Nel caso specifico di Ripley’s, il core target è costituito soprattutto da un pubblico giovane, amante del brivido ma dimentico dell’umana compassione verso l’anormale. Chiare sono le connessioni estetiche e psicologiche con i ben noti stilemi dei film horror, della musica metal o grunge e dei fumetti pulp. Molto meno evidente è però il nesso con il divertimento familiare e infantile. Eppure, svariate attrazioni (e i relativi prodotti editoriali) sono espressamente dedicate ai bambini. Il che può farci sembrare il tutto relativamente lontano dal gusto italiano. Si apre allora la questione dell’intellettualizzazione del piacere estetico. Chi sancisce il sentimento del bello identificandolo con il buon gusto? La capacità di trarre un piacere quasi sensuale da un’opera d’arte sarebbe frutto di una cultura superiore, in grado di coglierne il valore estetico e simbolico in via quasi esclusiva. Per tale ragione, gli intellettuali d’élite temono che il godimento estetico popolare sia affidato ai persuasori occulti e subordinato a fini commerciali, votato alla semplificazione-massificazione dei gusti piuttosto che ai loro dettami e insegnamenti. Da qui il disprezzo ostentato per realtà nazional-popolari come "Believe It or Not!" aventi fini di profitto e di sfruttamento commerciale.
1. Ripley’s oltre i limiti
dell’immaginazione
Luoghi di retail & entertainment (90 location di vario genere negli Usa
e all’estero) che si rivolgono soprattutto a un pubblico giovane, puntando
sull’eccentrica e ossessiva cultura dell’inusuale, dell’insensato, dell’orrido
OSSERVATORIO POPAI
di Daniele Tirelli*
gennaio 201470Pm
2. C
redeteci o no, tutto nac-
que dall’idea visionaria
di un personaggio eclet-
tico: Robert LeRoy Ripley,
cartoonista e sagace imprendito-
re, con un duplice interesse per
lo sport e l’antropologia. Vissuto
a cavallo fra due secoli di grandi
mutamenti, la sua peculiarità fu
quella di stupire, stupire e ancora
stupire, preferibilmente mediante
l’esposizione dei più bizzarri fe-
nomeni umani e naturali. E la sua
figura fantasmatica non smette di
sorprenderci ancora oggi quando,
per esempio, si materializza im-
provvisamente come ologramma
in uno dei suoi “odditorium” sparsi
per il mondo. Per questo, il marke-
ting concept dell’omonima catena
commerciale non può essere ridot-
to a un semplice brand, ma espri-
me uno stile di consumo dai tratti
assai precipui: Ripley’s Believe It
or Not! volge sempre e comunque
all’eccesso, allo stravagante, allo
straordinariamente incredibile.
Ma procediamo con ordine.
L’avventura di Ripley risale al 1918,
quando da giovane vignettista ini-
ziò a pubblicare strip ricavate da
temi stravaganti, aneddoti assurdi,
curiosità, storie di personaggi al li-
mite dell’inverosimile. Assetato di
stranezze, Bob le scovava in ogni
angolo del mondo, con la tenacia
di un cacciatore di taglie. Le sce-
ne erano raffigurate fedelmente,
con cura meticolosa e indiscuti-
bile talento, qualità che gli permi-
se in breve tempo di sorprendere
e fidelizzare un pubblico sempre
marzo 2012 71 PmPmgennaio 2014 71
3. più ampio. Oggi la società Ripley
Entertainment è parte della con-
glomerata The Jim Pattison Group,
con sede a Vancouver, terza fra le
più grandi aziende private canade-
si. Il gruppo, un gigante finanzia-
rio da quasi 8 miliardi di dollari,
spazia dal settore automobilistico
ai media, al packaging, alla distri-
buzione alimentare ed editoriale,
alla finanza e naturalmente all’in-
trattenimento, dando lavoro a oltre
33.000 dipendenti.
Ma facciamo un altro passo indie-
tro per tornare alla storia di questo
strano retail & entertainment busi-
ness. Negli anni ‘20 Ripley amplia-
va progressivamente la sfera delle
tematiche trattate e, di pari passo,
la sua popolarità, ma il vero punto
di svolta nella sua carriera giunse
allo scadere del decennio. Infatti,
grazie alle sue doti artistiche, l’ec-
centrico vignettista di Santa Rosa
riuscì ad attrarre l’attenzione del
moloch editoriale dell’epoca, Wil-
liam Randolph Hearst, padrone del
colosso King Features Syndicate. Il
1929 fu così l’anno dell’esordio edi-
toriale di Believe It or Not! su 17
testate distribuite a livello interna-
zionale. Capitalizzato il successo
della sua serie fumettistica, Ripley
poté pertanto compiere lo step suc-
cessivo: la prima pubblicazione,
sotto forma di libro/volume illu-
strato, della sua stravagante colle-
zione di newspaper panel series.
In seguito, dopo essersi anche fatto
promotore della ratificazione, nel
1931, del celebre “The Star-Span-
gled Banner” quale inno ufficiale
degli Usa, Ripley s’inserì abilmen-
te nel booming degli show radiofo-
nici con una serie di sensazionali
dirette dai posti più astrusi che
potesse escogitare di volta in volta
(cave, paesi esotici, tane di serpen-
ti, in volo o sott’acqua). Il gruppo
Hearst, intravisto il potenziale
dell’uomo, finanziò i suoi viaggi in
oltre 200 paesi e finalmente, dopo
la realizzazione di svariate produ-
zioni teatrali e cortometraggi dedi-
cati ai temi di Believe It or Not!, nel
1932 Ripley pose la pietra miliare
del suo business: l’apertura del
primo Odditorium a Chicago. Lo
visitarono oltre 2 milioni di perso-
ne. L’eco fu enorme, grazie anche
a una cassa di risonanza a base di
leggende metropolitane, trucchi e
trovate promozionali di ogni tipo:
letti e brandine furono per esem-
pio predisposti per visitatori (in re-
altà attori complici) che svenivano
dinanzi alle mostruosità esposte.
La popolarità di Ripley fu amplifi-
cata ulteriormente dai trailer show
in giro per gli Usa e le discussio-
ni attorno al suo nome crebbero al
punto da indurre il “New York Ti-
mes” a celebrarlo come “the most
popular man in America”.
Oggi Ripley Entertainment con-
ta su un flusso annuo di oltre 12
milioni di visitatori, in 90 location
di vario genere negli States e all’e-
stero, che comprendono: Ripley’s
Believe It or Not! Odditoriums, Ri-
pley’s Aquariums, Louis Tussaud’s
Waxworks, Guinness World Re-
cords Museums, Ripley’s Moving
Theaters, Ripley’s Haunted Adven-
tures, Ripley’s Mirror Mazes, Ri-
pley’s Laser Races, Ripley’s Cargo
Hold Gift Shops, Ripley’s Minia-
ture Golf Courses, Ripley’s Super
Fun Zones.
Ovviamente questa teoria di luo-
ghi d’intrattenimento per tutti i
gusti costituisce l’asse portante
della source of business azienda-
le, ma non bisogna tralasciare la
correlata produzione editoriale e
cinematografica, nonché l’enorme
merchandising tematizzato. Il filo
conduttore è che Ripley’s è lo spa-
zio immaginifico in cui i limiti si
sgretolano e vengono meno. La fan-
tasia subentra e si scatena. Il bene
si contrappone al male, il brutto al
bello, il burlesco al volgare. Noto-
riamente, la società moderna (im)
pone mete irraggiungibili come la
perfezione estetica e gli elitari, so-
lipsistici e psicotici ideali di bel-
lezza incessantemente predicati
dallo star system. La massa ster-
minata di individui-consumatori
che annaspa per inseguire tali
chimere manifesta allora un certo
in store
SPAZI
72Pm gennaio 2014
4. gradimento per le stravaganze di
un mondo dove, al contrario, tutto
è rifiuto delle regole, stravolgimen-
to, dubbio e trasgressione. Queste
connotazioni di degenerazione,
di estraniamento, di momentanea
evasione fine a se stessa, contribu-
iscono quindi a rendere più bello,
normale e accettabile ciò che poi
si ritroverà (non senza un sospiro
di sollievo) all’uscita dell’Oddito-
rium.
Non è un caso quindi che l’altra
caratteristica distintiva di questi
luoghi sia un’estetica volutamente
surreale, stravolta, ironicamente
drammatica, sempre in bilico tra
caricatura fumettistica e iperre-
alismo. Si tratta di un’esplicita
evoluzione della programmatic o
novelty o mimic architecture, nata
in California e in Florida dove
produsse coffee house a forma di
caffettiere giganti, colossali donut,
chioschi a forma di hot-dog ecc.
usati come esche per il cliente in
transito sulla sua auto. Anche Be-
lieve It Or Not! si serve di edifici e
strutture dalle forme a dir poco in-
solite per attrarre il proprio pubbli-
co di curiosi. L’espediente estetico
si traduce così in un ruggente King
Kong in cima a un Empire State
Building crollato; in una casa sgre-
tolata o completamente capovolta;
in un’inquietante villa affondata
nell’asfalto; in un Titanic arenato
nel centro cittadino; in un gigan-
tesco squalo dalle fauci spalancate
per accogliere i visitatori al suo in-
terno o ancora in un edificio set-
tecentesco dalle pareti divelte, pe-
rennemente sul punto di crollare.
Analizzando la domanda, si è detto
che essa risponde in estrema sinte-
si a un particolare bisogno psicolo-
gico: la curiosità quasi morbosa dei
suoi fan nei confronti dell’inusua-
le. Inconsapevoli della sofferenza
implicita nell’abnormità delle de-
vianze poste in mostra, essi sono
attratti dai simboli esasperati del
cattivo gusto, dell’orrido e della
volgarità. Sociologi e antropologi
parlano di una probabile funzio-
ne catartica di questo piacere con-
templativo. Forse è la parte istin-
tuale della personalità umana, con
il suo corollario di emozioni visce-
rali, a trovare, in questo modo, una
risposta al senso di malessere esi-
stenziale che da tempo sembra toc-
care buona parte delle classi me-
die americane (e non solo). Da qui
il gusto per le proiezioni oniriche
materializzate nelle sembianze de-
formi di mostri e incubi ancestrali
sempre in bilico fra un malleabile
senso del grottesco e una malcela-
ta ironia. Da qui la ricerca di un
momentaneo indugio nei meandri
di un immaginario distorto, di
uno stato psicologico teso alla stu-
pefazione, se non alla trasgressio-
Believe It Or Not! si serve di edifici e strutture dalle forme a dir poco insolite per attrarre il proprio pubblico
di curiosi. L’espediente estetico si traduce per esempio in un gigantesco squalo dalle fauci spalancate per
accogliere i visitatori al suo interno o in un Titanic arenato nel centro cittadino.
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SPAZI
73 Pmgennaio 2014
5. ne scandalosa dei convenzionali
canoni della normalità e del buon
gusto. Da qui il rovesciamento, per
certi versi angosciante, dell’illu-
sione estetica fine a se stessa, del
bon ton e dell’eleganza che intrido-
no obbligatoriamente il costume e
i vari aspetti della vita quotidiana.
La proposta d’intrattenimento di
Ripley’s si riconduce insomma
all’eccentrica, dispersiva, ossessi-
va cultura dell’inusuale, dell’in-
sensato, dell’orrido. Lo spettacolo
di un’umanità stravolta è d’altron-
de una consuetudine destinata a
riprodursi nei secoli. Popolare già
nel Medioevo, conobbe poi uno
dei suoi migliori interpreti in Hie-
ronymus Bosch. Similmente, le in-
quietanti sculture che popolano i
surreali anfratti dei musei Ripley’s
evocano leggende e suggestioni re-
mote. Dall’epoca delle settecente-
sche scoperte della Medicina e del-
la Scienza sino alla Belle Époque,
con la sua cornice di esposizioni
universali, si è celebrato lo stra-
ordinario, il record, la singolarità
ineguagliabile. In questo senso Ri-
pley’s soddisfa la vorace curiosità
per i circus freak così popolari ai
tempi del Barnum & Bailey Cir-
cus: l’uomo elefante, gufo, lupo, la
donna barbuta e quella con quattro
gambe e via elencando gli scherzi
crudeli di una genetica ancora ine-
splorata.
Nel caso specifico di Ripley’s, il
core target è costituito soprattutto
da un pubblico giovane, amante
del brivido ma dimentico dell’u-
mana compassione verso l’anor-
male. Chiare sono le connessioni
estetiche e psicologiche con i ben
noti stilemi dei film horror, della
musica metal o grunge e dei fu-
metti pulp. Molto meno evidente
è però il nesso con il divertimento
familiare e infantile. Eppure, sva-
riate attrazioni (e i relativi prodotti
editoriali) sono espressamente de-
dicate ai bambini. Il che può far-
ci sembrare il tutto relativamente
lontano dal gusto italiano.
Si apre allora la questione dell’in-
tellettualizzazione del piacere
estetico. Chi sancisce il sentimen-
to del bello identificandolo con il
buon gusto? La capacità di trarre un
piacere quasi sensuale da un’opera
d’arte sarebbe frutto di una cultu-
ra superiore, in grado di coglierne
il valore estetico e simbolico in
via quasi esclusiva. Per tale ragio-
ne, gli intellettuali d’élite temono
che il godimento estetico popolare
sia affidato ai persuasori occulti
e subordinato a fini commerciali,
votato alla semplificazione-mas-
sificazione dei gusti piuttosto che
ai loro dettami e insegnamenti. Da
qui il disprezzo ostentato per real-
tà nazional-popolari come Believe
It or Not! aventi fini di profitto e di
sfruttamento commerciale.
Tuttavia, perché mai un piacere
egualmente intenso non potrebbe
esprimersi anche nella semplice
cultura popolare? Il gusto di un’e-
poca storica e di una nazione è il
risultato di tendenze spontanee
spesso irrituali. Già nel ‘500 Gio-
van Battista Marino sosteneva che
“la vera regola è saper rompere le
regole a tempo e luogo, accomodan-
dosi al costume corrente e al gusto
del secolo”. Troppo semplice allora
sentenziare che queste espressioni
dell’industria dell’intrattenimento
sposano semplicemente il kitsch,
recando offesa al gusto raffinato
delle persone educate al bello e
(soprattutto) all’intelligente. Negli
Usa la barriera di sacralità a difesa
delle proprie opere, così importan-
te per i produttori di cultura alta
europei, è stata da tempo azzerata
dalla creatività culturalmente po-
vera (ma di grande impatto emoti-
vo) del variegato mondo pubblici-
tario e commerciale. Il tanto citato
clima postmoderno ha demolito
la distinzione tra generi cultura-
li colti e popolari, mescendone le
connotazioni distintive e i tratti
caratteristici con un atteggiamento
consapevolmente antiauratico. Ed
è questa la ragione per cui Believe
It or Not!, in fondo, ci sembra qual-
cosa di più del semplice baraccone
da circo, che peraltro non si vergo-
gnerebbe nemmeno di essere.
* Presidente di Popai Italy
Alla concezione e alle ricerche
necessarie per l’articolo
ha contribuito Marco Tirelli
Le inquietanti
sculture che
popolano
i surreali
anfratti dei
musei Ripley’s
evocano
leggende e
suggestioni
remote.
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74Pm gennaio 2014