000.000, lire
200.000.000 li trattenevo, gli altri li versavo nella cassa
comune”34
.
Fonti ebbe un ruolo rilevante nel traffico di droga a
Reggio Emilia. Era un grande commerciante, un
distributore in grande stile. Il suo ruolo fu importante non
solo per la notevole quantità di eroina e cocaina immesse
nel mercato clandestino ma anche perché riuscì ad attivare
e ad organizzare una complessa e fitta rete di distributori i
quali a loro volta attivavano altre persone. Fonti lavorava
per più organizzazioni mafiose, ma la rete di distribuzione
era praticamente la stessa. Molti degli uomini che aveva a
sua disposizione erano ritualmente affiliati alla
‘Ndrangheta, molti altri invece appartenevano alla
criminalità comune locale; erano originari di Modena e di
Reggio Emilia o di comuni delle due province. Riceveva,
distribuiva e faceva rivendere droga agli uni e agli altri.
33
Su questo vedi Enzo Ciconte, ‘Ndrangheta dall’Unità ad oggi, Laterza, Roma-
Bari 1992, pp. 38-39.
34
Reggio Emilia, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, p. 179
35
L’elenco di questi uomini che Fonti dice di aver utilizzato è
davvero molto lungo.
Le storie di Fonti e di Artuso confermano un
elemento molto interessante: nell’area molto ampia che
copre le città e le province di Modena e di Reggio Emilia
convivono, facendo affari tra di loro, molte organizzazioni
mafiose e un numero elevato di narcotrafficanti, mafiosi e
non mafiosi, di origine meridionale e di origine emiliano-
romagnola contribuendo a determinare le caratteristiche di
un particolare mercato degli stupefacenti molto flessibile
ed aperto. Nessuna organizzazione mafiosa – per quanto
forte o grande sia stata – ha mai avuto il monopolio del
traffico né, tanto meno, il controllo territoriale. C’era
spazio per tutti, grandi e piccoli trafficanti.
La regola sembra essere quella di un mercato
comune. Agiscono varie cosche con scambi frequenti tra
loro. C’è una varietà e molteplicità di reti di distribuzione
di ogni tipo di droga che sembrano sovrapporsi l’una con
l’altra; addirittura ci sono uomini che movimentano
notevoli quantità di stupefacente in nome e per conto di più
cosche contemporaneamente senza che questo determini
turbative nel mercato o conflitti cruenti. Ogni mercante di
droga opera con una notevole mobilità da una parte
all’altra del territorio, superando i confini comunali e
provinciali, ed è frequente trovare scambi, rapporti,
relazioni tra mercanti appartenenti alla ‘Ndrangheta a Cosa
Nostra o alla Camorra. Operano insieme in queste due
province e anche nelle altre, hanno rapporti con le cosche
di origine, vanno a prendere la droga di cui hanno bisogno
soprattutto a Milano o nel suo hinterland che si conferma
come il luogo privilegiato dalla grande maggioranza delle
cosche per la custodia di enormi quantità di ogni tipo di
droga. Nel campo della droga agiscono anche delle persone
che non sono affiliate come Paolo Bellini, originario di
36
Reggio Emilia, personaggio dalla vita avventurosa che nel
decennio degli anni novanta incrocerà la mafia siciliana e
quella calabrese.
Più di altre, le storie di Francesco Fonti e di Luigi
Artuso hanno il pregio di mostrarci come il mercato degli
stupefacenti a Modena e a Reggio Emilia venisse
considerato come una sorta di mercato unico. Le due città
rappresentano, per i mercanti di droga, un continuum
territoriale, un unico bacino. Essi scavalcano, senza alcuna
difficoltà, barriere e confini comunali e provinciali.
Anche gli Artuso, come Fonti, erano al servizio di
altri mafiosi. C’è l’ulteriore conferma di una singolare
particolarità del mercato di droga a Modena e a Reggio
Emilia: nessuna ‘ndrina chiede e pretende l’esclusiva da
parte di chi smercia. Dal punto di vista commerciale e della
logica della concorrenza potrebbe sembrare una vera e
propria bestemmia. Ma nel mondo criminale non sempre
valgono le stesse regole economiche del mondo legale.
Paolo Bellini e la ‘ndrangheta
Uno degli aspetti più interessanti della vicenda
reggiana è il rapporto che ad un certo punto si venne a
instaurare tra Paolo Bellini e una ‘ndrina crotonese
operante a Reggio Emilia. L’incontro fu tra i più nefasti
perché provocò lutti a Reggio Emilia e in Calabria, perché
creò un clima di tensione e di paura a Reggio Emilia che si
superò solo con la cattura e con la collaborazione con gli
inquirenti da parte dello stesso Bellini che diede la sua
versione dei fatti in un processo che, seppure passato in
cosa giudicata, lascia in piedi alcuni interrogativi su chi sia
stato realmente il “bandito reggiano” Paolo Bellini.
La vicenda di Bellini, uomo dai trascorsi di destra
che si dà alla latitanza per non finire in galera, non è solo
37
quella di un abile ladro di provincia o di un furbo latitante
internazionale che, come tanti altri estremisti di destra
dell’epoca, riesce ad avere appoggi e protezioni durante il
periodo di cattività all’estero e perfino in Italia. La sua è
una vicenda ben più complessa, misteriosa e in parte
oscura. In modo del tutto inaspettato, data la sua biografia,
lo troviamo in Sicilia in stretto contatto coi i mafiosi di
Cosa nostra, anzi con i vertici, con il centro di comando
della mafia siciliana. Il periodo è quello, davvero cruciale
per la storia d’Italia, dell’inizio degli anni novanta quando
ci furono le stragi di Capaci e di via d’Amelio con le
orrende morti di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino
unitamente alle donne e agli uomini delle loro scorte.
Bellini, secondo quanto è stato processualmente
accertato, sembra fare un gioco spericolato con i vertici di
Cosa nostra. Nello stesso periodo di tempo – mentre era in
contatto sia con i mafiosi sia con i carabinieri – Bellini fa
un gioco ancora più spericolato conducendo una
personalissima partita che lo trasforma in killer di uno
spezzone della ‘ndrangheta che ha come teatro di
operazioni la città di Reggio Emilia. Sarà lo stesso Bellini a
raccontare queste cose appena venne arrestato. Di fronte a
chi lo ascoltava, per molti versi incredulo, cominciò ad
autoaccusarsi di alcuni omicidi a cominciare da quello di
Alceste Campanile, un giovane di estrema sinistra ucciso
nel lontano 13 giugno 1975.
Dice di essersi pentito dopo “un travaglio di circa un
mese”. Il ripensamento era iniziato dopo il 16 aprile 1999
quando Bellini uccise lo zingaro Oscar Truzzi, per un
equivoco, per un banale scambio di automobile con quella
dell’uomo che avrebbe dovuto essere ucciso, ed era
continuato dopo il mancato omicidio del muratore Antonio
Valerio del 1° maggio 1999. L’omicidio Truzzi, a quanto
38
pare, ha avuto un effetto devastante. “E’ stata la cosa più
bestiale della mia vita”35
. Una scossa che costringe
l’assassino a porsi delle domande sul perché continuasse
ancora su quella strada invece di fermarsi.
Bellini raccontò il suo incontro in carcere con un
uomo di ‘ndrangheta, Nicola Vasapollo. Nacque
un’amicizia, un legame profondo; ci fu anche una reciproca
promessa, uno scambio di favori che consisteva
nell’impegno di eliminare l’uno il nemico dell’altro.
Vasapollo non nascose la sua appartenenza al gruppo dei
Dragone, anzi si confidò con Bellini. Il reggiano, però,
afferma di non essere affiliato alla ‘ndrangheta. “Io non
sono stato affiliato a gruppi, con il rito, come si suol dire,
di affiliazione”. Non ci fu alcun rito “e reputo che questo fu
forse per il dato di fatto che io non ero calabrese”36
. E
tuttavia il legame si rinsaldò ugualmente attraverso una
proposta che tendeva ad attirare Bellini nell’orbita
familiare dei Vasapollo. Nicola Vasapollo gli chiese di far
da padrino a un suo cugino. Questo fatto cementò il
rapporto tra i due. E Bellini colse in tutta la sua valenza la
richiesta di far da padrino. “Non si chiede di fare da
padrino a chicchessia. E fu proprio una ufficializzazione
dei rapporti che si instaurarono fra di noi, di quello che
doveva nascere in quel periodo” . Entrava in un
meccanismo di tipo familiare e, data l’importanza che la
‘ndrangheta dà ai rapporti familiari, non c’è alcun dubbio
che la proposta rivestiva un particolare significato. Era,
aggiunse Bellini, “un’ufficializzazione del rapporto che si
era instaurato, talmente profondo, per il quale io avevo
35
Corte di assise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo,
Udienza del 6 febbraio 2002 e del 13 febbraio 2002.
36
Corte d’Assise di Reggio Emilia, n. 1/01, Esame dibattimentale di Paolo Bellini,
udienza del 6 febbraio 2002.
39
commesso un omicidio per loro. Non solo, era un rapporto
che ci univa”.
L’omicidio di cui parla Bellini era quello di Paolo
Lagrotteria ucciso nel crotonese nell’estate del 1992,
omicidio che determinò un particolare attrito con i
Dragone. L’aver commesso quell’omicidio ebbe
conseguenze che durarono negli anni per lo stesso Bellini
che ammetterà: “da quel giorno fui in balìa di tutto il
gruppo”. Entrò nel gruppo guidato da Nicola Vasapollo il
quale “aveva deciso di fare una famiglia per conto suo”,
staccato e in contrapposizione con i Dragone; consapevole
della potenza dei Dragone che avevano un grande numero
di associati, Vasapollo aveva iniziato ad imbastire rapporti
con altri ‘ndranghetisti della bassa mantovana con i quali
“c’era già stata spartizione di territori”. In questa nuova
riorganizzazione Bellini avrebbe dovuto svolgere il ruolo
di “consigliere”. Vasapollo durò poco alla guida dei suoi
uomini perché il 21 settembre 1992 fu ucciso a casa sua.
Morto Vasapollo, Bellini non ha più avuto “voce in
capitolo”37
. Poco prima della sua morte aveva avuto un
alterco con qualcuno dei Dragone. Come quasi sempre
accade in questi casi, la spaccatura traeva origine da
questioni finanziarie perché i soldi non erano stati spartiti
nella maniera soddisfacente per tutti.
Bellini, dunque, entra in rapporto organico con una
cosca della ‘ndrangheta. Alle dipendenze di questa uccide
e partecipa al traffico di droga. Prende droga. Insomma, fa
quello che farebbe ogni buon picciotto. Ubbidisce, esegue
gli ordini, senza discutere. Questo è un punto che Bellini
ribadisce continuamente, quasi come un’ossessione. “Per
me il problema era uno solo: eseguire ordini o non
37
Corte d’Assise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo,
Udienza del 6 marzo 2002.
40
eseguirli”. Eseguire gli ordini. Questo era l’ordine che
doveva eseguire e Bellini lo fa con molta diligenza, quasi
come un automa, quasi senza pensare, senza farsi e
soprattutto senza fare troppe domande. “Io non avevo
bisogno di chiedere cosa, quando decidevano: ‘Era da fare
quella cosa’, bisognava farla! Domande inutili io non ne
facevo”. Ripete questi concetti ad ogni udienza, ad ogni
domanda sull’argomento: “Io ho eseguito quello che mi
dicevano. Non prendevo iniziative io”38
.
Bellini racconta la guerra esplosa a Reggio Emilia
tra i Vasapollo e i Dragone per quello che a lui risulta. Lui
racconta che il gruppo di Vasapollo, per quanto più piccolo
e di gran lunga meno potente di quello dei Dragone, poteva
contare su un certo numero di uomini che lui non
conosceva personalmente ma che gli avevano assicurato
che c’erano. Agli avvocati che chiedevano come mai a
Reggio Emilia lui conosceva così pochi affiliati rispose:
“nel momento in cui io non sono stato ritualizzato non
posso fare domande”39
. Bellini non faceva che richiamare
una delle regole delle organizzazioni mafiose. Non potendo
fare domande se ne stava al suo posto. In questa guerra
c’erano delle regole ben precise. Se si doveva eliminare
qualcuno in Emilia-Romagna o altrove, comunque al di
fuori della Calabria, loro potevano agire senza chiedere il
permesso ad alcuno, mentre per uccidere in Calabria
avevano bisogno dell’autorizzazione.
38
Corte dìassise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza
del 13 febbraio 2002 e del 27 febbraio 2002. Più avanti nella stessa udienza
ripeterà: “Io ero un esecutore”; “io ricevevo degli ordini ed eseguivo degli ordini,
non contestavo”. Nell’ udienza del 6 marzo 2002 dirà: “Io quando arrivava
l’ordine lo eseguivo meccanicamente, freddamente, da deficiente totale”.
39
Corte d’assise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza
del 6 marzo 2002.
41
Nell’estate del 1993 Bellini viene arrestato per
scontare una condanna divenuta definitiva. Rimane in
carcere fino al 1995, poi fino al 1998 è inserito in un
programma di protezione in seguito a minacce ricevute
dopo la sua testimonianza a Firenze nel processo per le
stragi del 1992 - 1993. Si sentiva braccato. Era inseguito
dai mafiosi calabresi e da quelli siciliani. Con
un’espressione ad effetto all’udienza del 27 febbraio 2002
dirà: “Portavo a spasso le mie ossa”. Non aveva tutti i torti.
I Dragone lo cercavano perché avevano saputo che era un
killer40
. Brusca lo aveva condannato a morte41
.
Nel 1998, senza dare una ragionevole spiegazione,
rifiuta il programma di protezione e fa ritorno a Reggio
Emilia dove, con la “pressione psiclogica” degli omicidi
commessi per loro in precedenza, viene risucchiato dai suoi
amici ‘ndranghetisti agli ordini dei quali lascia una lunga
scia di sangue tra la fine del 1998 e la metà del 1999. Firma
le sue esecuzioni sempre con la medesima arma, diventata
inseparabile, quasi una compagna di vita; eppure sparare
con la stessa arma era compromettente e pericoloso perché
poteva consentire agli inquirenti di collegare un omicidio
ad un altro.
La vicenda di Bellini, com’è del tutto evidente, è
intimamente collegata alla storia della ‘Ndrangheta e alle
particolari vicende che si sono intrecciate sull’asse che lega
strettamente Cutro e Reggio Emilia. E tuttavia non è solo
questo. E’ molto più complessa e oscura perché, nonostante
le tante dichiarazioni fatte, prima come testimone a Firenze
40
Antonio Dragone smentì Bellini nel corso del processo e disse che non c’era
nessuna faida con Vasapollo, “ed in effetti prima di sedere sul banco dei testimoni,
il presunto capo della cosca cutrese davanti alle guardie carcerarie, ha abbracciato
quelle due persone che a detta degli inquirenti avrebbero fatto uccidere alcuni dei
suoi uomini”, Il Crotonese 19 aprile 2002.
41
Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 13 marzo 2002, p. 129.
42
e poi come collaboratore di giustizia, ancora oggi la storia
personale di Bellini lascia dubbi irrisolti e domande che
non trovano risposte. Il rapporto di Bellini con la
‘Ndrangheta si può dividere in due fasi, quella iniziale dei
primi anni novanta e quella finale che culmina nell’arresto
e nella decisione di collaborare. Su entrambe ci sono
interrogativi non chiariti come quello formulato dal
sostituto procuratore nazionale antimafia Vincenzo Macrì
nel settembre 2000 ai commissari dell’antimafia: “perché
una cosca peraltro minore, non di grande rilievo nazionale,
sia entrata in contatto con questo personaggio e lo abbia
utilizzato per questi omicidi resta un punto interrogativo
che rimanda alle indagini effettuate da altre direzioni
distrettuali antimafia circa i rapporti tra le organizzazioni, o
alcune cosche della ‘Ndrangheta e alcuni ambienti del
mondo particolare dello stragismo, del terrorismo,
dell’eversione ecc.”, tenuto conto anche del fatto che Paolo
Bellini è “un personaggio inquietante che ha un passato
tutto particolare, di persona collegata con la destra
eversiva”42
.
E poi ci sono i dubbi sulla seconda fase. Come mai
Bellini rientra nel 1998 a Reggio Emilia e si consegna mani
e piedi, fino al punto di diventare un fedele esecutore, un
killer al servizio di un gruppo che, per quanto grande
Bellini potesse immaginarselo, era di gran lunga meno
forte, meno importante e prestigioso di quello dei Dragone
che era più titolato sul piano criminale? Nicola Vasapollo
era già morto da oltre sei anni. Perché ritornare a mettersi
nelle mani di quello che era rimasto del gruppo originario?
Per una fedeltà alla memoria dell’amico? Bellini insiste sul
ricatto psicologico che gli era stato fatto basato sugli
42
Commissione parlamentare antimafia, Missione in Emilia-Romagna, Bologna,
13 settembre 2000.
43
omicidi già commessi. Ma la sua appare come una
giustificazione debole a fronte della sua biografia
criminale. Bellini si guadagna da vivere, come ammette lui
stesso, facendo l’autista di camion, mestiere scelto perché
lo porta in giro per l’Italia e per l’Europa e gli evita la
sedentarietà che rappresenta un pericolo per uno come lui
che continuava a sentirsi braccato.
Un fatto è inequivocabile: Bellini diventa strumento
di risoluzione dei contrasti interni; anzi, per la precisione,
diventa il Killer di uno spezzone di cosca che cerca una
vendetta postuma per un omicidio consumato in Calabria,
quello di Luigi Valerio, “commesso per futili motivi” da
Rosario Ruggero a sua volta ucciso nel giugno del 1992.
Quel primo omicidio sarà il capostipite di una lunga faida
con morti ammazzati per le vie di Cutro e di Reggio
Emilia. Tra questi se ne possono ricordare alcuni, i più
significativi. Il 29 settembre del 1992 venne ucciso
Vasapollo Nicola nella sua abitazione di Reggio Emilia. Il
22 ottobre a Brescello venne ucciso Ruggiero Giuseppe.
Per questi due delitti furono condannati all’ergastolo
Dragone Raffaele e Lucente Domenico. Il clan Dragone
avrebbe dovuto uccidere i fratelli Ruggiero, Antonio e
Rosario, nonché Vasapollo Antonio e Vincenzo,
rispettivamente zio e cugino di Nicola, ma tale proposito
non fu portato a termine a causa dell’arresto di costoro.
La fine del decennio portò altri morti. Il 5 dicembre
1998 fu ucciso Giuseppe Gesualdo Abramo originario di
Cutro e residente a Reggio Emilia. Pochi giorni dopo, il 18
dicembre, Bellini fa l’attentato al Pendolino. “Il Pendolino
era un bar sito in via Ramazzini, frequentato notoriamente
da calabresi, prevalentemente provenienti da Cutro e da
leccesi. Questi due gruppi di clienti, per lo più fissi, si
intrattenevano normalmente a lungo nelle salette del bar
44
per giocare a carte. Non vi erano posti fissi ai tavoli nelle
due salette che venivano usate indifferentemente dagli uni
o dagli altri”.
Poi, il 16 aprile 1999 ci fu l’omicidio di Oscar Truzzi
e il 1° maggio 1999 il tentato omicidio di Antonio Valerio,
anche lui di Cutro ed emigrato a Reggio Emilia.
Nell’agosto del 1999 venne ucciso Raffaele Dragone, figlio
di Antonio Dragone, mentre stava per fare rientro nel
carcere di Santa Severina. Bellini raccontò la logica
spietata che guidava gli assassini di ‘ndrangheta, e lui era
diventato uno di loro. “Quando si condanna qualcuno a
morte, in questi sistemi, in questi schemi, in queste
organizzazioni, si condanna a morte! La sentenza va
eseguita, anche a distanza di anni, e quando c'è una guerra
in atto non ci si ferma, a meno che non avessero fatto dei
patti diversi a mia insaputa. Ed ancora la sostanza è una
sola: se tu non vuoi più uccidere, devi essere ucciso. Perchè
questo non è un mestiere dove ti puoi licenziare. Quando si
entra in uno schema malavitoso, non è che dici: ‘Io mi
licenzio. Adesso faccio l'istanza di licenziamento e me ne
vado’. Tu non ti puoi licenziare lì, allora le modalità, sono
solo queste: o ti uccidono o ti mettono in condizioni di
ucciderti”.
Il ritratto di Bellini fatto dai giudici reggiani, a
conclusione del processo, è quanto mai suggestivo:
Benché abbia compiuto una scelta di vita, incondizionata e senza
riserve, per la delinquenza mai può dirsi integrato in modo organico
in una specifica realtà criminale; non condivide per certo la
ispirazione (se si può dire) ideologica della delinquenza organizzata
calabrese (la ‘ndrangheta) e siciliana (la mafia) e tuttavia se ne sente
attratto, entra in contatto con essa e pur dall’esterno (per la diversa
origine regionale) finisce per parteciparvi, accettandone di necessità
le regole. Sembra che sia spinto dalla ambizione di entrare in
rapporto con le manifestazioni più salienti della criminalità, ma
45
intende difendere un proprio ruolo di autonomia pur quando coglie le
occasioni che gli si offrono per eccellere nella sua opzione
criminosa: diviene dunque un killer professionista (privo di
inibizioni, capace di uccidere con estrema freddezza e per le più futili
ragioni), pronto ad associarsi ai criminali di più alto spessore. Non
stupisce quindi di trovare il Bellini non secondario partecipe della
vicenda fiorentina dei Georgofili in un singolare rapporto con la
mafia di Brusca; ma anche capace di ‘svanire nel nulla’ per acquisire
non solo in Brasile ma anche in Italia una diversa identità in una
latitanza che si protrae per quasi cinque anni finchè non viene
scoperto. E sotto false generalità viene arrestato e processato. Al
nome di Roberto Da Silva con una impudenza che non ha eguali
ottiene il porto d’armi, l’autorizzazione alla detenzione del fucile, la
patente di guida; si iscrive alla scuola di volo di Foligno e vi
consegue il brevetto di aviazione civile di primo e di secondo grado.
Entra nel giro di furti e ricettazioni di mobili antichi di notevole
valore e di oggetti d’arte e la polizia suppone che possa dare un
contributo per il recupero dei quadri oggetto della rapina alla
Pinacoteca di Modena: né infine rifiuta di farsi strumento primario
del progetto di eliminazione fisica dei componenti ‘reggiani’ del clan
Dragone, progetto concepito dal nucleo Bonaccio-Vasapollo che da
quel clan si è distaccato.
E’ un ritratto inquietante se si pensa all’origine
sociale e regionale di Bellini, tanto più inquietante perché
mostra la capacità di attrazione delle mafie verso soggetti
che per storia personale e familiare nulla avevano a che
spartire con quel mondo. Continuavano i giudici reggiani:
“Né, a differenza di quanto ha sostenuto la difesa dei
coimputati, vi è incompatibilità logica tra i rapporti
intrattenuti dal Bellini con la malavita di origine calabrese
ed i suoi contatti con la mafia siciliana. Il Bellini, che è
reggiano e che nell’ambiente della criminalità locale ha
maturato le sue scelte di vita, non avvertiva legami
‘culturali’ organici con quelle diverse realtà delinquenziali
in alcuna delle quali si identificava sicché ben poteva
intrattenere relazioni con l’una e con l’altra, ponendosi
46
indifferentemente al servizio di entrambe. In proposito
deve osservarsi come l’inserimento occasionale del Bellini
in queste ‘organizzazioni’ sia avvenuto in ragioni dei
rapporti personali di amicizia dallo stesso allacciati in
carcere con detenuti che di quelle organizzazioni erano
partecipi. E perché non era calabrese non fu riconosciuto
intrinseco alla organizzazione, non fu ‘ritualizzato’,
‘pungiuto’, non ricevette cioè una investitura ufficiale nella
“famiglia”. E ciò vale a spiegare le incomplete
informazioni di cui il Bellini era in possesso in ordine sia
alla struttura organizzativa che ai singoli partecipi della c.d.
‘ndrina. Intenzionalmente il Bellini – il killer al servizio
della ‘ndrina – dovette essere perciò tenuto all’oscuro dei
più importanti ‘affari’ del sodalizio criminale”.
Bellini, secondo quanto ha raccontato durante il
processo, è stato tenuto all’oscuro dagli “affari” della cosca
e “di qualunque altro aspetto della vicenda. E questa
circostanza sembra trovare spiegazione nella mancanza di
una sua formale affiliazione e nella ovvia segretezza che
caratterizza la ‘ndrangheta”. Secondo i giudici reggiani,
ttto il racconto di Bellini “non offre tuttavia elementi di
conoscenza specifica sull’esistenza di una struttura
organizzativa stabile e permanente operante a Reggio
Emilia nonché sulle finalità della stessa, come indicate
nell’imputazione”.
Non è chiaro cosa intendano i giudici per “struttura
organizzativa stabile e permanente”. I Dragone erano a
Reggio Emilia dall’inizio degli anni ottanta, trafficavano
droga e facevano altri affari criminali. E quelli che a loro si
contrapponevano erano una costola di quella famiglia
mafiosa ed usavano gli stessi mezzi per affermarsi, mezzi
violenti, mafiosi. Ma i giudici, pur consapevoli di questo
dato storico arrivarono, sul piano giudiziario, ad una
affermazione particolare: “E se il clan Dragone aveva
47
assunto i connotati propri dell’associazione di tipo mafioso
come è stato affermato in altro giudizio, è ragionevole
supporre che il gruppo a quel clan contrapposto nella
contesa per il potere nell’ambiente criminale di Reggio
Emilia, si fondi su un’analoga struttura organizzativa; ma
una tale presunzione (pur avvalorata dall’esperienza dei
fenomeni criminosi, tipici della ‘ndrangheta, con le faide
dirette alla spartizione dei territori) non può assumere il
significato di prova piena nel senso che il legame di
solidarietà per certo sussistente tra Bellini (anche sul punto
sicuramente credibile) il Vasapollo ed il Bonaccio, si fondi
su una stabile organizzazione di mezzi che assuma i
connotati tipici dell’associazione secondo il modello di cui
all’art. 416 bis cp. Al riguardo fanno difetto sicuri riscontri,
pur se può ritenersi comprovato che Bellini e Vasapollo
abbiano perseguito il progetto originariamente promosso da
Nicola Vasapollo ed al tempo stesso ne abbiano inteso
vendicare la uccisione, avvenuta, secondo la comune
convinzione (vedi supra ), ad opera del clan Dragone”.
La conseguenza è stata l’assoluzione di tutti gli
imputati dall’associazione a delinquere di stampo mafioso,
pur condannando gli stessi per altri reati a cominciare da
Bellini cui è stata inflitta la pena di 23 anni di reclusione43
.
43
Corte di Assise di Reggio nell’Emilia, Sentenza contro Bellini Paolo + 2, 5
luglio 2002. Per la ricostruzione dell’intera vicenda di Bellini è utile anche Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, Richiesta di applicazione di
misure cautelari nei confronti di Bellini Paolo + 2, 6 luglio 1999. Il Pm
richiedente era Maria Vittoria De Simone. Sulla sentenza vedi Il Crotonese, 9
luglio 2002.
48
PARTE SECONDA
Evoluzione del traffico di stupefacenti nel nuovo
millennio.
Il mercato della droga a Reggio Emilia è sempre
stato fiorente e, come s’è visto, è sempre stato frequentato
da più organizzazioni criminali o mafiose, piccole e grandi.
Ma, dopo le indagini di fine Novecento che hanno
destrutturato alcune ‘ndrine e portato alla collaborazione
personaggi molto importanti e molto attivi nella
distribuzione della droga, la situazione ha registrato
significativi mutamenti. A quanto se ne sa, non ci sono
personaggi dello spessore di Fonti o uomini che abbiano
caratteristiche simili a quelle di Artuso o di Cavazzuti. Non
ci sono più uomini come Rocco Gualtieri che durante il
processo a Crotone dopo essere diventato collaboratore di
giustizia, su sollecitazione del pubblico ministero Pierpaolo
Bruni raccontò di aver avuto l’incarico di “dare la roba”,
cioè la droga, “per tutta l’Emilia” su incarico dei Dragone
che si procuravano lo stupefacente dai De Stefano di
Reggio Calabria44
. Anche Vittorio Foschini disse che lui
aveva rapporti con i Dragone e con Grande Aracri per lo
spaccio di droga a Reggio Emilia e a Parma, rapporti che si
44
Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame
dibattimentale di Rocco Gualtieri, Udienza del 4.6.2003, p. 52.
49
prolungarono per oltre un decennio, fino agli albori degli
anni novanta45
.
Il nuovo millennio, da questo punto di vista, ha
portato delle novità nel senso che le figure storiche del
narcotraffico sono state neutralizzate e il traffico non è
strutturato come in altre realtà del centro-nord, anzi ha
subito vistose modificazioni perché, come ha spiegato il
procuratore della Repubblica di Reggio Emilia Italo
Materia, “Reggio da piazza di smistamento, luogo di
smercio è probabilmente diventata luogo di elevatissimo
consumo. E’ quindi probabile che il traffico all’ingrosso si
sia spostato altrove”. E di conseguenza è anche possibile
ipotizzare che si siano spostati anche i reggiani che
assumono droga e che devono andare a procurarsi la droga
altrove. Il mutamento non è di poco conto – ci sarebbe una
“sorta di mutazione della piazza” – e deve attribuirsi alle
indagini e alle attività delle forze di polizia e della
magistratura che hanno prodotto le modificazioni ricordate.
Queste, infatti, non hanno altre spiegazioni che siano tali
da giustificare l’evidente alterazione del mercato degli
stupefacenti che così si è venuta a determinare.
I mutamenti, per quanto rilevanti possano essere
stati, non hanno però sconfitto il fenomeno, lo hanno solo
ridimensionato e ricondotto su altre modalità di spaccio; ed
infatti la situazione è tale che, sempre secondo il
procuratore Italo Materia, “la quantità della droga che
circola in città e in provincia è talmente elevata da essere
addirittura di difficile quantificazione”46
. La descrizione
del procuratore delinea uno scenario del tutto inedito
perché dimostrerebbe come in città siano del tutto
45
Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame
dibattimentale di Vittorio Foschini, Udienza del 28.5.2003, p. 90.
46
Massimo Sesena, “Reggio sommersa dalla droga. E’ vera emergenza”,
intervista a Italo Materia, Gazzetta di Reggio, 18 maggio 2005.
50
scomparse quelle figure in grado di alimentare il mercato
dei narcotici cittadino; una rivoluzione in piena regola che
ha bisogno di conferme che solo il tempo potrà dare.
Eppure, nonostante il mutamento del ruolo e delle funzioni
della piazza di Reggio Emilia, si raccolgono rilevanti
quantitativi di denaro contante perché la droga continua a
rimanere il più grosso business finora conosciuto, quello
con il quale si guadagna di più.
E’ un mercato complesso, quello reggiano, dove
convivono droghe di alto valore commerciale come la
cocaina che può essere acquistata da chi ha determinati
redditi e droghe sintetiche a basso costo che possono essere
acquistate da chi ha poco denaro da spendere. Sono due
mercati che confinano ma non si sovrappongono. Il
mercato delle droghe sintetiche è popolato da fasce
giovanili a basso reddito e da immigrati extracomunitari e
clandestini con poca disponibilità di denaro47
.
Il territorio di Reggio Emilia è comunque parte di un
territorio più vasto. Questa considerazione emerge dal fatto
che sempre di più le indagini giudiziarie partite da Reggio
arrivano ad altri luoghi oppure che inchieste avviate in altre
località molto distanti approdino a Reggio. E naturalmente
in questi casi le strutture del narcotraffico sono molto ben
strutturate, ad esse partecipano anche i mafiosi e la droga
trattata è la cocaina. E’ capitato così con l’operazione
Gringo che, venuta a maturazione sul finire del 2004
aveva, però, preso l’avvio dai primi mesi del 2000. Come
sempre accade si era partiti da episodi di piccolo spaccio di
cocaina per poi risalire ai livelli più alti e a territori come
quelli di Modena, Pesaro, Lecco e Bari. I gruppi di
narcotrafficanti erano anche in ”affari” con “cosche della
47
Mario Sabia, Reggio invasa dalla droga a basso costo, Gazzetta di Reggio, 9
giugno 2005.
51
zona di Reggo Calabria e del crotonese dedite al traffico di
stupefacenti”48
.
Altra organizzazione più complessa – che aveva al
suo interno uomini legati ad “ambienti contigui alla
‘ndrangheta” – venne alla luce all’inizio del 2005 tra
Reggio Emilia, Torino, Cuneo, Brescia, Vibo Valentia,
Modena. Come si vede, le regioni interessate erano Emilia-
Romagna, Piemonte, Lombardia, Calabria. La droga
arrivava sulle piazze italiane dopo aver seguito un percorso
lungo e tortuoso. Partiva dalla Colombia e poi dopo un
viaggio in Argentina e Olanda arrivava in Italia attraverso
il valico di Ventimiglia che spesso rappresenta la porta
d’ingresso per la droga in Italia. I colombiani avevano
trovato il modo di rendere “invisibile” la droga, un modo
singolare, davvero ingegnoso. “Le partite di droga
venivano fin dall’origine disciolte tra le fibre di plastica di
numerosi borsoni che in questo modo riuscivano
agevolmente ad essere introdotti in Italia. Qui un’apposita
squadra di chimici, organizzata dagli stessi malviventi
argentini, sottoponeva le borse al procedimento inverso di
liquefazione ed estrazione della cocaina in due raffinerie
artigianali a Torino e a Bologna”49
.
Non ci sono solo italiani in questo mercato, anzi. C’è
una robusta presenza di stranieri. L’operazione ‘Bravo
Mohamed’ ha mostrato come Reggio sia un importante
“crocevia” per il mercato delle sostanze stupefacenti.
Durante l’operazione sono state arrestate 11 persone
d’origine marocchina e sequestrati 18 kg. di eroina. Come
di solito accade, si è arrivati a individuare il traffico dopo
una lunga opera di intercettazioni telefoniche che hanno
48
Mario Sabia, Sgominate cinque bande di trafficanti di droga, Gazzetta di
Reggio, 16 gennaio 2005. Vedi anche Le cosche portano la droga, il Resto del
Carlino, 18 gennaio 2005.
49
Borse da viaggio sì, ma in pura cocaina, Gazzetta di Reggio, 3 febbraio 2005.
52
decodificato i termini per definire la droga che i trafficanti
indicavano con nomi di fantasia, a volte davvero
stravaganti: la bianca, scaglie di pesce, la sporca, gesso,
pizze, agnello, teste d’asino. La droga partiva dalla
Colombia e poi, dopo aver viaggiato in container via mare,
compariva in Italia. I trafficanti erano attivi anche nelle
province di Brescia e di Bergamo50
. Reggio continuava ad
essere un “importante crocevia” per la distribuzione di
droga verso altri mercati come quello toscano51
. Le vie per
far arrivare la droga sono davvero infinite. Un
extracomunitario di 26 anni il 3 febbraio del 2006 è
arrivato a Reggio Emilia imbottito con ben 80 ovoli di
cocaina che pesavano complessivamente un kg., un peso
davvero spropositato che poteva mettere seriamente a
repentaglio la vita del giovanissimo trasportatore52
. Ogni
tanto, in queste operazioni delle forze dell’ordine,
compaiono anche degli albanesi che unitamente a italiani,
spacciano droga53
.
Ma, al di là delle operazioni che segnalano la
presenza di un pulviscolo di presenze criminali di varia
provenienza, la ‘ndrangheta continua a rimanere
l’organizzazione “più aggressiva e attiva nel traffico di
droga. E sono le ‘ndrine calabresi ad esercitare il controllo
della maggior parte degli illeciti” nella provincia reggiana.
In particolare, la ‘ndrangheta di origine cutrese “è
sicuramente ben organizzata e ramificata, potendo contare
50
“Ecco le pizze”: decifrato il codice degli spacciatori, L’Informazione di Reggio
Emilia, 12 novembre 2005.
51
Giuseppe Manzotti, Droga a chili nell’auto, tre in manette, L’Informazione di
Reggio, 16 novembre 2005.
52
Cinque trafficanti di droga oggi a processo in tribunale, Giornale di Reggio, 3
febbraio 2006.
53
Traffici di coca, in quattro alla sbarra, Gazzetta di Reggio, 17 maggio 2006.
53
anche in omertose complicità da pare di fiancheggiatori
insospettabili”54
.
La violenza omicida tra Cutro e Reggio Emilia.
Durante il processo contro Bellini i giudici di Reggio
Emilia ricostruirono, seppure in estrema sintesi, il contesto
storico della presenza mafiosa in Reggio Emilia e le
ragioni della divaricazione nella cosca Dragone fino alla
vera e propria contrapposizione tra Antonio Dragone e
Nicolino Grande Aracri. L’origine è correttamente
collocata sul finire degli anni settanta con l’arrivo degli
emigrati calabresi: “Alla fine degli anni 70 si è registrato
un flusso migratorio da Cutro verso le province di Reggio
Emilia, di Mantova e di Cremona. La cosca dominante a
Cutro fino al 1983 era quella della famiglia Dragone,
capeggiata da Dragone Antonio, cui succedette Dragone
Raffaele. Il potere di questo fu breve e terminò nel 1985
con il suo arresto. Fu allora che iniziò ad affermarsi
all’interno della cosca la figura carismatica di Grande
Aracri Nicolino, il quale nei primi anni dovette dividere lo
scettro con Dragone Antonio. Questi dal carcere
continuava tuttavia ad essere il punto di riferimento di
buona parte dei suoi affiliati. Con il passare del tempo
divenne unico capo incontrastato Grande Aracri Nicolino.
Le unità che componevano la cosca erano circa una
settantina ed erano per lo più i parenti, gli amici di
infanzia, i testimoni di nozze, i compari di anello e via
dicendo. Grande Aracri Nicolino era stato testimone del
matrimonio tra Dragone Raffaele ed Arabia Rosaria”.
54
Una realtà radicata e pericolosa, L’Informazione di Reggo Emilia, 15 luglio
2007.
Le dinamiche criminali a Reggio Emilia - Enzo Ciconte (2008)
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Le dinamiche criminali a Reggio Emilia - Enzo Ciconte (2008)

  • 1. Le dinamiche criminali a Reggio Emilia Enzo Ciconte
  • 2. 1 11 gennaio 2008 Le dinamiche criminali a Reggio Emilia Enzo Ciconte
  • 3. 2 Introduzione Nell’ultimo decennio la Regione Emilia-Romagna, in accordo con alcuni comuni tra i quali quello di Reggio Emilia, ha dedicato una particolare attenzione allo studio e alla ricerca sulla presenza della criminalità organizzata nelle città e nei comuni emiliano-romagnoli. Dieci anni sono un periodo ampio e sufficientemente lungo per delineare il quadro della eventuale esistenza, presenza ed attività sul territorio regionale di formazioni criminali e mafiose italiane alle quali si sono aggiunte, negli ultimi tempi, agglomerati criminali d’origine straniera. Una scelta così prolungata nel tempo mostra come essa rientri nell’alveo di un programma della Regione e dei comuni interessati finalizzato alla conoscenza della realtà del proprio territorio. Un impegno di così vasta portata va segnalato per la sua importanza strategica soprattutto perché tocca un tema sensibile come quello della criminalità e della sicurezza che normalmente si fa di tutto per nascondere o per non evidenziare più di tanto. Nelle aree cosiddette non tradizionali, come quelle del centro e del nord Italia, di solito si tende a sottovalutare il problema, a sottostimarlo, a dire che in fondo l’esistenza della criminalità organizzata è un problema solo del sud. Simili opinioni non sono nuove, anzi hanno durata pluridecennale e anche quando sono espresse con le migliori intenzioni – la salvaguardia della reputazione e dell’immagine della propria città o regione – in realtà finiscono con l’impedire la piena comprensione di quanto stia succedendo nella realtà perché, così facendo, non si va a guardare quanto accade sotto la superficie delle cose e ci si accontenta solo delle apparenze. Trovare
  • 4. 3 amministrazioni pubbliche in controtendenza con questo andazzo è raro e quando succede va sottolineato come un evento positivo perché conoscere il proprio territorio rappresenta la condizione essenziale per salvaguardarlo dalle infiltrazioni di presenze pericolose come quelle della criminalità organizzata. Siffatto percorso di conoscenza è ancora più apprezzabile perché consente l’adozione di politiche di prevenzione mirate a costruire consapevolezza diffusa tra i cittadini e barriere adeguate per tentare di fermare ulteriori casi di infiltrazione o di inserimento. Conoscere il proprio territorio e i soggetti criminali che lo abitano è dunque essenziale per chi amministra e voglia farsi carico dei problemi della sicurezza e della criminalità che tanto interessano i cittadini. L’attuale ricerca si muove in continuità con quelle precedenti, ne costituisce il proseguimento naturale, un ulteriore aggiornamento delle conoscenze. Il punto di partenza del presente lavoro – che occuperà, seppure parzialmente, un pezzo della prima parte – sarà quello di esporre una sintesi, una riscrittura e una rielaborazione delle precedenti ricerche, e ciò allo scopo di fornire un quadro del punto di partenza, dello stato iniziale dell’intero lavoro di questi anni. In via preliminare, e tentando una prima sintesi dell’intera ricerca è necessario dire che ci sono molti elementi di continuità che indicano l’esistenza di una attività oramai strutturata della criminalità organizzata nella città, ma ci sono anche alcuni altri elementi che segnano delle novità. Il dato più significativo è la conferma che a Reggio il mondo della criminalità è dominato dalla ‘ndrangheta seppure con caratteristiche diverse rispetto al passato perché la crescente guerra che è intercorsa a cavallo del passaggio del millennio e che è proseguita fino a qualche anno fa e le conseguenti attività di indagine e di contrasto
  • 5. 4 della magistratura reggiana e calabrese hanno portato a risultati importanti modificando sensibilmente il panorama mafioso che opera a Reggio Emilia. Accanto a questa presenza ingombrante ci sono altre presenze di criminalità d’origine straniera che creano notevole allarme sociale per i reati che commettono – furti, scippi, rapine, spaccio di droga, prostituzione – ma che non hanno la potenza e la proiezione nazionale che ha la ‘ndrangheta. Mente si stanno scrivendo queste pagine la ‘ndrangheta è considerata l’organizzazione più forte a livello italiano ed europeo, quella che ha maggiori presenze e filiali al centro- nord Italia. La ‘ndrangheta che agisce a Reggio Emilia è una criminalità che ha forti legami con la cosca principale che è originaria di Cutro dove c’è la storia familiare e dove risiede il punto di comando, il centro nevralgico di tutte le attività calabresi che hanno una ricaduta su quelle reggiane. E’ bene partire da un dato della realtà senza il quale non si comprenderebbe quello che è avvenuto o avviene a Reggio Emilia: il mafioso che dimora a Reggio Emilia dipende da chi sta in Calabria ed è subordinato funzionalmente ai capi che vi risiedono. Il cervello della ‘ndrina rimane in Calabria. Questa caratteristica rende forte la ‘ndrangheta che è l’unica organizzazione mafiosa ad avere due sedi, la principale in Calabria e le altre sparse per il resto delle regioni italiane. Questa caratteristica troverà un’impressionante conferma nelle intercettazioni ambientali il cui protagonista principale è stato il vecchio Antonio Dragone. E’ rimasto carcerato per circa un ventennio, ma ha sempre cercato di tenere le fila dell’organizzazione. Una volta uscito di prigione e fino al giorno prima di essere trucidato, dava indicazioni concrete ed operative ai suoi affiliati per compiere estorsioni a Reggio Emilia in danno di
  • 6. 5 imprenditori originari di Cutro o del circondario di Crotone. Dragone era informato in tempo reale delle mosse degli affiliati, delle risposte delle vittime, consigliava, ordinava, dava delle indicazioni. Operava attivamente a Reggio Emilia pur essendo fisicamente a Cutro. Quella che agisce a Reggio Emilia può essere considerata, dal punto di vista mafioso, una filiale di quella che opera nella lontana Calabria. Ma, com’è ovvio, i due mondi hanno una realtà criminale che è una opposta all’altra. Tra Reggio Emilia e la Calabria c’è una prima, fondamentale diversità: nei comuni calabresi dove opera la ‘ndrangheta c’è un’occupazione del territorio, con un controllo asfissiante, opprimente, totalizzante di quasi tutte le attività, da quelle economiche a quelle politiche e a quelle di relazione. A Reggio Emilia non c’è alcun controllo del territorio. Non c’è stato nel passato non c’è adesso. La ‘ndrangheta agisce a Reggio Emilia e in altre parti dell’Emilia-Romagna come se operasse in terra straniera; anzi, per essere più precisi: in terra nemica. Si muove in terra nemica. Così doveva sentirsi uno degli uomini di Antonio Dragone il 4 marzo 2004 quando si recò a chiedere il pizzo a un imprenditore d’origine cutrese. L’uomo telefonò a Dragone e si rivolse con l’appellativo di zio in segno di rispetto. Gli disse: “Zio Totò, io vi dico sempre le cose come sono …....se uno è cutrese che so che la pensa alla cutrese è un conto…ma se uno che è reggiano, perché questo qua, parecchie volte ha cominciato magari ad offendere un poco, hai capito?..... che parla un pochino alla reggiana, hai capito…… cercate di capirmi…… a me le persone che parlano un po’ alla reggiana poco mi stanno bene..; ha capito?”. Queste parole schiudono un mondo. L’uomo è incerto, insicuro, avverte di muoversi su un terreno scivoloso, intuisce la trasformazione
  • 7. 6 dell’imprenditore che, pur essendo originario di Cutro, dopo anni trascorsi a Reggio Emilia ha una mentalità reggiana che appare diversa e ostile rispetto a quella ‘ndranghetista. Involontariamente l’uomo fa un elogio delle politiche di inclusione, delle scelte seguite nel corso degli anni che hanno portato a una fuoriuscita dalla mentalità mafiosa. Non è cosa di poco conto. Terra nemica è un concetto che occorre tenere a mente sin dall’inizio se si vogliono cogliere in tutta la loro portata sia la potenza della ‘ndrangheta che opera a Reggio Emilia, e sia le risorse che ci sono state e che ci sono in città per contrastarla e per impedire che essa possa espandersi e radicarsi. Terra nemica, perché nel corso degli anni, nonostante una presenza oramai pluridecennale, i mafiosi non sono riusciti a penetrare la corazza costituita del comportamento delle istituzioni locali, a partire dal Comune, da tutti i partiti, dai sindacati, dalle cooperative, dalla società civile, dall’associazionismo, dal mondo cattolico. Queste realtà che hanno operato o singolarmente, ognuno nel proprio ambito, o a volte insieme, ognuna per la propria parte e con la necessaria diversità e grado di intensità nell’impegno, hanno contribuito ad impedire, almeno sino ad oggi, la penetrazione della ‘ndrangheta nel tessuto sociale e politico cittadino. Reggio Emilia, pur avendo ospitato una robusta comunità di ‘ndranghetisti non ha ceduto ad essi un palmo del suo territorio. E non lo ha fatto anche perché ci sono state indagini importanti della magistratura, dei carabinieri, della polizia, della guardia di finanza che hanno contrastato passo passo l’avanzare mafioso; indagini condotte in collegamento ed in parallelo con i loro colleghi calabresi. Eppure i mafiosi calabresi hanno agito in città; eccome se hanno agito. Hanno organizzato la distribuzione di droga, hanno richiesto e riscosso il pizzo, hanno riciclato
  • 8. 7 denaro sporco. Hanno infierito sulla vasta comunità di cittadini provenienti da Cutro che da decenni oramai vivono e lavorano a Reggio Emilia, hanno loro rappresentanti nelle istituzioni locali, sono commercianti, artigiani o imprenditori affermati e stimati, lavorano in vari campi del settore dell’edilizia, sono insegnanti o impiegati; insomma fanno parte dei settori produttivi e sociali di Reggio Emilia. Sono le persone originarie di Cutro ad essere le principali vittime – le più dirette – delle estorsioni degli ‘ndranghetisti. L’estorsione è una maledizione che da tempo accompagna i calabresi fuori dalla loro regione, che essi si portano appresso come una cattiva compagnia. Perché succede questo è presto detto: lo ‘ndranghetista chiede il pizzo ad un altro calabrese perché sa che costui farà fatica a dire di no dal momento che un rifiuto potrebbe determinare ritorsioni sui familiari rimasti in Calabria. L’essenza della forza di questi mafiosi che agiscono a Reggio Emilia non risiede a Reggio Emilia, ma in Calabria perché è là che possono valersi sui familiari. La riprova sta nel fatto che gli operatori economici, i commercianti d’origine reggiana non sono sottoposti al taglieggiamento perché costoro non riescono ad apprezzare la potenza del rappresentante della ‘ndrina che perciò appare debole dal momento che non è conosciuta e non è radicata sul territorio. Reggio Emilia è considerata dai mafiosi una città inospitale. Lo conferma un singolare episodio raccontato da Francesco Fonti, un importante collaboratore di giustizia calabrese che nel recente passato ha avuto un ruolo fondamentale a Reggio Emilia in particolar modo nel traffico di stupefacenti. Costui, dopo uno dei tanti arresti collezionati durante la sua vita criminale, disse ai giudici reggiani che la droga di cui era in possesso era andata a prenderla a Milano da Bruno Nirta, “noto mafioso di San
  • 9. 8 Luca legato ai Romeo, nel frattempo ucciso in un agguato”. Il fatto non era vero. Perché Fonti raccontò il falso? Perché affermando di avere preso la droga a Milano tentava di spostare la competenza del processo da Reggio Emilia a Milano ove riteneva di poter avere una condanna più lieve1 . Naturalmente prima di pronunciare un nome così importante Fonti cercò il consenso dei Romeo e dei Nirta. Entrambe le famiglie mafiose diedero il via libera: “Io chiesi l’autorizzazione a San Luca, al Capo Società, che avevo bisogno di fare un nome per poter spostare questo procedimento”2 . L'episodio è di un’importanza straordinaria. Fonti probabilmente riteneva che la magistratura di Reggio Emilia fosse meno avvicinabile di quella di Milano. Evidentemente a Reggio Emilia non aveva possibilità di intervenire sulla magistratura mentre a Milano riteneva di poterlo fare. Questo episodio, a saperlo leggere bene, dimostra anche un’altra cosa: il maggior radicamento della ‘Ndrangheta a Milano rispetto a Reggio Emilia e i rapporti più solidi con diversi ambienti, compresi quelli della magistratura, o, comunque, in grado di influenzare o di avvicinare qualche magistrato. L’incontro con la criminalità locale – a parte l’inquietante figura di Paolo Bellini – negli ultimi anni è stata ricondotta nell’alveo dei rapporti normali, come quelli che accadono un po’ dappertutto dove la criminalità mafiosa domina quella locale perché ha un modello organizzativo più efficiente ed una forza militare più potente. La realtà di Reggio Emilia ha una sua specificità per il fatto che ha operato una cosca familiare le cui vicissitudini, nate e sviluppatesi nella lontana – e vicina – 1 Questura di Bologna, Squadra Mobile, Rapporto a carico di Romeo Antonio + 74, 1994, p. 24. 2 Reggio Emilia, n. 87/97, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, p. 99.
  • 10. 9 Cutro, si sono riverberate anche in città dove si sono prodotti fatti di sangue, il che rappresenta una sicura anomalia. Infatti, di solito i mafiosi in genere, e in particolare quelli calabresi, fanno di tutto per passare inosservati, per non destare allarme sociale, per non richiamare attenzioni indesiderate soprattutto quando sono attivi ed operano fuori dai loro territori d’origine. A Reggio Emilia, invece, questa regola è stata infranta più volte. Ci sono stati omicidi che hanno insanguinato Reggio Emilia. Le motivazioni di quelle morti sono tutte interne alle vicende e alla vita delle cosche o, meglio, della cosca principale che prima era unitaria e che dopo, per varie ragioni – in particolare in seguito agli arresti di uomini di punta delle ‘ndrine e al conseguente mutamento degli equilibri interni – si è divisa in due tronconi determinando rivalità e gelosie che hanno prodotto guerre selvagge, addirittura di sterminio come si vedrà più avanti, per la conquista del potere interno e, dunque, per la gestione degli affari. Le ragioni del conflitto nascono dai ripetuti sommovimenti delle ‘ndrine a Cutro e nei comuni attorno a Crotone dove la ‘ndrangheta gestisce rilevanti e corposi interessi economici. Non si può parlare della criminalità mafiosa a Reggio Emilia se non si parla di quella esistente a Cutro. Questo è il motivo per cui verranno seguite molte di quelle lontane vicende, perché dal loro sviluppo sono dipesi molti degli episodi accaduti a Reggio Emilia. Ma, prima di passare a questa descrizione, è bene sintetizzare quanto accaduto negli anni passati perché così si capirà meglio lo sviluppo ulteriore degli avvenimenti. E’ bene fare una precisazione importante: tutti i nomi riportati da vari documenti – giudiziari, della polizia e dei carabinieri, delle commissioni parlamentari antimafia o del ministero dell’interno, della DNA, della DIA, –
  • 11. 10 indicano persone che sono ancora in attesa di un giudizio definitivo e, dunque, vale per tutte, come bene costituzionalmente tutelato, la presunzione d’innocenza fino a sentenza passata in cosa giudicata. Come per tutte le precedenti ricerche, anche per questa quello che interessa delineare non è il percorso personale o giudiziario delle persone volta a volta coinvolte, ma la descrizione del fenomeno mafioso, dei suoi sviluppi, del grado di penetrazione nella realtà reggiana, non la descrizione delle posizioni processuali dei singoli imputati. Conoscere l’esito processuale fa parte di un’altra storia e potrebbe avere una sua importanza per valutare la capacità della magistratura locale – reggiana e calabrese – di sanzionare penalmente reati a carattere associativo o mafioso. Il racconto storico e l’affermazione di responsabilità penale in un pubblico processo sono cose distinte e separate. D’altra parte i documenti giudiziari sui quali si fonda gran parte di questa ricerca sono, per loro intrinseca natura, limitati perché descrivono solo la ‘verità’ giudiziaria accertata in quel determinato momento storico, e non altro. Essi ci danno un’informazione parziale e, dunque, devono essere utilizzati con il necessario distacco critico e con l’ausilio di altre fonti – quelle istituzionali o giornalistiche – per meglio valutare quanto è già avvenuto e, se possibile, le linee di tendenza della criminalità organizzata in un futuro più o meno prossimo. La storia di numerosi mafiosi ci ha insegnato che molti tribunali italiani, per varie ragioni – perché non si era riusciti a raggiungere la prova certa, perché i testimoni erano stati impauriti, perché le indagini non erano state condotte bene, per la difficoltà obiettiva di accertare fuori dalla realtà meridionale l’esistenza e l’operatività di una cosca mafiosa – non avevano accertato la responsabilità penale di fior di mafiosi che sono stati assolti per
  • 12. 11 insufficienza di prove, come recitava la formula di un tempo, o, addirittura, per non aver commesso il fatto. L’esempio di Francesco Fonti è quello più calzante. Nel 1997 Fonti venne arrestato e poi processato assieme ad altri. Con sentenza del Tribunale di Reggio Emilia del 28 novembre 1988, confermata in appello e poi passata in cosa giudicata, Fonti e gli altri vennero assolti dal reato associativo loro contestato per insufficienza di prove e condannati a varie pene detentive solo per spaccio di stupefacenti3 . Quando Fonti decise di collaborare e di raccontare tutto il suo percorso criminale ammise che essendo un mafioso affiliato alla ‘ndrangheta aveva organizzato e diretto un importante traffico di stupefacenti, compreso quello dal quale era rimasto assolto. Eppure, nonostante la stampa locale avesse per tempo indicato il carattere mafioso di quel traffico di stupefacenti, investigazioni e vari elementi portati dall’accusa in dibattimento davanti al Tribunale non erano riusciti a provare con sicurezza che era operante un’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. La sintesi che verrà fatta farà riferimento alle attività dei personaggi che sono più significativi per descrivere quanto è accaduto o per delineare le tendenze utili a farci comprendere quanto potrebbe accadere in un prossimo futuro. Per queste ragioni saranno privilegiate le potenziali linee di fondo, gli scenari, i meccanismi di sviluppo di un fenomeno che è stato esportato ma che, finora, non è riuscito a mettere radici e a germogliare come ha fatto in altre regioni del nord, a cominciare dalla vicina Lombardia dove la realtà mafiosa ha tutt’altra robustezza ed è riuscita a penetrare in profondità sicuramente in alcuni paesi dell’hinterland milanese o del varesotto. 3 Tribunale di Reggio Emilia, Baiamonte Giuseppe + 19, 1997.
  • 13. 12 PARTE PRIMA L’arrivo dei Dragone a Reggio Emilia Com’è ampiamente noto, i mafiosi arrivarono nelle zone del centro-nord con il soggiorno obbligato. Nonostante l’opposizione dei sindaci locali, furono inviati in quelle realtà dei mafiosi che, non sapendo fare altro, tentarono di infiltrarsi e di occupare porzioni di territorio. I soggiornanti obbligati cercarono di stringere rapporti con persone provenienti dalla stessa regione. Gli esempi da fare sarebbero tanti, ma per la realtà reggiana la storia dell’insediamento di un gruppo familiare molto noto come quello dei Dragone è particolarmente significativa. La storia ha inizio con l’invio al soggiorno obbligato di Antonio Dragone, che all’epoca era custode della scuola elementare di Cutro. I Dragone, secondo Fonti, avevano a Reggio Emilia un ‘locale’ di ‘ndrangheta, il che significa poter disporre di molti uomini, avere forze, avere un peso, contare nel panorama mafioso. Antonio Dragone arriva nel giugno del 1982, appena scampato in Calabria ad un agguato mafioso; il 13 gennaio di quell’anno al suo posto muoiono il nipote Salvatore Dragone e il maresciallo dei carabinieri Pantaleone Borrelli. Va ad abitare a Montecavolo di Quattro Castella. Appena giunto, decine di giovani cutresi si recano a riverire il boss e a rendergli omaggio. Nel reggiano arriva come uno sconosciuto – nessuno, oltre i suoi compaesani lo conosce – ma la stampa locale di Crotone descrive esplicitamente il bagaglio criminale che si porta dietro. Ne fa fede un articolo de “Il Crotonese” del 14 maggio 2004 che riprende un vecchio ritratto uscito molti
  • 14. 13 anni prima sullo stesso periodico che si occupava di Dragone la cui carriera era iniziata già all’età di 14 anni: “Il suo esordio è del 1957 col reato di danneggiamento a cui segue nel 1961 quello di minaccia aggravata; solo un anno dopo le minacce diventano vie di fatto e si trasformano in una denuncia per rissa e lesioni che il Dragone subisce in Germania. Da questo momento la lista delle violazioni al codice penale è una continua escalation: nel 1965 il Dragone è responsabile di tentato omicidio e, sempre nello stesso anno, di rapina: ancora nel 1967 viene denunciato per detenzione abusiva di armi e l’anno successivo ancora per rapina aggravata. Il 1972 è l’anno della faida con un’altra famiglia di Cutro e Dragone è imputato di strage e detenzione di armi da guerra, ma ciò non lo distoglie dagli affari che gli costeranno nel 1975 una denuncia per tentata truffa allo Stato e una per estorsione aggravata; quello stesso anno Dragone mette la sua firma anche in un sequestro di persona. Nel 1979 ancora una tentata estorsione ai danni di una cooperativa di Crotone. Il 6 marzo del 1980 il boss è inquisito per l’omicidio Colacino, ma nel dicembre dell’anno successivo la Corte d’Assise lo assolve per insufficienza di prove, una sentenza alla quale si appella la Procura Generale; contemporaneamente il Dragone è oggetto di una comunicazione giudiziaria in merito ad un altro omicidio. I guai seri per il capo ’ndrangheta tuttavia non finiscono qui, il 13 gennaio del 1982 rimane egli stesso vittima di un attentato mafioso: sotto i colpi del killer però cadono un nipote e un maresciallo dei carabinieri. Conviene ormai cambiare aria al Dragone che in giugno dello stesso anno arriva al soggiorno obbligato di Quattro Castella a bordo di una mercedes 3000; sono almeno una trentina e tutti cutresi i guaglioni che si recano a riverire il boss e a rendergli omaggio”.
  • 15. 14 L’arrivo in Emilia sembra mettere Antonio Dragone al riparo dagli effetti della faida scoppiata a Cutro nel lontano 1972 quando i Dragone e gli Oliverio si erano affrontati, armi in pugno, per le vie del paese. Uno scontro cruento per il controllo del territorio, una selvaggia contesa per stabilire a chi toccasse il potere locale e la conseguente gestione degli affari criminali. Ma l’idea di poter scampare a tutti i percoli è solo un’illusione che dura qualche mese, fino a quando nell’ottobre del 1982 non vengono, per ordine del sostituto procuratore della Repubblica Giancarlo Tarquini, prima fermate e poi arrestate due persone con l’accusa di aver voluto compiere un attentato contro Dragone. Passa meno di un anno e nel maggio 1983 Antonio Dragone viene arrestato per ordine di cattura firmato dal giudice istruttore presso il Tribunale di Crotone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione e detenzione di armi. L’interrogatorio che rende subito dopo è un documento importante per il tipo di risposte che dà agli inquirenti. Sono risposte straordinarie, da manuale, perché ci descrivono il modo di pensare del mafioso di quei tempi, il mondo in cui era vissuto e aveva operato uno come Dragone. Sono risposte dove, con linguaggio allusivo, dice tutto a chi ha voglia di capire, ma non dice niente per gli inquirenti che vogliono ammissioni nette che confermino o smentiscano le accuse a lui rivolte. Dà molto allo studioso, niente ai magistrati. Alla contestazione di estorsione in danno di un imprenditore che è stato costretto a pagare, risponde così: “Da noi accade che quando una Ditta ha dei lavori in corso e deve lasciare esposto del materiale affida a qualcuno il compito di guardiano, parliamo di guardiania”. In poche righe è magistralmente espresso il concetto dell’estorsione mascherata dalla guardiania in vigore sin dall’Ottocento e praticata dagli ‘ndranghetisti in danno dei proprietari
  • 16. 15 terrieri. Con l’evoluzione della società anche l’estorsione subirà profondi mutamenti. E così negli anni cinquanta e sessanta del Novecento il sistema della guardiania si spostò sui cantieri edili dato il particolare sviluppo che tale settore ebbe in quel periodo. In molti casi la guardiania era un modo legale per giustificare la richiesta di un pagamento che il proprietario terriero o il titolare di una impresa edile non aveva modo di evitare. Questo meccanismo, nato in Calabria e nelle altre regioni a presenza mafiosa nel Mezzogiorno, sarà esportato anche nel centro-nord e servirà a mascherare pretese estorsive. Alla contestazione del contenuto di una telefonata nel corso della quale sarebbero stati chiesti dei soldi risponde: “Voglio fare presente che da noi quando ci si trova in difficoltà finanziarie ci si rivolge ad amici che possono aiutare, ma non con intenti estorsivi, bensì a puro titolo di amicizia. I cinque milioni di cui si parla in tale telefonata erano semplicemente la richiesta di un prestito, però debbo dire che io il particolare non lo ricordo, cioè non rammento se fu fatta tale richiesta”. La tecnica difensiva è abile: da una parte nega di sapere alcunché sugli addebiti specifici, e dall’altra parte spiega al magistrato che non si tratta di estorsioni, bensì di normali rapporti tra persone regolati da antiche consuetudini locali. Nel mondo descritto da Dragone gli istituti di credito sarebbero votati al fallimento. Di estremo interesse è la risposta che dà all’addebito principale di aver costituito una associazione di tipo mafioso: “Escludo nel modo più assoluto di aver costituito o diretto una associazione di tipo mafioso o anche soltanto di avervi fatto parte”. E per rafforzare ancor più questa affermazione, aggiunge: “D’altra parte secondo l’imputazione mi sarei associato con mio nipote e due miei generi; se così avessi fatto li avrei dunque coinvolti in
  • 17. 16 un’attività criminosa ed è ovvio che se mai mi fosse venuto in mente di creare una tale associazione non mi sarei mai rivolto coinvolgendoli ai miei generi e a mio nipote. Io sono rimasto detenuto complessivamente 12 anni e mezzo e non ho avuto alcun contatto con ambienti mafiosi”4 . Argomento che potrebbe essere valido forse se detto da un mafioso siciliano, non certo per uno calabrese perché la ‘Ndrangheta, come oramai è ampiamente dimostrato, è fondata essenzialmente sui rapporti parentali – di sangue o acquisiti – dei loro membri più influenti anche se, com’è ovvio, non sempre e non tutti i più stretti parenti di un capobastone sono a loro volta ‘ndranghetisti. Alcuni riescono a sfuggire alle regole generali della famiglia mafiosa senza per questo contrapporsi ad essa. Poi per Dragone arrivò la pesante condanna a 25 anni di reclusione per omicidio e si spalancarono le porte del carcere per 20 lunghi anni. Antonio Dragone – considerato già in quegli anni “il massimo esponente della mafia locale”, “compare e amico” di Saverio Mammoliti appartenente alla famiglia mafiosa responsabile del sequestro di Paul Getty junior – esce di scena, ma altri componenti della famiglia Dragone saranno presenti negli anni successivi a Reggio Emilia e nel reggiano. La loro potenza raggiungerà un livello tale che la Criminalpol scrisse in una informativa del 1995 che “a Reggio Emilia e a Modena la gestione del traffico di droga era nelle mani di un clan di cutresi, il quale, per mantenere il monopolio del mercato, e per affermare il suo esclusivo potere nelle zone interessate, aveva financo commesso omicidi, sopprimendo quanti avevano assunto condotte ostili, intolleranti o comunque di ostacolo al loro agire criminoso”5 . La Criminalpol esagerava e assegnava ai Dragone una 4 Tribunale di Reggio Emilia, Interrogatorio di Antonio Dragone, maggio 1983. 5 Criminalpol Emilia-Romagna, Informativa, 22.7.1995, p. 3.
  • 18. 17 capacità di distributori di droga che essi non avevano. O era millantato credito da parte dei Dragone oppure, più prevedibilmente, era un abbaglio investigativo della Criminalpol. Erano certamente trafficanti di droga ma non nelle dimensioni descritte. E, tuttavia, è indubbio che questi ebbero un ruolo rilevante nelle vicende criminali di Reggio Emilia e della sua provincia. La loro zona di influenza si estendeva anche a Modena e, in altre province italiane e paesi stranieri. Con i Dragone ebbe rapporti di ‘lavoro’ Renato Cavazzuti, un modenese che era stato direttore di una filiale di banca prima di finire nelle mani della ‘ndrangheta. Da loro, tra il 1991 e il 1992, comprò eroina. La rete messa in piedi da Cavazzuti era molto efficiente e nel contempo originale. Era a composizione mista – e a maggioranza emiliana – anche se per le fonti di reperimento della droga era dipendente dai calabresi, sia di quelli che operavano a Reggio Emilia sia di quelli che agivano a Modena. Uno dei componenti della rete era l’ex imprenditore Malavasi, originario di Novi di Modena, che mise a disposizione la sua abitazione per gli ‘imboschi’ di droga di Cavazzuti. La sua esperienza, per quanto singolare possa apparire, non era un caso unico, anzi, era comune ad altre persone – tutte nate in Emilia-Romagna – che finirono in braccio alla criminalità organizzata dopo una serie di disavventure economiche6 . Il racconto di Malavasi e di Cavazzuti conferma che i Dragone erano riusciti a penetrare nel traffico di droga a Modena. Valicavano i confini del loro storico insediamento; e ciò era possibile perché tra le province di Reggio Emilia e di Modena funzionava una “divisione implicita e non scritta” del territorio. A Modena e nella 6 Su questo vedi Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta di rinvio a giudizio a carico di Pellegrino Salvatore + 6, 1995.
  • 19. 18 “parte alta” della provincia – Sassuolo, Formigine e Maranello – operavano i rosarnesi, mentre i cutresi agivano nella parte Nord di Modena, a Carpi e a Mirandola. C’era una pacifica divisione del territorio che era vasto, appetibile e non occupato da altre cosche mafiose. Era un territorio ancora vergine per cui fu facile la divisione. Oltre a Modena i Dragone avevano interessi anche sulla riviera, in particolare a Rimini7 . A capo dei Dragone, ai tempi di Cavazzuti, c’era Raffaele Dragone, che “conduceva la famiglia” in assenza di suo zio Antonio, considerato il capo carismatico, che era ristretto in carcere8 . Raffaele Dragone si era stabilito a Cavriago dopo un breve periodo trascorso a Reggio Emilia. Cavazzuti lavorò insieme ai Dragone e insieme ad essi venne arrestato nel 1993. Accusati di traffico di droga finirono in manette Cavazzuti, Raffaele Dragone, Domenico Lucente, Antonio Macrì, Salvatore Cortese. Con loro alcuni modenesi e un reggiano che era titolare di una impresa per l’allestimento di capannoni, “cresciuta con i finanziamenti e le commesse pubbliche”9 . Gli arresti provocarono notevole scalpore negli ambienti cittadini di Modena e di Reggio Emilia. La vicenda dimostrava un salto di qualità nell’agire mafioso perché confermava la perdurante attività dei Dragone nel traffico di droga, apriva uno squarcio nel rapporto instaurato tra la criminalità mafiosa ed elementi locali e, infine, faceva emergere l’assoluta novità rappresentata dal coinvolgimento di un esponente significativo dei cosiddetti 7 Su questo vedi Tribunale di Modena, GIP, Sentenza a carico di Lucente Giuseppe, 1994 e Tribunale di Bologna, DDA, Richiesta per l’applicazione di misure cautelari nei confronti di Masellis Saverio + 15, 1993. Tribunale di Bologna, GIP, Ordinanza di custodia cautelare a carico di Masellis Saverio + 11, 1993. 8 DDA Bologna, Interrogatorio di Renato Cavazzuti in data 17.12.1994, p. 56; in data 18.1.1995, p. 63; in data 18.2.1995, pp. 4-7, p. 24, p. 57, p. 68 e p. 71. 9 Su questo vedi F. Orlando, La mafia dietro casa, “l’Unità”, 16 luglio 1993.
  • 20. 19 colletti bianchi, di un uomo come Cavazzuti che fino a poco prima era stato un rispettabile direttore di una filiale di banca. La cosca Dragone già all’inizio degli anni novanta viene colpita seriamente. Con l’arresto di Cavazzuti si scopriva un soggetto del tutto nuovo, incensurato, sconosciuto, insospettabile, che era direttamente collegato ai Dragone. C’era sicuramente sorpresa, ma anche preoccupazione per le dimensioni del traffico e per la qualità dei soggetti coinvolti. Si era arrivati ad arrestare Cavazzuti dopo l’arresto di Celestino Canapè il quale, collaborando, portò i carabinieri da Cavazzuti: Cavazzuti, ignorando che fossero carabinieri, portò i due militari sotto copertura dai Dragone. Cavazzuti e gli altri collaborati accuseranno i Dragone nel corso del processo davanti ai giudici di Reggio Emilia. Uno di questi è William Gambarelli, un macellaio originario di Scandiano in provincia di Reggio Emilia. Un altro che accusò i Dragone fu Rocco Gualtieri che li conosceva “fin dall’infanzia” essendo dello stesso paese. Nel marzo del 1989 “gli chiesero se voleva ‘mettersi sotto di loro per spacciare la roba, eroina’”. Da quella data e fino all’estate del 1991 Gualtieri disse di aver acquistato dai Dragone 15 kg di stupefacente. Il collaboratore non si limitò a parlare di droga; fece “riferimento esplicito all’esistenza di un’organizzazione, alla ‘famiglia’ facente capo, in ambito locale, a Dragone Raffaele: a livello locale chi dava gli ordini era Dragone Raffaele” 10 . Cavazzuti raccontò come l’arresto di Giuseppe Lucente avesse creato problemi rilevanti ai Dragone perché qualcuno aveva cercato di “alzare la testa”, di “prendere il mercato, di prendersi il territorio” e per questo è stato eliminato. Cavazzuti si riferiva agli omicidi di Nicola 10 Tribunale di Reggio Emilia, Dragone Raffaele + 14, 1995., p. 45, pp. 23-25, pp. 47-48, p. 30-37.
  • 21. 20 Vasapollo e Giuseppe Ruggiero. Vasapollo era agli arresti domiciliari nella sua abitazione a Reggio Emilia quando ricevette, il 21 settembre 1992, la visita di due persone le quali, appena entrate, lo uccisero sparando 5 colpi di pistola. Un mese dopo, la notte del 22 ottobre, toccò a Ruggiero. Era a casa, a Brescello, con sua moglie quando venne svegliato a notte fonda da due persone vestite con l’uniforme dei carabinieri. La moglie era restia a farle entrare, ma Ruggiero si decise ad aprire la porta ricevendo in pieno i colpi d’arma da fuoco che gli furono sparati contro. Le dichiarazioni di Celestino Canadè, di Rocco Gualtieri e di Renato Cavazzuti portarono alla condanna all’ergastolo da parte della Corte di Assise di Reggio Emilia per Raffaele Dragone e per Domenico Lucente che furono riconosciuti come i mandanti dei due omicidi11 . Questi omicidi solo apparentemente mostrano la forza del gruppo mafioso. In realtà sono il segno di una profonda difficoltà, anzi di una debolezza molto grave. Di solito la ‘ndrangheta ha sempre cercato di non attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, di fare in modo che nessuno si accorgesse della sua presenza. Lo ha fatto in Calabria, tranne che nei periodi di apro conflitto armato, lo ha fatto in particolare in zone dove non c’è una tradizione mafiosa. Uccidere significava creare allarme sociale, significava indagini e pericolo di essere scoperti. E così accadde. Le indagini portarono a risultati straordinari perché furono colpiti i mandanti degli omicidi, cosa difficilissima da fare, e poi perché fu inferto un colpo decisivo a una ben oliata rete di trafficanti di droga che aveva le caratteristiche di far lavorare insieme calabresi e reggiani, ‘ndranghetisti e delinquenti locali. 11 Corte di assise di Reggio Emilia, Sentenza nella causa contro Dragone Raffaele + 4, 25.11.1994.
  • 22. 21 I Dragone, e non era cosa di poco conto, erano riusciti a realizzare un rapporto proficuo con la criminalità locale che a sua volta si era mostrata disponibile ad essere coinvolta in traffici illeciti e criminali. E’ un dato della realtà che va sottolineato perché sono le avvisaglie di quanto emergerà dopo con il coinvolgimento e con la successiva collaborazione di Bellini. A metà degli anni novanta le condanne di Raffaele Dragone, Antonio Lerose, Domenico e Giuseppe Lucente colpiscono gli esponenti storici. A questo punto il clan, per sopravvivere, deve affidarsi a nuove figure che devono provare sul campo le loro capacità organizzative e di comando. Ecco allora che sulla scena cominciano ad affacciarsi nuovi personaggi. Fra essi Emilio Rossi, originario di Crotone e residente a Montecchio Emilia, il cui raggio di azione si estendeva nelle province di Parma e di Reggio Emilia. Secondo Francesco Fonti Emilio Rossi, era ritenuto un “esponente della famiglia Arena”. Tra i due si stabilirono rapporti di scambio reciproco. Fonti vendeva droga a Rossi e Rossi vendeva droga a Fonti12 . Un’ulteriore conferma – una delle tante – dei continui, frequenti, ininterrotti scambi tra mafiosi. C’è cooperazione, non concorrenza. Nessuno, stando alle cose che sappiamo, cerca di approfittarsi delle difficoltà dell’altro per occupare fette di mercato. Solidarietà tra mafiosi? Forse, ma più semplicemente, non c’era bisogno di occupare le fette di mercato di un altro vista la vastità del mercato reggiano. C’era posto per tutti senza bisogno di rubare i clienti di un altro. Durante le indagini fa capolino un nome nuovo che risulta collegato a Rossi, Giuseppe Muzzupappa, originario di Nicotera in provincia di Vibo Valentia. E’ l’avvisaglia 12 Tribunale di Reggio Emilia, Baiamonte Giuseppe + 19, cit., p. 95 e pp. 86-87.
  • 23. 22 che inizia ad avviarsi una nuova fase del clan; scendono in campo uomini capaci di collegamenti più ampi rispetto a quelli del passato. Muzzupappa era noto sin dall’inizio degli anni settanta a Vibo Valentia, cittadina nella quale era andato a vivere. Sottoposto alla misura della sorveglianza speciale per tre anni nel comune di Reggiolo iniziò a scontare quella pena il 21 marzo del 1975. Sebbene si fosse trasferito a Reggiolo, continuò a mantenere i legami con la sua terra di origine. I carabinieri di Tropea alla fine del 1983 lo sospettavano di appartenere al clan di Francesco Mancuso di Limbadi che dominava l’intera zona del vibonese. Diffidato di pubblica sicurezza, Muzzupappa faceva parte della “manovalanza del clan”. Aveva precedenti penali per associazione a delinquere, tentata estorsione e sequestro di persona13 . Rimase impigliato nel 1985 in una grossa operazione di polizia - 200 indagati - contro il clan dei Mancuso14 anche se non risultò tra i condannati nel processo che ne seguì. Nel luglio del 1988 fu arrestato insieme ad altri due perché trovato in possesso di 28 grammi di eroina che provenivano da Milano15 . Nel 1993 una nuova cattura a Milano nel quadro di una grossa operazione denominata Nord-Sud ordinata dal magistrato Alberto Nobili della DDA di Milano contro le cosche calabresi dei Sergi e dei Papalia operanti nel capoluogo lombardo. Muzzupappa, secondo le dichiarazioni di Saverio Morabito, acquistava droga – un paio di etti di eroina per volta – dal gruppo Sergi16 . 13 Legione carabinieri di Catanzaro, Compagnia di Tropea, Attività antimafia in Calabria, 16.11.1983. 14 Tribunale di Vibo Valentia, ufficio istruzione, Sentenza-ordinanza contro Mancuso Francesco + 200, 1985. 15 I. Paterlini, La ‘roba’ arrivava da Milano, Gazzetta di Reggio, 19 luglio 1988. 16 Tribunale di Milano, GIP, Ordinanza di applicazione della misura di custodia cautelare in carcere nei confronti di Agil Fuat + 164, 1993 e Corte d’assise di Milano, Sentenza nella causa penale contro Agil Fuat + 132, 11.6.1997
  • 24. 23 Ritroviamo Muzzupappa nel 1995. Secondo la Criminalpol, in questa fase, “assolve il delicato e complesso compito di essere il centro motore nel reggiano dell’organizzazione strettamente collegata a quella cutrese in cui autorevolmente milita il Grande Aracri Nicolino”. Ecco che spunta un altro nome nuovo che avremo modo di trovare come protagonista in altre vicende di droga. In quello stesso anno il nome di Grande Aracri fa ingresso nel rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata che ogni anno il Ministro dell’interno invia al Parlamento. Il documento descrive così il suo peso in Calabria: “non mancano figure emergenti di grande spicco nel panorama malavitoso come Nicola Grande Aracri che, da feroce killer al soldo di tradizionali capi clan ha recentemente costituito un’autonoma e forte cosca con oltre 60 affiliati ed un esteso territorio d’influenza, che va da Petilia Policastro a San Mauro Marchesato”17 , comuni che fanno parte della provincia di Crotone. Si comincia, in questo periodo ad avvertire una novità rilevante. L’arrivo in Emilia di Grande Aracri, che sembra proiettare il clan Dragone molto al di là dei confini – Reggio Emilia e Modena – entro i quali aveva operato. Essi appaiono angusti, limitativi di una nuova espansione degli affari illeciti. Si profilano interessi in Lombardia, nella zona di Cremona, nella città di Genova e in paesi stranieri come la Svizzera. Grande Aracri ha sempre e ripetutamente protestato la sua innocenza rispetto a tutte le accuse che gli sono state rivolte. Ancora di recente, il 23 maggio del 2003, davanti al Tribunale di Crotone, in replica alle accuse formulate dal pubblico ministero Pierpaolo Bruni ha affermato: “chiedo al Tribunale e al 17 Camera dei Deputati, Rapporto sul fenomeno della criminalità organizzata (anno 1995) presentato dal Ministro dell’interno, Doc. XXXVIII-bis, n° 1, 1996, p. 124.
  • 25. 24 Presidente che dovete valutare queste situazione. Insomma, mettiamo, il Pubblico Ministero se porta qualche cosa la deve portare… la deve portare… se porta qualche dichiarante o qualche testimone o qualche poliziotto e carabiniere deve dire la mia partecipazione in questa associazione che sto rispondendo insomma… se io mi sono… ho socializzato con qualcuno dei coimputati allora è giusto che io devo stare… devo stare qua in carcere. Ma io non ho mai socializzato con nessuno dei coimputati, con nessuno dei coimputati. Al di fuori mettiamo di qualche mio paesano che conosco cosi ma solo perché… perché io conosco qualche mio paesano, proprio di Cutro… e gli altri non li ho mai visti, non li ho mai conosciuti. Non sono stato mai associato con nessuno”18 . In questo nuovo scenario il protagonista principale appare Grande Aracri, descritto come “personaggio di primaria grandezza nella realtà criminale cutrese”. Quando è necessario, da Cutro si porta a Reggiolo “per curare e controllare personalmente l’andamento della nuova fase di traffico, non tanto sotto il profilo prettamente materiale, quanto sotto il profilo economico, relativamente alla movimentazione finanziaria e cioè alla riscossione dei corrispettivi delle partite di sostanze cedute”. Grande Aracri venne arrestato a Cutro nel giugno 1995 per detenzione di armi da guerra19 . Un nuovo arresto quando sta per spirare il 1996. Il pubblico ministero della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna Carlo Ugolini, nell’argomentare il provvedimento di fermo nei suoi confronti, scrive: 18 Tribunale di Crotone, Procedimento contro Grande Aracri Nicolino + 39, Udienza del 23 maggio 2003. 19 Criminalpol, Informativa, 1995, cit., p. 20, p. 15, p. 27, p. 67. Sul ritrovamento di armi vedi anche P.C., Arrestato Nicola Grande Aracri, nella sua azienda nascondeva pistole e kalashnicov, Gazzetta del Sud, 13 giugno 1995.
  • 26. 25 emergeva come il Grande Aracri nascesse dal punto di vista criminale nel medesimo habitat cutrese che aveva originato la famiglia Dragone; per chi interpreta in modo corretto talune aberranti tradizioni della cultura mafiosa assume significato univoco, ad esempio, la circostanza secondo la quale Grande Aracri Nicolino è stato “compare d’anello” al matrimonio di Dragone Raffaele (figlio del capo ‘ndrina Antonio). Ulteriori investigazioni consentivano di verificare come Grande Aracri si atteggiasse nell’ultimo periodo a punto di riferimento, anche nella realtà di origine, a capo emergente. Il rapporto della Criminalpol descrive Grande Aracri come un uomo che si sposta di frequente. Lo troviamo in Calabria, a Reggio Emilia, in Belgio, in Germania, in Svizzera. Alloggia a Brescello dove abitano due sue sorelle, poi, per ragioni sentimentali, a Sarmato in provincia di Piacenza dove può raggiungere facilmente le province di Reggio Emilia, Parma e Cremona ove risiedono uomini di sua fiducia20 . Di grande interesse sono i rapporti con alcuni paesi stranieri. Grande Aracri risulterebbe avere molteplici rapporti, anche di natura finanziaria, in Svizzera in Belgio e in Germania21 . La Germania, in ogni caso, rimase sempre un punto di riferimento per le attività delle cosche di Cutro come emerse sul finire del 2000 in seguito ad una indagine per traffico di armi tra Germania, Cutro e Reggio Emilia22 . E’ una ‘ndrangheta che si sprovincializza la sua, che supera l’asse Reggio Emilia-Cutro. E’ un dinamismo generale della ‘ndrangheta di quel periodo che sa cogliere il vento, che capisce che occorre osare molto e muoversi su diverse caselle della scacchiera criminale. In quel torno di tempo si consolidano le basi che consentiranno alla 20 Tribunale di Bologna, DDA, Provvedimenti di fermo nei confronti di Caiazzo Giovanni + 11, 1996. 21 Tribunale Bologna, DDA, Richiesta di misure cautelari nei confronti di Grande Aracri Nicolino + 23, 1997. pp. 5-7, p. 40, pp. 92-98. 22 Su questo vedi Il Crotonese 22 dicembre 2000.
  • 27. 26 ‘ndrangheta di assumere l’egemonia mafiosa in campo nazionale dopo che l’attacco dello Stato contro cosa nostra, responsabile delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio, indebolirà notevolmente la mafia siciliana. Alcuni degli uomini finiti in carcere erano soggiornanti obbligati. Essi svolgevano molteplici attività, non tutte illegali, che avrebbero potuto tornare utili al momento del bisogno. Secondo un rapporto della Criminalpol del 1979 questi soggiornanti diventavano protettori dei loro compaesani che, giunti dalle province siculo-calabresi, sono stati sistemati ed utilizzati secondo precise finalità di lavoro onesto ed illecito”23 . In tal modo gli ex soggiornanti svolgevano una ‘funzione sociale’ nei confronti dei paesani che venivano ‘sistemati’ sia in lavori legali sia impiegati in lavori illegali. Attraverso tali modalità essi, titolari di questo ‘potere’, acquistavano importanza e prestigio. Continuava così, in terra reggiana un rapporto che era iniziato nella loro terra d’origine. La ‘ndrangheta, ad un certo punto della sua storia, fece la scelta strategica di insediare fuori dalla Calabria pezzi di ‘ndrine perché le attività mafiose potessero continuare al nord in modo indisturbato e radicalmente nuovo. Gli uomini di ‘ndrangheta che agivano in ‘terra straniera’ – cioè in contesti come quello di Reggio Emilia, lontani dai loro luoghi di origine e ostili alla loro cultura – hanno avuto la capacità di adattarsi con l’ambiente circostante e di mimetizzarsi sfuggendo ai controlli e perfino alla percezione della loro pericolosità. L’idea che generalmente si ha dei mafiosi è quella di uomini rozzi, volgari, incolti e violenti. Il convincimento che il mafioso fosse essenzialmente o addirittura solamente violento oscurava la realtà del mafioso che è anche – oltre che 23 Criminalpol, Rapporto 1979.
  • 28. 27 violento – un uomo d’affari impegnato ad inserirsi negli interstizi di una società ricca ed opulenta per agire illegalmente in tutti i campi economici dove fosse possibile realizzare un utile; e perciò sfuggiva, oppure è stato ampiamente sottovalutato, il problema del riciclaggio del denaro accumulato con metodi illegali e criminali, il reimpiego di questi capitali nell’economia legale e la saldatura che in determinate vicende era possibile notare tra mafiosi e uomini inseriti nel mondo dell’economia locale, soprattutto quello bancario e finanziario. A ciò ha contribuito il prevalere dell’antico adagio: pecunia non olet; e siccome il denaro non ha odore, ha poca importanza da dove arrivi e come sia stato accumulato. Gli ambienti economici e finanziari – istituti di credito in testa – sono stati, e sono, impregnati di questa convinzione. La ‘ndrangheta a Reggio Emilia non sempre ha agito sotto traccia. Anzi, ci sono stati momenti cruenti come quelli, già ricordati, dell’autunno inverno del 1992 quando furono uccisi Nicola Vasapollo e Giuseppe Ruggiero. E’ questa una rilevante diversità rispetto a quella operante nelle altre province emiliano-romagnole o nel centro-nord Italia. Il traffico di stupefacenti Il traffico di sostanze stupefacenti ha rappresentato, e ancora oggi rappresenta, il più grosso business per ogni organizzazione mafiosa o per chiunque abbia intenzione di intraprendere la strada dell’imprenditore del crimine. Quello degli stupefacenti è un mercato particolare governato da proprie leggi, economiche e mafiose. In Emilia-Romagna non sono mai state sequestrate quantità di droga neanche lontanamente paragonabili a quelle che sono state sequestrate in Lombardia o in Piemonte. Da cosa
  • 29. 28 dipende questa particolarità? Dal fatto che in Emilia- Romagna non c’è nessuna cosca che abbia il controllo del territorio e dunque nessuno è in grado di custodire con una certa sicurezza rilevanti quantità di droga che sul mercato valgono parecchi milioni di euro. Ecco perché i grandi depositi di droga si trovano altrove, in Lombardia, in Piemonte, in Liguria. L’Emilia-Romagna è una regione ‘di mercato’, un enorme luogo ‘di consumo’ delle droghe, un vero e proprio supermarket. Qui erano attivate reti di spaccio ed erano reclutati i ‘cavalli’, spesso originari del luogo. Il ciclo della droga è sicuramente complesso; ad esso, oltre ai mafiosi, possono partecipare anche elementi non particolarmente strutturati o radicati sul territorio, perlomeno ai livelli bassi o intermedi. C’è, spesso, un intreccio e i mafiosi hanno commerciato droga con altri personaggi che mafiosi non sono ma che per le ragioni più varie hanno deciso di fare i narcotrafficanti. Nell’ultimo decennio si sono verificati mutamenti e trasformazioni sia nei mercati criminali sia nei soggetti protagonisti di queste trasformazioni. E’ continuata la contaminazione tra la criminalità locale e quella mafiosa, la prima in funzione ancillare rispetto alla seconda, ma si è introdotto un potente fattore di novità: ai mercanti e ai ‘cavalli’ italiani si sono aggiunti gli stranieri in numero sempre più crescente e provenienti da diverse nazionalità. Tra italiani e stranieri esistono molteplici rapporti che vanno da quelli più semplici rappresentati dai ‘cavalli’ di origine straniera che hanno sostituito i tossicodipendenti italiani a quelli più complessi che invece riguardano partite consistenti di droga dove i criminali stranieri hanno un ruolo ben diverso e ben più complesso rispetto al passato. Alle mafie italiane oggi si sono affiancate quelle straniere
  • 30. 29 che hanno mostrato una indubbia spregiudicatezza nell’uso della violenza e nella capacità criminale. Il racconto di Francesco Fonti, originario di Bovalino nella Locride reggina e affiliato alla ‘Ndrangheta con tanto di rito formale, ci aiuta a chiarire alcuni aspetti importanti. Perché Fonti decise di venire in Emilia- Romagna? Lo dirà lui stesso quando diventerà collaboratore di giustizia. Racconterà che nell’agosto del 1986 sul lungomare di Bovalino e poi in una riunione appositamente convocata dagli uomini della sua cosca di appartenenza, quella dei Romeo di San Luca, gli venne conferito l’incarico di organizzare il traffico di droga in Emilia-Romagna, in particolare nelle province di Modena e di Reggio Emilia24 . Sembra un incarico qualsiasi, uno dei tanti che capita di affidare a uno ‘ndranghetista, uno di quelli che si potrebbero inquadrare nella scelta operata dalla ‘ndrangheta di spostare pezzi di cosca al nord. In parte è così, ma solo in parte perché quelle parole rivelano un particolare di estrema importanza: fino a quell’anno la cosca cui apparteneva Fonti, che era una cosca storica con un peso molto rilevante nella ‘Ndrangheta reggina, non aveva seri punti di riferimento nella regione e ciò determinò la decisione di inviare dall’esterno una personalità esperta nel ramo e in grado di attivare una rete di distribuzione. Non solo, ma poiché la cosca di appartenenza non aveva “imposto vincoli di esclusività o imposizione trattandosi di un terreno ancora vergine sotto il profilo della presenza mafiosa”, lo stesso Fonti si sentirà autorizzato a distribuire la droga anche per conto dei Musitano i quali, a loro volta, erano privi di punti di riferimento in Emilia-Romagna. L’unica differenza rispetto 24 Macrì, Interrogatorio di Francesco Fonti, 26.1.1994.
  • 31. 30 al traffico effettuato per conto dei Romeo è il fatto che Fonti non era organico alla ‘ndrina dei Musitano25 . Dunque, in quel periodo, la regione Emilia-Romagna subisce l’attenzione di cosche storiche della provincia reggina che cominciano a pensare di inviare i propri rappresentanti per mettere in piedi una rete di trafficanti di droga in grado di coprire un mercato sicuramente appetibile e ricco come quello emiliano-romagnolo. A Fonti tocca anche Reggio Emilia che ha già una presenza rilevante, quella dei mafiosi originari del crotonese. L’attività esclusiva di Fonti in Emilia è stata quella di organizzare il traffico di stupefacente a Modena e a Reggio Emilia. Fonti è riuscito ad organizzarlo in dimensioni davvero straordinarie. Mise in piedi in poco tempo una catena di distribuzione di eroina e di cocaina di dimensioni tali da renderla la più rilevante degli ultimi anni, almeno fra quelle finora conosciute. Inizia il periodo emiliano ricorrendo al suo vecchio amico e compaesano Antonio Artuso, che contatta informandolo che “c’era la possibilità di smerciare dello stupefacente” e chiedendogli “se lui poteva contattare, dato che abitava già da diversi anni in Emilia, delle persone a cui consegnare questo stupefacente. Lui si rese disponibile ad avere questi contatti26 . Antonio Artuso, prima di essere assassinato, aveva trascorso numerosi anni della sua vita inizialmente in provincia di Reggio Emilia e poi in quella di Modena. Nel 1984 si era stabilito a Corlo di Formigine poiché “aveva avuto modo di ‘conoscere’ l’ambiente durante il periodo di internamento presso la casa di lavoro di Castelnuovo Emilia”27 . Non aveva iniziato la sua carriera nel mondo del 25 Informativa Fonti. 26 Reggio Emilia, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, pp. 69-70, pp. 82-84. 27 Informativa Fonti, p. 21.
  • 32. 31 crimine come trafficante di droga; anzi, era restio ad avventurarsi in questa nuova attività, e fu solo nella seconda metà degli anni ottanta che superò le sue riserve. Infatti, i primi passi nel mondo del crimine li aveva mossi come truffatore28 . Il grande salto lo effettuerà entrando in contatto con Fonti che lo andò a trovare nella sua casa e lo incaricò di approntare una rete di vendita. Da quel momento in poi Antonio e Luigi Artuso, padre e figlio, cominciarono a lavorare per Fonti. Molti dei personaggi con i quali erano in contatto Fonti e Artuso saranno processati in seguito all’operazione ‘Aspromonte’ e condannati dal Tribunale di Locri perché riconosciuti colpevoli di associazione a delinquere di stampo mafioso e di altri reati. In particolare il Tribunale accertò una questione assai rilevante: “i medesimi soggetti e gruppi criminali che storicamente gestivano, in forma quasi di monopolio, il ‘primordiale’ settore dei sequestri di persona, figuravano tra i protagonisti del più moderno scenario dei delitti riconducibili al traffico di droga, che venivano realizzati con la stessa professionalità ed efficienza che avevano caratterizzata la originaria attività criminale”. Le particolarità di questi agglomerati mafiosi erano le seguenti: avevano continuato a fare contemporaneamente, fino agli inizi degli anni novanta, sequestri di persona e traffico di droga, mentre tutte le altre ‘ndrine avevano da tempo abbandonato la pratica dei sequestri; i denari dei riscatti venivano investiti nell’acquisto di narcotici. A partire da quella data cessano i sequestri di persona organizzati da loro; la loro attività prevalente è la gestione del traffico di stupefacenti”. Il processo si interessò anche del traffico di droga a Modena 28 Questura di Bologna, Squadra Mobile, Rapporto a carico di Romeo Antonio + 74, 1994, p. 8 e pp. 15-18 e Questura di Bologna, Interrogatorio di Luigi Artuso del 27.10.1992.
  • 33. 32 e a Reggio Emilia ascoltando le parole di Fonti e di Artuso; la descrizione di tali traffici occupa un posto di tutto rilievo nella sentenza, oltre un centinaio di pagine29 . E’ bene ricordare che il ‘locale’ di San Luca è molto importante perché, per antica e mai dismessa consuetudine, è nel suo territorio che si svolgono le annuali riunioni della ‘Ndrangheta che in gergo vengono chiamate riunioni del ‘Crimine’. Ad esse prendono parte i capi dei locali di tutta Italia, compresi quelli del centro e del nord30 . San Luca è stato al centro delle cronache nazionali ed europee in seguito alla strage di Duisburg il 15 agosto del 2007. Giornalisti italiani ed europei hanno raccontato la realtà mafiosa esistente in quella cittadina. Alcuni hanno scoperto la potenza della ‘ndrangheta in quella occasione, altri hanno avuto la conferma di una tecnica abituale per la ‘ndrangheta, quella di insediare fuori dalla Calabria pezzi di ‘ndrine. Reggio Emilia e Duisburg sono località molto diverse tra loro; l’unico punto di contatto è dato dal fatto che hanno agito a Regio Emilia e agiscono a Duisburg le medesime cosche. Le dichiarazioni di Fonti, fatte all’inizio della sua collaborazione, furono confermate, ed ulteriormente precisate, davanti al Tribunale di Reggio Emilia. “San Luca ha una particolarità, perché nei pressi di San Luca c’è per noi il famoso santuario della Madonna di Polsi, dove si tenevano annualmente le riunioni di tutti i capi bastone di ‘Ndrangheta dei vari paesi e dove venivano anche a dare conto al capo società personaggi che si erano trasferiti all’estero, in Australia, in Francia, in Canada etc. Davano conto delle attività criminali che erano in corso e versavano il loro contributo a fondo perduto al capo società. Poi 29 Tribunale di Locri, Sentenza nei confronti di Barbaro Francesco + 49, 4.11.1995. 30 DDA Reggio Calabria, Interrogatorio di Francesco Fonti del 1.2.1994.
  • 34. 33 questi soldi venivano gestiti dal contabile della società per chi era in difficoltà, per chi era in carcere, se la famiglia aveva bisogno, per pagare gli avvocati e via di seguito”31 . Il versamento di poche decine di milioni di lire al ‘locale’ di San Luca potrebbe apparire ben poca cosa se rapportato ai guadagni delle singole ‘ndrine. Ciò è sicuramente vero; e tuttavia, non è importante la quantità del denaro versato, ma il fatto che tutti i mafiosi – compresi quelli che operano al nord e all’estero – versino al ‘locale’ di San Luca, testimoniando in modo simbolico la subordinazione all’antica ‘mamma’ della ‘Ndrangheta. Ciò significa che i mafiosi che operano al nord continuano ad essere attaccati – come un cordone ombelicale – alla casa- madre calabrese. Anche per questa ragione l’uccisione di 6 persone a Duisburg in Germania il 15 agosto 2007 ha destato enorme scalpore. La faida è esplosa in un paese che è il centro nevralgico delle ‘ndrine calabresi. Fonti si stabilisce nel reggiano e come attività di copertura acquista il ristorante ‘La Perla’ a San Martino in Rio dove ufficialmente svolge attività di direttore di sala. E’ la conferma che al nord il mafioso cerca di mimetizzarsi, di passare inosservato. Non ci sono mafiosi con la coppola storta e con la lupara, ma mafiosi che sembrano rispettabili e quieti signori piccolo-borghese che si occupano solo dei loro affari. Fonti racconta che l’acquisto del ristorante non fu fatto con soldi suoi, perché “erano soldi che avevamo noi in cassa. Non si usavano mai soldi personali, perché nella cassa della famiglia c’erano sempre soldi a disposizione per determinate cose”32 . Il racconto di Fonti conferma la permanenza di una pratica antichissima, in vigore nella ‘Ndrangheta sin dai tempi più remoti. Fa parte oramai della storia della 31 Reggio Emilia, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, pp. 61-62. 32 DDA Reggio Calabria, Interrogatorio di Francesco Fonti del 28.1.1994.
  • 35. 34 ‘Ndrangheta il fatto che i mafiosi calabresi usassero versare i proventi delle loro attività in una cassa comune che a quell’epoca si chiamava ‘baciletta’ sin dalla seconda metà dell’Ottocento33 . L’antico termine forse non è più in vigore, ma è rimasta l’abitudine di versare il denaro in una unica cassa che veniva utilizzata dagli associati secondo le loro esigenze. I soldi ricavati dal traffico degli stupefacenti, dice Fonti, “venivano portati, quando c’era una raccolta grossa, nell’appartamento in Milano di via Popoli Uniti e venivano messi nella cassa comune della nostra famiglia, la nostra cosca Romeo”. Erano soldi a disposizione di tutti. “Chi aveva bisogno prendeva quello di cui aveva bisogno”. Senza formalità, senza giri burocratici, ognuno prendeva la somma che gli occorreva. “Se io avevo un incasso di lire 500.000.000, mi servivano lire 100.000.000, lire 200.000.000 li trattenevo, gli altri li versavo nella cassa comune”34 . Fonti ebbe un ruolo rilevante nel traffico di droga a Reggio Emilia. Era un grande commerciante, un distributore in grande stile. Il suo ruolo fu importante non solo per la notevole quantità di eroina e cocaina immesse nel mercato clandestino ma anche perché riuscì ad attivare e ad organizzare una complessa e fitta rete di distributori i quali a loro volta attivavano altre persone. Fonti lavorava per più organizzazioni mafiose, ma la rete di distribuzione era praticamente la stessa. Molti degli uomini che aveva a sua disposizione erano ritualmente affiliati alla ‘Ndrangheta, molti altri invece appartenevano alla criminalità comune locale; erano originari di Modena e di Reggio Emilia o di comuni delle due province. Riceveva, distribuiva e faceva rivendere droga agli uni e agli altri. 33 Su questo vedi Enzo Ciconte, ‘Ndrangheta dall’Unità ad oggi, Laterza, Roma- Bari 1992, pp. 38-39. 34 Reggio Emilia, Esame dibattimentale di Francesco Fonti, p. 179
  • 36. 35 L’elenco di questi uomini che Fonti dice di aver utilizzato è davvero molto lungo. Le storie di Fonti e di Artuso confermano un elemento molto interessante: nell’area molto ampia che copre le città e le province di Modena e di Reggio Emilia convivono, facendo affari tra di loro, molte organizzazioni mafiose e un numero elevato di narcotrafficanti, mafiosi e non mafiosi, di origine meridionale e di origine emiliano- romagnola contribuendo a determinare le caratteristiche di un particolare mercato degli stupefacenti molto flessibile ed aperto. Nessuna organizzazione mafiosa – per quanto forte o grande sia stata – ha mai avuto il monopolio del traffico né, tanto meno, il controllo territoriale. C’era spazio per tutti, grandi e piccoli trafficanti. La regola sembra essere quella di un mercato comune. Agiscono varie cosche con scambi frequenti tra loro. C’è una varietà e molteplicità di reti di distribuzione di ogni tipo di droga che sembrano sovrapporsi l’una con l’altra; addirittura ci sono uomini che movimentano notevoli quantità di stupefacente in nome e per conto di più cosche contemporaneamente senza che questo determini turbative nel mercato o conflitti cruenti. Ogni mercante di droga opera con una notevole mobilità da una parte all’altra del territorio, superando i confini comunali e provinciali, ed è frequente trovare scambi, rapporti, relazioni tra mercanti appartenenti alla ‘Ndrangheta a Cosa Nostra o alla Camorra. Operano insieme in queste due province e anche nelle altre, hanno rapporti con le cosche di origine, vanno a prendere la droga di cui hanno bisogno soprattutto a Milano o nel suo hinterland che si conferma come il luogo privilegiato dalla grande maggioranza delle cosche per la custodia di enormi quantità di ogni tipo di droga. Nel campo della droga agiscono anche delle persone che non sono affiliate come Paolo Bellini, originario di
  • 37. 36 Reggio Emilia, personaggio dalla vita avventurosa che nel decennio degli anni novanta incrocerà la mafia siciliana e quella calabrese. Più di altre, le storie di Francesco Fonti e di Luigi Artuso hanno il pregio di mostrarci come il mercato degli stupefacenti a Modena e a Reggio Emilia venisse considerato come una sorta di mercato unico. Le due città rappresentano, per i mercanti di droga, un continuum territoriale, un unico bacino. Essi scavalcano, senza alcuna difficoltà, barriere e confini comunali e provinciali. Anche gli Artuso, come Fonti, erano al servizio di altri mafiosi. C’è l’ulteriore conferma di una singolare particolarità del mercato di droga a Modena e a Reggio Emilia: nessuna ‘ndrina chiede e pretende l’esclusiva da parte di chi smercia. Dal punto di vista commerciale e della logica della concorrenza potrebbe sembrare una vera e propria bestemmia. Ma nel mondo criminale non sempre valgono le stesse regole economiche del mondo legale. Paolo Bellini e la ‘ndrangheta Uno degli aspetti più interessanti della vicenda reggiana è il rapporto che ad un certo punto si venne a instaurare tra Paolo Bellini e una ‘ndrina crotonese operante a Reggio Emilia. L’incontro fu tra i più nefasti perché provocò lutti a Reggio Emilia e in Calabria, perché creò un clima di tensione e di paura a Reggio Emilia che si superò solo con la cattura e con la collaborazione con gli inquirenti da parte dello stesso Bellini che diede la sua versione dei fatti in un processo che, seppure passato in cosa giudicata, lascia in piedi alcuni interrogativi su chi sia stato realmente il “bandito reggiano” Paolo Bellini. La vicenda di Bellini, uomo dai trascorsi di destra che si dà alla latitanza per non finire in galera, non è solo
  • 38. 37 quella di un abile ladro di provincia o di un furbo latitante internazionale che, come tanti altri estremisti di destra dell’epoca, riesce ad avere appoggi e protezioni durante il periodo di cattività all’estero e perfino in Italia. La sua è una vicenda ben più complessa, misteriosa e in parte oscura. In modo del tutto inaspettato, data la sua biografia, lo troviamo in Sicilia in stretto contatto coi i mafiosi di Cosa nostra, anzi con i vertici, con il centro di comando della mafia siciliana. Il periodo è quello, davvero cruciale per la storia d’Italia, dell’inizio degli anni novanta quando ci furono le stragi di Capaci e di via d’Amelio con le orrende morti di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino unitamente alle donne e agli uomini delle loro scorte. Bellini, secondo quanto è stato processualmente accertato, sembra fare un gioco spericolato con i vertici di Cosa nostra. Nello stesso periodo di tempo – mentre era in contatto sia con i mafiosi sia con i carabinieri – Bellini fa un gioco ancora più spericolato conducendo una personalissima partita che lo trasforma in killer di uno spezzone della ‘ndrangheta che ha come teatro di operazioni la città di Reggio Emilia. Sarà lo stesso Bellini a raccontare queste cose appena venne arrestato. Di fronte a chi lo ascoltava, per molti versi incredulo, cominciò ad autoaccusarsi di alcuni omicidi a cominciare da quello di Alceste Campanile, un giovane di estrema sinistra ucciso nel lontano 13 giugno 1975. Dice di essersi pentito dopo “un travaglio di circa un mese”. Il ripensamento era iniziato dopo il 16 aprile 1999 quando Bellini uccise lo zingaro Oscar Truzzi, per un equivoco, per un banale scambio di automobile con quella dell’uomo che avrebbe dovuto essere ucciso, ed era continuato dopo il mancato omicidio del muratore Antonio Valerio del 1° maggio 1999. L’omicidio Truzzi, a quanto
  • 39. 38 pare, ha avuto un effetto devastante. “E’ stata la cosa più bestiale della mia vita”35 . Una scossa che costringe l’assassino a porsi delle domande sul perché continuasse ancora su quella strada invece di fermarsi. Bellini raccontò il suo incontro in carcere con un uomo di ‘ndrangheta, Nicola Vasapollo. Nacque un’amicizia, un legame profondo; ci fu anche una reciproca promessa, uno scambio di favori che consisteva nell’impegno di eliminare l’uno il nemico dell’altro. Vasapollo non nascose la sua appartenenza al gruppo dei Dragone, anzi si confidò con Bellini. Il reggiano, però, afferma di non essere affiliato alla ‘ndrangheta. “Io non sono stato affiliato a gruppi, con il rito, come si suol dire, di affiliazione”. Non ci fu alcun rito “e reputo che questo fu forse per il dato di fatto che io non ero calabrese”36 . E tuttavia il legame si rinsaldò ugualmente attraverso una proposta che tendeva ad attirare Bellini nell’orbita familiare dei Vasapollo. Nicola Vasapollo gli chiese di far da padrino a un suo cugino. Questo fatto cementò il rapporto tra i due. E Bellini colse in tutta la sua valenza la richiesta di far da padrino. “Non si chiede di fare da padrino a chicchessia. E fu proprio una ufficializzazione dei rapporti che si instaurarono fra di noi, di quello che doveva nascere in quel periodo” . Entrava in un meccanismo di tipo familiare e, data l’importanza che la ‘ndrangheta dà ai rapporti familiari, non c’è alcun dubbio che la proposta rivestiva un particolare significato. Era, aggiunse Bellini, “un’ufficializzazione del rapporto che si era instaurato, talmente profondo, per il quale io avevo 35 Corte di assise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 6 febbraio 2002 e del 13 febbraio 2002. 36 Corte d’Assise di Reggio Emilia, n. 1/01, Esame dibattimentale di Paolo Bellini, udienza del 6 febbraio 2002.
  • 40. 39 commesso un omicidio per loro. Non solo, era un rapporto che ci univa”. L’omicidio di cui parla Bellini era quello di Paolo Lagrotteria ucciso nel crotonese nell’estate del 1992, omicidio che determinò un particolare attrito con i Dragone. L’aver commesso quell’omicidio ebbe conseguenze che durarono negli anni per lo stesso Bellini che ammetterà: “da quel giorno fui in balìa di tutto il gruppo”. Entrò nel gruppo guidato da Nicola Vasapollo il quale “aveva deciso di fare una famiglia per conto suo”, staccato e in contrapposizione con i Dragone; consapevole della potenza dei Dragone che avevano un grande numero di associati, Vasapollo aveva iniziato ad imbastire rapporti con altri ‘ndranghetisti della bassa mantovana con i quali “c’era già stata spartizione di territori”. In questa nuova riorganizzazione Bellini avrebbe dovuto svolgere il ruolo di “consigliere”. Vasapollo durò poco alla guida dei suoi uomini perché il 21 settembre 1992 fu ucciso a casa sua. Morto Vasapollo, Bellini non ha più avuto “voce in capitolo”37 . Poco prima della sua morte aveva avuto un alterco con qualcuno dei Dragone. Come quasi sempre accade in questi casi, la spaccatura traeva origine da questioni finanziarie perché i soldi non erano stati spartiti nella maniera soddisfacente per tutti. Bellini, dunque, entra in rapporto organico con una cosca della ‘ndrangheta. Alle dipendenze di questa uccide e partecipa al traffico di droga. Prende droga. Insomma, fa quello che farebbe ogni buon picciotto. Ubbidisce, esegue gli ordini, senza discutere. Questo è un punto che Bellini ribadisce continuamente, quasi come un’ossessione. “Per me il problema era uno solo: eseguire ordini o non 37 Corte d’Assise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 6 marzo 2002.
  • 41. 40 eseguirli”. Eseguire gli ordini. Questo era l’ordine che doveva eseguire e Bellini lo fa con molta diligenza, quasi come un automa, quasi senza pensare, senza farsi e soprattutto senza fare troppe domande. “Io non avevo bisogno di chiedere cosa, quando decidevano: ‘Era da fare quella cosa’, bisognava farla! Domande inutili io non ne facevo”. Ripete questi concetti ad ogni udienza, ad ogni domanda sull’argomento: “Io ho eseguito quello che mi dicevano. Non prendevo iniziative io”38 . Bellini racconta la guerra esplosa a Reggio Emilia tra i Vasapollo e i Dragone per quello che a lui risulta. Lui racconta che il gruppo di Vasapollo, per quanto più piccolo e di gran lunga meno potente di quello dei Dragone, poteva contare su un certo numero di uomini che lui non conosceva personalmente ma che gli avevano assicurato che c’erano. Agli avvocati che chiedevano come mai a Reggio Emilia lui conosceva così pochi affiliati rispose: “nel momento in cui io non sono stato ritualizzato non posso fare domande”39 . Bellini non faceva che richiamare una delle regole delle organizzazioni mafiose. Non potendo fare domande se ne stava al suo posto. In questa guerra c’erano delle regole ben precise. Se si doveva eliminare qualcuno in Emilia-Romagna o altrove, comunque al di fuori della Calabria, loro potevano agire senza chiedere il permesso ad alcuno, mentre per uccidere in Calabria avevano bisogno dell’autorizzazione. 38 Corte dìassise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 13 febbraio 2002 e del 27 febbraio 2002. Più avanti nella stessa udienza ripeterà: “Io ero un esecutore”; “io ricevevo degli ordini ed eseguivo degli ordini, non contestavo”. Nell’ udienza del 6 marzo 2002 dirà: “Io quando arrivava l’ordine lo eseguivo meccanicamente, freddamente, da deficiente totale”. 39 Corte d’assise di Reggio Emilia. Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 6 marzo 2002.
  • 42. 41 Nell’estate del 1993 Bellini viene arrestato per scontare una condanna divenuta definitiva. Rimane in carcere fino al 1995, poi fino al 1998 è inserito in un programma di protezione in seguito a minacce ricevute dopo la sua testimonianza a Firenze nel processo per le stragi del 1992 - 1993. Si sentiva braccato. Era inseguito dai mafiosi calabresi e da quelli siciliani. Con un’espressione ad effetto all’udienza del 27 febbraio 2002 dirà: “Portavo a spasso le mie ossa”. Non aveva tutti i torti. I Dragone lo cercavano perché avevano saputo che era un killer40 . Brusca lo aveva condannato a morte41 . Nel 1998, senza dare una ragionevole spiegazione, rifiuta il programma di protezione e fa ritorno a Reggio Emilia dove, con la “pressione psiclogica” degli omicidi commessi per loro in precedenza, viene risucchiato dai suoi amici ‘ndranghetisti agli ordini dei quali lascia una lunga scia di sangue tra la fine del 1998 e la metà del 1999. Firma le sue esecuzioni sempre con la medesima arma, diventata inseparabile, quasi una compagna di vita; eppure sparare con la stessa arma era compromettente e pericoloso perché poteva consentire agli inquirenti di collegare un omicidio ad un altro. La vicenda di Bellini, com’è del tutto evidente, è intimamente collegata alla storia della ‘Ndrangheta e alle particolari vicende che si sono intrecciate sull’asse che lega strettamente Cutro e Reggio Emilia. E tuttavia non è solo questo. E’ molto più complessa e oscura perché, nonostante le tante dichiarazioni fatte, prima come testimone a Firenze 40 Antonio Dragone smentì Bellini nel corso del processo e disse che non c’era nessuna faida con Vasapollo, “ed in effetti prima di sedere sul banco dei testimoni, il presunto capo della cosca cutrese davanti alle guardie carcerarie, ha abbracciato quelle due persone che a detta degli inquirenti avrebbero fatto uccidere alcuni dei suoi uomini”, Il Crotonese 19 aprile 2002. 41 Esame dibattimentale di Bellini Paolo, Udienza del 13 marzo 2002, p. 129.
  • 43. 42 e poi come collaboratore di giustizia, ancora oggi la storia personale di Bellini lascia dubbi irrisolti e domande che non trovano risposte. Il rapporto di Bellini con la ‘Ndrangheta si può dividere in due fasi, quella iniziale dei primi anni novanta e quella finale che culmina nell’arresto e nella decisione di collaborare. Su entrambe ci sono interrogativi non chiariti come quello formulato dal sostituto procuratore nazionale antimafia Vincenzo Macrì nel settembre 2000 ai commissari dell’antimafia: “perché una cosca peraltro minore, non di grande rilievo nazionale, sia entrata in contatto con questo personaggio e lo abbia utilizzato per questi omicidi resta un punto interrogativo che rimanda alle indagini effettuate da altre direzioni distrettuali antimafia circa i rapporti tra le organizzazioni, o alcune cosche della ‘Ndrangheta e alcuni ambienti del mondo particolare dello stragismo, del terrorismo, dell’eversione ecc.”, tenuto conto anche del fatto che Paolo Bellini è “un personaggio inquietante che ha un passato tutto particolare, di persona collegata con la destra eversiva”42 . E poi ci sono i dubbi sulla seconda fase. Come mai Bellini rientra nel 1998 a Reggio Emilia e si consegna mani e piedi, fino al punto di diventare un fedele esecutore, un killer al servizio di un gruppo che, per quanto grande Bellini potesse immaginarselo, era di gran lunga meno forte, meno importante e prestigioso di quello dei Dragone che era più titolato sul piano criminale? Nicola Vasapollo era già morto da oltre sei anni. Perché ritornare a mettersi nelle mani di quello che era rimasto del gruppo originario? Per una fedeltà alla memoria dell’amico? Bellini insiste sul ricatto psicologico che gli era stato fatto basato sugli 42 Commissione parlamentare antimafia, Missione in Emilia-Romagna, Bologna, 13 settembre 2000.
  • 44. 43 omicidi già commessi. Ma la sua appare come una giustificazione debole a fronte della sua biografia criminale. Bellini si guadagna da vivere, come ammette lui stesso, facendo l’autista di camion, mestiere scelto perché lo porta in giro per l’Italia e per l’Europa e gli evita la sedentarietà che rappresenta un pericolo per uno come lui che continuava a sentirsi braccato. Un fatto è inequivocabile: Bellini diventa strumento di risoluzione dei contrasti interni; anzi, per la precisione, diventa il Killer di uno spezzone di cosca che cerca una vendetta postuma per un omicidio consumato in Calabria, quello di Luigi Valerio, “commesso per futili motivi” da Rosario Ruggero a sua volta ucciso nel giugno del 1992. Quel primo omicidio sarà il capostipite di una lunga faida con morti ammazzati per le vie di Cutro e di Reggio Emilia. Tra questi se ne possono ricordare alcuni, i più significativi. Il 29 settembre del 1992 venne ucciso Vasapollo Nicola nella sua abitazione di Reggio Emilia. Il 22 ottobre a Brescello venne ucciso Ruggiero Giuseppe. Per questi due delitti furono condannati all’ergastolo Dragone Raffaele e Lucente Domenico. Il clan Dragone avrebbe dovuto uccidere i fratelli Ruggiero, Antonio e Rosario, nonché Vasapollo Antonio e Vincenzo, rispettivamente zio e cugino di Nicola, ma tale proposito non fu portato a termine a causa dell’arresto di costoro. La fine del decennio portò altri morti. Il 5 dicembre 1998 fu ucciso Giuseppe Gesualdo Abramo originario di Cutro e residente a Reggio Emilia. Pochi giorni dopo, il 18 dicembre, Bellini fa l’attentato al Pendolino. “Il Pendolino era un bar sito in via Ramazzini, frequentato notoriamente da calabresi, prevalentemente provenienti da Cutro e da leccesi. Questi due gruppi di clienti, per lo più fissi, si intrattenevano normalmente a lungo nelle salette del bar
  • 45. 44 per giocare a carte. Non vi erano posti fissi ai tavoli nelle due salette che venivano usate indifferentemente dagli uni o dagli altri”. Poi, il 16 aprile 1999 ci fu l’omicidio di Oscar Truzzi e il 1° maggio 1999 il tentato omicidio di Antonio Valerio, anche lui di Cutro ed emigrato a Reggio Emilia. Nell’agosto del 1999 venne ucciso Raffaele Dragone, figlio di Antonio Dragone, mentre stava per fare rientro nel carcere di Santa Severina. Bellini raccontò la logica spietata che guidava gli assassini di ‘ndrangheta, e lui era diventato uno di loro. “Quando si condanna qualcuno a morte, in questi sistemi, in questi schemi, in queste organizzazioni, si condanna a morte! La sentenza va eseguita, anche a distanza di anni, e quando c'è una guerra in atto non ci si ferma, a meno che non avessero fatto dei patti diversi a mia insaputa. Ed ancora la sostanza è una sola: se tu non vuoi più uccidere, devi essere ucciso. Perchè questo non è un mestiere dove ti puoi licenziare. Quando si entra in uno schema malavitoso, non è che dici: ‘Io mi licenzio. Adesso faccio l'istanza di licenziamento e me ne vado’. Tu non ti puoi licenziare lì, allora le modalità, sono solo queste: o ti uccidono o ti mettono in condizioni di ucciderti”. Il ritratto di Bellini fatto dai giudici reggiani, a conclusione del processo, è quanto mai suggestivo: Benché abbia compiuto una scelta di vita, incondizionata e senza riserve, per la delinquenza mai può dirsi integrato in modo organico in una specifica realtà criminale; non condivide per certo la ispirazione (se si può dire) ideologica della delinquenza organizzata calabrese (la ‘ndrangheta) e siciliana (la mafia) e tuttavia se ne sente attratto, entra in contatto con essa e pur dall’esterno (per la diversa origine regionale) finisce per parteciparvi, accettandone di necessità le regole. Sembra che sia spinto dalla ambizione di entrare in rapporto con le manifestazioni più salienti della criminalità, ma
  • 46. 45 intende difendere un proprio ruolo di autonomia pur quando coglie le occasioni che gli si offrono per eccellere nella sua opzione criminosa: diviene dunque un killer professionista (privo di inibizioni, capace di uccidere con estrema freddezza e per le più futili ragioni), pronto ad associarsi ai criminali di più alto spessore. Non stupisce quindi di trovare il Bellini non secondario partecipe della vicenda fiorentina dei Georgofili in un singolare rapporto con la mafia di Brusca; ma anche capace di ‘svanire nel nulla’ per acquisire non solo in Brasile ma anche in Italia una diversa identità in una latitanza che si protrae per quasi cinque anni finchè non viene scoperto. E sotto false generalità viene arrestato e processato. Al nome di Roberto Da Silva con una impudenza che non ha eguali ottiene il porto d’armi, l’autorizzazione alla detenzione del fucile, la patente di guida; si iscrive alla scuola di volo di Foligno e vi consegue il brevetto di aviazione civile di primo e di secondo grado. Entra nel giro di furti e ricettazioni di mobili antichi di notevole valore e di oggetti d’arte e la polizia suppone che possa dare un contributo per il recupero dei quadri oggetto della rapina alla Pinacoteca di Modena: né infine rifiuta di farsi strumento primario del progetto di eliminazione fisica dei componenti ‘reggiani’ del clan Dragone, progetto concepito dal nucleo Bonaccio-Vasapollo che da quel clan si è distaccato. E’ un ritratto inquietante se si pensa all’origine sociale e regionale di Bellini, tanto più inquietante perché mostra la capacità di attrazione delle mafie verso soggetti che per storia personale e familiare nulla avevano a che spartire con quel mondo. Continuavano i giudici reggiani: “Né, a differenza di quanto ha sostenuto la difesa dei coimputati, vi è incompatibilità logica tra i rapporti intrattenuti dal Bellini con la malavita di origine calabrese ed i suoi contatti con la mafia siciliana. Il Bellini, che è reggiano e che nell’ambiente della criminalità locale ha maturato le sue scelte di vita, non avvertiva legami ‘culturali’ organici con quelle diverse realtà delinquenziali in alcuna delle quali si identificava sicché ben poteva intrattenere relazioni con l’una e con l’altra, ponendosi
  • 47. 46 indifferentemente al servizio di entrambe. In proposito deve osservarsi come l’inserimento occasionale del Bellini in queste ‘organizzazioni’ sia avvenuto in ragioni dei rapporti personali di amicizia dallo stesso allacciati in carcere con detenuti che di quelle organizzazioni erano partecipi. E perché non era calabrese non fu riconosciuto intrinseco alla organizzazione, non fu ‘ritualizzato’, ‘pungiuto’, non ricevette cioè una investitura ufficiale nella “famiglia”. E ciò vale a spiegare le incomplete informazioni di cui il Bellini era in possesso in ordine sia alla struttura organizzativa che ai singoli partecipi della c.d. ‘ndrina. Intenzionalmente il Bellini – il killer al servizio della ‘ndrina – dovette essere perciò tenuto all’oscuro dei più importanti ‘affari’ del sodalizio criminale”. Bellini, secondo quanto ha raccontato durante il processo, è stato tenuto all’oscuro dagli “affari” della cosca e “di qualunque altro aspetto della vicenda. E questa circostanza sembra trovare spiegazione nella mancanza di una sua formale affiliazione e nella ovvia segretezza che caratterizza la ‘ndrangheta”. Secondo i giudici reggiani, ttto il racconto di Bellini “non offre tuttavia elementi di conoscenza specifica sull’esistenza di una struttura organizzativa stabile e permanente operante a Reggio Emilia nonché sulle finalità della stessa, come indicate nell’imputazione”. Non è chiaro cosa intendano i giudici per “struttura organizzativa stabile e permanente”. I Dragone erano a Reggio Emilia dall’inizio degli anni ottanta, trafficavano droga e facevano altri affari criminali. E quelli che a loro si contrapponevano erano una costola di quella famiglia mafiosa ed usavano gli stessi mezzi per affermarsi, mezzi violenti, mafiosi. Ma i giudici, pur consapevoli di questo dato storico arrivarono, sul piano giudiziario, ad una affermazione particolare: “E se il clan Dragone aveva
  • 48. 47 assunto i connotati propri dell’associazione di tipo mafioso come è stato affermato in altro giudizio, è ragionevole supporre che il gruppo a quel clan contrapposto nella contesa per il potere nell’ambiente criminale di Reggio Emilia, si fondi su un’analoga struttura organizzativa; ma una tale presunzione (pur avvalorata dall’esperienza dei fenomeni criminosi, tipici della ‘ndrangheta, con le faide dirette alla spartizione dei territori) non può assumere il significato di prova piena nel senso che il legame di solidarietà per certo sussistente tra Bellini (anche sul punto sicuramente credibile) il Vasapollo ed il Bonaccio, si fondi su una stabile organizzazione di mezzi che assuma i connotati tipici dell’associazione secondo il modello di cui all’art. 416 bis cp. Al riguardo fanno difetto sicuri riscontri, pur se può ritenersi comprovato che Bellini e Vasapollo abbiano perseguito il progetto originariamente promosso da Nicola Vasapollo ed al tempo stesso ne abbiano inteso vendicare la uccisione, avvenuta, secondo la comune convinzione (vedi supra ), ad opera del clan Dragone”. La conseguenza è stata l’assoluzione di tutti gli imputati dall’associazione a delinquere di stampo mafioso, pur condannando gli stessi per altri reati a cominciare da Bellini cui è stata inflitta la pena di 23 anni di reclusione43 . 43 Corte di Assise di Reggio nell’Emilia, Sentenza contro Bellini Paolo + 2, 5 luglio 2002. Per la ricostruzione dell’intera vicenda di Bellini è utile anche Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna, Richiesta di applicazione di misure cautelari nei confronti di Bellini Paolo + 2, 6 luglio 1999. Il Pm richiedente era Maria Vittoria De Simone. Sulla sentenza vedi Il Crotonese, 9 luglio 2002.
  • 49. 48 PARTE SECONDA Evoluzione del traffico di stupefacenti nel nuovo millennio. Il mercato della droga a Reggio Emilia è sempre stato fiorente e, come s’è visto, è sempre stato frequentato da più organizzazioni criminali o mafiose, piccole e grandi. Ma, dopo le indagini di fine Novecento che hanno destrutturato alcune ‘ndrine e portato alla collaborazione personaggi molto importanti e molto attivi nella distribuzione della droga, la situazione ha registrato significativi mutamenti. A quanto se ne sa, non ci sono personaggi dello spessore di Fonti o uomini che abbiano caratteristiche simili a quelle di Artuso o di Cavazzuti. Non ci sono più uomini come Rocco Gualtieri che durante il processo a Crotone dopo essere diventato collaboratore di giustizia, su sollecitazione del pubblico ministero Pierpaolo Bruni raccontò di aver avuto l’incarico di “dare la roba”, cioè la droga, “per tutta l’Emilia” su incarico dei Dragone che si procuravano lo stupefacente dai De Stefano di Reggio Calabria44 . Anche Vittorio Foschini disse che lui aveva rapporti con i Dragone e con Grande Aracri per lo spaccio di droga a Reggio Emilia e a Parma, rapporti che si 44 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Rocco Gualtieri, Udienza del 4.6.2003, p. 52.
  • 50. 49 prolungarono per oltre un decennio, fino agli albori degli anni novanta45 . Il nuovo millennio, da questo punto di vista, ha portato delle novità nel senso che le figure storiche del narcotraffico sono state neutralizzate e il traffico non è strutturato come in altre realtà del centro-nord, anzi ha subito vistose modificazioni perché, come ha spiegato il procuratore della Repubblica di Reggio Emilia Italo Materia, “Reggio da piazza di smistamento, luogo di smercio è probabilmente diventata luogo di elevatissimo consumo. E’ quindi probabile che il traffico all’ingrosso si sia spostato altrove”. E di conseguenza è anche possibile ipotizzare che si siano spostati anche i reggiani che assumono droga e che devono andare a procurarsi la droga altrove. Il mutamento non è di poco conto – ci sarebbe una “sorta di mutazione della piazza” – e deve attribuirsi alle indagini e alle attività delle forze di polizia e della magistratura che hanno prodotto le modificazioni ricordate. Queste, infatti, non hanno altre spiegazioni che siano tali da giustificare l’evidente alterazione del mercato degli stupefacenti che così si è venuta a determinare. I mutamenti, per quanto rilevanti possano essere stati, non hanno però sconfitto il fenomeno, lo hanno solo ridimensionato e ricondotto su altre modalità di spaccio; ed infatti la situazione è tale che, sempre secondo il procuratore Italo Materia, “la quantità della droga che circola in città e in provincia è talmente elevata da essere addirittura di difficile quantificazione”46 . La descrizione del procuratore delinea uno scenario del tutto inedito perché dimostrerebbe come in città siano del tutto 45 Tribunale di Crotone, Processo contro Grande Aracri Nicolino + 39, Esame dibattimentale di Vittorio Foschini, Udienza del 28.5.2003, p. 90. 46 Massimo Sesena, “Reggio sommersa dalla droga. E’ vera emergenza”, intervista a Italo Materia, Gazzetta di Reggio, 18 maggio 2005.
  • 51. 50 scomparse quelle figure in grado di alimentare il mercato dei narcotici cittadino; una rivoluzione in piena regola che ha bisogno di conferme che solo il tempo potrà dare. Eppure, nonostante il mutamento del ruolo e delle funzioni della piazza di Reggio Emilia, si raccolgono rilevanti quantitativi di denaro contante perché la droga continua a rimanere il più grosso business finora conosciuto, quello con il quale si guadagna di più. E’ un mercato complesso, quello reggiano, dove convivono droghe di alto valore commerciale come la cocaina che può essere acquistata da chi ha determinati redditi e droghe sintetiche a basso costo che possono essere acquistate da chi ha poco denaro da spendere. Sono due mercati che confinano ma non si sovrappongono. Il mercato delle droghe sintetiche è popolato da fasce giovanili a basso reddito e da immigrati extracomunitari e clandestini con poca disponibilità di denaro47 . Il territorio di Reggio Emilia è comunque parte di un territorio più vasto. Questa considerazione emerge dal fatto che sempre di più le indagini giudiziarie partite da Reggio arrivano ad altri luoghi oppure che inchieste avviate in altre località molto distanti approdino a Reggio. E naturalmente in questi casi le strutture del narcotraffico sono molto ben strutturate, ad esse partecipano anche i mafiosi e la droga trattata è la cocaina. E’ capitato così con l’operazione Gringo che, venuta a maturazione sul finire del 2004 aveva, però, preso l’avvio dai primi mesi del 2000. Come sempre accade si era partiti da episodi di piccolo spaccio di cocaina per poi risalire ai livelli più alti e a territori come quelli di Modena, Pesaro, Lecco e Bari. I gruppi di narcotrafficanti erano anche in ”affari” con “cosche della 47 Mario Sabia, Reggio invasa dalla droga a basso costo, Gazzetta di Reggio, 9 giugno 2005.
  • 52. 51 zona di Reggo Calabria e del crotonese dedite al traffico di stupefacenti”48 . Altra organizzazione più complessa – che aveva al suo interno uomini legati ad “ambienti contigui alla ‘ndrangheta” – venne alla luce all’inizio del 2005 tra Reggio Emilia, Torino, Cuneo, Brescia, Vibo Valentia, Modena. Come si vede, le regioni interessate erano Emilia- Romagna, Piemonte, Lombardia, Calabria. La droga arrivava sulle piazze italiane dopo aver seguito un percorso lungo e tortuoso. Partiva dalla Colombia e poi dopo un viaggio in Argentina e Olanda arrivava in Italia attraverso il valico di Ventimiglia che spesso rappresenta la porta d’ingresso per la droga in Italia. I colombiani avevano trovato il modo di rendere “invisibile” la droga, un modo singolare, davvero ingegnoso. “Le partite di droga venivano fin dall’origine disciolte tra le fibre di plastica di numerosi borsoni che in questo modo riuscivano agevolmente ad essere introdotti in Italia. Qui un’apposita squadra di chimici, organizzata dagli stessi malviventi argentini, sottoponeva le borse al procedimento inverso di liquefazione ed estrazione della cocaina in due raffinerie artigianali a Torino e a Bologna”49 . Non ci sono solo italiani in questo mercato, anzi. C’è una robusta presenza di stranieri. L’operazione ‘Bravo Mohamed’ ha mostrato come Reggio sia un importante “crocevia” per il mercato delle sostanze stupefacenti. Durante l’operazione sono state arrestate 11 persone d’origine marocchina e sequestrati 18 kg. di eroina. Come di solito accade, si è arrivati a individuare il traffico dopo una lunga opera di intercettazioni telefoniche che hanno 48 Mario Sabia, Sgominate cinque bande di trafficanti di droga, Gazzetta di Reggio, 16 gennaio 2005. Vedi anche Le cosche portano la droga, il Resto del Carlino, 18 gennaio 2005. 49 Borse da viaggio sì, ma in pura cocaina, Gazzetta di Reggio, 3 febbraio 2005.
  • 53. 52 decodificato i termini per definire la droga che i trafficanti indicavano con nomi di fantasia, a volte davvero stravaganti: la bianca, scaglie di pesce, la sporca, gesso, pizze, agnello, teste d’asino. La droga partiva dalla Colombia e poi, dopo aver viaggiato in container via mare, compariva in Italia. I trafficanti erano attivi anche nelle province di Brescia e di Bergamo50 . Reggio continuava ad essere un “importante crocevia” per la distribuzione di droga verso altri mercati come quello toscano51 . Le vie per far arrivare la droga sono davvero infinite. Un extracomunitario di 26 anni il 3 febbraio del 2006 è arrivato a Reggio Emilia imbottito con ben 80 ovoli di cocaina che pesavano complessivamente un kg., un peso davvero spropositato che poteva mettere seriamente a repentaglio la vita del giovanissimo trasportatore52 . Ogni tanto, in queste operazioni delle forze dell’ordine, compaiono anche degli albanesi che unitamente a italiani, spacciano droga53 . Ma, al di là delle operazioni che segnalano la presenza di un pulviscolo di presenze criminali di varia provenienza, la ‘ndrangheta continua a rimanere l’organizzazione “più aggressiva e attiva nel traffico di droga. E sono le ‘ndrine calabresi ad esercitare il controllo della maggior parte degli illeciti” nella provincia reggiana. In particolare, la ‘ndrangheta di origine cutrese “è sicuramente ben organizzata e ramificata, potendo contare 50 “Ecco le pizze”: decifrato il codice degli spacciatori, L’Informazione di Reggio Emilia, 12 novembre 2005. 51 Giuseppe Manzotti, Droga a chili nell’auto, tre in manette, L’Informazione di Reggio, 16 novembre 2005. 52 Cinque trafficanti di droga oggi a processo in tribunale, Giornale di Reggio, 3 febbraio 2006. 53 Traffici di coca, in quattro alla sbarra, Gazzetta di Reggio, 17 maggio 2006.
  • 54. 53 anche in omertose complicità da pare di fiancheggiatori insospettabili”54 . La violenza omicida tra Cutro e Reggio Emilia. Durante il processo contro Bellini i giudici di Reggio Emilia ricostruirono, seppure in estrema sintesi, il contesto storico della presenza mafiosa in Reggio Emilia e le ragioni della divaricazione nella cosca Dragone fino alla vera e propria contrapposizione tra Antonio Dragone e Nicolino Grande Aracri. L’origine è correttamente collocata sul finire degli anni settanta con l’arrivo degli emigrati calabresi: “Alla fine degli anni 70 si è registrato un flusso migratorio da Cutro verso le province di Reggio Emilia, di Mantova e di Cremona. La cosca dominante a Cutro fino al 1983 era quella della famiglia Dragone, capeggiata da Dragone Antonio, cui succedette Dragone Raffaele. Il potere di questo fu breve e terminò nel 1985 con il suo arresto. Fu allora che iniziò ad affermarsi all’interno della cosca la figura carismatica di Grande Aracri Nicolino, il quale nei primi anni dovette dividere lo scettro con Dragone Antonio. Questi dal carcere continuava tuttavia ad essere il punto di riferimento di buona parte dei suoi affiliati. Con il passare del tempo divenne unico capo incontrastato Grande Aracri Nicolino. Le unità che componevano la cosca erano circa una settantina ed erano per lo più i parenti, gli amici di infanzia, i testimoni di nozze, i compari di anello e via dicendo. Grande Aracri Nicolino era stato testimone del matrimonio tra Dragone Raffaele ed Arabia Rosaria”. 54 Una realtà radicata e pericolosa, L’Informazione di Reggo Emilia, 15 luglio 2007.