SlideShare a Scribd company logo
1 of 23
1
LA TRANSIZIONE ECOLOGICA “NASCOSTA” – Claudio Garrone
Questo testo è stato redatto con la sola
intenzione di evidenziare alcuni aspetti e
contenuti direttamente legati alla transizione
ecologica di cui, ci sembra che gli organi di
informazione mainstream, men che mano la
politica, ma anche – e spiace dirlo – anche il
gruppo di Europa Verde-Verdi Milanesi, non
sono mai (o quasi mai) stati sviluppati e
discussi, col rischio di mortificare l’occasione
di valorizzare competenze, idee e analisi più
innovative di quelle che possono emergere dal
pur lodevole lavoro dei ministeri e della
politica in senso più ampio.
Oltretutto, non sembra scandaloso affermare
che, complessivamente, nella discussione e
preparazione del PNRR vi sia stata una
limitata partecipazione delle realtà sociali
(dai sindacati alle associazioni ambientaliste,
passando per il mondo del terzo settore), del
Parlamento e delle Istituzioni Locali, alla
definizione di una strategia solida e organica.
A fronte, invece, di un palese rischio che il
nostro Recovery Plan, possa trasformarsi in
una collezione di progetti e di piccole azioni
di potenziamento degli strumenti già in
campo, indebolendo quelle misure che
potrebbero risolvere i problemi strutturali
che, da decenni, pregiudicano il nostro
sviluppo. Le sempre più marcate ed
insopportabili diseguaglianze sociali, gli ostacoli alla conversione ecologica dell’economia,
il lavoro e l’ambiente perennemente ed erroneamente contrapposti, come antitetici, l’uno
all’altro, l’arretratezza di una società incapace di valorizzare l’autonomia e il contributo
delle donne sono, tra i tanti, alcuni dei punti prioritari su cui vorremmo iniziare, e
condividere, una riflessione di più “ampio respiro”, partendo dai 6 pilastri o missioni del New
Generation EU, con l’obiettivo e la speranza di poter possiamo vedere l’orizzonte del futuro
che vogliamo, per questa, e per le generazioni future. Si tratta quindi di mettere questi
obiettivi – accanto a quello della tutela della salute, ovviamente fondamentale in un
momento come questo – al centro di un ripensamento complessivo del sistema economico
e degli strumenti di welfare, e in questa cornice guardare in maniera innovativa e audace
oltre i progetti incompiuti o mai realizzati che giacciono nei cassetti di tanti uffici italiani.
2
Con i soldi del Recovery fund, si presenta un’occasione storica di investire in una vera
transizione ecologica, con l’obiettivo dichiarato di consegnare un Paese più sano alle future
generazioni, senza più “concedersi il lusso” di compiere (ancora) passi falsi. Così come
servono, con urgenza e coerenza decisioni coraggiose su gas, petrolio, carbone, allevamenti
intensivi, rifiuti e armi! Lo stesso Presidente del Consiglio Draghi – durante il suo discorso di
insediamento – si è impegnato a lasciare “un buon Pianeta oltre che una buona moneta”.
Adesso è ora di passare dalle parole ai fatti e di agire con rapidità e serietà per avviare una
vera transizione ecologica che metta al centro salute, ambiente e lavoro. Ci sono almeno 10
cose da fare subito. Al governo chiediamo di adottare un piano di riconversione energetica
nazionale basato sulle rinnovabili, di sostituire le sovvenzioni a armamenti ed attività
dannose con investimenti in mobilità alternativa e nella tutela della biodiversità, di
promuovere una transizione ecologica nel settore dell’agricoltura, di tagliare i fondi al
sistema degli allevamenti intensivi e di adottare misure urgenti sull’economia circolare, in
linea con le indicazioni europee. Detto senza tante perifrasi, sappiamo che le lobby
dell’industria fossile e inquinante sono già in azione per accaparrarsi i soldi pubblici e per
mantenere in vita il vecchio sistema inquinante e distruttivo. Dobbiamo assolutamente
evitare che, dietro pennellate di verde, si nascondano favori a queste lobby.
Ma il Next Generaton EU o Recovery Fund si riduce davvero, solamente una questione di
denaro, finanza e soldi da spartire, così come l’informazione e la politica mainstream stanno
“dipingendo” oppure vi è anche una nuova visione delle società future, resilienti,
ambientalmente più sane, culturalmente e socialmente più aperti ed inclusive? In queste
pagine, tenteremo di evidenziare, appunto, tutti questi aspetti e le loro diverse sfaccettature
nell’ambito della transizione ecologica che, almeno fino ad oggi, sono rimaste quasi solo
“patrimonio” di conoscenza e di riflessione di esperti, attivisti e dei settori più sensibili ai
temi ambiente e clima.
Oggi, in tanti parlano di “Transizione”: associazioni e movimenti, istituzioni nazionali e
internazionali, fondazioni private e perfino imprese, magari anche affidandosi ad una, più o
meno esaustiva, definizione di “transizione ecologica” come “il processo per realizzare un
cambiamento pervasivo di molti dei paradigmi sui quali è andata avanti finora la nostra
società e che riguardano: lavoro, istruzione, impresa, ridisegnati in ottica di piena
sostenibilità ambientale”.
Ma, in realtà, riteniamo che manchi una riflessione più profonda e corale sul senso e la
prospettiva vere di questa indispensabile transizione, consci del rischio che ciascuno declini
l’idea di transizione secondo le proprie convenienze: chi in senso di mero adattamento, chi
pensando solo al rinnovamento delle tecnologie o alla sostituzione di fonti energetiche, chi
aggiungendo una razionalizzazione dei processi e dei cicli socio-produttivi lasciando
immutato tutto il resto. Il rischio più grande, da questo punto di vista, è che l’aggiunta di
nuove formule magiche – sostenibilità, circolarità, responsabilità, resilienza – in mancanza
di una critica più strutturale o di un cambiamento di prospettiva, rappresenti solamente
una messa a punto per rendere il sistema (capitalistico) più fluido ed efficiente
3
confermando o, addirittura rafforzando, i rapporti di potere e le forme di ingiustizia e
disuguaglianza.
Transizione significa passaggio da una situazione a un’altra e non vi è possibile ambiguità:
occorre lasciare un modello, un sistema, e migrare, evolvere, trasferirsi in un altro. Pur con
tutte le gradualità del caso, non c’è riforma o aggiustamento che tenga. Così, il concetto di
sviluppo sostenibile, che surroga crescita con un suo sinonimo ingentilito da un aggettivo
reso sterile diventa, di fatto, un ossimoro.
Il termine ecologia indica cura dell’equilibrio della casa comune (per alcune persone, del
“creato”) ed è la lente che dovrebbe informare ogni nostro singolo atto quotidiano (il
mangiare, il muoversi, il produrre, ecc.) e attraverso la quale dovrebbero passare tutti gli atti
di un governo che volesse essere credibile, coerente e concreto. I nostri comportamenti
quotidiani devono, cioè, trasformarsi da puri atti di consumo, di dissipazione e
deterioramento delle risorse, insieme al logoramento delle chance residue per poter
continuare ad abitare il Pianeta, ad atti di conservazione e rigenerazione dei beni, a partire
dai commons. Beni comuni non appannaggio di una sola specie sovrana, ma comuni a tutto
il vivente. Ma, soprattutto, l’aggettivo ecologico non permette, tanto quanto il primo
termine, deroghe o interpretazioni, perché tutto è relazione e tutto è in relazione.
Se le aspettative sui risultati del piano straordinario di ripresa e resilienza, debbono
rimettere in moto l’occupazione e l’economia dell’Italia – e debbono farlo con una forte
impronta innovativa sull’ambiente, sulla ricerca, sull’innovazione – le scelte non possono
che essere coraggiose e nette. E’ un’occasione unica e cambiare solo con l’illusione di poter
dare a tutti/e è impossibile: occorrono dei Si e dei No chiari e netti, soprattutto perché
appare sempre più evidente, soprattutto in Italia, un attacco sistematico per accedere ai
finanziamenti del PNRR, senza cambiare la sostanza di quanto fatto sin qui e mantenendo
pressochè invariate le scelte. Quindi non solo ci sono resistenze a togliere benefici
incompatibili con l’ambiente, contraddittori con il finanziamento di un cambio di paradigma,
e si tenta di mantenere in vita fino al limite di rottura le scelte previste. Diverse dichiarazioni
rilasciate da vari esponenti importanti di aziende (anche a partecipazione pubblica)
puntano solamente a rinviare le scelte nel tempo, dando l’impressione di non rendersi
affatto conto che ciò, non solo avrebbe conseguenze sul clima, che continuerebbe nel
frattempo a peggiorare, ma creerebbe un nodo irrisolvibile rinviando le scadenze previste
per evitare il superamento dei limiti che possono contenere il cambiamento del clima.
In un futuro di scelte ambientali radicali ci sono spazi enormi per la ricerca, per investimenti
innovativi, per la crescita di occupazione di qualità, in grado di compensare la caduta in altri
settori. Troppe volte, in passato, GLI INTERESSI DEI LAVORATORI sono sembrati (o
volutamente posti) in contrasto con l’ambiente e le conseguenze sono state drammatiche
per la vita delle popolazioni e per gli stessi lavoratori interessati, costretti ad una pura e
forzata strategia difensiva, a volte, perfino corporativa. L’esempio più rappresentativo è la
ferita dell’Ilva, che non ha salvato né il lavoro né l’ambiente, che è ancora aperta, non è
risolta ma deve diventare un impegno prioritario proprio grazie al PNRR. Una piattaforma
netta e allargata di confronto, potrebbe invece consentire di realizzare una nuova,
indispensabile alleanza tra lavoro ed ambiente, in cui le condizioni di vita, la salute siano
coerenti con una nuova prospettiva occupazionale. Diversi studi, ormai, l’hanno
ampiamente dimostrato: un altro futuro non è solo necessario ma possibile, anzi
4
indispensabile. Pertanto, siamo convinti che, il modo migliore di mettere alla prova le vere
intenzioni del nuovo governo è entrare in campo, avanzare proposte, sviluppare iniziative,
osare proposte nette, radicali se necessario, con l’obiettivo di discuterle, di aiutare la
creazione di movimenti e risposte all’altezza della sfida. Si potrebbe affermare che la
transizione ecologica è un compito troppo importante per lasciarlo al solo governo, e che è
assolutamente meglio “accompagnarlo” e prendere le iniziative necessarie.
TRANSIZIONE ECOLOGICA & MODELLO DI SVILUPPO
Dopo aver messo “il Pianeta a ferro e a fuoco”, ora, il sistema antropico capisce di dover
correre ai ripari e fare qualcosa; ma il problema più grave, è che lo fa con lo stesso istinto e
con gli stessi obiettivi che il disastro planetario ha provocato, finendo semplicemente e
tristemente per ingannare se stesso. Ormai è inutile – oltre che impossibile negare che il
Pianeta viva uno stato di crisi a 360 gradi che si manifesta, in particolare, sotto due forme
specifiche “equamente gravi”: l’assottigliamento delle risorse e l’accumulo dei rifiuti. E,
quando si parla di risorse, non ci si limita più, fortunatamente, solo a quelle fossili, ma si
guarda, soprattutto, all’acqua, alla terra fertile, alla biodiversità, alle foreste, ma anche ai
minerali, in particolare le cosiddette terre rare che stanno alla base delle nuove tecnologie
dell’energia rinnovabile, della digitalizzazione, della robotizzazione.
Ma, forse, la più grande operazione di autoinganno che il sistema sta tentando è rispetto,
perché ci fa credere che il problema sia limitato alle emissioni di CO2. Da quando abbiamo
scoperto che il cambiamento climatico è già iniziato e che le sue conseguenze possono
essere catastrofiche (eventi metereologici estremi, desertificazione, perdita di raccolti
agricoli, migrazioni di massa per cause climatiche, ecc.), anche i capi di Stato hanno
riconosciuto che bisogna cercare di ridurre le emissioni di gas serra. Effettuando una seria
analisi circa le modalità con cui abbiamo generato un simile degrado, ci rendiamo conto del
fatto che buona parte della colpa di questa situazione è legata a due mentalità, ancora
molto diffuse:
 considerare la natura un bene senza valore e averla trattata come un magazzino da
saccheggiare e una pattumiera da riempire;
 l’eccessivo e perdurante credere nei miti posti a fondamento della concezione
capitalistica: il mito della ricchezza, della mercificazione, dell’accumulo e
dell’onnipotenza. In una parola, il mito della crescita che ha portato al gigantismo,
all’inurbamento, al produttivismo, al consumismo, all’accelerazione, da cui derivano tutti
i nostri guai. Il tutto “giocato”, oltretutto, in un ambiente, in un sistema come è il nostro
Pianeta, per definizione limitato.
Pertanto, se davvero volessimo riappacificarci con la Natura e riportare la nostra “impronta”
ecologica all’interno del perimetro della sostenibilità, quella vera - che tiene conto
dell’equità a livello planetario e del rispetto delle generazioni future – ciò dovremmo
(dobbiamo) mettere profondamente in discussione, è proprio la crescita ed il modello di
sviluppo che la sostiene. Ma, purtroppo, da questo orecchio, il sistema non ci sente e riduce
tutto a una questione di efficienza.
Eppure, Enzo Scandurra - professore ordinario di urbanistica presso l’Università della
Sapienza di Roma - ci ricorda, ancora una volta, che “in ecologia non esistono scorciatoie:
una lezione severa che ci viene dal Secondo Principio della termodinamica. Più ci muoviamo,
5
più trasformiamo, meno energia utile rimane a nostra disposizione e non c’è tecnologia che
possa ingannare questo principio della fisica, che è anche alla base del vivente. Non ci resta
che ripensare la crescita a partire dalla condanna del consumismo, del consumo (inutile) di
suolo, dell’uso dell’auto, del turismo di massa, della produzione di armi e del loro
commerci”. La transizione ecologica, dunque, o mette in discussione la crescita, o non è
“vera” transizione. Fare questo significa, per forza, rinunciare al progresso? Crediamo che
voglia dire, semmai, arrestare la folle corsa verso l’instabilità del pianeta e scongiurare la
(prossima) fine della specie umana, perché progresso - crediamo - dovrebbe significare
ritrovare l’alleanza con la terra, con le altre specie che, saccheggiate dei loro habitat, hanno
trasmesso la grande pandemia che ci sta uccidendo. È chiaro che l’ecologia non può essere
beffata e non esistono scorciatoie per aggirarla.
Se fino a qualche tempo fa, l’efficienza veniva definita e considerata solo in chiave
quantitativa, analizzando e valutando le cose solo dal punto di vista dei costi e dei ricavi, del
business per il business e la sfida era come riuscire ad ottenere il massimo di produzione col
minimo di materia prima, ossia col minimo di spesa, oggi l’efficienza si comincia a concepire
anche in chiave qualitativa e la sfida di molte imprese, ad esempio, è capire come accrescere
l’uso di materia prima seconda, proprio per limitare il consumo di materia prima vergine,
utilizzando le tecniche di recupero e di riciclo che, insieme alle energie da fonti rinnovabili,
rappresentano pratiche senz’altro necessarie ma non sufficienti per ridurre sul serio la
nostra pressione sul Pianeta. Ma la transizione ecologica, non si attua solamente
intervenendo sul lato della produzione, ma anche e in ugual misura sull’aspetto del
consumo, quindi noi, come soggetti consumatori responsabili (qualcuno li definisce anche
cosumAttori) che, per esempio:
 se vogliamo ridurre il consumo di alberi, dobbiamo produrre e consumare meno carta;
 se vogliamo ridurre il consumo di plastica, dobbiamo produrre meno imballaggi e, quindi,
avere uno stile di vita complessivamente più sobrio;
 se vogliamo ridurre i veleni in agricoltura, dobbiamo mangiare meno carne;
 se vogliamo ridurre il consumo di energia dobbiamo ridurre i nostri elettrodomestici e i
nostri spostamenti. E se proprio vogliamo continuare a viaggiare, allora dobbiamo,
perlomeno, disporre di mezzi pubblici capillari, frequenti e all’avanguardia da un punto
di vista energetico.
E poi, c’è la questione centrale – quasi un mantra intoccabile, potremmo dire - della crescita
economica che nasconde il grandissimo rischio che il decisore politico, nonostante la
creazione del Ministero della Transizione Ecologica subordini, un’ennesima volta, la
“transizione ecologica” alle ragioni inamovibili della presunta crescita economica, per
colpa del (solito) tentativo tecnologico delle lobbies di sostituire (invano) l’uso dei fossili con
invenzioni fantasmagoriche che comunque ad esso infine riconducono, come l’idrogeno e la
“nuova civiltà” ad idrogeno (soprattutto quello c.d. blu), la tecnologia Ccs (Carbon Capture
and Sequestration)1
: fingere di cambiare tutto, affinchè nulla (o quasi) cambi. E’ necessario
eliminare dai nostri pensieri che la TECNOLOGIA risolverà l’insostenibilità dei nostri modelli
di sviluppo e di consumo, perché sappiamo bene che non è così.
1
La cattura e sequestro (o stoccaggio) dell’anidride carbonica, o è un processo di confinamento geologico dell'anidride
carbonica (CO2), attraverso un meccanismo tecnologico di ri-catturare della CO2 prodotta, “pompandola” nelle viscere
della terra.
6
La minaccia di catastrofe ambientale ha assunto, ormai da tempo, una portata tale, da non
permettere più l’impiego del classico “specchietto per le allodole”, come spiega
brillantemente il prof. PAOLO PILERI2
:
“La prima cosa da dirci e da dire, è che la sfida della transizione va indirizzata sul bersaglio
giusto e non è una cosa che riguarda solo i parchi, le riserve, i rifiuti, eccetera. È l’economia
che deve cambiare. È il consumismo come norma sociale, ciò che devono estirpare. Poi
prenderemo quel che arriva, come siamo abituati noi che spingiamo per la difesa
dell’ambiente. L’introduzione di parole magiche come “resilienza” e, appunto, “transizione”
hanno agitato le acque e fatto fare balzi in avanti alla questione ecologica. Ma non possiamo
permetterci fuochi di paglia. Abbiamo bisogno di cambiamenti seri e duraturi e, per questi,
abbiamo bisogno non solo di esperti ma anche di persone appassionate e indipendenti.
In Italia, abbiamo davvero tanti esperti sul clima, sull’agro-ecologia, sulla mobilità
sostenibile, sulla biodiversità, sul paesaggio, sulle acque interne e costiere, sul suolo, sui
rifiuti, sull’ecologia forestale, su cibo e diete alimentari, sul consumo di suolo, su
pianificazione urbanistico-ambientale, su economia dell’ambiente e fondamentale, e così
via. La cosa dirimente sarà pescare persone autorevoli e, soprattutto, indipendenti.
Quest’ultima parolina, è la più importante.
La musica deve cambiare. La virtù deve prevalere sulla sciatteria. Il progetto sulla
promozione. La visione sulla fretta di fare. L’incubo dell’incasso deve venire dopo la
generazione di sana occupazione. La natura deve comandare e non subire, perché non c’è un
solo oggetto tra tutti quelli che usiamo ogni giorno, che non arrivi dalla natura: tutta la
nostra economia dipende dalla natura ma noi fingiamo da decenni di non saperlo e la
calpestiamo facendo il contrario”.
Vi è, infine, la questione del ruolo dello Stato in ambito economico, soprattutto dopo
l’ubriacatura neoliberista, che pretendeva di estrometterlo da qualsiasi servizio che non
fossero quelli di interesse generale (anagrafe, polizia, magistratura e poche altre funzioni
amministrative) perché una vera transizione ecologica, richiede una collettività forte, non
solo come fornitrice di servizi, ma anche come datrice di lavoro di ultima istanza. Perché la
necessaria riduzione dei consumi potrà essere accolta con favore, solamente nella misura
in cui le persone sapranno come avere un lavoro, una professione, un’attività, pur in
presenza di minori consumi. E la risposta può venire solo da una solida economia pubblica
che, col lavoro di tutti, garantisce i bisogni fondamentali di tutti e la tutela dei beni
comuni. Quando la sicurezza delle nostre vite sarà garantita dalla comunità organizzata, quel
giorno torneremo alla vera sovranità di chi può imporre al mercato tutte le regole ambientali
e sociali che servono per il rispetto della natura e delle persone senza paura di ricatti
occupazionali come invece avviene oggi.
Il termine transizione, può essere inteso, allora, anche come la sintesi di un impegno
politico, culturale e sociale per cambiare davvero registro o paradigma, cominciando dal
riconoscere che la Natura ha dei diritti che vanno sanciti dalle nostre leggi in modo
categorico, perché le società sono abituate a rispondere alle leggi e a quelle le imprese e i
cittadini guardano.
2
Docente di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, membro di gruppi di ricerca nazionali e
internazionali e consulente scientifico di ministeri, enti pubblici, fondazioni e amministrazioni locali.
7
TRANSIZIONE ECOLOGICA e BENESSERE
Viviamo in un momento storico in cui, più che in
ogni altro, ci si rende sempre più conto dei danni
prodotti dalla società dell’eccesso, basata su uno
stile di vita e un modello di società in cui prevale
uno strano sentimento, quasi una “fede” che ci fa
credere che “tutto tornerà come prima”, presto,
velocemente, appena saremo tutti vaccinati contro
un virus che ci costringe a mascherarci ogni giorno.
Ed è anche così, che si è diffusa fortemente l’idea
che sia necessaria una “transizione ecologica”, un
termine che mette in evidenza come sia urgente
una trasformazione generale che investa tutti i
settori della vita e dell’economia. Un cambio di paradigma del nostro modello di sviluppo,
finalizzato a ridurre l’impatto sull’ambiente del nostro modo di vita, pur garantendo - come
ci si affretta, subito, ad aggiungere - il nostro livello di benessere.
Ma che cosa è questo benessere, che dovrebbe essere “garantito” dalla “transizione
ecologica”? Il benessere – inteso come stare bene, esistere bene - è dunque il termine che
specifica gli aspetti, le caratteristiche, la qualità della vita di ciascun individuo e
dell’ambiente. Certamente una parola che, negli ultimi decenni, è sempre più coincisa con
una sua unica dimensione: quella del benessere economico, materiale (reale o
“desiderato”) e che è sempre più coinciso (e coincide tuttora) con l’avere, il possedere, il
circondarsi di merci più o meno utili. Un benessere associato alla possibilità di fruire
liberamente di tutto ciò che è disponibile “sul mercato”, senza pensare che accumulare
vuol dire consumare risorse naturali producendo scarti, materiali e sociali.
Affrontare una transizione ecologica vuol dire, dunque, riprendere coscienza e conoscenza
principio per cui il nostro benessere materiale non può prescindere dagli equilibri naturali;
significa affiancare all’idea di eco-efficienza quella di eco-sufficienza, affrancandosi dalla
condanna al consumismo, avviando una transizione profonda e orizzontale (ampia e
democratica), con lo scopo, anzitutto, di affermare modelli di vita diversi, che partano da un
ripensamento di ciò che genera davvero benessere. Promuovere una transizione ecologica,
allora, significa:
 aumentare la consapevolezza dell’irrazionalità dell’attuale modello sociale e economico
basato su una idea di crescita infinita di produzione e consumo di merci, che distrugge,
invece che creare;
 valorizzare il lavoro innovativo svolto dalle comunità sostenibili, promuovendo lo sforzo
di ri-tessitura che rappresenta l’unica via per una vera e duratura transizione ecologica;
 garantire un impegno istituzionale multilivello di investimento lungimirante sulle
infrastrutture che rendono la sostenibilità “praticabile” ridisegnando ad esempio le
filiere del cibo riconnettendo città e campagna, ripensando radicalmente il sistema di
mobilità urbana per diminuire gli impatti ambientali, sociali ed economici;
 organizzare un impegno culturale per ri-significare lo stesso concetto di “buona vita”,
oggi appiattito sulla sola dimensione del consumo, mostrando la “ricchezza” - in termini
8
di creazione, accesso, condivisione e fruizione - che può venire dal puntare
sull’ampliamento dei beni comuni e dei servizi comunitari.
In conclusione, dunque, transizione ecologica vuol dire riportare la tecnologia e il mercato
al servizio della riproducibilità e cura della vita. Partendo dalla valorizzazione dei movimenti
di tessitura sociale e politica elementare alla portata di ognuno, si tratta di ripensare in modo
sistemico e radicale le condizioni del vivere, del produrre, del consumare senza riduzionismi
esercitando una visione multidimensionale. Solo a queste condizioni potremo promuovere
una transizione ecologica profonda e orizzontale capace di futuro.
Le transizioni sono belle, ma danno frutto se la loro priorità non è (solo) il compromesso,
nel senso che, davanti a un bivio, sarà necessario scegliere la nuova strada abbandonando,
nel contempo, la vecchia. Sarà doloroso ma è questa la sfida, culturale innanzitutto e prima
di tutto, che come comunità vivente abbiamo davanti, sin da ora.
Nei mesi passati, in tanti hanno detto che l’Italia non può e non vuole “tornare come era
prima”, ma occorre lavorare bene per trasformarla in un Paese avanzato, in cui si
sperimentino politiche ad alto tasso di innovazione ambientale, sociale e tecnologica.
Possiamo farcela. Possiamo farcela. Dobbiamo farcela. Sarà bello farcela e i cittadini hanno
capito che il futuro è solo all’insegna del pieno rispetto della natura e della riduzione dei
divari, delle diseguaglianze e delle ingiustizie”.
TRANSIZIONE ECOLOGICA e GIUSTIZIA SOCIALE
“La transizione ecologica” – si legge nel PNRR – “sarà la base del nuovo modello economico
e sociale di sviluppo su scala globale, in linea con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile
delle Nazioni Unite. Per avviarla sarà
necessario, in primo luogo, ridurre
drasticamente le emissioni di gas clima-
alteranti in linea con gli obiettivi
dell’Accordo di Parigi e del Green Deal
europeo; in secondo luogo, occorre
migliorare l’efficienza energetica e nell’uso
delle materie prime delle filiere produttive,
degli insediamenti civili e degli edifici
pubblici e la qualità dell’aria nei centri
urbani e delle acque interne e marine.“ Un
cambiamento che, anche se viene
supportato da efficaci strumenti di policy, deve cominciare da ciascuno di noi. I temi della
transizione ecologica, soprattutto se riferiti alle realtà urbane, si connettono direttamente
con le politiche dei singoli Stati relativamente al sistema delle infrastrutture e delle comunità
locali e in merito al consumo di suolo, alla rigenerazione urbana, ai servizi comunitari, ecc.
La giustizia sociale, quindi, non è affatto estranea a queste tematiche perché è alla base
della necessità di rispondere a molti fabbisogni non soddisfatti, di casa e di servizi connessi
all’abitare in primo luogo la salute, l’accessibilità e i servizi eco sistemici, costituisce
l’emergenza sociale che produce disuguaglianze e che rappresenta la modalità con cui si
stanno costruendo le nuove periferie (urbane e rurali, storiche e contemporanee,
9
inaccessibili, inquinate, degradate). A questo, si aggiunge la presenza degli spostamenti
migratori in arrivo e in partenza, a determinare una geografia a macchia di leopardo ancora
tutta da studiare e che richiede una politica e delle specifiche azioni sul versante dell’offerta
in termini di servizi, di politiche abitative e di accessibilità. La grande scommessa della
transizione socio-ecologica sta proprio in questo: rispondere alle domande e ai fabbisogni
con una strategia integrata e ridotti impatti, agendo sulla rigenerazione urbana e anche
sulle infrastrutture veloci, sul trasporto locale e ciclabilità, modificando la geografia delle
disuguaglianze che la rete nazionale e locale di strade e ferrovie oggi determina. Sebbene la
rigenerazione urbana sia diventata il principio ma anche il modello operativo nelle aree
cittadine, questo tema – almeno fino ad ora - risulta completamente assente dall’Agenda
politica del governo, che non è ancora riuscito a costruire un progetto per le criticità che
continuano a vivere città e territori.
Giustizia sociale e tutela ambientale non sono separabili, come magistralmente è scritto
nell’Enciclica “Laudato si’” (ma non solo); giusto il contrario della visione mainstream degli
economisti “tradizionali”, basata su un’unica variabile indipendente - la crescita economica
– mentre tutto il resto deve essere funzionale solamente a questo obiettivo prioritario.
Nella Laudato sì, l’ecologia integrale parte dal creato (biosfera) che abbraccia tutto il vivente
in una catena di relazioni senza discontinuità. Non ci può essere transizione ecologica
lasciando fuori disuguaglianze, povertà e ingiustizia. Una transizione ecologica basata, in
primis, sulle soluzioni e sui co-benefici del contrasto alla crisi climatica, comprende ed
abbraccia certamente l’interesse di istituzioni e cittadini, ed equivale alla scoperta di nuovi
diritti alla salute, al benessere, alla giustizia e alla sostenibilità ambientale, sociale ed
economica, per le generazioni presenti e future. Già più di 60 anni fa, un grandissimo padre
Costituente come Piero Calamandrei, “anticipava” il nostro principale compito odierno di
cittadini e cittadine - ossia la transizione ecologica – con questa indicazione «non solo il
diritto, ma il dovere di camminare verso un impegno di rinnovamento sociale non più
revocabile».
La transizione ecologica, dunque deve essere a trazione anche sociale, proprio perché
l’aspetto sociale e quello ambientale dell’esistenza umana (e di tutti gli esseri viventi della
Terra) sono, da sempre, strettamente intrecciati tra loro; e ce ne rendiamo ancora più conto
– soprattutto dopo più di un anno di pandemia e lockdown – se ci riferiamo ad uno specifico
elemento dell’ambiente, ossia il “territorio”. Quel luogo diversificato ed eterogeneo sul
quale e all’interno del quale avvengono molte cose diverse: dai processi di rigenerazione
degli spazi alla riqualificazione dei contesti (urbani, periferici e delle aree interne), dalla
mobilità e i modi in cui ci spostiamo, a come usiamo le tecnologie ed a come esse si
svilupperanno in futuro. Il cambiamento sociale deve anche riguardare le nuove abitudini
da acquisire, una nuova educazione, intervenire su lavoro (industria verde: energia
rinnovabile, filiera agro-alimentare, riconversione termica degli edifici, nelle filiere del
riciclo, ecc.) intervenire nei progetti dei budget di salute, in quelli di inclusione sociale, in
campo educativo. Viste, poi, le molte funzioni – educative, terapeutiche, riabilitative, di
emancipazione – che riveste, è fortemente auspicabile che un nuovo sistema di welfare
agganci una dimensione ecologica in senso ampio, conciliando finalmente il benessere
dell’ecosistema con quello degli esseri umani che lo abitano, attraverso criteri equi e
sostenibili. La scommessa è superare il paradigma tradizionale dei servizi sociali, centrato sul
binomio operatore-utente, verso forme più responsabilizzanti. La cura indissolubile per le
10
persone, per la natura e per le istituzioni, dovrebbe (deve) diventare il compito e la logica
del sistema economico, producendo posti di lavoro e promuovendo una democratizzazione
dell’intero sistema delle relazioni sociali e naturali: Welfare, tutela dei diritti, servizi alla
persona e valorizzazione dei beni comuni, accoglienza, questione migranti e lo ius soli,
dovrebbero essere al centro dell’azione di un governo di vera transizione trasformativa e
una politica nuova, radicalmente democratica, affinchè questi principi e questa politica di
transizione e di lottare perché questa politica sia assunta dall’Unione europea.
LA COMUNICAZIONE DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA
Il 2021 è considerato un anno decisivo per la lotta alla crisi climatica, sia per vari fatti
internazionali di grande rilievo, quali la COP 26 del prossimo novembre a Glasgow, il rientro
ufficiale degli Stati Uniti d’America nell’accordo di Parigi, la promessa della Cina di
raggiungere zero emissioni nette entro il 2060, così come anche l’Europa nel 2050 (con un
traguardo intermedio di riduzione delle emissioni del 55% nel 2030), ma anche per i
cambiamenti che ci aspettano e che investiranno tanto i grandi sistemi, quanto la vita di ogni
singolo cittadino.
Il futuro prossimo, ci porterà grandi e significativi mutamenti, che investiranno tanto i grandi
sistemi, quanto la vita di ogni singolo cittadino/a, cioè la nostra vita quotidiana. Eppure, si
pone la domanda di quanto, in realtà, le nostre democrazie ed i nostri governi potranno
davvero spingere sull’acceleratore della “rivoluzione verde”, fintanto che la maggioranza
della popolazione – al momento, certamente preoccupata soprattutto dalla pandemia – non
sembra possedere una chiara ed effettiva percezione della posta in gioco, per quanto
riguarda la risposta che siamo chiamati a dare alla crisi climatica.
Non c’è dubbio che - se paragonata alla risposta che le nostre società hanno dato alla
pandemia di Covid-19 - la lotta contro i cambiamenti climatici appare una sfida ben più ardua
da affrontare e, soprattutto, da comunicare e rendere comprensibile, proprio perchè
richiede trasformazioni profonde e durature dei nostri sistemi politici ed economici che
invece, nel caso della pandemia, risultano – almeno lo speriamo vivamente -
prevalentemente transitorie (Klenert et al., 2020). La speranza e l’auspicio è che la risposta
data al Covid-19 – pur con tutti i problemi che sono emersi - possa costituire, per così dire,
una “buona palestra”, in vista delle future sfide globali. Ma ci pone di fronte anche una
importante domanda: “quanto le nostre democrazie potranno spingere sull’acceleratore
della “rivoluzione verde”, fintanto che la maggioranza della popolazione – attualmente
preoccupata, comprensibilmente, soprattutto dalla pandemia - sembra mancare di una
chiara percezione della posta in gioco, riguardo la risposta alla crisi climatica?
In un interessante articolo apparso sulla testata online la Scienza in Rete, l’autrice Simona
Re, identifica una particolare categoria di persone rispetto al loro approccio al tema dei
cambiamenti climatici e della transizione ecologica: gli “asintomatici della crisi climatica”.
Secondo la letteratura specializzata sul tema, il rischio climatico possiede le caratteristiche
per suscitare in noi una forte reazione emotiva, perché si tratta di un rischio sconosciuto,
incontrollabile e che colpisce la popolazione in modo eterogeneo. Tuttavia, la generale
reazione di indifferenza o negazione delle persone, suggerirebbe che la mossa migliore per
una comunicazione efficace, sia la care communication, il cui obiettivo è quello di coltivare
la consapevolezza del rischio climatico, informando e allertando le persone. Ne è un
11
esempio, il movimento Extinction Rebellion, il cui obiettivo specifico è quello di sensibilizzare
l’opinione pubblica sull’urgenza della crisi e mobilitare alla disobbedienza civile il 3,5% della
popolazione mondiale.
Di fronte a un impegno non più rimandabile come la risposta alla crisi climatica ed ecologica,
le manifestazioni pacifiche degli attivisti sono una reazione naturale e legittima. Malgrado
ciò, le persone sembrano mostrare una scarsa reazione alle azioni di sensibilizzazione.
Perché questa strategia non sortisce gli effetti desiderati?
Secondo lo studioso Sandman (2009), dietro alle reazioni di indifferenza o negazione
rispetto agli allarmi degli scienziati, si nasconderebbe in realtà la difficoltà di molti di noi a
gestire cognitivamente un messaggio talmente fuori scala, talmente altro da noi, da risultare
indecifrabile per la mente. Una sorta di interruttore salvavita per proteggerci dalla paura, la
tristezza e il senso di colpa per gli impatti dei cambiamenti climatici, sulle presenti e sulle
future generazioni. Siamo, appunto, nell’era degli “asintomatici della crisi climatica”, che si
esprime secondo almeno 3 tipologie di atteggiamenti di rifiuto causati dalla paura e dal
disagio:
a) la negazione da evitamento, cioè un meccanismo psicologico di minimizzazione o
negazione dell’importanza di un rischio, che funziona attraverso la neutralizzazione di
informazioni negative per noi rilevanti (Wiebe & Korbel 2003);
b) la negazione caratterizzata da bassi livelli di ansia (Thompson & Ting 2012) e guidata
dal cosiddetto optimism bias, che ci fa convincere che gli eventi spiacevoli abbiano meno
probabilità di accadere a noi stessi che agli altri (Sharot 2011), perché psicologicamente
percepito distante, come un insieme di eventi incerti che immaginiamo verificarsi in un
futuro lontano, con impatti su luoghi lontani e su persone diverse da noi (Pidgeon 2012).
c) la negazione come la resistenza al cambiamento per la paura e l’ansia per i cambiamenti
che la risposta alla crisi climatica portano con sé; può determinare importanti effetti sul
piano emotivo, cognitivo e comportamentale (Ford et al, 2008).
Per PREVENIRE e VINCERE LA RESISTENZA AL CAMBIAMENTO, il consiglio per comunicatori
e istituzioni è quello di investire in una comunicazione coerente e costruttiva, che mira a
politiche climatiche efficaci e attraenti, basate su co-benefici locali e tangibili, in grado così
di superare i possibili pregiudizi psicologici della popolazione (Klenert et al., 2020).
Fondamentale, in fatti, è che oltre a parlare delle limitazioni necessarie per il taglio delle
emissioni di gas serra, il messaggio dovrebbe focalizzarsi sui benefici per la salute dalla
riduzione dell’inquinamento dell’aria, dal muoversi a piedi o in bicicletta, e su una
responsabile promozione dei cambiamenti di stile alimentare per la riduzione dei rischi di
tumore e di malattie cardiovascolari producendo, al contempo, importanti benefici per il
clima e per la biodiversità.
Per quanto riguarda, nello specifico, la paura della minaccia climatica, gli esperti
raccomandano di provvedere alla sensibilizzazione delle persone accompagnando le notizie
e gli appelli sui rischi e gli impatti, che fanno leva sulla preoccupazione, anche con messaggi
di efficacia:, pur favorendo la percezione della gravità della minaccia e della suscettibilità,
serve a mostrare quella “luce in fondo al tunnel”, utile a innescare una risposta e a limitare
i danni da un possibile eccesso di ansia (Witte & Allen 2000). Resta prioritario il fatto che
evitare ritardi nella percezione da parte delle persone, è essenziale per garantire una
risposta efficace, e prevenire i danni da paura e indignazione resta un’azione urgente e
fondamentale nell’interesse stesso delle istituzioni.
12
Le iniziative italiane per promuovere la comunicazione della crisi climatica e della
transizione ecologica, non provengono solo dal mondo scientifico e dai climatologi.
Interessante, ad esempio, è l’iniziativa dei giornalisti, ricercatori ed esperti di comunicazione
del gruppo Climate Media Center Italia (CMC) che offrono il loro supporto a media e
scienziati, per migliorare l’accuratezza e l’efficacia dell’informazione sul clima e la
conoscenza delle soluzioni e dei relativi co-benefici. Nell’ambito della promozione della
cooperazione nella risposta alla crisi ambientale e sociale, si segnala il recente manifesto
dell’organizzazione “Ci sarà un bel clima”, di cui parleremo specificatamente più avanti, che
si pone come obiettivo di facilitare e favorire la comunicazione e il dialogo per la transizione
ecologica, attraverso la diffusione di messaggi onesti e responsabili e la promozione di
sentimenti di coesione e positività.
TRANSIZONE ECOLOGICA & RISCHIO GREENWASHING
Sebbene, almeno inizialmente, la proposta di istituzione di un MINISTERO PER LA
TRANSIZIONE ECOLOGICA sia stata salutata con consenso quasi unanime, soprattutto dal
“mondo ambientalista” ma, più in generale, da tutti coloro che ritengono che, oggi, sia
sempre più urgente e necessario cambiare la direzione del nostro modello di sviluppo,
considerando in modo più serio e concreto la questione della sua coesistenza con i limiti del
Pianeta, non sono assenti alcuni dubbi o, forse solo preoccupazioni, circa i reali compiti e
l’effettiva autonomia ed efficacia che questo Ministero potrà di cui potrà disporre, per
portare avanti una seria, concreta e radicale transizione ecologica.
Partendo dal presupposto che sia estremamente positivo che si parli di transizione ecologica
come uno dei punti centrali programmatici del Governo, testimoniato dalla creazione di un
“ministero per la Transizione ecologica” – potremmo dire, una sorta di “ministero
dell’Ecologia” – si ritiene corretto e utile porsi la domanda se, nello specifico contesto
italiano, non esista un rischio “bolla”, ossia la crescita improvvisa e significativa di interesse
per le tematiche ambientali che, dopo essersi gonfiato, poi perde credibilità e scoppia
(tipiche sono bolle speculative ricorrenti nell’economia finanziarizzata della globalizzazione).
La domanda è legittima perché, molti esperti di politica economica e di cambiamento
climatico non nascondono il fatto che, con il diffondersi dell’allarme legato alla sempre più
evidente devastazione del Pianeta e al surriscaldamento climatico, il principale argomento
di autolegittimazione del capitalismo globale sia diventato proprio quello della tutela
dell’ambiente e della mitigazione delle cause e degli effetti del Climate change.
Esiste, dunque, il fondato rischio di trovarci di fronte ad una sorta di bolla ecologica, sotto
forma di una campagna di legittimazione, che fa credere in uno straordinario impegno per
la transizione italiana all’economia green, occultando il fatto che mancano alcune
condizioni fondamentali per la sua effettiva realizzazione: scelta e cultura adeguate,
soggetti credibili, congruenza tra l’agenda governativa e le azioni di vera transizione.
1) La prima condizione assente è relativa alla visione e alla scelta che dovrebbero ispirare
l’azione del governo, a causa del permanente equivoco – magari “nascosto” alla trovata
del nuovo Ministero, di ridurre l’ecologia alla solo tutela degli equilibri della natura,
senza abbracciare, nel contempo e come dovrebbe essere, anche gli equilibri sociali e i
diritti delle persone. Basandosi, infatti, sulla pericolosa e fuorviante illusione, che si possa
13
andare avanti tranquillamente con “il capitalismo opportunamente revisionato”, senza
rendersi conto, invece, del fallimento garantito se si persevera sulla via senza sbocco di
un modello di economia capitalistica e consumistica, che è sbagliato e nocivo. E’ sempre
più chiaro che, non c’è trasformazione del vigente modello di economia senza un
processo di transizione, d’altro canto non può esserci transizione senza la scelta di
trasformare l’economia.
2) La seconda condizione inesistente, si riferisce all’insieme degli attuali attori politici, che
avrebbero (avranno?) il compito e la responsabilità di promuovere la transizione. In
questi ultimi decenni, una galassia di soggetti sociali e culturali si è mossa dal basso
affrontando seriamente le tematiche ambientali, del climate change e, soprattutto, della
transizione ecologica e, perfino alcune imprese, hanno riconfigurato in chiave ecologica
e solidale la loro attività. Se c’è un ambito, invece, piuttosto stagnante e inetto, questo è
proprio quello della politica istituzionale, legata quasi esclusivamente alla questione
economica, come unica bussola di strategia e di azione. Una transizione ecologica
dovrebbe, prima di tutto, superare l’abitudine di concepire l’economia come il motore
della società e l’ecologica come il freno che la mantiene in carreggiata, assumendo
invece l’ecologia come struttura dell’economia.
In altre parole, per coloro che da molti anni si occupa delle politiche sull’ambiente e il clima
in Italia (professionalmente e non solo), la loro drammatica inerzia, la voracità delle lobby
“sviluppiste” fra le più arretrate d’Europa, questo nome “transizione ecologica” fa sorgere il
sospetto di un’operazione di facciata: un ministero dotato di poteri e fondi non molto
diverso da quello del ministero dell’Ambiente, al di là del nome più aggiornato. Un ministero
che avrebbe grandi competenze teoriche, ma che non dispone di reale potere per incidere
davvero. Quanto questo rischio di greenwashing sia fondato, o meno, lo si scoprirà nei
prossimi mesi, da quanti e quali saranno gli altri ministeri e quali competenze avranno.
A proposito dei principali limiti o, in certi casi, dei pericoli che il Ministero per la Transizione
ecologica potrebbe “nascondere” è interessante ascoltare il parere del prof. STEFANO
CASERINI3
: “So che questi dubbi potrebbero essere visti come lamentele di ambientalisti
eternamente scontenti. Ma è indubbio che quando Stefano Bartezzaghi fa notare che uno
degli anagrammi di Transizione ecologica è sognatori eccezionali, coglie una paura diffusa,
radicata in decenni di retorica sulle politiche ambientali. Ho abbastanza memoria per
ricordare i roboanti proclami sull’importanza dell’ambiente, l’ecologia e le generazioni
future di un politico con la metà degli anni di Draghi, che ha poi assegnato la guida del
ministero dell’Ambiente al commercialista di Pier Ferdinando Casini, e ora indica come
nuovo rinascimento una dittatura feudale con un’economia basata sul petrolio e tre volte le
emissioni pro capite di gas climalteranti dell’Italia.
In conclusione, sarebbe molto utile definire le competenze di questo nuovo ministero e
limitarle a qualcosa di specifico, con obiettivi certamente ambiziosi, purché chiaramente
definiti e circoscritti, il cui scopo principale dovrebbe essere la più rapida uscita possibile
3
Ingegnere ambientale e dottore di ricerca in Ingegneria sanitaria (Titolare del corso di Mitigazione dei cambiamenti
climatici al Politecnico di Milano), svolge da anni attività di ricerca nel settore dell’inquinamento dell’aria, degli inventari
delle emissioni e della riduzione delle emissioni in atmosfera; si è occupato più recentemente delle strategie di riduzione
dei gas climalteranti, della comunicazione del problema dei cambiamenti climatici e dei processi per la rimozione di CO2
dall’atmosfera. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative tra cui: nel 2009 “Guida alle leggende sul
clima che cambia” (2009), “Il clima è (già) cambiato. 10 buone notizie sui cambiamenti climatici” (nuova edizione 2019.
14
dal sistema dei combustibili fossili, così come deliberato dall’Italia, attraverso l’invio
all’Unione europea della Strategia Nazionale di Decarbonizzazione a lungo termine al 2050.
Occorrerà seguire con attenzione costruttiva ogni atto del nuovo governo, facendo in modo
che i movimenti democratici, i soggetti sociali più lucidi e le forze culturali dotate di carica
trasformativa esprimano critiche, conflitti e proposte alternative utilizzando eventuali
margini di apertura politica che, più per un gioco delle circostanze che per convinzione del
governo stesso, potrebbero aprirsi. Far scoppiare l’eventuale “bolla ecologica”, potrà servire
a far maturare, un giorno, prima possibile, la scelta dell’ecologia come coscienza collettiva
e come prassi.
GOVERNANCE della TRANSIZIONE ECOLOGICA
Come sempre, la “provinciale” Italia scopre ed “enfatizza un tema come quello della
transizione ecologica che, già da diversi anni, è stato ampiamente discusso in alcuni Paesi
europei, così come sicuramente lo è Stato nell’ambito delle politiche dell’EU sul Green Deal
e nel nuovo bilancio settennale dell’Unione Europea A seguito dell'approvazione del
Parlamento europeo del 17 dicembre 2020, il Consiglio ha adottato il regolamento che
stabilisce il Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) dell'UE per il periodo 2021-2027, che
prevede un bilancio a lungo termine dell'UE, di 1.074,3 miliardi di EUR per l'UE-27 (a
prezzi 2018), compresa l'integrazione del Fondo europeo di sviluppo. Insieme allo
strumento per la ripresa Next Generation EU da 750 miliardi di EUR, consentirà all'UE di
fornire nei prossimi anni finanziamenti senza precedenti pari a 1.800 miliardi di EUR a
sostegno della ripresa dalla pandemia di COVID-19 e delle priorità a lungo termine dell'UE
nei diversi settori d'intervento.
Chi decide e chi controlla
Il PNRR - un piano di quasi 200 miliardi (191 miliardi di €, per la precisione) – è una delle
maggiori iniziative economico-finanziarie messe in campo dalla nascita della Repubblica e
che si inserisce dentro un quadro di pesantissima crisi ecologica, sanitaria, economica e
sociale. Di fronte ad una sfida di tali proporzioni e complessità, sarebbe (anzi, è)
assolutamente necessario ed utile che si coinvolgessero e si mobilitassero le migliori risorse
sociali per costruire, con la partecipazione di tutt*, un nuovo modello di società: questo
almeno nelle migliori intenzioni degli estensori dove, nell’ultima pagina del Piano si parla, di
“prevedere come massima forma di partecipazione delle persone una “Piattaforma di open-
government per il controllo pubblico”. Attualmente, la maggior parte delle energie – oltre
alla redazione del testo finale del PNRR – sono concentrate sulla governance del processo,
con uno scontro all’arma bianca (more solito ??!!) su chi dovrà comporre LA TASK FORCE
DEI SEI RESPONSABILI DI MISSIONE previsti per una gestione che, coprendo il periodo 2021-
2026, sarà di fatto un meta-governo a cavallo di più legislature. E’ già stato definito il
Comitato Esecutivo il quale, essendo composto, con ogni probabilità, dal Presidente del
Consiglio, dal Ministro dell’Economia e delle Finanze e dal Ministro dello Sviluppo
Economico e della Mobilità sostenibile che – davvero un po’ in barba alla rivoluzione
ecologica e sociale più volte annunciata – sembrerebbe perseguire, invece, le vecchie logiche
che antepongono la crescita economica ed il business for business…...!!
15
Infine, come ulteriore elemento di preoccupazione, non si deve dimenticare che, chiunque
sarà posto al comando del “bastimento carico di miliardi” (anche grazie al famigerato e già
approvato Decreto Semplificazioni, ossia D. L.
n.76/2020 (c.d.) - potrà dirigere il tutto,
praticamente, senza ostacoli di alcun tipo, siano essi
le procedure previste di valutazione di impatto
ambientale, siano esse le proteste delle popolazioni.
Infatti, tutta l’attuazione del piano, come è ben
specificato a pag. 96 della bozza di PNRR, “tutte le
opere e i progetti rientranti nel PNRR assumono
carattere prioritario e rilevanza strategica” e,
pertanto, “la procedura di valutazione di impatto ambientale relativa a progetti ed opere
rientranti nel piano si dovrà svolgere secondo un iter ulteriormente accelerato e semplificato,
rispetto a quello previsto dal Decreto Legge n. 76/2020 e concludersi entro tempi certi”,
nonché dovrà essere prevista “l’automatica conforme variazione degli strumenti urbanistici
vigenti in conseguenza dell’approvazione di un progetto rientrante nel piano”.
Citando ancora il prof. Paolo Pileri, possiamo affermare che la creazione di un Ministero per
la Transizione Ecologica, potrebbe “tornare utili a noi, cittadini sovrani (perché la politica è
un servizio, non dimentichiamolo), e a loro, ufficiali pubblici, tecnici e politici, incaricati di
tradurre in pratica le urgenze ecologiche. Da questo punto di vista, non riesco a fare a meno
di frenare la mia immaginazione e pensare che sarebbe davvero un cambiamento epocale,
se questo ministero prendesse il posto del ministero dello Sviluppo economico. Sì perché è lo
sviluppo economico che deve curvarsi sulle istanze ecologiche e non l’ambiente che è già,
di natura, conformato alle sfide ambientali. Il nostro problema, da decenni, è proprio il fatto
che nella compagine di governo il ministero dell’Ambiente vale come il due di picche di solito
e le decisioni di investimento, di grandi opere, di modello di sviluppo e così via, sono prese di
fatto bypassando il ministro dell’Ambiente o mettendolo in una condizione di supina
accettazione”.
Ecco perché, è importante evidenziare il fatto che, se il MiTE vorrà rappresentare quella
novità di cui il nostro Paese ha enormemente bisogno, dovrà guadagnarsi uno spazio che
non sia solo più di compromesso (magari al ribasso), ma uno spazio di scelta e movimento
radicali, così come sempre più articoli e studi scientifici e sociologici indipendenti (nella
stessa enciclica “Laudato sì”) suggeriscono, “supplicando” da anni i governi “a non
cincischiare dietro inutili e ritardanti compromessi che non fanno che dare sempre più spazio
ai disastri ambientali. Abbiamo perso troppo tempo nel passato, cercando prima i
compromessi e poi lo spazio per le ragioni ecologiche. Ora il metodo deve invertirsi e servono
politici convinti e con comprovata militanza ecologica e scientifica”, sempre, il prof. Pileri.
Proprio a conferma del fatto che le prossime politiche ambientali, non potranno più essere
pensate come politiche che si “affiancano” a quelle non ambientali, lasciando che – come
troppo spesso accaduto, per non dire sempre - la questione ambientale rimanga il “solito
fanalino di coda” al di là dei cambi di nome ai ministeri, perché sarebbe davvero una tragedia
nei fatti, oltre che culturale, le politiche ecologiche davvero sostenibili, saranno davvero
efficaci solamente se saranno politiche attive e sostitutive di quelle applicate fino ad ora. E’
abbastanza evidente, infatti, come chiunque abbia a cuore la giustizia sociale e ambientale
16
non possa più limitarsi alla, pur necessaria, difesa dell’esistente, ma debba porre la sfida
sull’alternativa di società, che:
 sia contro l’economia del puro profitto e per una società che metta al centro la vita e la
sua dignità;
 sappia essere interdipendente con la natura;
 costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i propri scambi,
sull’uguaglianza, le proprie relazioni e sulla partecipazione le proprie decisioni.
In estrema sintesi, quella che molti esperti hanno iniziato a definire la società della cura4
.
Di contro, fino ad oggi, sembra piuttosto che la strategia proposta da Governo e poteri forti
dell’industria e della finanza, sia troppo fortemente orientata ad un unico obiettivo:
“chiudere immediatamente tutte le faglie aperte dalla pandemia nella narrazione liberista,
accaparrandosi tutte le risorse pubbliche che saranno messe in campo per ridare fiato (e
profitti) al modello dominante, questa volta dentro un contesto molto più autoritario del
precedente”.
Un esempio? Sanare il “maledetto” vizio italiano di affermare di volere una urbanizzazione
a “basso consumo di suolo” che, in realtà, vuol dire solo che si può ancora consumare, ma
giusto un po’ meno di prima: la transizione ecologica si ottiene anche con una transizione
amministrativa, che porti coloro che governano e decidono di perseguire una
urbanizzazione senza alcun consumo di suolo, dove la parola suolo corrisponde al vero non
alle definizioni di plastica compromissorie di cui è piena la legislazione urbanistica quando
definisce cosa è il suolo e il consumo di suolo. Il Ministro della Transizione Ecologica,
innanzitutto, dovrà:
 spiegare che con la tutela ambientale, si possono generare centinaia di migliaia di posti
di lavoro green e dignitosi;
 convincere i cittadini e le imprese che la manutenzione del territorio è la nostra prima
e più importante opera pubblica, di cui il PNRR sembra essersi dimenticato;
 spiegare che non esistono solo le nove grandi città metropolitane italiane sulle quali
investire, ma anzi che bisognerà capovolgere l’agenda delle priorità e partire dagli ultimi:
i piccoli Comuni, le aree interne, le fragilità territoriali.
 convincere gli “affamati” e sedicenti esperti di marketing della qualunque cosa, che non
ci si può gettare su qualunque piatto allo stesso modo e che la “promo-
commercializzazione” del territorio non è la ricetta del futuro, perché ha massacrato i
nostri paesaggi nel passato lasciandoci in eredità un sacco di bruttezza, dismissione,
danni, debiti e intere coste abbruttite e cementificate da strade, piattaforme logistiche
e commerciali.
Si deve anche mettere in conto che la transizione economica vera, perlomeno all’inizio, sarà
dolorosa e capiterà molto probabilmente che, coloro che vogliono economie super efficienti
e rendite da capogiro, davanti al cambio di rotta che ne deriva, accuseranno l’ambiente e,
allora, vi sarà un gran bisogno di valide persone che saranno capaci di riportare le
responsabilità dove devo stare ovvero sugli eccessi che ci siamo permessi con i nostri stili di
vita e con il nostro modello di sviluppo.
4
Consiglio la lettura dell’ultimo libro di Guido Viale: “Dal lavoro alla cura – Risanare la Terra per guarire insieme”,
Edizioni inteno 4.
17
Alcune importanti e dirimenti domande sulla governance:
1) Il premier Draghi, e chi oggi lo sostiene, ritiene che i vertici delle potenti partecipate di
Stato, (Eni, Snam e altre corporation “a stelle e strisce”, ecc.), che da sempre dettano la
politica “fossile” energetica, estera e di fatto industriale italiana, e che fino ad oggi hanno
sempre fortemente intralciato la transizione in Italia, la dovranno di fatto guidare sulla
base di una presunta, quanto improbabile ed in ogni caso ipocrita riconversione oppure,
finalmente vedranno ridotto il loro enorme potere, lasciando spazio a nuovi attori di un
più profondo cambiamento?
2) Il governo italiano, che controlla il 30 % questi giganti, interferirà con forza nelle loro
politiche ed operazioni, o aspetterà in silenzio la loro conversione sulla strada della
COP26 sul clima di Glasgow?
3) Anche volendo dare credito al fatto che la struttura di un super-ministero per la
transizione ecologica farà da volano a questa conversione, è necessario, però anche
chiedersi: la nuova struttura ministeriale, includerà davvero le parti dell’amministrazione
che contano come la finanza pubblica ?
4) Chi deciderà in ultima istanza le priorità di spesa nel Recovery Plan?
Le eventuali risposte, non la darà la super-struttura di un Ministero come il MiTE, ma il
quadro delle politiche ecologico-industriali del governo, che dovranno decidere quale
coerenza nelle politiche si vuole proporre e realizzare: quella che, non alterando i piani per
una globalizzazione centrata sull’accelerazione del commercio mondiale, mega
infrastrutture ed una riscrittura della geo-economia, ci ha portato (anche) la pandemia da
COVI-19, oppure un’altra transizione centrata sulla resilienza dei territori, anche sulla
riduzione dei consumi e
sulla creazione di lavoro in
altre forme?
E’, infine, molto importante
che la società civile
italiana, lungi dal farsi
cogliere da eventuali facili
entusiasmi, vista l’enorme
flusso di finanziamenti che
arriveranno all’Italia,
rifletta molto attentamente
sul nucleo irrinunciabile e
fondamentale di tutta
l’operazione, ovvero che il clima e la biodiversità, così come la giustizia sociale, vanno salvati
“Whatever it takes”, organizzandosi, da subito, in solidarietà con le comunità di base, che
continuano a resistere in tanti angoli di Italia in tal senso e che potrebbero aiutare a definire
cosa è davvero trasformativo, per una volta, nella tanto chiacchierata transizione ecologica.
LE GIOVANI GENERAZIONI e la TRANSIZIONE ECOLOGICA
Fra i punti cardine del nuovo governo, il presidente Draghi non ha solamente indicato la
politica ambientale, ma ha posto l’accento sulla centralità della attenzione ai giovani e alla
18
loro formazione, proprio perché fra le due cose c’è un nesso molto stretto, anche perché
anche per le generazioni più giovani, ovvero gli attori principali del cambiamento e al tempo
stesso le vittime se la transizione non avrà luogo, è fondamentale che – come sosteneva
Alexander Langer “la transizione ecologica sia desiderabile”, affinché abbiano le
argomentazioni necessarie per opporsi alle resistenze grandissime che dovranno affrontare
per metterla in atto. Infatti, è innegabile purtroppo, che coloro i quali nell’attuale modello
di vita si trovano bene non saranno per niente inclini al cambiamento e vedranno la
transizione ecologica come tutta una serie di rinunce da ingoiare, almeno inizialmente.
Come può essere desiderabile, per le giovani generazioni questa transizione ecologica?
Prima di lasciare a loro, direttamente la parola, proviamo ad evidenziare “timidamente”
alcune suggestioni “al posto loro”.
Forse la prima cosa utile per loro, sarà differenziarsi dalla vecchia generazione, in termini di
valori e comportamenti, con la variante – rispetto al passato (è sempre stato così, si sa, che
il giovane è ribelle- che la differenziazione
intergenerazionale deve essere molto
più marcata di quanto non sia stata negli
ultimi decenni, per molte diverse buone
ragioni, come testimoniano, molto bene e
molto chiaramente, movimenti come
Fridays for Future, Extinction Rebellion,
“C’è un bel clima” e tanti altri, magari
meno noti, ma non meno attivi e
propositivi sui social media, perché hanno
acquisito coscienza ambientale,
desiderano la transizione ecologica, e si
organizzano per spingere verso la sua
realizzazione, vedendo in una strategia positiva e importante per il presente, oltre che per
il futuro. Il loro futuro. La vivono anche accompagnata dalla gioia della vita stessa, della
bellezza, del piacere, del sapere di essere nel giusto, come un miglioramento della qualità
della vita, non solo come una necessità per evitare il collasso della biosfera e del sistema
sociale e per garantire loro un mondo vivibile. Sanno anche che la transizione ecologica offre
ed offrirà delle opportunità di lavoro e di innovazione, soprattutto nel senso di un lavoro
non più come tormento, ma come forma di autorealizzazione.
Lasciamo, finalmente, la parola ad una di queste realtà che si chiama “Ci sarà un bel clima”
ed è, allo stesso tempo, un manifesto (molto bello) e un progetto pensato per creare un
coinvolgimento più ampio e inclusivo attorno alla causa climatica ed ecologica, formato da
cittadini e cittadine, scienziati, giornalisti, politici e imprenditori, uniti dalla convinzione che
l’unione, il dialogo e l’impegno delle persone e delle comunità, permetteranno di
rispondere, con successo, alla crisi sociale, climatica e ambientale nel nostro Paese, che è
rivolto a tutte le persone, per costruire insieme un percorso comune di trasformazione
verso un futuro migliore e di benessere per tutti e tutte. L’obiettivo di “Ci sarà un bel clima”
è quello di tessere una rete che unisca tutti i comparti della società civile, per rafforzare le
azioni, individuali e comuni, innescando una trasformazione verso una reale giustizia
ambientale e sociale. Nato nel settembre del 2020 da un’iniziativa di confronto e di incontro
19
di due giorni sulla crisi ambientale, promossa dal collettivo di ricerca e
divulgazione Crowdforest, che ha coinvolto attivisti, scienziati, giornalisti, politici e
imprenditori per condividere esperienze, immaginando, insieme, possibilità e soluzioni, ha
fatto emerge necessità, proposte e richieste, indirizzate a tutti gli attori del sistema sociale.
La soluzione per la transizione ecologica, secondo questo movimento, è da ricercarsi
nella comunicazione e nel contatto, favorendo la diffusione di messaggi onesti e
responsabili e di un sentimento di coesione e positività.
Attualmente risulta coordinato da un team di cinque attivisti (di formazione e provenienza
diversa):
Riccardo Antoniol (Economista, membro di Fridays For Future, Michele Argenta (Ingegnere,
membro di Extinction Rebellion), Giovanni Ludovico Montagnani (Ingegnere, fondatore di
Crowdforest, Clara Pogliani Storica dell’arte e Gabriele Ruffato (Naturalista e fotografo).
Qui il link per leggere il MANIFESTO “Ci sarà un bel clima”:
https://unbelclima.it/wp-content/uploads/2020/11/Manifesto-CS1BC.pdf
Se è molto incoraggiante il fatto che le nuove generazioni più sensibili ritengano desiderabile
la transizione ecologica, è altrettanto vero che da soli non bastano, così come non bastano
nemmeno le elité che manifestano, che si impegnano e che dibattono sui social media. E’
indispensabile che una più ampia rappresentanza della nuova generazione trovi questo
mondo desiderabile, e ciò si può ottenere solo in un modo: diffondendo i principi della
sostenibilità ambientale, che si coniuga con la giustizia sociale, sin dai primi gradi del
processo formativo. È a scuola, infatti, che occorre insegnare a vedere la sostenibilità, e il
percorso verso di essa, come qualcosa di desiderabile. Si deve cominciare da lì.
TRANSIZIONE ECOLOGICA e LAVORO
Il piano Next Generation EU prevede, tra i suoi assi portanti o mission, quello costituito dalla
promozione delle misure che facilitino la transizione del sistema produttivo verso un
modello sostenibile: si tratta, precisamente, della Mission 2 – “Rivoluzione verde e
transizione ecologica”. Il corrispondente PNRR dovrebbe, pertanto, rispecchiare questo
orientamento, assegnando a questo obiettivo una parte significativa delle risorse che
arriveranno dall’Unione europea. Il problema vero, crediamo, sarà con quale strategia con
quale centralità della transizione ecologica, questo avverrà, premettendo subito che siamo
tutti/e consapevoli del fatto che la conversione sarà un processo complesso, che non potrà
che toccare numerosi aspetti che non riguardano solo il lavoro, ma anche il vivere
quotidiano. Investirà di fatto l’intera società, in una modalità per molti aspetti analoga a
quella che ha contraddistinto la rivoluzione industriale nel Settecento. Le risorse, sebbene
fondamentali, dovranno essere accompagnate da competenze in grado di leggere e gestire
i nuovi approcci, indurre le nuove azioni e i nuovi comportamenti. Per questo anche la
formazione rivestirà un ruolo decisivo.
La questione del lavoro nella transizione socio-ecologica richiede, prima di ogni altra cosa,
un cambio di paradigma che possiamo esprimere attraverso una domanda: come riuscire a
promuovere un sistema in cui il lavoro sia dignitoso e rispettoso della dignità umana, giusto
20
ed ecologicamente sostenibile per tutti gli uomini e le donne, ora e per le generazioni future?
Il fatto che il lavoro sia in pericolo e che i lavoratori di tutto il mondo soffrano le conseguenze
della crisi socio-ambientale, diventa sempre più un appello urgente e pressante a ripensare
il lavoro, la sua organizzazione e la sua governance, ma anche a prendere coscienza della
sua materialità e del legame tangibile esistente tra essere umano e natura.
Un primo tentativo di risposta, potrebbe provenire dal Manifesto “Quale lavoro per una
transizione ecologica e solidale?”, presentato presso la sede di Parigi dell’UNESCO, in
occasione del Colloquio internazionale promosso da Aggiornamenti Sociali5
e guidato dal
CERAS6
nel maggio del 2019 e del quale si riassumono, di seguito, i punti principali:
1. Difendere la dignità umana. La dignità umana è inalienabile e, poiché tutti la
condividiamo, è il fondamento della vita sociale. La sua radice è il carattere sacro della
persona, che ne è il principio fondatore. La promozione della dignità umana sul lavoro va al
di là della questione della retribuzione economica, ma anche al di là del rispetto o della
semplice promozione del “lavoro dignitoso”. Implica la difesa dei diritti universali dei
lavoratori, la promozione di un lavoro “che dà dignità”, cioè di un lavoro che onori e rispetti
la dignità umana sostanziale e inalienabile, e che, in un certo senso, accresca quella che si
potrebbe chiamare “dignità relativa” (che dipende dalle condizioni di vita).
2. Difendere la giustizia sociale e ambientale. È uno dei principi più minacciati nel mondo
del lavoro. Giustizia sociale significa: stabilire condizioni di lavoro dignitose; salari dignitosi
per tutti; limitare i divari salariali tra dipendenti e dirigenti; attuare e applicare un diritto del
lavoro giusto ed equo; riconoscere e sostenere i sindacati; prendersi cura dei rapporti
consumatore-produttore, in particolare attraverso la tracciabilità sociale; promuovere
l’uguaglianza di genere (parità di trattamento, di condizioni di lavoro, di retribuzione e di
opportunità), permettendo a ogni persona di fiorire. A partire dal secolo scorso, la “giustizia
sociale” si è concentrata sulla distribuzione della ricchezza. Da questo punto di vista, il primo
diritto fondamentale da rispettare è quello a godere dei frutti del proprio lavoro. Inoltre, i
rifiuti, il cambiamento climatico e l’inquinamento ci costringono a tenere conto
dell’ambiente quando parliamo delle persone più fragili ed escluse, che sono più esposte
agli effetti del degrado ambientale. Prendere in considerazione le disuguaglianze ambientali
significa dare a tutti l’accesso a un ambiente sano e il diritto di emigrare dalle aree insalubri
e inquinate. La giustizia sociale deve essere estesa a tutti i tipi di lavoro, anche nell’economia
informale. Tutti i tipi di “lavoro invisibile” (informale, domestico, volontario, ecc.) devono
essere riconosciuti nei sistemi giuridici. A tal fine potrebbero essere create nuove istituzioni,
utilizzando processi ibridi e collaborativi.
3. Prendersi cura del bene comune. Il bene comune è più dell’interesse generale: è “il bene
di tutti noi”. Nella nostra condizione peculiare di interdipendenza globale, la questione si
pone con particolare urgenza. Il nuovo paradigma che sosteniamo e che punta a fare in
5
Aggiornamenti Sociali è una rivista dei gesuiti, nata nel 1950, che offre informazione ma soprattutto formazione.
Frutto del lavoro di una équipe redazionale composta da gesuiti e laici delle sedi di Milano e di Palermo e di un ampio
gruppo di collaboratori qualificati, il mensile offre criteri e strumenti per affrontare le questioni oggi più dibattute e
partecipare in modo consapevole alla vita sociale. Da sempre la redazione promuove e partecipa a reti e progetti nei
campi della formazione politica ed etica, del lavoro, dell’ambiente. Un impegno che negli ultimi anni è diventato
particolarmente intenso.
6
CERAS-Center for Educational Research at Stanford (Stanford University School of Education; Stanford, California.
21
modo che il lavoro rispetti i limiti sociali e ambientali, solleva nuove domande sul bene
comune, sulla privatizzazione della terra e delle risorse naturali e sui meccanismi finanziari.
Una cosa è certa: il valore economico non esaurisce il bene comune. Il bene comune, inteso
come bene di ogni lavoratore e bene di tutti, deve essere l’obiettivo del lavoro.
4. Promuovere un lavoro di qualità. Prestare attenzione alla qualità del lavoro svolto
significa permettere a tutti di essere orgogliosi del proprio lavoro, anche se difficile. La
dignità dei lavoratori aumenta quando il loro lavoro ha senso. La sicurezza sanitaria e
ambientale sono particolarmente necessarie per un lavoro di qualità. Inoltre, un “lavoro ben
fatto” non è solo sinonimo di risultato di qualità, ma dipende anche da risorse e condizioni
di lavoro accettabili.
5. Difendere la solidarietà sociale e ambientale. Solidarietà, significa che siamo responsabili
gli uni per la vita e il benessere degli altri. Tutti dovrebbero avere accesso alle risorse e
nessuno dovrebbe essere esposto, più di altri, all’inquinamento o al degrado dell’ambiente.
Ma la solidarietà vale anche nei confronti degli esseri non umani, di cui dobbiamo prenderci
cura, se non altro perché la loro esistenza ci permette di svilupparci. Questa solidarietà
estesa a tutti gli esseri viventi ci impone di essere consapevoli del nostro destino comune.
Un’altra voce molto interessante (e condivisibile) è quella della rivista economica online
Sbilanciamoci!7
, di cui si riportano alcune considerazioni, sintetiche.
 Dal punto di vista del mercato del lavoro, è necessario ragionare di misure strutturali
per il contrasto alla precarietà, che affianchino i progetti previsti dal PNRR e guardino
soprattutto – ma non solo – alle giovani generazioni: gli under 35, attualmente, risultano
sovra-rappresentati nei segmenti di lavoro meno tutelato, e il numero di NEET (oltre
due milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni, fonte Istat), estremamente alto già prima della
pandemia, impone un piano di interventi straordinari per favorire l’ingresso in un mondo
del lavoro nel quale siano realmente garantiti dirette, tutele, salari degni.
 E’ assolutamente necessario ed urgente un ambizioso piano straordinario di assunzioni
nella P.A. (soprattutto in settori chiave che negli ultimi anni e mesi hanno molto sofferto
come cultura, istruzione, sanità), rivolto soprattutto ai giovani (i dati sull’età media dei
dipendenti nella PA evidenziano la quasi totale assenza di under 35) e di stabilizzazioni
del personale precario (oltre 350mila unità). Inoltre, il fatto che le uniche assunzioni
straordinarie (ad oggi, previste nella prima bozza) fossero a tempo determinato e
relative esclusivamente all’attuazione dei progetti del PNRR, reitera un modello nel
quale, la precarietà la fa da padrone anche nel pubblico (oltre che nel privato).
 Il PNRR può essere invece l’occasione per promuovere un rinnovamento importante del
pubblico, rilanciandone anche il ruolo in termini di creazione di lavoro di qualità. In
assenza di un cambio di rotta sulle politiche in materia di lavoro non esiste alcuna
garanzia che l’occupazione sia sinonimo di indipendenza economica, emancipazione,
uscita dalla condizione di povertà.
7
La redazione di Sbilanciamoci! è composta da un gruppo di economisti, ricercatori, giornalisti, studenti, operatori
sociali, e una rete di associazioni, organizzazioni, movimenti che in gran parte fa capo alla Campagna Sbilanciamoci! E
propongono di conoscere, discutere e analizzare criticamente i fatti dell’economia, per sapere tutto il possibile sul
sistema economico nel quale viviamo e progettare tutto il possibile del sistema economico nel quale vorremmo vivere.
22
 Relativamente all’ingresso nel mondo del lavoro, non è più assolutamente rimandabile
un intervento serio su stage e tirocini che, anche in attuazione della risoluzione del
Parlamento Europeo dell’8 ottobre 2020, garantisca un’indennità adeguata, non
inferiore a 800 €/mese, oltre ad un innalzamento degli standard di qualità e controllo
sulle attività svolte durante il periodo di tirocinio e sui vincoli di assunzione e tipologia
contrattuale alla fine del percorso di formazione.
 Senza una definizione politica chiara di cosa si intenda fare, per favorire l’occupazione
giovanile, il rischio è che le misure si traducano esclusivamente in finanziamenti a pioggia
alle imprese sotto forma di sgravi fiscali, senza alcuna garanzia circa la qualità del lavoro.
La mancanza di una direzione delle politiche industriali e di sviluppo rischia di rendere
ancora più scontato il rischio che gli incentivi alle imprese siano più funzionali a dopare i
dati sull’occupazione che a rilanciare davvero il Paese. Oltretutto, tale carenza è
particolarmente problematica nel Mezzogiorno e nelle aree interne. Se il potenziamento
della SNAI (Strategia Nazionale per le Aree Interne) rappresenta, certamente, una
politica nazionale innovativa di sviluppo e coesione territoriale, che mira a contrastare
la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico propri delle aree interne del
nostro Paese, è un elemento positivo, così come la volontà di investire in nuovi asset
infrastrutturali innovativi al Sud, resta il rischio di aumento delle disparità territoriali
con una “terziarizzazione povera” di alcuni territori, nonché quello che la creazione di
pochi poli di eccellenza non abbia un impatto diffuso sul contesto locale.
TRANSIZIONE ECOLOGICA & FORMAZIONE e ISTRUZIONE
Per quanto riguarda l’istruzione, si ritiene fondamentale, prima di ogni altra considerazione,
che il MITE e il Governo non si dimentichino di investire importanti somme del PNRR in
formazione e ricerca ecologica in tutti i settori, perché, senza il “combustibile della
cultura”, ogni transizione rimarrà a secco dopo pochi chilometri e tornerà sulla vecchia
strada e poi, anche perché i temi dell’Istruzione, formazione, ricerca e cultura costituiscono
il 4° pilastro o Mission del Next Generation EU. Questo, anche per rendere possibile di
portare l’Italia verso la media OCSE come percentuale di PIL investito, passando dunque
dall’attuale 3,7% al 5% del PIL e avviando un percorso verso la completa gratuità
dell’istruzione universitaria, continuando a tutelare l’accesso all’istruzione universitaria per
le fasce di reddito medio-basse, ancora escluse dalle attuali esenzioni (fino al
raggiungimento della gratuità, e mantenendo, se necessario, estendendo la no-tax area e
un sistema di tassazione sempre più progressivo). Un intervento di questo tipo, da realizzarsi
anche attraverso misure coraggiose in termini di fiscalità generale, garantirebbe una
continuità di finanziamento per il comparto, condizione necessaria per un rilancio effettivo
del ruolo della formazione e della ricerca nel sistema Paese: per scuola, università e ricerca
la soluzione non possono essere interventi una tantum.
Nonostante gli importanti finanziamenti previsti, riteniamo che sia necessario ripensare
complessivamente l’impostazione dei progetti, attuando un vero e proprio cambio di
paradigma nell’immaginazione della scuola del futuro, proprio perché ora – a differenza
del passato – dovrebbe risultare assolutamente possibile ridare un importante slancio al
miglioramento del sistema scolastico del nostro Paese.
23
Altro tema, generale, ma molto importante, è quello del Diritto allo studio, tanto più in un
Paese, nel quale la dispersione scolastica (al 14,5 %, secondo l’ISTAT) è sotto gli occhi di
tutti, mentre il diritto allo studio, sancito dagli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione Italiana
sia ancora lontano dall’essere garantito. I lunghi e drammatici mesi della pandemia da
COVID-19, hanno ulteriormente acuito questa criticità, soprattutto per il fatto di rendere –
ancora di più, se possibile - ancorati ai contesti familiari di provenienza, come evidenziato
dal rapporto “Social and Economic Conditions of Student Life in Europe” di Eurostudent: il
69% vive con la propria famiglia, a fronte di una media europea del 36%. Ad oggi, la spesa
media che ogni famiglia sostiene in Italia, per l’istruzione scolastica dei proprie/e figli e figlie
è all’incirca di 1.000 euro/anno, ovvero un fatto che si scontra con l’idea costituzionale di
una scuola pubblica accessibile per tutte e tutti, indipendentemente dalla propria
condizione economica e sociale. Un sistema di welfare studentesco così fortemente legato
al contesto di provenienza impedisce lo sviluppo di un certo grado di indipendenza giovanile.
Crediamo che questa crisi vada risolta con un approccio sistemico, dobbiamo dare uno
sguardo oltre alla pandemia la quale, oltre ad altre cose, ha anche provocato forti e diffusi
ritardi sulla digitalizzazione e un digital divide, che hanno impedito a molti il proseguimento
regolare delle lezioni.
Infine, un aspetto molto preoccupante del futuro sistema scolastico nazionale (almeno su
quanto trapelato fino ad ora sulla bozza di PNRR) de: svanisce l’attenzione nei confronti della
crescita dell’individuo e dei processi di apprendimento; l’idea che si entri a scuola per
diventare cittadini e cittadine del mondo dotati di un sapere critico non è contemplata; il
problema dell’abbandono scolastico è risolto con la “promozione di nuovi percorsi di
istruzione terziaria professionalizzanti”; infine, i problemi esistenti nella società (dalla
questione di genere, alle disparità di censo, all’esclusione delle persone straniere) sono
ridotte alla mancanza di “competenze avanzate”. Continua a mancare del tutto una visione
di scuola, con il rischio che si proceda ad interventi non coordinati e incapaci di migliorare
effettivamente il sistema scolastico a livello nazionale.

More Related Content

Similar to TRANSIZIONE ECOLOGICA NASCOSTA-ambientale e sociale e non solo economico-finanziaria-Claudio GARRONE.docx

144 Green Energy - Intervista a Cristian Randieri - I figli di Archimede N. 2...
144 Green Energy - Intervista a Cristian Randieri - I figli di Archimede N. 2...144 Green Energy - Intervista a Cristian Randieri - I figli di Archimede N. 2...
144 Green Energy - Intervista a Cristian Randieri - I figli di Archimede N. 2...Cristian Randieri PhD
 
Blue Economy: la natura come guida e lo sviluppo delle tecnologie
Blue Economy: la natura come guida e lo sviluppo delle tecnologieBlue Economy: la natura come guida e lo sviluppo delle tecnologie
Blue Economy: la natura come guida e lo sviluppo delle tecnologieSaraRiccio1
 
EcoFuturo Magazine N. 4
EcoFuturo Magazine N. 4 EcoFuturo Magazine N. 4
EcoFuturo Magazine N. 4 Generplus
 
La tutela dell’ambiente nell’enciclica Laudato Si
La tutela dell’ambiente nell’enciclica Laudato SiLa tutela dell’ambiente nell’enciclica Laudato Si
La tutela dell’ambiente nell’enciclica Laudato SiMamme NO Inceneritore
 
Il nesso tra Sostenibilità, Responsabilità di Impresa e Servizi Professionali...
Il nesso tra Sostenibilità, Responsabilità di Impresa e Servizi Professionali...Il nesso tra Sostenibilità, Responsabilità di Impresa e Servizi Professionali...
Il nesso tra Sostenibilità, Responsabilità di Impresa e Servizi Professionali...Asseprim
 
News Ga29 21 12 2010
News Ga29 21 12 2010News Ga29 21 12 2010
News Ga29 21 12 2010Mario Iesari
 
Caratteristiche - sostenibilità
Caratteristiche - sostenibilitàCaratteristiche - sostenibilità
Caratteristiche - sostenibilitàmercuri-scuola
 
Waste To Energy. I rifiuti sono una nuova ricchezza?
Waste To Energy. I rifiuti sono una nuova ricchezza?Waste To Energy. I rifiuti sono una nuova ricchezza?
Waste To Energy. I rifiuti sono una nuova ricchezza?Andrea Mennillo
 
FRASI E BRANI SCELTI DA "FUTURO SOSTENIBILE" (2011)
FRASI E BRANI SCELTI DA "FUTURO SOSTENIBILE" (2011)FRASI E BRANI SCELTI DA "FUTURO SOSTENIBILE" (2011)
FRASI E BRANI SCELTI DA "FUTURO SOSTENIBILE" (2011)morosini1952
 
Intervento del prof. salvatore barresi, sociologo economista, esperto e coord...
Intervento del prof. salvatore barresi, sociologo economista, esperto e coord...Intervento del prof. salvatore barresi, sociologo economista, esperto e coord...
Intervento del prof. salvatore barresi, sociologo economista, esperto e coord...Salvatore [Sasa'] Barresi
 
Sviluppo sostenibile
Sviluppo sostenibileSviluppo sostenibile
Sviluppo sostenibileocmmedia
 
Premio PA Sostenibile e Resiliente 2022 - Il clima che vogliamo - ppt.pptx
Premio PA Sostenibile e Resiliente 2022 - Il clima che vogliamo - ppt.pptxPremio PA Sostenibile e Resiliente 2022 - Il clima che vogliamo - ppt.pptx
Premio PA Sostenibile e Resiliente 2022 - Il clima che vogliamo - ppt.pptxsostenibilitaUnipd
 
CRISI ECOLOGICA E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA? M. Morosini, ...
CRISI ECOLOGICA  E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA?   M. Morosini, ...CRISI ECOLOGICA  E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA?   M. Morosini, ...
CRISI ECOLOGICA E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA? M. Morosini, ...morosini1952
 
Pietro Colucci - Brochure Gruppo Waste Italia
Pietro Colucci - Brochure Gruppo Waste ItaliaPietro Colucci - Brochure Gruppo Waste Italia
Pietro Colucci - Brochure Gruppo Waste ItaliaPietro Colucci
 
Scelte di campo_appunti_politiche_alimentari
Scelte di campo_appunti_politiche_alimentariScelte di campo_appunti_politiche_alimentari
Scelte di campo_appunti_politiche_alimentariAlberto Fatticcioni
 

Similar to TRANSIZIONE ECOLOGICA NASCOSTA-ambientale e sociale e non solo economico-finanziaria-Claudio GARRONE.docx (20)

35. idrogeno
35. idrogeno35. idrogeno
35. idrogeno
 
144 Green Energy - Intervista a Cristian Randieri - I figli di Archimede N. 2...
144 Green Energy - Intervista a Cristian Randieri - I figli di Archimede N. 2...144 Green Energy - Intervista a Cristian Randieri - I figli di Archimede N. 2...
144 Green Energy - Intervista a Cristian Randieri - I figli di Archimede N. 2...
 
Sostenibilità cosa vuol dire?
Sostenibilità cosa vuol dire?Sostenibilità cosa vuol dire?
Sostenibilità cosa vuol dire?
 
Blue Economy: la natura come guida e lo sviluppo delle tecnologie
Blue Economy: la natura come guida e lo sviluppo delle tecnologieBlue Economy: la natura come guida e lo sviluppo delle tecnologie
Blue Economy: la natura come guida e lo sviluppo delle tecnologie
 
EcoFuturo Magazine N. 4
EcoFuturo Magazine N. 4 EcoFuturo Magazine N. 4
EcoFuturo Magazine N. 4
 
Bilancio di sostenibilita_2015
Bilancio di sostenibilita_2015Bilancio di sostenibilita_2015
Bilancio di sostenibilita_2015
 
La tutela dell’ambiente nell’enciclica Laudato Si
La tutela dell’ambiente nell’enciclica Laudato SiLa tutela dell’ambiente nell’enciclica Laudato Si
La tutela dell’ambiente nell’enciclica Laudato Si
 
Il nesso tra Sostenibilità, Responsabilità di Impresa e Servizi Professionali...
Il nesso tra Sostenibilità, Responsabilità di Impresa e Servizi Professionali...Il nesso tra Sostenibilità, Responsabilità di Impresa e Servizi Professionali...
Il nesso tra Sostenibilità, Responsabilità di Impresa e Servizi Professionali...
 
News Ga29 21 12 2010
News Ga29 21 12 2010News Ga29 21 12 2010
News Ga29 21 12 2010
 
Caratteristiche - sostenibilità
Caratteristiche - sostenibilitàCaratteristiche - sostenibilità
Caratteristiche - sostenibilità
 
Waste To Energy. I rifiuti sono una nuova ricchezza?
Waste To Energy. I rifiuti sono una nuova ricchezza?Waste To Energy. I rifiuti sono una nuova ricchezza?
Waste To Energy. I rifiuti sono una nuova ricchezza?
 
FRASI E BRANI SCELTI DA "FUTURO SOSTENIBILE" (2011)
FRASI E BRANI SCELTI DA "FUTURO SOSTENIBILE" (2011)FRASI E BRANI SCELTI DA "FUTURO SOSTENIBILE" (2011)
FRASI E BRANI SCELTI DA "FUTURO SOSTENIBILE" (2011)
 
Discorso Piero Torretta su nuova UNI EN ISO 14001:2015
Discorso Piero Torretta su nuova UNI EN ISO 14001:2015Discorso Piero Torretta su nuova UNI EN ISO 14001:2015
Discorso Piero Torretta su nuova UNI EN ISO 14001:2015
 
Intervento del prof. salvatore barresi, sociologo economista, esperto e coord...
Intervento del prof. salvatore barresi, sociologo economista, esperto e coord...Intervento del prof. salvatore barresi, sociologo economista, esperto e coord...
Intervento del prof. salvatore barresi, sociologo economista, esperto e coord...
 
Sviluppo sostenibile
Sviluppo sostenibileSviluppo sostenibile
Sviluppo sostenibile
 
Premio PA Sostenibile e Resiliente 2022 - Il clima che vogliamo - ppt.pptx
Premio PA Sostenibile e Resiliente 2022 - Il clima che vogliamo - ppt.pptxPremio PA Sostenibile e Resiliente 2022 - Il clima che vogliamo - ppt.pptx
Premio PA Sostenibile e Resiliente 2022 - Il clima che vogliamo - ppt.pptx
 
CRISI ECOLOGICA E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA? M. Morosini, ...
CRISI ECOLOGICA  E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA?   M. Morosini, ...CRISI ECOLOGICA  E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA?   M. Morosini, ...
CRISI ECOLOGICA E SOCIALE - UN FUTURO SOSTENIBILE IN EUROPA? M. Morosini, ...
 
Per un altra pistoia
Per un altra pistoiaPer un altra pistoia
Per un altra pistoia
 
Pietro Colucci - Brochure Gruppo Waste Italia
Pietro Colucci - Brochure Gruppo Waste ItaliaPietro Colucci - Brochure Gruppo Waste Italia
Pietro Colucci - Brochure Gruppo Waste Italia
 
Scelte di campo_appunti_politiche_alimentari
Scelte di campo_appunti_politiche_alimentariScelte di campo_appunti_politiche_alimentari
Scelte di campo_appunti_politiche_alimentari
 

TRANSIZIONE ECOLOGICA NASCOSTA-ambientale e sociale e non solo economico-finanziaria-Claudio GARRONE.docx

  • 1. 1 LA TRANSIZIONE ECOLOGICA “NASCOSTA” – Claudio Garrone Questo testo è stato redatto con la sola intenzione di evidenziare alcuni aspetti e contenuti direttamente legati alla transizione ecologica di cui, ci sembra che gli organi di informazione mainstream, men che mano la politica, ma anche – e spiace dirlo – anche il gruppo di Europa Verde-Verdi Milanesi, non sono mai (o quasi mai) stati sviluppati e discussi, col rischio di mortificare l’occasione di valorizzare competenze, idee e analisi più innovative di quelle che possono emergere dal pur lodevole lavoro dei ministeri e della politica in senso più ampio. Oltretutto, non sembra scandaloso affermare che, complessivamente, nella discussione e preparazione del PNRR vi sia stata una limitata partecipazione delle realtà sociali (dai sindacati alle associazioni ambientaliste, passando per il mondo del terzo settore), del Parlamento e delle Istituzioni Locali, alla definizione di una strategia solida e organica. A fronte, invece, di un palese rischio che il nostro Recovery Plan, possa trasformarsi in una collezione di progetti e di piccole azioni di potenziamento degli strumenti già in campo, indebolendo quelle misure che potrebbero risolvere i problemi strutturali che, da decenni, pregiudicano il nostro sviluppo. Le sempre più marcate ed insopportabili diseguaglianze sociali, gli ostacoli alla conversione ecologica dell’economia, il lavoro e l’ambiente perennemente ed erroneamente contrapposti, come antitetici, l’uno all’altro, l’arretratezza di una società incapace di valorizzare l’autonomia e il contributo delle donne sono, tra i tanti, alcuni dei punti prioritari su cui vorremmo iniziare, e condividere, una riflessione di più “ampio respiro”, partendo dai 6 pilastri o missioni del New Generation EU, con l’obiettivo e la speranza di poter possiamo vedere l’orizzonte del futuro che vogliamo, per questa, e per le generazioni future. Si tratta quindi di mettere questi obiettivi – accanto a quello della tutela della salute, ovviamente fondamentale in un momento come questo – al centro di un ripensamento complessivo del sistema economico e degli strumenti di welfare, e in questa cornice guardare in maniera innovativa e audace oltre i progetti incompiuti o mai realizzati che giacciono nei cassetti di tanti uffici italiani.
  • 2. 2 Con i soldi del Recovery fund, si presenta un’occasione storica di investire in una vera transizione ecologica, con l’obiettivo dichiarato di consegnare un Paese più sano alle future generazioni, senza più “concedersi il lusso” di compiere (ancora) passi falsi. Così come servono, con urgenza e coerenza decisioni coraggiose su gas, petrolio, carbone, allevamenti intensivi, rifiuti e armi! Lo stesso Presidente del Consiglio Draghi – durante il suo discorso di insediamento – si è impegnato a lasciare “un buon Pianeta oltre che una buona moneta”. Adesso è ora di passare dalle parole ai fatti e di agire con rapidità e serietà per avviare una vera transizione ecologica che metta al centro salute, ambiente e lavoro. Ci sono almeno 10 cose da fare subito. Al governo chiediamo di adottare un piano di riconversione energetica nazionale basato sulle rinnovabili, di sostituire le sovvenzioni a armamenti ed attività dannose con investimenti in mobilità alternativa e nella tutela della biodiversità, di promuovere una transizione ecologica nel settore dell’agricoltura, di tagliare i fondi al sistema degli allevamenti intensivi e di adottare misure urgenti sull’economia circolare, in linea con le indicazioni europee. Detto senza tante perifrasi, sappiamo che le lobby dell’industria fossile e inquinante sono già in azione per accaparrarsi i soldi pubblici e per mantenere in vita il vecchio sistema inquinante e distruttivo. Dobbiamo assolutamente evitare che, dietro pennellate di verde, si nascondano favori a queste lobby. Ma il Next Generaton EU o Recovery Fund si riduce davvero, solamente una questione di denaro, finanza e soldi da spartire, così come l’informazione e la politica mainstream stanno “dipingendo” oppure vi è anche una nuova visione delle società future, resilienti, ambientalmente più sane, culturalmente e socialmente più aperti ed inclusive? In queste pagine, tenteremo di evidenziare, appunto, tutti questi aspetti e le loro diverse sfaccettature nell’ambito della transizione ecologica che, almeno fino ad oggi, sono rimaste quasi solo “patrimonio” di conoscenza e di riflessione di esperti, attivisti e dei settori più sensibili ai temi ambiente e clima. Oggi, in tanti parlano di “Transizione”: associazioni e movimenti, istituzioni nazionali e internazionali, fondazioni private e perfino imprese, magari anche affidandosi ad una, più o meno esaustiva, definizione di “transizione ecologica” come “il processo per realizzare un cambiamento pervasivo di molti dei paradigmi sui quali è andata avanti finora la nostra società e che riguardano: lavoro, istruzione, impresa, ridisegnati in ottica di piena sostenibilità ambientale”. Ma, in realtà, riteniamo che manchi una riflessione più profonda e corale sul senso e la prospettiva vere di questa indispensabile transizione, consci del rischio che ciascuno declini l’idea di transizione secondo le proprie convenienze: chi in senso di mero adattamento, chi pensando solo al rinnovamento delle tecnologie o alla sostituzione di fonti energetiche, chi aggiungendo una razionalizzazione dei processi e dei cicli socio-produttivi lasciando immutato tutto il resto. Il rischio più grande, da questo punto di vista, è che l’aggiunta di nuove formule magiche – sostenibilità, circolarità, responsabilità, resilienza – in mancanza di una critica più strutturale o di un cambiamento di prospettiva, rappresenti solamente una messa a punto per rendere il sistema (capitalistico) più fluido ed efficiente
  • 3. 3 confermando o, addirittura rafforzando, i rapporti di potere e le forme di ingiustizia e disuguaglianza. Transizione significa passaggio da una situazione a un’altra e non vi è possibile ambiguità: occorre lasciare un modello, un sistema, e migrare, evolvere, trasferirsi in un altro. Pur con tutte le gradualità del caso, non c’è riforma o aggiustamento che tenga. Così, il concetto di sviluppo sostenibile, che surroga crescita con un suo sinonimo ingentilito da un aggettivo reso sterile diventa, di fatto, un ossimoro. Il termine ecologia indica cura dell’equilibrio della casa comune (per alcune persone, del “creato”) ed è la lente che dovrebbe informare ogni nostro singolo atto quotidiano (il mangiare, il muoversi, il produrre, ecc.) e attraverso la quale dovrebbero passare tutti gli atti di un governo che volesse essere credibile, coerente e concreto. I nostri comportamenti quotidiani devono, cioè, trasformarsi da puri atti di consumo, di dissipazione e deterioramento delle risorse, insieme al logoramento delle chance residue per poter continuare ad abitare il Pianeta, ad atti di conservazione e rigenerazione dei beni, a partire dai commons. Beni comuni non appannaggio di una sola specie sovrana, ma comuni a tutto il vivente. Ma, soprattutto, l’aggettivo ecologico non permette, tanto quanto il primo termine, deroghe o interpretazioni, perché tutto è relazione e tutto è in relazione. Se le aspettative sui risultati del piano straordinario di ripresa e resilienza, debbono rimettere in moto l’occupazione e l’economia dell’Italia – e debbono farlo con una forte impronta innovativa sull’ambiente, sulla ricerca, sull’innovazione – le scelte non possono che essere coraggiose e nette. E’ un’occasione unica e cambiare solo con l’illusione di poter dare a tutti/e è impossibile: occorrono dei Si e dei No chiari e netti, soprattutto perché appare sempre più evidente, soprattutto in Italia, un attacco sistematico per accedere ai finanziamenti del PNRR, senza cambiare la sostanza di quanto fatto sin qui e mantenendo pressochè invariate le scelte. Quindi non solo ci sono resistenze a togliere benefici incompatibili con l’ambiente, contraddittori con il finanziamento di un cambio di paradigma, e si tenta di mantenere in vita fino al limite di rottura le scelte previste. Diverse dichiarazioni rilasciate da vari esponenti importanti di aziende (anche a partecipazione pubblica) puntano solamente a rinviare le scelte nel tempo, dando l’impressione di non rendersi affatto conto che ciò, non solo avrebbe conseguenze sul clima, che continuerebbe nel frattempo a peggiorare, ma creerebbe un nodo irrisolvibile rinviando le scadenze previste per evitare il superamento dei limiti che possono contenere il cambiamento del clima. In un futuro di scelte ambientali radicali ci sono spazi enormi per la ricerca, per investimenti innovativi, per la crescita di occupazione di qualità, in grado di compensare la caduta in altri settori. Troppe volte, in passato, GLI INTERESSI DEI LAVORATORI sono sembrati (o volutamente posti) in contrasto con l’ambiente e le conseguenze sono state drammatiche per la vita delle popolazioni e per gli stessi lavoratori interessati, costretti ad una pura e forzata strategia difensiva, a volte, perfino corporativa. L’esempio più rappresentativo è la ferita dell’Ilva, che non ha salvato né il lavoro né l’ambiente, che è ancora aperta, non è risolta ma deve diventare un impegno prioritario proprio grazie al PNRR. Una piattaforma netta e allargata di confronto, potrebbe invece consentire di realizzare una nuova, indispensabile alleanza tra lavoro ed ambiente, in cui le condizioni di vita, la salute siano coerenti con una nuova prospettiva occupazionale. Diversi studi, ormai, l’hanno ampiamente dimostrato: un altro futuro non è solo necessario ma possibile, anzi
  • 4. 4 indispensabile. Pertanto, siamo convinti che, il modo migliore di mettere alla prova le vere intenzioni del nuovo governo è entrare in campo, avanzare proposte, sviluppare iniziative, osare proposte nette, radicali se necessario, con l’obiettivo di discuterle, di aiutare la creazione di movimenti e risposte all’altezza della sfida. Si potrebbe affermare che la transizione ecologica è un compito troppo importante per lasciarlo al solo governo, e che è assolutamente meglio “accompagnarlo” e prendere le iniziative necessarie. TRANSIZIONE ECOLOGICA & MODELLO DI SVILUPPO Dopo aver messo “il Pianeta a ferro e a fuoco”, ora, il sistema antropico capisce di dover correre ai ripari e fare qualcosa; ma il problema più grave, è che lo fa con lo stesso istinto e con gli stessi obiettivi che il disastro planetario ha provocato, finendo semplicemente e tristemente per ingannare se stesso. Ormai è inutile – oltre che impossibile negare che il Pianeta viva uno stato di crisi a 360 gradi che si manifesta, in particolare, sotto due forme specifiche “equamente gravi”: l’assottigliamento delle risorse e l’accumulo dei rifiuti. E, quando si parla di risorse, non ci si limita più, fortunatamente, solo a quelle fossili, ma si guarda, soprattutto, all’acqua, alla terra fertile, alla biodiversità, alle foreste, ma anche ai minerali, in particolare le cosiddette terre rare che stanno alla base delle nuove tecnologie dell’energia rinnovabile, della digitalizzazione, della robotizzazione. Ma, forse, la più grande operazione di autoinganno che il sistema sta tentando è rispetto, perché ci fa credere che il problema sia limitato alle emissioni di CO2. Da quando abbiamo scoperto che il cambiamento climatico è già iniziato e che le sue conseguenze possono essere catastrofiche (eventi metereologici estremi, desertificazione, perdita di raccolti agricoli, migrazioni di massa per cause climatiche, ecc.), anche i capi di Stato hanno riconosciuto che bisogna cercare di ridurre le emissioni di gas serra. Effettuando una seria analisi circa le modalità con cui abbiamo generato un simile degrado, ci rendiamo conto del fatto che buona parte della colpa di questa situazione è legata a due mentalità, ancora molto diffuse:  considerare la natura un bene senza valore e averla trattata come un magazzino da saccheggiare e una pattumiera da riempire;  l’eccessivo e perdurante credere nei miti posti a fondamento della concezione capitalistica: il mito della ricchezza, della mercificazione, dell’accumulo e dell’onnipotenza. In una parola, il mito della crescita che ha portato al gigantismo, all’inurbamento, al produttivismo, al consumismo, all’accelerazione, da cui derivano tutti i nostri guai. Il tutto “giocato”, oltretutto, in un ambiente, in un sistema come è il nostro Pianeta, per definizione limitato. Pertanto, se davvero volessimo riappacificarci con la Natura e riportare la nostra “impronta” ecologica all’interno del perimetro della sostenibilità, quella vera - che tiene conto dell’equità a livello planetario e del rispetto delle generazioni future – ciò dovremmo (dobbiamo) mettere profondamente in discussione, è proprio la crescita ed il modello di sviluppo che la sostiene. Ma, purtroppo, da questo orecchio, il sistema non ci sente e riduce tutto a una questione di efficienza. Eppure, Enzo Scandurra - professore ordinario di urbanistica presso l’Università della Sapienza di Roma - ci ricorda, ancora una volta, che “in ecologia non esistono scorciatoie: una lezione severa che ci viene dal Secondo Principio della termodinamica. Più ci muoviamo,
  • 5. 5 più trasformiamo, meno energia utile rimane a nostra disposizione e non c’è tecnologia che possa ingannare questo principio della fisica, che è anche alla base del vivente. Non ci resta che ripensare la crescita a partire dalla condanna del consumismo, del consumo (inutile) di suolo, dell’uso dell’auto, del turismo di massa, della produzione di armi e del loro commerci”. La transizione ecologica, dunque, o mette in discussione la crescita, o non è “vera” transizione. Fare questo significa, per forza, rinunciare al progresso? Crediamo che voglia dire, semmai, arrestare la folle corsa verso l’instabilità del pianeta e scongiurare la (prossima) fine della specie umana, perché progresso - crediamo - dovrebbe significare ritrovare l’alleanza con la terra, con le altre specie che, saccheggiate dei loro habitat, hanno trasmesso la grande pandemia che ci sta uccidendo. È chiaro che l’ecologia non può essere beffata e non esistono scorciatoie per aggirarla. Se fino a qualche tempo fa, l’efficienza veniva definita e considerata solo in chiave quantitativa, analizzando e valutando le cose solo dal punto di vista dei costi e dei ricavi, del business per il business e la sfida era come riuscire ad ottenere il massimo di produzione col minimo di materia prima, ossia col minimo di spesa, oggi l’efficienza si comincia a concepire anche in chiave qualitativa e la sfida di molte imprese, ad esempio, è capire come accrescere l’uso di materia prima seconda, proprio per limitare il consumo di materia prima vergine, utilizzando le tecniche di recupero e di riciclo che, insieme alle energie da fonti rinnovabili, rappresentano pratiche senz’altro necessarie ma non sufficienti per ridurre sul serio la nostra pressione sul Pianeta. Ma la transizione ecologica, non si attua solamente intervenendo sul lato della produzione, ma anche e in ugual misura sull’aspetto del consumo, quindi noi, come soggetti consumatori responsabili (qualcuno li definisce anche cosumAttori) che, per esempio:  se vogliamo ridurre il consumo di alberi, dobbiamo produrre e consumare meno carta;  se vogliamo ridurre il consumo di plastica, dobbiamo produrre meno imballaggi e, quindi, avere uno stile di vita complessivamente più sobrio;  se vogliamo ridurre i veleni in agricoltura, dobbiamo mangiare meno carne;  se vogliamo ridurre il consumo di energia dobbiamo ridurre i nostri elettrodomestici e i nostri spostamenti. E se proprio vogliamo continuare a viaggiare, allora dobbiamo, perlomeno, disporre di mezzi pubblici capillari, frequenti e all’avanguardia da un punto di vista energetico. E poi, c’è la questione centrale – quasi un mantra intoccabile, potremmo dire - della crescita economica che nasconde il grandissimo rischio che il decisore politico, nonostante la creazione del Ministero della Transizione Ecologica subordini, un’ennesima volta, la “transizione ecologica” alle ragioni inamovibili della presunta crescita economica, per colpa del (solito) tentativo tecnologico delle lobbies di sostituire (invano) l’uso dei fossili con invenzioni fantasmagoriche che comunque ad esso infine riconducono, come l’idrogeno e la “nuova civiltà” ad idrogeno (soprattutto quello c.d. blu), la tecnologia Ccs (Carbon Capture and Sequestration)1 : fingere di cambiare tutto, affinchè nulla (o quasi) cambi. E’ necessario eliminare dai nostri pensieri che la TECNOLOGIA risolverà l’insostenibilità dei nostri modelli di sviluppo e di consumo, perché sappiamo bene che non è così. 1 La cattura e sequestro (o stoccaggio) dell’anidride carbonica, o è un processo di confinamento geologico dell'anidride carbonica (CO2), attraverso un meccanismo tecnologico di ri-catturare della CO2 prodotta, “pompandola” nelle viscere della terra.
  • 6. 6 La minaccia di catastrofe ambientale ha assunto, ormai da tempo, una portata tale, da non permettere più l’impiego del classico “specchietto per le allodole”, come spiega brillantemente il prof. PAOLO PILERI2 : “La prima cosa da dirci e da dire, è che la sfida della transizione va indirizzata sul bersaglio giusto e non è una cosa che riguarda solo i parchi, le riserve, i rifiuti, eccetera. È l’economia che deve cambiare. È il consumismo come norma sociale, ciò che devono estirpare. Poi prenderemo quel che arriva, come siamo abituati noi che spingiamo per la difesa dell’ambiente. L’introduzione di parole magiche come “resilienza” e, appunto, “transizione” hanno agitato le acque e fatto fare balzi in avanti alla questione ecologica. Ma non possiamo permetterci fuochi di paglia. Abbiamo bisogno di cambiamenti seri e duraturi e, per questi, abbiamo bisogno non solo di esperti ma anche di persone appassionate e indipendenti. In Italia, abbiamo davvero tanti esperti sul clima, sull’agro-ecologia, sulla mobilità sostenibile, sulla biodiversità, sul paesaggio, sulle acque interne e costiere, sul suolo, sui rifiuti, sull’ecologia forestale, su cibo e diete alimentari, sul consumo di suolo, su pianificazione urbanistico-ambientale, su economia dell’ambiente e fondamentale, e così via. La cosa dirimente sarà pescare persone autorevoli e, soprattutto, indipendenti. Quest’ultima parolina, è la più importante. La musica deve cambiare. La virtù deve prevalere sulla sciatteria. Il progetto sulla promozione. La visione sulla fretta di fare. L’incubo dell’incasso deve venire dopo la generazione di sana occupazione. La natura deve comandare e non subire, perché non c’è un solo oggetto tra tutti quelli che usiamo ogni giorno, che non arrivi dalla natura: tutta la nostra economia dipende dalla natura ma noi fingiamo da decenni di non saperlo e la calpestiamo facendo il contrario”. Vi è, infine, la questione del ruolo dello Stato in ambito economico, soprattutto dopo l’ubriacatura neoliberista, che pretendeva di estrometterlo da qualsiasi servizio che non fossero quelli di interesse generale (anagrafe, polizia, magistratura e poche altre funzioni amministrative) perché una vera transizione ecologica, richiede una collettività forte, non solo come fornitrice di servizi, ma anche come datrice di lavoro di ultima istanza. Perché la necessaria riduzione dei consumi potrà essere accolta con favore, solamente nella misura in cui le persone sapranno come avere un lavoro, una professione, un’attività, pur in presenza di minori consumi. E la risposta può venire solo da una solida economia pubblica che, col lavoro di tutti, garantisce i bisogni fondamentali di tutti e la tutela dei beni comuni. Quando la sicurezza delle nostre vite sarà garantita dalla comunità organizzata, quel giorno torneremo alla vera sovranità di chi può imporre al mercato tutte le regole ambientali e sociali che servono per il rispetto della natura e delle persone senza paura di ricatti occupazionali come invece avviene oggi. Il termine transizione, può essere inteso, allora, anche come la sintesi di un impegno politico, culturale e sociale per cambiare davvero registro o paradigma, cominciando dal riconoscere che la Natura ha dei diritti che vanno sanciti dalle nostre leggi in modo categorico, perché le società sono abituate a rispondere alle leggi e a quelle le imprese e i cittadini guardano. 2 Docente di pianificazione e progettazione urbanistica al Politecnico di Milano, membro di gruppi di ricerca nazionali e internazionali e consulente scientifico di ministeri, enti pubblici, fondazioni e amministrazioni locali.
  • 7. 7 TRANSIZIONE ECOLOGICA e BENESSERE Viviamo in un momento storico in cui, più che in ogni altro, ci si rende sempre più conto dei danni prodotti dalla società dell’eccesso, basata su uno stile di vita e un modello di società in cui prevale uno strano sentimento, quasi una “fede” che ci fa credere che “tutto tornerà come prima”, presto, velocemente, appena saremo tutti vaccinati contro un virus che ci costringe a mascherarci ogni giorno. Ed è anche così, che si è diffusa fortemente l’idea che sia necessaria una “transizione ecologica”, un termine che mette in evidenza come sia urgente una trasformazione generale che investa tutti i settori della vita e dell’economia. Un cambio di paradigma del nostro modello di sviluppo, finalizzato a ridurre l’impatto sull’ambiente del nostro modo di vita, pur garantendo - come ci si affretta, subito, ad aggiungere - il nostro livello di benessere. Ma che cosa è questo benessere, che dovrebbe essere “garantito” dalla “transizione ecologica”? Il benessere – inteso come stare bene, esistere bene - è dunque il termine che specifica gli aspetti, le caratteristiche, la qualità della vita di ciascun individuo e dell’ambiente. Certamente una parola che, negli ultimi decenni, è sempre più coincisa con una sua unica dimensione: quella del benessere economico, materiale (reale o “desiderato”) e che è sempre più coinciso (e coincide tuttora) con l’avere, il possedere, il circondarsi di merci più o meno utili. Un benessere associato alla possibilità di fruire liberamente di tutto ciò che è disponibile “sul mercato”, senza pensare che accumulare vuol dire consumare risorse naturali producendo scarti, materiali e sociali. Affrontare una transizione ecologica vuol dire, dunque, riprendere coscienza e conoscenza principio per cui il nostro benessere materiale non può prescindere dagli equilibri naturali; significa affiancare all’idea di eco-efficienza quella di eco-sufficienza, affrancandosi dalla condanna al consumismo, avviando una transizione profonda e orizzontale (ampia e democratica), con lo scopo, anzitutto, di affermare modelli di vita diversi, che partano da un ripensamento di ciò che genera davvero benessere. Promuovere una transizione ecologica, allora, significa:  aumentare la consapevolezza dell’irrazionalità dell’attuale modello sociale e economico basato su una idea di crescita infinita di produzione e consumo di merci, che distrugge, invece che creare;  valorizzare il lavoro innovativo svolto dalle comunità sostenibili, promuovendo lo sforzo di ri-tessitura che rappresenta l’unica via per una vera e duratura transizione ecologica;  garantire un impegno istituzionale multilivello di investimento lungimirante sulle infrastrutture che rendono la sostenibilità “praticabile” ridisegnando ad esempio le filiere del cibo riconnettendo città e campagna, ripensando radicalmente il sistema di mobilità urbana per diminuire gli impatti ambientali, sociali ed economici;  organizzare un impegno culturale per ri-significare lo stesso concetto di “buona vita”, oggi appiattito sulla sola dimensione del consumo, mostrando la “ricchezza” - in termini
  • 8. 8 di creazione, accesso, condivisione e fruizione - che può venire dal puntare sull’ampliamento dei beni comuni e dei servizi comunitari. In conclusione, dunque, transizione ecologica vuol dire riportare la tecnologia e il mercato al servizio della riproducibilità e cura della vita. Partendo dalla valorizzazione dei movimenti di tessitura sociale e politica elementare alla portata di ognuno, si tratta di ripensare in modo sistemico e radicale le condizioni del vivere, del produrre, del consumare senza riduzionismi esercitando una visione multidimensionale. Solo a queste condizioni potremo promuovere una transizione ecologica profonda e orizzontale capace di futuro. Le transizioni sono belle, ma danno frutto se la loro priorità non è (solo) il compromesso, nel senso che, davanti a un bivio, sarà necessario scegliere la nuova strada abbandonando, nel contempo, la vecchia. Sarà doloroso ma è questa la sfida, culturale innanzitutto e prima di tutto, che come comunità vivente abbiamo davanti, sin da ora. Nei mesi passati, in tanti hanno detto che l’Italia non può e non vuole “tornare come era prima”, ma occorre lavorare bene per trasformarla in un Paese avanzato, in cui si sperimentino politiche ad alto tasso di innovazione ambientale, sociale e tecnologica. Possiamo farcela. Possiamo farcela. Dobbiamo farcela. Sarà bello farcela e i cittadini hanno capito che il futuro è solo all’insegna del pieno rispetto della natura e della riduzione dei divari, delle diseguaglianze e delle ingiustizie”. TRANSIZIONE ECOLOGICA e GIUSTIZIA SOCIALE “La transizione ecologica” – si legge nel PNRR – “sarà la base del nuovo modello economico e sociale di sviluppo su scala globale, in linea con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. Per avviarla sarà necessario, in primo luogo, ridurre drasticamente le emissioni di gas clima- alteranti in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e del Green Deal europeo; in secondo luogo, occorre migliorare l’efficienza energetica e nell’uso delle materie prime delle filiere produttive, degli insediamenti civili e degli edifici pubblici e la qualità dell’aria nei centri urbani e delle acque interne e marine.“ Un cambiamento che, anche se viene supportato da efficaci strumenti di policy, deve cominciare da ciascuno di noi. I temi della transizione ecologica, soprattutto se riferiti alle realtà urbane, si connettono direttamente con le politiche dei singoli Stati relativamente al sistema delle infrastrutture e delle comunità locali e in merito al consumo di suolo, alla rigenerazione urbana, ai servizi comunitari, ecc. La giustizia sociale, quindi, non è affatto estranea a queste tematiche perché è alla base della necessità di rispondere a molti fabbisogni non soddisfatti, di casa e di servizi connessi all’abitare in primo luogo la salute, l’accessibilità e i servizi eco sistemici, costituisce l’emergenza sociale che produce disuguaglianze e che rappresenta la modalità con cui si stanno costruendo le nuove periferie (urbane e rurali, storiche e contemporanee,
  • 9. 9 inaccessibili, inquinate, degradate). A questo, si aggiunge la presenza degli spostamenti migratori in arrivo e in partenza, a determinare una geografia a macchia di leopardo ancora tutta da studiare e che richiede una politica e delle specifiche azioni sul versante dell’offerta in termini di servizi, di politiche abitative e di accessibilità. La grande scommessa della transizione socio-ecologica sta proprio in questo: rispondere alle domande e ai fabbisogni con una strategia integrata e ridotti impatti, agendo sulla rigenerazione urbana e anche sulle infrastrutture veloci, sul trasporto locale e ciclabilità, modificando la geografia delle disuguaglianze che la rete nazionale e locale di strade e ferrovie oggi determina. Sebbene la rigenerazione urbana sia diventata il principio ma anche il modello operativo nelle aree cittadine, questo tema – almeno fino ad ora - risulta completamente assente dall’Agenda politica del governo, che non è ancora riuscito a costruire un progetto per le criticità che continuano a vivere città e territori. Giustizia sociale e tutela ambientale non sono separabili, come magistralmente è scritto nell’Enciclica “Laudato si’” (ma non solo); giusto il contrario della visione mainstream degli economisti “tradizionali”, basata su un’unica variabile indipendente - la crescita economica – mentre tutto il resto deve essere funzionale solamente a questo obiettivo prioritario. Nella Laudato sì, l’ecologia integrale parte dal creato (biosfera) che abbraccia tutto il vivente in una catena di relazioni senza discontinuità. Non ci può essere transizione ecologica lasciando fuori disuguaglianze, povertà e ingiustizia. Una transizione ecologica basata, in primis, sulle soluzioni e sui co-benefici del contrasto alla crisi climatica, comprende ed abbraccia certamente l’interesse di istituzioni e cittadini, ed equivale alla scoperta di nuovi diritti alla salute, al benessere, alla giustizia e alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica, per le generazioni presenti e future. Già più di 60 anni fa, un grandissimo padre Costituente come Piero Calamandrei, “anticipava” il nostro principale compito odierno di cittadini e cittadine - ossia la transizione ecologica – con questa indicazione «non solo il diritto, ma il dovere di camminare verso un impegno di rinnovamento sociale non più revocabile». La transizione ecologica, dunque deve essere a trazione anche sociale, proprio perché l’aspetto sociale e quello ambientale dell’esistenza umana (e di tutti gli esseri viventi della Terra) sono, da sempre, strettamente intrecciati tra loro; e ce ne rendiamo ancora più conto – soprattutto dopo più di un anno di pandemia e lockdown – se ci riferiamo ad uno specifico elemento dell’ambiente, ossia il “territorio”. Quel luogo diversificato ed eterogeneo sul quale e all’interno del quale avvengono molte cose diverse: dai processi di rigenerazione degli spazi alla riqualificazione dei contesti (urbani, periferici e delle aree interne), dalla mobilità e i modi in cui ci spostiamo, a come usiamo le tecnologie ed a come esse si svilupperanno in futuro. Il cambiamento sociale deve anche riguardare le nuove abitudini da acquisire, una nuova educazione, intervenire su lavoro (industria verde: energia rinnovabile, filiera agro-alimentare, riconversione termica degli edifici, nelle filiere del riciclo, ecc.) intervenire nei progetti dei budget di salute, in quelli di inclusione sociale, in campo educativo. Viste, poi, le molte funzioni – educative, terapeutiche, riabilitative, di emancipazione – che riveste, è fortemente auspicabile che un nuovo sistema di welfare agganci una dimensione ecologica in senso ampio, conciliando finalmente il benessere dell’ecosistema con quello degli esseri umani che lo abitano, attraverso criteri equi e sostenibili. La scommessa è superare il paradigma tradizionale dei servizi sociali, centrato sul binomio operatore-utente, verso forme più responsabilizzanti. La cura indissolubile per le
  • 10. 10 persone, per la natura e per le istituzioni, dovrebbe (deve) diventare il compito e la logica del sistema economico, producendo posti di lavoro e promuovendo una democratizzazione dell’intero sistema delle relazioni sociali e naturali: Welfare, tutela dei diritti, servizi alla persona e valorizzazione dei beni comuni, accoglienza, questione migranti e lo ius soli, dovrebbero essere al centro dell’azione di un governo di vera transizione trasformativa e una politica nuova, radicalmente democratica, affinchè questi principi e questa politica di transizione e di lottare perché questa politica sia assunta dall’Unione europea. LA COMUNICAZIONE DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Il 2021 è considerato un anno decisivo per la lotta alla crisi climatica, sia per vari fatti internazionali di grande rilievo, quali la COP 26 del prossimo novembre a Glasgow, il rientro ufficiale degli Stati Uniti d’America nell’accordo di Parigi, la promessa della Cina di raggiungere zero emissioni nette entro il 2060, così come anche l’Europa nel 2050 (con un traguardo intermedio di riduzione delle emissioni del 55% nel 2030), ma anche per i cambiamenti che ci aspettano e che investiranno tanto i grandi sistemi, quanto la vita di ogni singolo cittadino. Il futuro prossimo, ci porterà grandi e significativi mutamenti, che investiranno tanto i grandi sistemi, quanto la vita di ogni singolo cittadino/a, cioè la nostra vita quotidiana. Eppure, si pone la domanda di quanto, in realtà, le nostre democrazie ed i nostri governi potranno davvero spingere sull’acceleratore della “rivoluzione verde”, fintanto che la maggioranza della popolazione – al momento, certamente preoccupata soprattutto dalla pandemia – non sembra possedere una chiara ed effettiva percezione della posta in gioco, per quanto riguarda la risposta che siamo chiamati a dare alla crisi climatica. Non c’è dubbio che - se paragonata alla risposta che le nostre società hanno dato alla pandemia di Covid-19 - la lotta contro i cambiamenti climatici appare una sfida ben più ardua da affrontare e, soprattutto, da comunicare e rendere comprensibile, proprio perchè richiede trasformazioni profonde e durature dei nostri sistemi politici ed economici che invece, nel caso della pandemia, risultano – almeno lo speriamo vivamente - prevalentemente transitorie (Klenert et al., 2020). La speranza e l’auspicio è che la risposta data al Covid-19 – pur con tutti i problemi che sono emersi - possa costituire, per così dire, una “buona palestra”, in vista delle future sfide globali. Ma ci pone di fronte anche una importante domanda: “quanto le nostre democrazie potranno spingere sull’acceleratore della “rivoluzione verde”, fintanto che la maggioranza della popolazione – attualmente preoccupata, comprensibilmente, soprattutto dalla pandemia - sembra mancare di una chiara percezione della posta in gioco, riguardo la risposta alla crisi climatica? In un interessante articolo apparso sulla testata online la Scienza in Rete, l’autrice Simona Re, identifica una particolare categoria di persone rispetto al loro approccio al tema dei cambiamenti climatici e della transizione ecologica: gli “asintomatici della crisi climatica”. Secondo la letteratura specializzata sul tema, il rischio climatico possiede le caratteristiche per suscitare in noi una forte reazione emotiva, perché si tratta di un rischio sconosciuto, incontrollabile e che colpisce la popolazione in modo eterogeneo. Tuttavia, la generale reazione di indifferenza o negazione delle persone, suggerirebbe che la mossa migliore per una comunicazione efficace, sia la care communication, il cui obiettivo è quello di coltivare la consapevolezza del rischio climatico, informando e allertando le persone. Ne è un
  • 11. 11 esempio, il movimento Extinction Rebellion, il cui obiettivo specifico è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’urgenza della crisi e mobilitare alla disobbedienza civile il 3,5% della popolazione mondiale. Di fronte a un impegno non più rimandabile come la risposta alla crisi climatica ed ecologica, le manifestazioni pacifiche degli attivisti sono una reazione naturale e legittima. Malgrado ciò, le persone sembrano mostrare una scarsa reazione alle azioni di sensibilizzazione. Perché questa strategia non sortisce gli effetti desiderati? Secondo lo studioso Sandman (2009), dietro alle reazioni di indifferenza o negazione rispetto agli allarmi degli scienziati, si nasconderebbe in realtà la difficoltà di molti di noi a gestire cognitivamente un messaggio talmente fuori scala, talmente altro da noi, da risultare indecifrabile per la mente. Una sorta di interruttore salvavita per proteggerci dalla paura, la tristezza e il senso di colpa per gli impatti dei cambiamenti climatici, sulle presenti e sulle future generazioni. Siamo, appunto, nell’era degli “asintomatici della crisi climatica”, che si esprime secondo almeno 3 tipologie di atteggiamenti di rifiuto causati dalla paura e dal disagio: a) la negazione da evitamento, cioè un meccanismo psicologico di minimizzazione o negazione dell’importanza di un rischio, che funziona attraverso la neutralizzazione di informazioni negative per noi rilevanti (Wiebe & Korbel 2003); b) la negazione caratterizzata da bassi livelli di ansia (Thompson & Ting 2012) e guidata dal cosiddetto optimism bias, che ci fa convincere che gli eventi spiacevoli abbiano meno probabilità di accadere a noi stessi che agli altri (Sharot 2011), perché psicologicamente percepito distante, come un insieme di eventi incerti che immaginiamo verificarsi in un futuro lontano, con impatti su luoghi lontani e su persone diverse da noi (Pidgeon 2012). c) la negazione come la resistenza al cambiamento per la paura e l’ansia per i cambiamenti che la risposta alla crisi climatica portano con sé; può determinare importanti effetti sul piano emotivo, cognitivo e comportamentale (Ford et al, 2008). Per PREVENIRE e VINCERE LA RESISTENZA AL CAMBIAMENTO, il consiglio per comunicatori e istituzioni è quello di investire in una comunicazione coerente e costruttiva, che mira a politiche climatiche efficaci e attraenti, basate su co-benefici locali e tangibili, in grado così di superare i possibili pregiudizi psicologici della popolazione (Klenert et al., 2020). Fondamentale, in fatti, è che oltre a parlare delle limitazioni necessarie per il taglio delle emissioni di gas serra, il messaggio dovrebbe focalizzarsi sui benefici per la salute dalla riduzione dell’inquinamento dell’aria, dal muoversi a piedi o in bicicletta, e su una responsabile promozione dei cambiamenti di stile alimentare per la riduzione dei rischi di tumore e di malattie cardiovascolari producendo, al contempo, importanti benefici per il clima e per la biodiversità. Per quanto riguarda, nello specifico, la paura della minaccia climatica, gli esperti raccomandano di provvedere alla sensibilizzazione delle persone accompagnando le notizie e gli appelli sui rischi e gli impatti, che fanno leva sulla preoccupazione, anche con messaggi di efficacia:, pur favorendo la percezione della gravità della minaccia e della suscettibilità, serve a mostrare quella “luce in fondo al tunnel”, utile a innescare una risposta e a limitare i danni da un possibile eccesso di ansia (Witte & Allen 2000). Resta prioritario il fatto che evitare ritardi nella percezione da parte delle persone, è essenziale per garantire una risposta efficace, e prevenire i danni da paura e indignazione resta un’azione urgente e fondamentale nell’interesse stesso delle istituzioni.
  • 12. 12 Le iniziative italiane per promuovere la comunicazione della crisi climatica e della transizione ecologica, non provengono solo dal mondo scientifico e dai climatologi. Interessante, ad esempio, è l’iniziativa dei giornalisti, ricercatori ed esperti di comunicazione del gruppo Climate Media Center Italia (CMC) che offrono il loro supporto a media e scienziati, per migliorare l’accuratezza e l’efficacia dell’informazione sul clima e la conoscenza delle soluzioni e dei relativi co-benefici. Nell’ambito della promozione della cooperazione nella risposta alla crisi ambientale e sociale, si segnala il recente manifesto dell’organizzazione “Ci sarà un bel clima”, di cui parleremo specificatamente più avanti, che si pone come obiettivo di facilitare e favorire la comunicazione e il dialogo per la transizione ecologica, attraverso la diffusione di messaggi onesti e responsabili e la promozione di sentimenti di coesione e positività. TRANSIZONE ECOLOGICA & RISCHIO GREENWASHING Sebbene, almeno inizialmente, la proposta di istituzione di un MINISTERO PER LA TRANSIZIONE ECOLOGICA sia stata salutata con consenso quasi unanime, soprattutto dal “mondo ambientalista” ma, più in generale, da tutti coloro che ritengono che, oggi, sia sempre più urgente e necessario cambiare la direzione del nostro modello di sviluppo, considerando in modo più serio e concreto la questione della sua coesistenza con i limiti del Pianeta, non sono assenti alcuni dubbi o, forse solo preoccupazioni, circa i reali compiti e l’effettiva autonomia ed efficacia che questo Ministero potrà di cui potrà disporre, per portare avanti una seria, concreta e radicale transizione ecologica. Partendo dal presupposto che sia estremamente positivo che si parli di transizione ecologica come uno dei punti centrali programmatici del Governo, testimoniato dalla creazione di un “ministero per la Transizione ecologica” – potremmo dire, una sorta di “ministero dell’Ecologia” – si ritiene corretto e utile porsi la domanda se, nello specifico contesto italiano, non esista un rischio “bolla”, ossia la crescita improvvisa e significativa di interesse per le tematiche ambientali che, dopo essersi gonfiato, poi perde credibilità e scoppia (tipiche sono bolle speculative ricorrenti nell’economia finanziarizzata della globalizzazione). La domanda è legittima perché, molti esperti di politica economica e di cambiamento climatico non nascondono il fatto che, con il diffondersi dell’allarme legato alla sempre più evidente devastazione del Pianeta e al surriscaldamento climatico, il principale argomento di autolegittimazione del capitalismo globale sia diventato proprio quello della tutela dell’ambiente e della mitigazione delle cause e degli effetti del Climate change. Esiste, dunque, il fondato rischio di trovarci di fronte ad una sorta di bolla ecologica, sotto forma di una campagna di legittimazione, che fa credere in uno straordinario impegno per la transizione italiana all’economia green, occultando il fatto che mancano alcune condizioni fondamentali per la sua effettiva realizzazione: scelta e cultura adeguate, soggetti credibili, congruenza tra l’agenda governativa e le azioni di vera transizione. 1) La prima condizione assente è relativa alla visione e alla scelta che dovrebbero ispirare l’azione del governo, a causa del permanente equivoco – magari “nascosto” alla trovata del nuovo Ministero, di ridurre l’ecologia alla solo tutela degli equilibri della natura, senza abbracciare, nel contempo e come dovrebbe essere, anche gli equilibri sociali e i diritti delle persone. Basandosi, infatti, sulla pericolosa e fuorviante illusione, che si possa
  • 13. 13 andare avanti tranquillamente con “il capitalismo opportunamente revisionato”, senza rendersi conto, invece, del fallimento garantito se si persevera sulla via senza sbocco di un modello di economia capitalistica e consumistica, che è sbagliato e nocivo. E’ sempre più chiaro che, non c’è trasformazione del vigente modello di economia senza un processo di transizione, d’altro canto non può esserci transizione senza la scelta di trasformare l’economia. 2) La seconda condizione inesistente, si riferisce all’insieme degli attuali attori politici, che avrebbero (avranno?) il compito e la responsabilità di promuovere la transizione. In questi ultimi decenni, una galassia di soggetti sociali e culturali si è mossa dal basso affrontando seriamente le tematiche ambientali, del climate change e, soprattutto, della transizione ecologica e, perfino alcune imprese, hanno riconfigurato in chiave ecologica e solidale la loro attività. Se c’è un ambito, invece, piuttosto stagnante e inetto, questo è proprio quello della politica istituzionale, legata quasi esclusivamente alla questione economica, come unica bussola di strategia e di azione. Una transizione ecologica dovrebbe, prima di tutto, superare l’abitudine di concepire l’economia come il motore della società e l’ecologica come il freno che la mantiene in carreggiata, assumendo invece l’ecologia come struttura dell’economia. In altre parole, per coloro che da molti anni si occupa delle politiche sull’ambiente e il clima in Italia (professionalmente e non solo), la loro drammatica inerzia, la voracità delle lobby “sviluppiste” fra le più arretrate d’Europa, questo nome “transizione ecologica” fa sorgere il sospetto di un’operazione di facciata: un ministero dotato di poteri e fondi non molto diverso da quello del ministero dell’Ambiente, al di là del nome più aggiornato. Un ministero che avrebbe grandi competenze teoriche, ma che non dispone di reale potere per incidere davvero. Quanto questo rischio di greenwashing sia fondato, o meno, lo si scoprirà nei prossimi mesi, da quanti e quali saranno gli altri ministeri e quali competenze avranno. A proposito dei principali limiti o, in certi casi, dei pericoli che il Ministero per la Transizione ecologica potrebbe “nascondere” è interessante ascoltare il parere del prof. STEFANO CASERINI3 : “So che questi dubbi potrebbero essere visti come lamentele di ambientalisti eternamente scontenti. Ma è indubbio che quando Stefano Bartezzaghi fa notare che uno degli anagrammi di Transizione ecologica è sognatori eccezionali, coglie una paura diffusa, radicata in decenni di retorica sulle politiche ambientali. Ho abbastanza memoria per ricordare i roboanti proclami sull’importanza dell’ambiente, l’ecologia e le generazioni future di un politico con la metà degli anni di Draghi, che ha poi assegnato la guida del ministero dell’Ambiente al commercialista di Pier Ferdinando Casini, e ora indica come nuovo rinascimento una dittatura feudale con un’economia basata sul petrolio e tre volte le emissioni pro capite di gas climalteranti dell’Italia. In conclusione, sarebbe molto utile definire le competenze di questo nuovo ministero e limitarle a qualcosa di specifico, con obiettivi certamente ambiziosi, purché chiaramente definiti e circoscritti, il cui scopo principale dovrebbe essere la più rapida uscita possibile 3 Ingegnere ambientale e dottore di ricerca in Ingegneria sanitaria (Titolare del corso di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano), svolge da anni attività di ricerca nel settore dell’inquinamento dell’aria, degli inventari delle emissioni e della riduzione delle emissioni in atmosfera; si è occupato più recentemente delle strategie di riduzione dei gas climalteranti, della comunicazione del problema dei cambiamenti climatici e dei processi per la rimozione di CO2 dall’atmosfera. E’ autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative tra cui: nel 2009 “Guida alle leggende sul clima che cambia” (2009), “Il clima è (già) cambiato. 10 buone notizie sui cambiamenti climatici” (nuova edizione 2019.
  • 14. 14 dal sistema dei combustibili fossili, così come deliberato dall’Italia, attraverso l’invio all’Unione europea della Strategia Nazionale di Decarbonizzazione a lungo termine al 2050. Occorrerà seguire con attenzione costruttiva ogni atto del nuovo governo, facendo in modo che i movimenti democratici, i soggetti sociali più lucidi e le forze culturali dotate di carica trasformativa esprimano critiche, conflitti e proposte alternative utilizzando eventuali margini di apertura politica che, più per un gioco delle circostanze che per convinzione del governo stesso, potrebbero aprirsi. Far scoppiare l’eventuale “bolla ecologica”, potrà servire a far maturare, un giorno, prima possibile, la scelta dell’ecologia come coscienza collettiva e come prassi. GOVERNANCE della TRANSIZIONE ECOLOGICA Come sempre, la “provinciale” Italia scopre ed “enfatizza un tema come quello della transizione ecologica che, già da diversi anni, è stato ampiamente discusso in alcuni Paesi europei, così come sicuramente lo è Stato nell’ambito delle politiche dell’EU sul Green Deal e nel nuovo bilancio settennale dell’Unione Europea A seguito dell'approvazione del Parlamento europeo del 17 dicembre 2020, il Consiglio ha adottato il regolamento che stabilisce il Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) dell'UE per il periodo 2021-2027, che prevede un bilancio a lungo termine dell'UE, di 1.074,3 miliardi di EUR per l'UE-27 (a prezzi 2018), compresa l'integrazione del Fondo europeo di sviluppo. Insieme allo strumento per la ripresa Next Generation EU da 750 miliardi di EUR, consentirà all'UE di fornire nei prossimi anni finanziamenti senza precedenti pari a 1.800 miliardi di EUR a sostegno della ripresa dalla pandemia di COVID-19 e delle priorità a lungo termine dell'UE nei diversi settori d'intervento. Chi decide e chi controlla Il PNRR - un piano di quasi 200 miliardi (191 miliardi di €, per la precisione) – è una delle maggiori iniziative economico-finanziarie messe in campo dalla nascita della Repubblica e che si inserisce dentro un quadro di pesantissima crisi ecologica, sanitaria, economica e sociale. Di fronte ad una sfida di tali proporzioni e complessità, sarebbe (anzi, è) assolutamente necessario ed utile che si coinvolgessero e si mobilitassero le migliori risorse sociali per costruire, con la partecipazione di tutt*, un nuovo modello di società: questo almeno nelle migliori intenzioni degli estensori dove, nell’ultima pagina del Piano si parla, di “prevedere come massima forma di partecipazione delle persone una “Piattaforma di open- government per il controllo pubblico”. Attualmente, la maggior parte delle energie – oltre alla redazione del testo finale del PNRR – sono concentrate sulla governance del processo, con uno scontro all’arma bianca (more solito ??!!) su chi dovrà comporre LA TASK FORCE DEI SEI RESPONSABILI DI MISSIONE previsti per una gestione che, coprendo il periodo 2021- 2026, sarà di fatto un meta-governo a cavallo di più legislature. E’ già stato definito il Comitato Esecutivo il quale, essendo composto, con ogni probabilità, dal Presidente del Consiglio, dal Ministro dell’Economia e delle Finanze e dal Ministro dello Sviluppo Economico e della Mobilità sostenibile che – davvero un po’ in barba alla rivoluzione ecologica e sociale più volte annunciata – sembrerebbe perseguire, invece, le vecchie logiche che antepongono la crescita economica ed il business for business…...!!
  • 15. 15 Infine, come ulteriore elemento di preoccupazione, non si deve dimenticare che, chiunque sarà posto al comando del “bastimento carico di miliardi” (anche grazie al famigerato e già approvato Decreto Semplificazioni, ossia D. L. n.76/2020 (c.d.) - potrà dirigere il tutto, praticamente, senza ostacoli di alcun tipo, siano essi le procedure previste di valutazione di impatto ambientale, siano esse le proteste delle popolazioni. Infatti, tutta l’attuazione del piano, come è ben specificato a pag. 96 della bozza di PNRR, “tutte le opere e i progetti rientranti nel PNRR assumono carattere prioritario e rilevanza strategica” e, pertanto, “la procedura di valutazione di impatto ambientale relativa a progetti ed opere rientranti nel piano si dovrà svolgere secondo un iter ulteriormente accelerato e semplificato, rispetto a quello previsto dal Decreto Legge n. 76/2020 e concludersi entro tempi certi”, nonché dovrà essere prevista “l’automatica conforme variazione degli strumenti urbanistici vigenti in conseguenza dell’approvazione di un progetto rientrante nel piano”. Citando ancora il prof. Paolo Pileri, possiamo affermare che la creazione di un Ministero per la Transizione Ecologica, potrebbe “tornare utili a noi, cittadini sovrani (perché la politica è un servizio, non dimentichiamolo), e a loro, ufficiali pubblici, tecnici e politici, incaricati di tradurre in pratica le urgenze ecologiche. Da questo punto di vista, non riesco a fare a meno di frenare la mia immaginazione e pensare che sarebbe davvero un cambiamento epocale, se questo ministero prendesse il posto del ministero dello Sviluppo economico. Sì perché è lo sviluppo economico che deve curvarsi sulle istanze ecologiche e non l’ambiente che è già, di natura, conformato alle sfide ambientali. Il nostro problema, da decenni, è proprio il fatto che nella compagine di governo il ministero dell’Ambiente vale come il due di picche di solito e le decisioni di investimento, di grandi opere, di modello di sviluppo e così via, sono prese di fatto bypassando il ministro dell’Ambiente o mettendolo in una condizione di supina accettazione”. Ecco perché, è importante evidenziare il fatto che, se il MiTE vorrà rappresentare quella novità di cui il nostro Paese ha enormemente bisogno, dovrà guadagnarsi uno spazio che non sia solo più di compromesso (magari al ribasso), ma uno spazio di scelta e movimento radicali, così come sempre più articoli e studi scientifici e sociologici indipendenti (nella stessa enciclica “Laudato sì”) suggeriscono, “supplicando” da anni i governi “a non cincischiare dietro inutili e ritardanti compromessi che non fanno che dare sempre più spazio ai disastri ambientali. Abbiamo perso troppo tempo nel passato, cercando prima i compromessi e poi lo spazio per le ragioni ecologiche. Ora il metodo deve invertirsi e servono politici convinti e con comprovata militanza ecologica e scientifica”, sempre, il prof. Pileri. Proprio a conferma del fatto che le prossime politiche ambientali, non potranno più essere pensate come politiche che si “affiancano” a quelle non ambientali, lasciando che – come troppo spesso accaduto, per non dire sempre - la questione ambientale rimanga il “solito fanalino di coda” al di là dei cambi di nome ai ministeri, perché sarebbe davvero una tragedia nei fatti, oltre che culturale, le politiche ecologiche davvero sostenibili, saranno davvero efficaci solamente se saranno politiche attive e sostitutive di quelle applicate fino ad ora. E’ abbastanza evidente, infatti, come chiunque abbia a cuore la giustizia sociale e ambientale
  • 16. 16 non possa più limitarsi alla, pur necessaria, difesa dell’esistente, ma debba porre la sfida sull’alternativa di società, che:  sia contro l’economia del puro profitto e per una società che metta al centro la vita e la sua dignità;  sappia essere interdipendente con la natura;  costruisca sul valore d’uso le sue produzioni, sul mutualismo i propri scambi, sull’uguaglianza, le proprie relazioni e sulla partecipazione le proprie decisioni. In estrema sintesi, quella che molti esperti hanno iniziato a definire la società della cura4 . Di contro, fino ad oggi, sembra piuttosto che la strategia proposta da Governo e poteri forti dell’industria e della finanza, sia troppo fortemente orientata ad un unico obiettivo: “chiudere immediatamente tutte le faglie aperte dalla pandemia nella narrazione liberista, accaparrandosi tutte le risorse pubbliche che saranno messe in campo per ridare fiato (e profitti) al modello dominante, questa volta dentro un contesto molto più autoritario del precedente”. Un esempio? Sanare il “maledetto” vizio italiano di affermare di volere una urbanizzazione a “basso consumo di suolo” che, in realtà, vuol dire solo che si può ancora consumare, ma giusto un po’ meno di prima: la transizione ecologica si ottiene anche con una transizione amministrativa, che porti coloro che governano e decidono di perseguire una urbanizzazione senza alcun consumo di suolo, dove la parola suolo corrisponde al vero non alle definizioni di plastica compromissorie di cui è piena la legislazione urbanistica quando definisce cosa è il suolo e il consumo di suolo. Il Ministro della Transizione Ecologica, innanzitutto, dovrà:  spiegare che con la tutela ambientale, si possono generare centinaia di migliaia di posti di lavoro green e dignitosi;  convincere i cittadini e le imprese che la manutenzione del territorio è la nostra prima e più importante opera pubblica, di cui il PNRR sembra essersi dimenticato;  spiegare che non esistono solo le nove grandi città metropolitane italiane sulle quali investire, ma anzi che bisognerà capovolgere l’agenda delle priorità e partire dagli ultimi: i piccoli Comuni, le aree interne, le fragilità territoriali.  convincere gli “affamati” e sedicenti esperti di marketing della qualunque cosa, che non ci si può gettare su qualunque piatto allo stesso modo e che la “promo- commercializzazione” del territorio non è la ricetta del futuro, perché ha massacrato i nostri paesaggi nel passato lasciandoci in eredità un sacco di bruttezza, dismissione, danni, debiti e intere coste abbruttite e cementificate da strade, piattaforme logistiche e commerciali. Si deve anche mettere in conto che la transizione economica vera, perlomeno all’inizio, sarà dolorosa e capiterà molto probabilmente che, coloro che vogliono economie super efficienti e rendite da capogiro, davanti al cambio di rotta che ne deriva, accuseranno l’ambiente e, allora, vi sarà un gran bisogno di valide persone che saranno capaci di riportare le responsabilità dove devo stare ovvero sugli eccessi che ci siamo permessi con i nostri stili di vita e con il nostro modello di sviluppo. 4 Consiglio la lettura dell’ultimo libro di Guido Viale: “Dal lavoro alla cura – Risanare la Terra per guarire insieme”, Edizioni inteno 4.
  • 17. 17 Alcune importanti e dirimenti domande sulla governance: 1) Il premier Draghi, e chi oggi lo sostiene, ritiene che i vertici delle potenti partecipate di Stato, (Eni, Snam e altre corporation “a stelle e strisce”, ecc.), che da sempre dettano la politica “fossile” energetica, estera e di fatto industriale italiana, e che fino ad oggi hanno sempre fortemente intralciato la transizione in Italia, la dovranno di fatto guidare sulla base di una presunta, quanto improbabile ed in ogni caso ipocrita riconversione oppure, finalmente vedranno ridotto il loro enorme potere, lasciando spazio a nuovi attori di un più profondo cambiamento? 2) Il governo italiano, che controlla il 30 % questi giganti, interferirà con forza nelle loro politiche ed operazioni, o aspetterà in silenzio la loro conversione sulla strada della COP26 sul clima di Glasgow? 3) Anche volendo dare credito al fatto che la struttura di un super-ministero per la transizione ecologica farà da volano a questa conversione, è necessario, però anche chiedersi: la nuova struttura ministeriale, includerà davvero le parti dell’amministrazione che contano come la finanza pubblica ? 4) Chi deciderà in ultima istanza le priorità di spesa nel Recovery Plan? Le eventuali risposte, non la darà la super-struttura di un Ministero come il MiTE, ma il quadro delle politiche ecologico-industriali del governo, che dovranno decidere quale coerenza nelle politiche si vuole proporre e realizzare: quella che, non alterando i piani per una globalizzazione centrata sull’accelerazione del commercio mondiale, mega infrastrutture ed una riscrittura della geo-economia, ci ha portato (anche) la pandemia da COVI-19, oppure un’altra transizione centrata sulla resilienza dei territori, anche sulla riduzione dei consumi e sulla creazione di lavoro in altre forme? E’, infine, molto importante che la società civile italiana, lungi dal farsi cogliere da eventuali facili entusiasmi, vista l’enorme flusso di finanziamenti che arriveranno all’Italia, rifletta molto attentamente sul nucleo irrinunciabile e fondamentale di tutta l’operazione, ovvero che il clima e la biodiversità, così come la giustizia sociale, vanno salvati “Whatever it takes”, organizzandosi, da subito, in solidarietà con le comunità di base, che continuano a resistere in tanti angoli di Italia in tal senso e che potrebbero aiutare a definire cosa è davvero trasformativo, per una volta, nella tanto chiacchierata transizione ecologica. LE GIOVANI GENERAZIONI e la TRANSIZIONE ECOLOGICA Fra i punti cardine del nuovo governo, il presidente Draghi non ha solamente indicato la politica ambientale, ma ha posto l’accento sulla centralità della attenzione ai giovani e alla
  • 18. 18 loro formazione, proprio perché fra le due cose c’è un nesso molto stretto, anche perché anche per le generazioni più giovani, ovvero gli attori principali del cambiamento e al tempo stesso le vittime se la transizione non avrà luogo, è fondamentale che – come sosteneva Alexander Langer “la transizione ecologica sia desiderabile”, affinché abbiano le argomentazioni necessarie per opporsi alle resistenze grandissime che dovranno affrontare per metterla in atto. Infatti, è innegabile purtroppo, che coloro i quali nell’attuale modello di vita si trovano bene non saranno per niente inclini al cambiamento e vedranno la transizione ecologica come tutta una serie di rinunce da ingoiare, almeno inizialmente. Come può essere desiderabile, per le giovani generazioni questa transizione ecologica? Prima di lasciare a loro, direttamente la parola, proviamo ad evidenziare “timidamente” alcune suggestioni “al posto loro”. Forse la prima cosa utile per loro, sarà differenziarsi dalla vecchia generazione, in termini di valori e comportamenti, con la variante – rispetto al passato (è sempre stato così, si sa, che il giovane è ribelle- che la differenziazione intergenerazionale deve essere molto più marcata di quanto non sia stata negli ultimi decenni, per molte diverse buone ragioni, come testimoniano, molto bene e molto chiaramente, movimenti come Fridays for Future, Extinction Rebellion, “C’è un bel clima” e tanti altri, magari meno noti, ma non meno attivi e propositivi sui social media, perché hanno acquisito coscienza ambientale, desiderano la transizione ecologica, e si organizzano per spingere verso la sua realizzazione, vedendo in una strategia positiva e importante per il presente, oltre che per il futuro. Il loro futuro. La vivono anche accompagnata dalla gioia della vita stessa, della bellezza, del piacere, del sapere di essere nel giusto, come un miglioramento della qualità della vita, non solo come una necessità per evitare il collasso della biosfera e del sistema sociale e per garantire loro un mondo vivibile. Sanno anche che la transizione ecologica offre ed offrirà delle opportunità di lavoro e di innovazione, soprattutto nel senso di un lavoro non più come tormento, ma come forma di autorealizzazione. Lasciamo, finalmente, la parola ad una di queste realtà che si chiama “Ci sarà un bel clima” ed è, allo stesso tempo, un manifesto (molto bello) e un progetto pensato per creare un coinvolgimento più ampio e inclusivo attorno alla causa climatica ed ecologica, formato da cittadini e cittadine, scienziati, giornalisti, politici e imprenditori, uniti dalla convinzione che l’unione, il dialogo e l’impegno delle persone e delle comunità, permetteranno di rispondere, con successo, alla crisi sociale, climatica e ambientale nel nostro Paese, che è rivolto a tutte le persone, per costruire insieme un percorso comune di trasformazione verso un futuro migliore e di benessere per tutti e tutte. L’obiettivo di “Ci sarà un bel clima” è quello di tessere una rete che unisca tutti i comparti della società civile, per rafforzare le azioni, individuali e comuni, innescando una trasformazione verso una reale giustizia ambientale e sociale. Nato nel settembre del 2020 da un’iniziativa di confronto e di incontro
  • 19. 19 di due giorni sulla crisi ambientale, promossa dal collettivo di ricerca e divulgazione Crowdforest, che ha coinvolto attivisti, scienziati, giornalisti, politici e imprenditori per condividere esperienze, immaginando, insieme, possibilità e soluzioni, ha fatto emerge necessità, proposte e richieste, indirizzate a tutti gli attori del sistema sociale. La soluzione per la transizione ecologica, secondo questo movimento, è da ricercarsi nella comunicazione e nel contatto, favorendo la diffusione di messaggi onesti e responsabili e di un sentimento di coesione e positività. Attualmente risulta coordinato da un team di cinque attivisti (di formazione e provenienza diversa): Riccardo Antoniol (Economista, membro di Fridays For Future, Michele Argenta (Ingegnere, membro di Extinction Rebellion), Giovanni Ludovico Montagnani (Ingegnere, fondatore di Crowdforest, Clara Pogliani Storica dell’arte e Gabriele Ruffato (Naturalista e fotografo). Qui il link per leggere il MANIFESTO “Ci sarà un bel clima”: https://unbelclima.it/wp-content/uploads/2020/11/Manifesto-CS1BC.pdf Se è molto incoraggiante il fatto che le nuove generazioni più sensibili ritengano desiderabile la transizione ecologica, è altrettanto vero che da soli non bastano, così come non bastano nemmeno le elité che manifestano, che si impegnano e che dibattono sui social media. E’ indispensabile che una più ampia rappresentanza della nuova generazione trovi questo mondo desiderabile, e ciò si può ottenere solo in un modo: diffondendo i principi della sostenibilità ambientale, che si coniuga con la giustizia sociale, sin dai primi gradi del processo formativo. È a scuola, infatti, che occorre insegnare a vedere la sostenibilità, e il percorso verso di essa, come qualcosa di desiderabile. Si deve cominciare da lì. TRANSIZIONE ECOLOGICA e LAVORO Il piano Next Generation EU prevede, tra i suoi assi portanti o mission, quello costituito dalla promozione delle misure che facilitino la transizione del sistema produttivo verso un modello sostenibile: si tratta, precisamente, della Mission 2 – “Rivoluzione verde e transizione ecologica”. Il corrispondente PNRR dovrebbe, pertanto, rispecchiare questo orientamento, assegnando a questo obiettivo una parte significativa delle risorse che arriveranno dall’Unione europea. Il problema vero, crediamo, sarà con quale strategia con quale centralità della transizione ecologica, questo avverrà, premettendo subito che siamo tutti/e consapevoli del fatto che la conversione sarà un processo complesso, che non potrà che toccare numerosi aspetti che non riguardano solo il lavoro, ma anche il vivere quotidiano. Investirà di fatto l’intera società, in una modalità per molti aspetti analoga a quella che ha contraddistinto la rivoluzione industriale nel Settecento. Le risorse, sebbene fondamentali, dovranno essere accompagnate da competenze in grado di leggere e gestire i nuovi approcci, indurre le nuove azioni e i nuovi comportamenti. Per questo anche la formazione rivestirà un ruolo decisivo. La questione del lavoro nella transizione socio-ecologica richiede, prima di ogni altra cosa, un cambio di paradigma che possiamo esprimere attraverso una domanda: come riuscire a promuovere un sistema in cui il lavoro sia dignitoso e rispettoso della dignità umana, giusto
  • 20. 20 ed ecologicamente sostenibile per tutti gli uomini e le donne, ora e per le generazioni future? Il fatto che il lavoro sia in pericolo e che i lavoratori di tutto il mondo soffrano le conseguenze della crisi socio-ambientale, diventa sempre più un appello urgente e pressante a ripensare il lavoro, la sua organizzazione e la sua governance, ma anche a prendere coscienza della sua materialità e del legame tangibile esistente tra essere umano e natura. Un primo tentativo di risposta, potrebbe provenire dal Manifesto “Quale lavoro per una transizione ecologica e solidale?”, presentato presso la sede di Parigi dell’UNESCO, in occasione del Colloquio internazionale promosso da Aggiornamenti Sociali5 e guidato dal CERAS6 nel maggio del 2019 e del quale si riassumono, di seguito, i punti principali: 1. Difendere la dignità umana. La dignità umana è inalienabile e, poiché tutti la condividiamo, è il fondamento della vita sociale. La sua radice è il carattere sacro della persona, che ne è il principio fondatore. La promozione della dignità umana sul lavoro va al di là della questione della retribuzione economica, ma anche al di là del rispetto o della semplice promozione del “lavoro dignitoso”. Implica la difesa dei diritti universali dei lavoratori, la promozione di un lavoro “che dà dignità”, cioè di un lavoro che onori e rispetti la dignità umana sostanziale e inalienabile, e che, in un certo senso, accresca quella che si potrebbe chiamare “dignità relativa” (che dipende dalle condizioni di vita). 2. Difendere la giustizia sociale e ambientale. È uno dei principi più minacciati nel mondo del lavoro. Giustizia sociale significa: stabilire condizioni di lavoro dignitose; salari dignitosi per tutti; limitare i divari salariali tra dipendenti e dirigenti; attuare e applicare un diritto del lavoro giusto ed equo; riconoscere e sostenere i sindacati; prendersi cura dei rapporti consumatore-produttore, in particolare attraverso la tracciabilità sociale; promuovere l’uguaglianza di genere (parità di trattamento, di condizioni di lavoro, di retribuzione e di opportunità), permettendo a ogni persona di fiorire. A partire dal secolo scorso, la “giustizia sociale” si è concentrata sulla distribuzione della ricchezza. Da questo punto di vista, il primo diritto fondamentale da rispettare è quello a godere dei frutti del proprio lavoro. Inoltre, i rifiuti, il cambiamento climatico e l’inquinamento ci costringono a tenere conto dell’ambiente quando parliamo delle persone più fragili ed escluse, che sono più esposte agli effetti del degrado ambientale. Prendere in considerazione le disuguaglianze ambientali significa dare a tutti l’accesso a un ambiente sano e il diritto di emigrare dalle aree insalubri e inquinate. La giustizia sociale deve essere estesa a tutti i tipi di lavoro, anche nell’economia informale. Tutti i tipi di “lavoro invisibile” (informale, domestico, volontario, ecc.) devono essere riconosciuti nei sistemi giuridici. A tal fine potrebbero essere create nuove istituzioni, utilizzando processi ibridi e collaborativi. 3. Prendersi cura del bene comune. Il bene comune è più dell’interesse generale: è “il bene di tutti noi”. Nella nostra condizione peculiare di interdipendenza globale, la questione si pone con particolare urgenza. Il nuovo paradigma che sosteniamo e che punta a fare in 5 Aggiornamenti Sociali è una rivista dei gesuiti, nata nel 1950, che offre informazione ma soprattutto formazione. Frutto del lavoro di una équipe redazionale composta da gesuiti e laici delle sedi di Milano e di Palermo e di un ampio gruppo di collaboratori qualificati, il mensile offre criteri e strumenti per affrontare le questioni oggi più dibattute e partecipare in modo consapevole alla vita sociale. Da sempre la redazione promuove e partecipa a reti e progetti nei campi della formazione politica ed etica, del lavoro, dell’ambiente. Un impegno che negli ultimi anni è diventato particolarmente intenso. 6 CERAS-Center for Educational Research at Stanford (Stanford University School of Education; Stanford, California.
  • 21. 21 modo che il lavoro rispetti i limiti sociali e ambientali, solleva nuove domande sul bene comune, sulla privatizzazione della terra e delle risorse naturali e sui meccanismi finanziari. Una cosa è certa: il valore economico non esaurisce il bene comune. Il bene comune, inteso come bene di ogni lavoratore e bene di tutti, deve essere l’obiettivo del lavoro. 4. Promuovere un lavoro di qualità. Prestare attenzione alla qualità del lavoro svolto significa permettere a tutti di essere orgogliosi del proprio lavoro, anche se difficile. La dignità dei lavoratori aumenta quando il loro lavoro ha senso. La sicurezza sanitaria e ambientale sono particolarmente necessarie per un lavoro di qualità. Inoltre, un “lavoro ben fatto” non è solo sinonimo di risultato di qualità, ma dipende anche da risorse e condizioni di lavoro accettabili. 5. Difendere la solidarietà sociale e ambientale. Solidarietà, significa che siamo responsabili gli uni per la vita e il benessere degli altri. Tutti dovrebbero avere accesso alle risorse e nessuno dovrebbe essere esposto, più di altri, all’inquinamento o al degrado dell’ambiente. Ma la solidarietà vale anche nei confronti degli esseri non umani, di cui dobbiamo prenderci cura, se non altro perché la loro esistenza ci permette di svilupparci. Questa solidarietà estesa a tutti gli esseri viventi ci impone di essere consapevoli del nostro destino comune. Un’altra voce molto interessante (e condivisibile) è quella della rivista economica online Sbilanciamoci!7 , di cui si riportano alcune considerazioni, sintetiche.  Dal punto di vista del mercato del lavoro, è necessario ragionare di misure strutturali per il contrasto alla precarietà, che affianchino i progetti previsti dal PNRR e guardino soprattutto – ma non solo – alle giovani generazioni: gli under 35, attualmente, risultano sovra-rappresentati nei segmenti di lavoro meno tutelato, e il numero di NEET (oltre due milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni, fonte Istat), estremamente alto già prima della pandemia, impone un piano di interventi straordinari per favorire l’ingresso in un mondo del lavoro nel quale siano realmente garantiti dirette, tutele, salari degni.  E’ assolutamente necessario ed urgente un ambizioso piano straordinario di assunzioni nella P.A. (soprattutto in settori chiave che negli ultimi anni e mesi hanno molto sofferto come cultura, istruzione, sanità), rivolto soprattutto ai giovani (i dati sull’età media dei dipendenti nella PA evidenziano la quasi totale assenza di under 35) e di stabilizzazioni del personale precario (oltre 350mila unità). Inoltre, il fatto che le uniche assunzioni straordinarie (ad oggi, previste nella prima bozza) fossero a tempo determinato e relative esclusivamente all’attuazione dei progetti del PNRR, reitera un modello nel quale, la precarietà la fa da padrone anche nel pubblico (oltre che nel privato).  Il PNRR può essere invece l’occasione per promuovere un rinnovamento importante del pubblico, rilanciandone anche il ruolo in termini di creazione di lavoro di qualità. In assenza di un cambio di rotta sulle politiche in materia di lavoro non esiste alcuna garanzia che l’occupazione sia sinonimo di indipendenza economica, emancipazione, uscita dalla condizione di povertà. 7 La redazione di Sbilanciamoci! è composta da un gruppo di economisti, ricercatori, giornalisti, studenti, operatori sociali, e una rete di associazioni, organizzazioni, movimenti che in gran parte fa capo alla Campagna Sbilanciamoci! E propongono di conoscere, discutere e analizzare criticamente i fatti dell’economia, per sapere tutto il possibile sul sistema economico nel quale viviamo e progettare tutto il possibile del sistema economico nel quale vorremmo vivere.
  • 22. 22  Relativamente all’ingresso nel mondo del lavoro, non è più assolutamente rimandabile un intervento serio su stage e tirocini che, anche in attuazione della risoluzione del Parlamento Europeo dell’8 ottobre 2020, garantisca un’indennità adeguata, non inferiore a 800 €/mese, oltre ad un innalzamento degli standard di qualità e controllo sulle attività svolte durante il periodo di tirocinio e sui vincoli di assunzione e tipologia contrattuale alla fine del percorso di formazione.  Senza una definizione politica chiara di cosa si intenda fare, per favorire l’occupazione giovanile, il rischio è che le misure si traducano esclusivamente in finanziamenti a pioggia alle imprese sotto forma di sgravi fiscali, senza alcuna garanzia circa la qualità del lavoro. La mancanza di una direzione delle politiche industriali e di sviluppo rischia di rendere ancora più scontato il rischio che gli incentivi alle imprese siano più funzionali a dopare i dati sull’occupazione che a rilanciare davvero il Paese. Oltretutto, tale carenza è particolarmente problematica nel Mezzogiorno e nelle aree interne. Se il potenziamento della SNAI (Strategia Nazionale per le Aree Interne) rappresenta, certamente, una politica nazionale innovativa di sviluppo e coesione territoriale, che mira a contrastare la marginalizzazione ed i fenomeni di declino demografico propri delle aree interne del nostro Paese, è un elemento positivo, così come la volontà di investire in nuovi asset infrastrutturali innovativi al Sud, resta il rischio di aumento delle disparità territoriali con una “terziarizzazione povera” di alcuni territori, nonché quello che la creazione di pochi poli di eccellenza non abbia un impatto diffuso sul contesto locale. TRANSIZIONE ECOLOGICA & FORMAZIONE e ISTRUZIONE Per quanto riguarda l’istruzione, si ritiene fondamentale, prima di ogni altra considerazione, che il MITE e il Governo non si dimentichino di investire importanti somme del PNRR in formazione e ricerca ecologica in tutti i settori, perché, senza il “combustibile della cultura”, ogni transizione rimarrà a secco dopo pochi chilometri e tornerà sulla vecchia strada e poi, anche perché i temi dell’Istruzione, formazione, ricerca e cultura costituiscono il 4° pilastro o Mission del Next Generation EU. Questo, anche per rendere possibile di portare l’Italia verso la media OCSE come percentuale di PIL investito, passando dunque dall’attuale 3,7% al 5% del PIL e avviando un percorso verso la completa gratuità dell’istruzione universitaria, continuando a tutelare l’accesso all’istruzione universitaria per le fasce di reddito medio-basse, ancora escluse dalle attuali esenzioni (fino al raggiungimento della gratuità, e mantenendo, se necessario, estendendo la no-tax area e un sistema di tassazione sempre più progressivo). Un intervento di questo tipo, da realizzarsi anche attraverso misure coraggiose in termini di fiscalità generale, garantirebbe una continuità di finanziamento per il comparto, condizione necessaria per un rilancio effettivo del ruolo della formazione e della ricerca nel sistema Paese: per scuola, università e ricerca la soluzione non possono essere interventi una tantum. Nonostante gli importanti finanziamenti previsti, riteniamo che sia necessario ripensare complessivamente l’impostazione dei progetti, attuando un vero e proprio cambio di paradigma nell’immaginazione della scuola del futuro, proprio perché ora – a differenza del passato – dovrebbe risultare assolutamente possibile ridare un importante slancio al miglioramento del sistema scolastico del nostro Paese.
  • 23. 23 Altro tema, generale, ma molto importante, è quello del Diritto allo studio, tanto più in un Paese, nel quale la dispersione scolastica (al 14,5 %, secondo l’ISTAT) è sotto gli occhi di tutti, mentre il diritto allo studio, sancito dagli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione Italiana sia ancora lontano dall’essere garantito. I lunghi e drammatici mesi della pandemia da COVID-19, hanno ulteriormente acuito questa criticità, soprattutto per il fatto di rendere – ancora di più, se possibile - ancorati ai contesti familiari di provenienza, come evidenziato dal rapporto “Social and Economic Conditions of Student Life in Europe” di Eurostudent: il 69% vive con la propria famiglia, a fronte di una media europea del 36%. Ad oggi, la spesa media che ogni famiglia sostiene in Italia, per l’istruzione scolastica dei proprie/e figli e figlie è all’incirca di 1.000 euro/anno, ovvero un fatto che si scontra con l’idea costituzionale di una scuola pubblica accessibile per tutte e tutti, indipendentemente dalla propria condizione economica e sociale. Un sistema di welfare studentesco così fortemente legato al contesto di provenienza impedisce lo sviluppo di un certo grado di indipendenza giovanile. Crediamo che questa crisi vada risolta con un approccio sistemico, dobbiamo dare uno sguardo oltre alla pandemia la quale, oltre ad altre cose, ha anche provocato forti e diffusi ritardi sulla digitalizzazione e un digital divide, che hanno impedito a molti il proseguimento regolare delle lezioni. Infine, un aspetto molto preoccupante del futuro sistema scolastico nazionale (almeno su quanto trapelato fino ad ora sulla bozza di PNRR) de: svanisce l’attenzione nei confronti della crescita dell’individuo e dei processi di apprendimento; l’idea che si entri a scuola per diventare cittadini e cittadine del mondo dotati di un sapere critico non è contemplata; il problema dell’abbandono scolastico è risolto con la “promozione di nuovi percorsi di istruzione terziaria professionalizzanti”; infine, i problemi esistenti nella società (dalla questione di genere, alle disparità di censo, all’esclusione delle persone straniere) sono ridotte alla mancanza di “competenze avanzate”. Continua a mancare del tutto una visione di scuola, con il rischio che si proceda ad interventi non coordinati e incapaci di migliorare effettivamente il sistema scolastico a livello nazionale.