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Land grabbing nei due Sudan
Bruna - 5.22.2013
Gli investimenti in terra nei due Sudan sono rilevanti e portati all’attenzione da episodi, rapporti e
ricerche che ne indagano la consistenza e l’impatto politico, sociale ed economico in Paesi
cronicamente, e talvolta drammaticamente, insicuri dal punto di vista della produzione di cibo per il
consumo interno e caratterizzati dalla dipendenza della stragrande maggioranza della popolazione
dall’agricoltura di sussistenza e dall’allevamento brado, da enormi divari di ricchezza tra gli strati
sociali, in cui di gran lunga i più poveri sono i piccoli produttori agricoli, e da istituzioni autoritarie.
Secondo dati della Banca Mondiale, risalenti al 2010, in Sudan sarebbero stati già allora ben
3.965.000 gli ettari affittati a prezzi ridicoli (fino a meno di 1 dollaro all’anno per ettaro per un
affitto di 25 anni) ad investitori stranieri, ma anche locali. Il Sudan era allora un solo paese, ma il
Sud Sudan godeva già di una larga autonomia e di proprie istituzioni. Insomma sia il governo di
Khartoum che quello di Juba erano ugualmente impegnati nello stipulare contratti d’affitto a lungo
termine con investitori stranieri, sia del Nord che del Sud del mondo: Paesi Arabi, Cina e USA in
testa, ma anche i paesi europei erano, e sono, ben presenti sul mercato.
Inoltre si può ben dire che in Sudan è chiaro il legame tra gli investimenti in terra di epoca coloniale
e il moderno land grabbing, non a caso definito da molti analisti come una nuova forma di
colonizzazione. Infatti il terreno più appetito è ancora oggi appena a sud si Khartoum, tra il Nilo
Blu e il Nilo Bianco, quello cioè dello schema irriguo di Gezira, uno dei più grandi del mondo
(2.500.000 acri, circa 10.000 chilometri quadrati, nel momento della massima estensione), la cui
costruzione, cominciata nei primi anni del Novecento durante la colonizzazione inglese, è stata
completata negli anni Sessanta. Vi si dovevano produrre cereali, ma si trovò che il cotone egiziano
vi cresceva particolarmente bene, così, diventò una delle aree di produzione di cotone più
importante in Africa. I piccoli produttori agricoli della zona furono espropriati della loro terra e
diventarono braccianti a giornata nella piantagione. Lo schema irriguo, nazionalizzato negli anni
Cinquanta con l’indipendenza del Paese, decadde ben presto per la perdita di importanza del cotone
nell’industria tessile mondiale e anche per l’incuria dei diversi Board incaricati della gestione,
espressione dei diversi governi sudanesi susseguitisi alla guida del Paese. La storia e l’attualità della
schema irriguo di Gezira presentano diversi elementi di continuità.
Il primo è la condizione dei piccoli produttori agricoli della zona, diventati braccianti nella terra
irrigata. Diverse ricerche condotte nel tempo hanno dimostrano che i grandi investimenti e i
processi di meccanizzazione che li hanno accompagnati e caratterizzati non hanno portano benefici
alla popolazione locale, che ne è anzi risultata impoverita. Ad esempio, la sua dieta è risultata
peggiorata in quanto la paga da bracciante non è mai stata sufficiente ad acquistare sul mercato il
cibo prima prodotto autonomamente su terreni fertili e poi, al massimo, nel tempo libero e su terreni
residuali. Questa, d’altra parte è una costante verificata nelle situazioni di land grabbing.
Il secondo è il perdurare degli interessi esterni. Periodicamente si diffondono voci dell’interesse di
investitori stranieri, in particolare egiziani, con accordi intergovernativi di supporto, per la
riqualificazione dello schema e un miglior sfruttamento dei terreni. Si è parlato di un milione di
ettari, cioè poco meno della metà del terreno irrigato disponibile, per la produzione di derrate
alimentari da inviare direttamente sul mercato egiziano; a un certo punto si è anche parlato di un
accordo per insediare decine di migliaia di contadini egiziani senza terra nella zona, cosa che ha
provocato proteste da parte dei piccoli produttori locali, che chiedevano invece supporto allo
sviluppo della propria produzione e il riconoscimento del diritto alla loro terra.
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L’interesse egiziano per investimenti in terra in Sudan si è intensificato con l’insediamento del
governo Morsi, ideologicamente vicino a quello di Bashir. Nel gennaio dell’anno scorso, il sito para
governativo Sudan Vision, nominava l’investimento egiziano di circa 16,5 milioni di dollari in
27.000 acri di terra in prossimità del Nilo, a nord di Khartoum, a 600 Km dal confine egiziano. Nel
settembre dell’anno scorso, all’apertura della sede sudanese della National Bank of Egypt, il suo
presidente molto enfatizzò la necessità di egiziani e sudanesi di lavorare congiuntamente per
raggiugere la sicurezza alimentare nei due paesi, annunciando che la sua banca aveva già disposto
investimenti per 6 milioni di dollari per il 2012 e di 12 milioni per il 2013. Basta scorrere il web per
trovare parecchie altre informazioni di questo genere, in cui vengono coinvolti anche capitali
diversi, soprattutto cinesi e di altri paesi arabi del Golfo.
Analisti interpretano l’interesse egiziano per investimenti agricoli in Sudan anche come un interesse
specifico all’uso delle acque del Nilo, osservando che una parte della quota d’acqua spettante al
Sudan, secondo gli accordi internazionali vigenti, verrebbe così utilizzata dall’Egitto direttamente in
territorio sudanese.
E’ da sottolineare che, ancor oggi, la maggior parte della produzione agricola nel paese avviene
però su terreni non irrigati, in cui il raccolto dipende esclusivamente dal regime delle piogge,
sempre meno abbondante e stagionalmente affidabile, e che la povertà della popolazione rurale è
profonda. E’ comune, viaggiando in Sudan, vedere ampi terreni irrigati dal Nilo limitrofi a terreni
impoveriti, in cui la resa è di 3 quintali di cereali per ettaro e di constatare la mancanza di qualsiasi
investimento governativo per il recupero e la promozione della terra di cui vive la maggior parte
della popolazione.
Non stupisce perciò che il land grabbing stia diventando in Sudan anche un problema politico. Le
dimostrazioni contro le decisioni governative di favorire gli investimenti stranieri in terra stanno
diventando frequenti. L’ultima, secondo notizie della Reuters, è del 26 aprile alle porte di
Khartoum; alcune centinaia di persone hanno dimostrato contro l’investimento di un magnate
saudita a Om Dum, alla periferia di Khartoum Nord, chiedendo invece supporto allo sviluppo delle
attività dei piccoli produttori agricoli. La polizia è intervenuta con la forza; alla fine della giornata si
sono contati parecchi tra feriti e arrestati.
La situazione non è meno complessa in Sud Sudan.
La dimensione degli investimenti in terra è stata portata alla luce dal rapporto dell’Oakland
Institute, e prima ancora dal rapporto pubblicato nel marzo del 2011 da Norvegian People Aid, che
analizza 28 casi di investimenti in terra, sia internazionali che nazionali, tra il 2007 e il 2010, cioè
ancor prima dell’indipendenza.
Solo in quei 4 anni sono stati discussi accordi per 26.400 Kmq, solo nei settori dello sfruttamento
agricolo, delle foreste e dei biocarburanti. Se vi si aggiungono anche quelli precedenti e in settori
diversi, si raggiungono i 57.400 Kmq, circa il 9% del territorio nazionale.
Gli investimenti avvengono in un contesto particolarmente fragile, dove lo standard di vita della
popolazione è agli ultimi posti nella classifica per gli indici di sviluppo umano, in un paese
vastissimo e poco abitato, con un potenziale agricolo enorme e una capacità di trarne beneficio da
parte delle comunità locali molto limitato.
Molti analisti si chiedono se questi investimenti non possano rappresentare anche un’occasione di
sviluppo per la popolazione locale. Molti altri sottolineano però che questi investimenti terrieri a
lungo termine sono avvenuti e ancora avvengono in un quadro legislativo ancora non definito e
nell’oggettiva difficoltà a far osservare le leggi già esistenti. Questo rappresenta sicuramente un
rischio per la tutela degli interessi delle comunità locali.
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Il Land Act, che provvede alla registrazione dei diritti tradizionali sulla terra e pone un tetto
massimo oltre al quale non è possibile effettuare nessun tipo di trasferimento di superficie terriera, è
sicuramente un passo verso la giusta direzione ma non garantisce, da solo, un’adeguata protezione
degli interessi della comunità locale.
Generalmente, gli analisti concordano che, per diminuire i rischi per le comunità locali nel caso di
investimenti terrieri su vasta scala è necessario che:
gli investitori producano una valutazione dell’impatto socio ambientale dell’investimento
tale valutazione sia condotta in modo trasparente con la partecipazione delle comunità locali e sia
inclusa una valutazione dell’impatto dell’investimento anche sui diritti umani delle popolazioni
locali
gli accordi per gli investimenti contengano precisi obblighi e diritti per tutte le parti coinvolte e
meccanismi che garantiscano l’applicabilità di tali obblighi
tali obblighi siano definiti prima del trasferimento del terreno.
Non sembra di poter dire che le regole elencate sopra vengano applicate agli investimenti terrieri in
Sud Sudan, se non altro perché la situazione legislativa e istituzionale è ancora troppo fluida. In Sud
Sudan, inoltre, spesso, attraverso gli investimenti in terra si gioca il ruolo di maggiorenti locali che,
arrogandosi il diritto di rappresentare le proprie comunità, trasferiscono diritti comunitari come se
fossero diritti privati, e usano gli accordi in chiave di potere locale e nazionale.
Si capisce perciò perché i rapporti citati sopra raccomandano di sospendere questo genere di
investimenti fino a quando il quadro legislativo e istituzionale non sarà meglio definito.
Va però detto che le comunità non sono passive davanti all’accaparramento straniero delle loro
terre. Già in un caso il contratto ha dovuto essere fermato di fronte alla mobilitazione comunitaria.
Per concludere è necessario accennare ad un aspetto degli investimenti in terra comune ai due
Sudan. E’ un aspetto che andrebbe attentamente tenuto in considerazione: quello dei conflitti,
ancora così comuni, per l’accesso alle risorse naturali: acqua e terra da pascolo e coltivabile.
Nei due paesi convivono infatti in un equilibrio sempre più precario etnie stanziali, di piccoli e
piccolissimi agricoltori, ed etnie di allevatori di mandrie di bestiame numerose (milioni di capi di
bestiame). Le rotte di transumanza, sulle quali si muovono stagionalmente gli allevatori in cerca di
pascoli e nuovi punti d’acqua, tradizionalmente definite e concordate annualmente con gli
agricoltori dai capi tradizionali, sono già state ampiamente disarticolate dai conflitti decennali di cui
il paese è stato teatro, dai processi di degrado del territorio non adeguatamente gestito e dai
cambiamenti climatici.
Molti dei conflitti locali interni e sul confine tra i due paesi sono provocati proprio dalla necessità di
accedere a risorse sempre più scarse. Basti pensare ai conflitti, tra gruppi di allevatori e coltivatori
in Darfur, ai diritti vantati dagli allevatori Missiria sui terreni dei Dinka Ngok, agricoltori di Abyei,
dove la presenza del petrolio complica ulteriormente una situazione già complicata.
In questo contesto, l’uso di enormi appezzamenti di terra per investimenti agricoli pone un ulteriore
limite all’economia tradizionale di cui ancora vive gran parte della popolazione e, in definitiva, alle
sue possibilità di sopravvivenza. E’ perciò facile prevedere che il land grabbing non farà che
aumentarne la conflittualità.

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  • 1. 1 Land grabbing nei due Sudan Bruna - 5.22.2013 Gli investimenti in terra nei due Sudan sono rilevanti e portati all’attenzione da episodi, rapporti e ricerche che ne indagano la consistenza e l’impatto politico, sociale ed economico in Paesi cronicamente, e talvolta drammaticamente, insicuri dal punto di vista della produzione di cibo per il consumo interno e caratterizzati dalla dipendenza della stragrande maggioranza della popolazione dall’agricoltura di sussistenza e dall’allevamento brado, da enormi divari di ricchezza tra gli strati sociali, in cui di gran lunga i più poveri sono i piccoli produttori agricoli, e da istituzioni autoritarie. Secondo dati della Banca Mondiale, risalenti al 2010, in Sudan sarebbero stati già allora ben 3.965.000 gli ettari affittati a prezzi ridicoli (fino a meno di 1 dollaro all’anno per ettaro per un affitto di 25 anni) ad investitori stranieri, ma anche locali. Il Sudan era allora un solo paese, ma il Sud Sudan godeva già di una larga autonomia e di proprie istituzioni. Insomma sia il governo di Khartoum che quello di Juba erano ugualmente impegnati nello stipulare contratti d’affitto a lungo termine con investitori stranieri, sia del Nord che del Sud del mondo: Paesi Arabi, Cina e USA in testa, ma anche i paesi europei erano, e sono, ben presenti sul mercato. Inoltre si può ben dire che in Sudan è chiaro il legame tra gli investimenti in terra di epoca coloniale e il moderno land grabbing, non a caso definito da molti analisti come una nuova forma di colonizzazione. Infatti il terreno più appetito è ancora oggi appena a sud si Khartoum, tra il Nilo Blu e il Nilo Bianco, quello cioè dello schema irriguo di Gezira, uno dei più grandi del mondo (2.500.000 acri, circa 10.000 chilometri quadrati, nel momento della massima estensione), la cui costruzione, cominciata nei primi anni del Novecento durante la colonizzazione inglese, è stata completata negli anni Sessanta. Vi si dovevano produrre cereali, ma si trovò che il cotone egiziano vi cresceva particolarmente bene, così, diventò una delle aree di produzione di cotone più importante in Africa. I piccoli produttori agricoli della zona furono espropriati della loro terra e diventarono braccianti a giornata nella piantagione. Lo schema irriguo, nazionalizzato negli anni Cinquanta con l’indipendenza del Paese, decadde ben presto per la perdita di importanza del cotone nell’industria tessile mondiale e anche per l’incuria dei diversi Board incaricati della gestione, espressione dei diversi governi sudanesi susseguitisi alla guida del Paese. La storia e l’attualità della schema irriguo di Gezira presentano diversi elementi di continuità. Il primo è la condizione dei piccoli produttori agricoli della zona, diventati braccianti nella terra irrigata. Diverse ricerche condotte nel tempo hanno dimostrano che i grandi investimenti e i processi di meccanizzazione che li hanno accompagnati e caratterizzati non hanno portano benefici alla popolazione locale, che ne è anzi risultata impoverita. Ad esempio, la sua dieta è risultata peggiorata in quanto la paga da bracciante non è mai stata sufficiente ad acquistare sul mercato il cibo prima prodotto autonomamente su terreni fertili e poi, al massimo, nel tempo libero e su terreni residuali. Questa, d’altra parte è una costante verificata nelle situazioni di land grabbing. Il secondo è il perdurare degli interessi esterni. Periodicamente si diffondono voci dell’interesse di investitori stranieri, in particolare egiziani, con accordi intergovernativi di supporto, per la riqualificazione dello schema e un miglior sfruttamento dei terreni. Si è parlato di un milione di ettari, cioè poco meno della metà del terreno irrigato disponibile, per la produzione di derrate alimentari da inviare direttamente sul mercato egiziano; a un certo punto si è anche parlato di un accordo per insediare decine di migliaia di contadini egiziani senza terra nella zona, cosa che ha provocato proteste da parte dei piccoli produttori locali, che chiedevano invece supporto allo sviluppo della propria produzione e il riconoscimento del diritto alla loro terra.
  • 2. 2 L’interesse egiziano per investimenti in terra in Sudan si è intensificato con l’insediamento del governo Morsi, ideologicamente vicino a quello di Bashir. Nel gennaio dell’anno scorso, il sito para governativo Sudan Vision, nominava l’investimento egiziano di circa 16,5 milioni di dollari in 27.000 acri di terra in prossimità del Nilo, a nord di Khartoum, a 600 Km dal confine egiziano. Nel settembre dell’anno scorso, all’apertura della sede sudanese della National Bank of Egypt, il suo presidente molto enfatizzò la necessità di egiziani e sudanesi di lavorare congiuntamente per raggiugere la sicurezza alimentare nei due paesi, annunciando che la sua banca aveva già disposto investimenti per 6 milioni di dollari per il 2012 e di 12 milioni per il 2013. Basta scorrere il web per trovare parecchie altre informazioni di questo genere, in cui vengono coinvolti anche capitali diversi, soprattutto cinesi e di altri paesi arabi del Golfo. Analisti interpretano l’interesse egiziano per investimenti agricoli in Sudan anche come un interesse specifico all’uso delle acque del Nilo, osservando che una parte della quota d’acqua spettante al Sudan, secondo gli accordi internazionali vigenti, verrebbe così utilizzata dall’Egitto direttamente in territorio sudanese. E’ da sottolineare che, ancor oggi, la maggior parte della produzione agricola nel paese avviene però su terreni non irrigati, in cui il raccolto dipende esclusivamente dal regime delle piogge, sempre meno abbondante e stagionalmente affidabile, e che la povertà della popolazione rurale è profonda. E’ comune, viaggiando in Sudan, vedere ampi terreni irrigati dal Nilo limitrofi a terreni impoveriti, in cui la resa è di 3 quintali di cereali per ettaro e di constatare la mancanza di qualsiasi investimento governativo per il recupero e la promozione della terra di cui vive la maggior parte della popolazione. Non stupisce perciò che il land grabbing stia diventando in Sudan anche un problema politico. Le dimostrazioni contro le decisioni governative di favorire gli investimenti stranieri in terra stanno diventando frequenti. L’ultima, secondo notizie della Reuters, è del 26 aprile alle porte di Khartoum; alcune centinaia di persone hanno dimostrato contro l’investimento di un magnate saudita a Om Dum, alla periferia di Khartoum Nord, chiedendo invece supporto allo sviluppo delle attività dei piccoli produttori agricoli. La polizia è intervenuta con la forza; alla fine della giornata si sono contati parecchi tra feriti e arrestati. La situazione non è meno complessa in Sud Sudan. La dimensione degli investimenti in terra è stata portata alla luce dal rapporto dell’Oakland Institute, e prima ancora dal rapporto pubblicato nel marzo del 2011 da Norvegian People Aid, che analizza 28 casi di investimenti in terra, sia internazionali che nazionali, tra il 2007 e il 2010, cioè ancor prima dell’indipendenza. Solo in quei 4 anni sono stati discussi accordi per 26.400 Kmq, solo nei settori dello sfruttamento agricolo, delle foreste e dei biocarburanti. Se vi si aggiungono anche quelli precedenti e in settori diversi, si raggiungono i 57.400 Kmq, circa il 9% del territorio nazionale. Gli investimenti avvengono in un contesto particolarmente fragile, dove lo standard di vita della popolazione è agli ultimi posti nella classifica per gli indici di sviluppo umano, in un paese vastissimo e poco abitato, con un potenziale agricolo enorme e una capacità di trarne beneficio da parte delle comunità locali molto limitato. Molti analisti si chiedono se questi investimenti non possano rappresentare anche un’occasione di sviluppo per la popolazione locale. Molti altri sottolineano però che questi investimenti terrieri a lungo termine sono avvenuti e ancora avvengono in un quadro legislativo ancora non definito e nell’oggettiva difficoltà a far osservare le leggi già esistenti. Questo rappresenta sicuramente un rischio per la tutela degli interessi delle comunità locali.
  • 3. 3 Il Land Act, che provvede alla registrazione dei diritti tradizionali sulla terra e pone un tetto massimo oltre al quale non è possibile effettuare nessun tipo di trasferimento di superficie terriera, è sicuramente un passo verso la giusta direzione ma non garantisce, da solo, un’adeguata protezione degli interessi della comunità locale. Generalmente, gli analisti concordano che, per diminuire i rischi per le comunità locali nel caso di investimenti terrieri su vasta scala è necessario che: gli investitori producano una valutazione dell’impatto socio ambientale dell’investimento tale valutazione sia condotta in modo trasparente con la partecipazione delle comunità locali e sia inclusa una valutazione dell’impatto dell’investimento anche sui diritti umani delle popolazioni locali gli accordi per gli investimenti contengano precisi obblighi e diritti per tutte le parti coinvolte e meccanismi che garantiscano l’applicabilità di tali obblighi tali obblighi siano definiti prima del trasferimento del terreno. Non sembra di poter dire che le regole elencate sopra vengano applicate agli investimenti terrieri in Sud Sudan, se non altro perché la situazione legislativa e istituzionale è ancora troppo fluida. In Sud Sudan, inoltre, spesso, attraverso gli investimenti in terra si gioca il ruolo di maggiorenti locali che, arrogandosi il diritto di rappresentare le proprie comunità, trasferiscono diritti comunitari come se fossero diritti privati, e usano gli accordi in chiave di potere locale e nazionale. Si capisce perciò perché i rapporti citati sopra raccomandano di sospendere questo genere di investimenti fino a quando il quadro legislativo e istituzionale non sarà meglio definito. Va però detto che le comunità non sono passive davanti all’accaparramento straniero delle loro terre. Già in un caso il contratto ha dovuto essere fermato di fronte alla mobilitazione comunitaria. Per concludere è necessario accennare ad un aspetto degli investimenti in terra comune ai due Sudan. E’ un aspetto che andrebbe attentamente tenuto in considerazione: quello dei conflitti, ancora così comuni, per l’accesso alle risorse naturali: acqua e terra da pascolo e coltivabile. Nei due paesi convivono infatti in un equilibrio sempre più precario etnie stanziali, di piccoli e piccolissimi agricoltori, ed etnie di allevatori di mandrie di bestiame numerose (milioni di capi di bestiame). Le rotte di transumanza, sulle quali si muovono stagionalmente gli allevatori in cerca di pascoli e nuovi punti d’acqua, tradizionalmente definite e concordate annualmente con gli agricoltori dai capi tradizionali, sono già state ampiamente disarticolate dai conflitti decennali di cui il paese è stato teatro, dai processi di degrado del territorio non adeguatamente gestito e dai cambiamenti climatici. Molti dei conflitti locali interni e sul confine tra i due paesi sono provocati proprio dalla necessità di accedere a risorse sempre più scarse. Basti pensare ai conflitti, tra gruppi di allevatori e coltivatori in Darfur, ai diritti vantati dagli allevatori Missiria sui terreni dei Dinka Ngok, agricoltori di Abyei, dove la presenza del petrolio complica ulteriormente una situazione già complicata. In questo contesto, l’uso di enormi appezzamenti di terra per investimenti agricoli pone un ulteriore limite all’economia tradizionale di cui ancora vive gran parte della popolazione e, in definitiva, alle sue possibilità di sopravvivenza. E’ perciò facile prevedere che il land grabbing non farà che aumentarne la conflittualità.