1. il lavoro dei giornalisti/2
Media e Ong:
un altro
giornalismo
«embedded»?
Amore e odio tra reporter
e organizzazioni umanitarie
di Marilisa Palumbo
L’’idea di realizzare l’’indagine che state per leggere è nata l’’anno
scorso dalla ricerca per l’’articolo pubblicato nel primo dossier sul
lavoro dei giornalisti: indagando su come è cambiato il giornali-
smo di esteri e soprattutto come l’’ha cambiato il progressivo ri-
dursi delle risorse a disposizione delle redazioni, ci siamo resi con-
to di quanta importanza stiano assumendo come fonte primaria
e addirittura confezionatrici di informazione le organizzazioni non
governative (Palumbo, 2011). Soprattutto in contesti e regioni
del mondo dove la presenza dei giornalisti (occidentali), già «leg-
gera», è ormai quasi inesistente.
Quella tra giornalisti e operatori umanitari, è «una relazione di
dipendenza reciproca», spiega Sarah Jacobs, capo delle news di
Save the Children. «Noi abbiamo bisogno di attenzione il più
velocemente possibile. E, se siamo davanti a una grande emer-
genza, allora sono i giornalisti ad avere bisogno di noi per l’’ac-
cesso necessario a coprire una storia, per avere quell’’impatto
umano, il senso reale del dramma e del bisogno che c’’è dietro
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Problemi dell’’informazione / a. XXXVII, n. 2, agosto 2012
2. Media e Ong: un altro giornalismo «embedded»?
quello che è successo» (Kalcsics, 2011). Le agenzie di aiuto uma-
nitario hanno bisogno di accrescere la consapevolezza delle crisi e
di raccogliere fondi per affrontarle, i giornalisti cercano notizie, e
modi per aumentare lettori e profitti senza far impennare i costi.
Cercheremo allora di spiegare come e quanto le Ong si siano tra-
sformate per sfruttare i bisogni dei mezzi di informazione, come
e se finiscano per piegarsi anch’’esse alla cosiddetta «logica dei
media» (Altheide e Snow, 1979), e quanto rischi la completezza
e la neutralità delle notizie quando ci si affida a soggetti terzi che
hanno –– e non negano di avere –– una loro precisa agenda comu-
nicativa, economica e politica.
Da quando la rivolta contro Assad si è trasformata in una vera e La Siria,
propria guerra civile, è diventato quasi impossibile per i giorna- per esempio
listi entrare in Siria. Qualcuno l’’ha fatto coi visti del regime,
condizione altamente limitante della libertà di muoversi e rac-
contare. Altri, pochi, sono riusciti a entrare dalla Turchia assieme
ai ribelli, ma sempre per periodi di tempo relativamente limitati.
E allora da dove vengono i numeri dei morti e dei feriti, i rac-
conti di quello che accade nelle città? Molti, moltissimi articoli e
lanci di agenzia citano l’’Osservatorio siriano per i diritti umani.
La più importante, o quantomeno più visibile, organizzazione
per i diritti umani siriana, che sta a Coventry, nella casa di Rami
Abdulrahman, a pochi minuti dal suo negozio di vestiti. Rami,
un attivista che è stato in prigione tre volte prima di scappare in
Inghilterra 12 anni fa, si è costruito un network di contatti che
conta centinaia di persone sul terreno. E resiste con fatica ma con
determinazione ai tentativi di diffondere disinformazione da par-
te degli agenti del regime o di gruppi d’’opposizione rivali. «Vo-
gliamo accuratezza e trasparenza» –– ha raccontato l’’uomo alla
Reuters in un’’intervista del dicembre scorso –– «non vogliamo far
uscire nessuna notizia finché non siamo sicuri al 100% della fon-
te. Se la fonte è nuova, dobbiamo prima verificare l’’informazione
con altre fonti» (Abbas, 2011). Un lavoro titanico, un lavoro da
giornalisti, da cui i giornalisti di tutto il mondo in questi mesi
hanno abbondantemente attinto. Così come hanno usato, solo
per fare un altro esempio, il rapporto di Human Rights Watch sui
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3. il lavoro dei giornalisti/2
luoghi (27 centri specializzati) e i modi di tortura del regime: il
4 luglio 2012 molti quotidiani italiani avevano un pezzo sul
documento dell’’organizzazione, costruito pazientemente attraver-
so le interviste a 200 ex detenuti ed ex funzionari della sicurezza.
«Ai vecchi tempi sarebbero venuti loro da me per raccogliere in-
formazioni» –– mi racconta Dan Williams, a lungo inviato della
«Washington Post» e oggi «senior researcher» di Human Rights
Watch. «Quando ero in Cecenia le Ong non riuscivano a entrare
ed eravamo noi giornalisti a fornire informazioni sulle violazioni
dei diritti umani». La situazione si è ribaltata: «Quando è inizia-
ta la rivolta in Egitto c’’erano più ricercatori di HRW che giorna-
listi nel Paese», aggiunge Williams, che proprio in Egitto è stato
rapito per 36 ore assieme ad altri attivisti nel febbraio del 2011.
Ad Haiti, quando il terremoto del 12 gennaio 2010 distrusse
gran parte dell’’isola, c’’era solo un corrispondente straniero sul
posto, ma moltissimi operatori umanitari.
U n altro tipo 54 stati, oltre un miliardo di abitanti. Un corrispondente, al
di giornalismo Cairo. L’’altro a Nairobi, sede che si è deciso di chiudere a fine
«embedded»?
2011 (assieme a Delhi, Beirut, Buenos Aires, Madrid, Mosca e
Istanbul), confezionava in media una dozzina di pezzi l’’anno.
Questa è la copertura del continente africano da parte della Rai.
Le altre testate non hanno nessun corrispondente, solo qualche
inviato, ma inviato sempre più sporadicamente e solo in certe
zone. Somalia, Darfur? Quanto ne abbiamo sentito parlare negli
ultimi anni? Poco o nulla.
Come dimostra il caso della Rai, la tendenza dei media, in par-
ticolar modo italiani (per ragioni anche storiche: la mancanza di
un lungo passato coloniale) a trascurare molte zone del mondo,
Africa in testa, è stato aggravato dalla crisi dell’’editoria che ha
investito i media negli ultimi 10-15 anni. «Abbiamo cominciato,
già da un po’’ di anni» –– racconta Sergio Cecchini, responsabile
della comunicazione di Medici Senza Frontiere Italia –– «con l’’as-
sistere a una netta riduzione dell’’invio di fotografi nelle zone di
crisi». Una riduzione che ha avuto un impatto immediato sulla
stampa periodica, la quale coerentemente con il linguaggio della
pubblicità che la tiene in piedi, vive di immagini. Molte riviste
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4. Media e Ong: un altro giornalismo «embedded»?
italiane compravano i testi dalle syndication, ma almeno manda-
vano un loro fotografo sul posto. Adesso sempre meno. E così si è
andato intensificando un fenomeno poco rilevato dai radar dei
«media critics», almeno in Italia: il giornalismo «embedded»
nelle Ong.
Un tempo erano soprattutto le agenzie delle Nazioni Unite a
proporre ai giornalisti «pacchetti» viaggio completamente spesati,
oggi lo fanno anche le organizzazioni umanitarie non governati-
ve. Non tutte, puntualizza Cecchini: «Noi al massimo offriamo
assistenza logistica e ricovero, ma non paghiamo i viaggi, sarebbe
ben difficile giustificarlo dinanzi ai nostri donatori. Certo a volte
abbiamo sostenuto i fotografi freelance, ma quello è un discorso
diverso: non hanno nessuno alle spalle, nemmeno una assicura-
zione»1. «Poi, per carità» continua «cerchiamo di aiutare i gior-
nalisti più che possiamo. Per esempio Giovanni Porzio e France-
sco Zizola furono i primi reporter italiani a entrare in Darfur e ci
riuscirono grazie a noi. Non abbiamo chiesto niente in cambio
ma è chiaro che il ritorno di immagine è stato straordinario per
la nostra reputazione». In assenza di un codice etico comune,
però, pagare i giornalisti diventa anche un modo per farsi concor-
renza tra Ong. «È un Far West», ammette Cecchini, che arriva a
fare una provocazione: «se io organizzazione umanitaria pago
una impresa editoriale, sto facendo una transazione commerciale
a tutti gli effetti, quasi come l’’acquisto di uno spazio pubblicita-
rio. E allora perché non far diventare il pezzo scritto dal giorna-
lista con le mie risorse, di soldi, tempo e attenzione, un vero e
proprio redazionale? Almeno il lettore saprebbe che cosa aspettar-
si e il donatore vedrebbe riconoscere ruolo e risorse della organiz-
zazione al cui sostentamento contribuisce».
Una provocazione ma solo fino a un certo punto. In fondo in
azione ci sono due industrie, perché tale è diventato il settore del
soccorso umanitario negli ultimi dieci anni: una sorta di multi-
1 Il fotografo Marcus Bleasdale, per esempio, ha dichiarato qualche anno fa che negli ultimi
tempi l’’80-85% del suo lavoro è finanziato da agenzie umanitarie: «Per dare un esempio, nel
2003 ho chiamato una ventina tra riviste e quotidiani dicendo che volevo andare in Darfur. Ne
ho fatta una a Human Rights Watch e cinque giorni dopo ero sul campo» (Cooper, 2009).
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5. il lavoro dei giornalisti/2
nazionale della solidarietà. Una multinazionale che sembra «reg-
gere» alla crisi meglio di molti altri settori, media in primis, il che
le consente di esercitare un potere di influenza sempre più grande2.
Di nuovo, non se ne parla abbastanza (in Italia quasi per nulla),
ma è un fatto che l’’affidarsi completamente alle associazioni
umanitarie sul campo o addirittura farsi pagare vitto e alloggio
equivale a una forma di «embedding» non molto diversa da
quella di cui si è molto discusso quando a «scortare» e assistere i
reporter sono stati eserciti e governi. «Beneficent embedding»,
l’’hanno definito Simon Cottle e David Nolan. Ma sempre di
giornalismo embedded si tratta: quello che il reporter vede e rac-
conta non può che essere filtrato dalla prospettiva di quella par-
ticolare organizzazione e della sua agenda «politica» ed economi-
ca (Cottle-Nolan, 2007).
La convinzione che nel raccontare le crisi i criteri di oggettività e
completezza applicati ad altri «assignment» conti relativamente
meno è molto forte, forse inconsapevolmente, nella maggior parte
dei giornalisti. Eppure «essere embedded con una agenzia uma-
nitaria significa che un giornalista può operare solo in un territo-
rio chiuso, sia per ragioni di sicurezza, sia per mancanza di tem-
po o per fedeltà all’’organizzazione che ha finanziato il viaggio»
(Kalcsics, 2011). Se tutto questo è chiaro al lettore quando si
tratta di embedding militare, perché non dovrebbe esserlo con
l’’embedding umanitario?
Il terzo incomodo: A mischiare le carte in questa relazione simbiotica e talvolta di-
i new media sfunzionale tra media e Ong negli ultimi anni è emerso un terzo
incomodo: il citizen journalism. Prendiamo lo tsunami del 2004
in Asia: è stato probabilmente il primo disastro le cui immagini
più significative sono arrivate da turisti e cittadini armati di te-
lefonini, macchine fotografiche e piccole videocamere, e non da
professionisti dell’’informazione. Un fenomeno destinato ad au-
mentare d’’importanza e di impatto: in Africa, in quell’’Africa di-
2 Il settore umanitario mondiale nel 2010 ha mobilitato 16,7 miliardi di dollari, di cui 11,7 prove-
nienti dai governi dei Paesi donatori, con una crescita dell’’85% rispetto al 2000 (AGIRE, 2010).
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6. Media e Ong: un altro giornalismo «embedded»?
menticata dai media, centinaia di milioni di persone hanno com-
prato un telefonino negli ultimi dieci anni, centinaia di milioni
di persone pronte a inviare la loro testimonianza. Ai mezzi di
informazione, ma anche alle Ong. «Le comunità sono abili a gio-
care il gioco dei media», racconta Christelle Chapoy di Oxfam.
«Ci è capitato che i capi villaggio venissero a dirci piuttosto aper-
tamente: se non rispondete alle nostre richieste chiameremo i
giornalisti» (Cooper, 2007). Un altro aspetto del cambiamento è
che quella che era una delle funzioni fondamentali delle Ong:
fornire delle foto, o dei «case studies» ai media, viene spesso as-
solta direttamente dai protagonisti.
Così anche gli operatori umanitari, per non farsi scavalcare, inve-
stono sempre di più sulle competenze giornalistiche e contempo-
raneamente si trasformano a loro volta in citizen journalist, crean-
do account Twitter, Facebook, YouTube, dove inserire le testimo-
nianze in tempo reale dalle zone di crisi. Le Ong sanno di avere
una potenza di fuoco sul terreno che i media a corto di fondi
possono solo sognare, e naturalmente tentano di usare al meglio
questa condizione per avanzare la loro agenda. E così gli uffici di
comunicazione si riempiono di giornalisti esperti, e sempre più
organizzazioni lavorano a garantire ai giornali, alle radio e alle tv
un prodotto finito. Sul sito di HRW, per esempio, c’’è una sessione
multimedia con testi, articoli, fotografie, illustrazioni e video già
confezionati. Non più solo testimonianze, materiale grezzo da
impastare in un articolo, ma direttamente il prodotto finito. «Sì,
agiamo come una redazione», conferma Sarah Jacobs di Save
the Children. Il protocollo di Oxfam per l’’ufficio stampa britan-
nico prevedeva già nel 2007 che gli addetti stampa inviati sui
luoghi di un disastro fossero dotati di telefonino internazionale,
telefonino locale, telefono satellitare, un portatile in grado di tra-
smettere agilmente video e una macchina fotografica digitale
(Kalcsics, 2011).
Il fenomeno è andato talmente oltre che a volte questi pezzi con-
fezionati vengono pubblicati dai giornali senza specificare la qua-
lifica dell’’autore. Come per l’’embedding, non è tanto per il fatto
in sé (tutto sommato si tratta di un buon modo di ovviare alla
mancanza di risorse dei media), quanto per la mancanza di tra-
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7. il lavoro dei giornalisti/2
sparenza nei confronti del lettore che qualche domanda bisogne-
rebbe cominciare a sollevarla.
Non esistono regole, né codici di comportamento, ma ci sono
organizzazioni giornalistiche che non hanno avuto problemi ad
esplicitare la propria collaborazione con l’’Ong di turno. Nel
2005, per esempio, il giornalista americano Ted Koppel introdus-
se un servizio sull’’Uganda del noto programma di approfondi-
mento dell’’ABC «Nightline», spiegando che era stato prodotto
insieme a una organizzazione non governativa: «...L’’International
Crisis Group voleva pubblicità per quello che sta accadendo in
Uganda. E noi, per dirla schiettamente, abbiamo la possibilità
di sottoporvi una storia affascinate a spese estremamente ridotte».
Avvalendosi della collaborazione di chi, essendo da tempo sul
terreno, conoscendo luoghi e dinamiche, avendo contatti ormai
rodati, riesce ad andare più in profondità del giornalista «para-
cadutato» sul posto per l’’occasione senza avere il tempo di fare
ricerche, selezionare e fissare interviste. E in effetti molto spesso il
lavoro di ricerca delle Ong sa essere più accurato e approfondito
di quello dei reporter. Anche per ragioni di tempo. «Non invidio
i miei ex colleghi alle prese con il ciclo dell’’informazione h24
sette giorni su sette», dice Dan Williams. La «bestia» va sempre
nutrita, e spesso in un profluvio di «se» e «pare» si scrivono pezzi
imprecisi se non falsi. Comunque non verificati. Sulla Siria, che
come scrive Anna Momigliano su Rivista Studio verrà ricordata
come la guerra di YouTube così come le rivoluzioni arabe del 2011
sono state ribattezzate «Twitter revolution», circolano moltissime
bufale (Momigliano, 2012). Raramente i video postati vengono
verificati e per tanti citizen journalist che rischiano la vita per far
arrivare qui il racconto della guerra, ce ne sono molti altri che
lucrano sul sangue. «Talvolta vengono (i video, ndr) presi per
buoni tout court, senza la minima verifica, più spesso vengono
classificati come ““da confermare””, nell’’attesa che qualcuno lo fac-
cia. Cosa che poi raramente qualcuno si prende la briga di fare».
Già perché a chi spetta la responsabilità di verificare le informa-
zioni? Ai media, alle Ong? «Noi, che ci occupiamo di violazione
dei diritti umani» –– dice Williams –– «usiamo sì i social media per
raccogliere indicazioni ma cerchiamo di non rilanciarle ufficial-
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8. Media e Ong: un altro giornalismo «embedded»?
mente senza verificarle. Non diamo informazioni in tempo reale.
Mettiamo che venga bombardata una scuola: non è una violazio-
ne dei diritti umani se è usata come avamposto militare. E in
quel caso non riguarda direttamente il nostro lavoro. Noi dobbia-
mo prima capire cosa è successo veramente e quando è possibile
scegliamo sempre di raccogliere le testimonianze attraverso inter-
viste faccia a faccia. E abbiamo tempo per farlo, non dobbiamo
costantemente rispondere al ciclo della notizia»3.
Naturalmente il discorso cambia un po’’ da Ong a Ong: per le
«advocacy organizations» come Amnesty International o HRW, che
fondano il loro lavoro sulla denuncia e la sensibilizzazione a una
causa, gli obiettivi e gli strumenti sono diversi da quelli di chi
opera costantemente sul campo, le «aid organizations», la cui prin-
cipale preoccupazione è raccogliere in poco tempo aiuti e soldi.
Un assillo che porta molte Ong a piegarsi alla logica della spet- Come i giornalisti,
tacolarizzazione delle crisi, per competere con un’’agenda dell’’in- nel bene e nel male
formazione che spesso preferisce il futile o il «vicino a casa». In
Media Coverage & Charitable Giving. After the 2004 Tsunami,
Philip Brown e Jessica Minty fanno l’’esempio del genocidio del
2004 in Rwanda: una prima copertura della tragedia umanita-
ria consentì alle agenzie di soccorso umanitario di raccogliere fon-
di sufficienti a occuparsi di centinaia di migliaia di profughi.
Finché il caso di O.J. Simpson non si mangiò l’’attenzione di tut-
ti i media (Brown-Minty, 2006).
Un famoso spot della Ong britannica Oxfam di quel periodo re-
citava: «O.J. Simpson può ricevere massimo dieci visitatori al
giorno». E sotto, in caratteri molto più piccoli: «Nelle altre noti-
zie: 500 mila ruandesi massacrati. Un altro mezzo milione lotta
per la vita nei campi per i rifugiati».
3 Ma a volte accade: Momigliano faceva l’’esempio di un video che documenterebbe l’’utilizzo da
parte del regime siriano di bombe a grappolo contro ribelli armati e civili. Bene, il sito di Hu-
man Rights Watch riportava questa dichiarazione di Steve Goose, direttore Divisione Armi della
Ong: «Questi video mostrano identificabili bombe a grappolo e submunizioni. Se confermato,
questo sarebbe il primo uso documentato di queste armi molto pericolose da parte delle forze
armate siriane durante il conflitto». Se confermato, appunto.
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9. il lavoro dei giornalisti/2
D’’altronde la storia degli ultimi dieci anni ci offre esempi molto
chiari della relazione tra media coverage e ammontare degli aiu-
ti. Lo tsunami del 2004 in Asia, il terremoto del 2010 ad Haiti:
disastri di proporzioni bibliche, ma anche disastri spettacolari,
che hanno potuto godere di quello che qualcuno ha definito
l’’«effetto CNN», una massiccia copertura mediatica in grado di
gonfiare a dismisura le donazioni governative e non.
Un destino che non appartiene a tutte le crisi. Secondo gli usu-
rati ma apparentemente sempre in auge criteri di notiziabilità i
media prediligono eventi singoli e imprevisti a crisi che si trasci-
nano da mesi se non anni, sono più inclini a scrivere di emer-
genze, quindi, soprattutto se facili da spiegare e non troppo com-
plesse politicamente.
I disastri naturali sono più «vendibili» e questo si riflette, sempre,
sugli aiuti che per quella crisi vengono raccolti. Il caso dello Tsuna-
mi è il più indicativo della storia recente –– a febbraio 2005 erano
stati raccolti 550 dollari per persona colpita dal disastro, contro i
9,40 per le persone coinvolte nel conflitto nella Repubblica demo-
cratica del Congo –– ma non l’’unico (Matthews, 2009).
Il confronto tra il terremoto di Haiti (gennaio 2010) e le alluvio-
ni in Pakistan (luglio-agosto dello stesso anno), è illuminante.
Nell’’isola morirono oltre 220 mila persone, per le inondazioni
circa 2mila. I profughi, quindi le persone bisognose di assistenza,
furono 1,8 milioni nel primo caso, sei milioni nel secondo. Ma i
morti fanno più notizia: dopo due settimane le donazioni per
ogni persona toccata dalla tragedia ammontavano a 157 dollari
per Haiti, 15,24 per il Pakistan (Ferris, 2012). Le immagini di un
disastro che in pochi secondi spazza via un’’isola sono più toccanti
e bucano lo schermo dell’’attenzione dei media più di una tragedia
«al rallentatore» come quella del Pakistan. Sono più «telegeniche»,
confessava sconsolato al «New York Times» John Holmes, coordi-
natore umanitario delle Nazioni Unite (MacFarquhar, 2010).
Conta poi la geografia: come per lo tsunami non solo la presenza
di occidentali nei luoghi colpiti, ma anche la loro familiarità con
quei posti, aveva inciso sulla copertura mediatica, così per Haiti
ha pesato la vicinanza agli Stati Uniti, la possibilità di andarci con
relativa facilità. E poi, moltissimo, conta la politica: il Pakistan è
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10. Media e Ong: un altro giornalismo «embedded»?
un paese complicato, percepito dall’’opinione pubblica come uno
dei principali covi dei terroristi talebani. La storia di Haiti è più
immediata: uno dei Paesi più poveri della Terra punito, come se
non bastasse, da una tragedia epica.
Un po’’ ipocriti, allora, i pochi articoli apparsi qua e là sulla
stampa italiana, dal «Corriere della Sera» (Isabella Fedrigotti,
«Gli sfollati del Pakistan e la solidarietà dimenticata», 21 agosto
2010) a «la Repubblica» (con un pezzo di Adriano Sofri del 7
settembre sulla terribile foto giunta da Peshawar di due bambini
aggrappati a un biberon vuoto e coperti di mosche) fino a «Il
Messaggero» (Roberto Romagnoli, «L’’Apocalisse dimenticata. In
milioni senza cibo né acqua, e la solidarietà questa volta fa flop»,
12 settembre 2010). I giornali in questione non hanno certo
cambiato la loro agenda dopo aver messo in prima un rimprovero
che non si capisce a chi sarebbe dovuto essere rivolto se non a
loro.
Haiti compare oltre trecento volte sul «Corriere» nel lasso di tempo
che va da gennaio a marzo 2010; per «Pakistan inondazioni» i
risultati sul motore di ricerca sono appena 21 da luglio a settem-
bre. Per Haiti il «Corriere», come altri giornali, avvia anche una
raccolta fondi in collaborazione con Agire, l’’agenzia per le risposte
umanitarie che raggruppa le Ong italiane. Il 22 gennaio, dieci
giorni dopo la catastrofe, la cassa conta già 8,7 milioni di euro.
Accade sempre più di frequente che i media intervengano in pri-
ma persona nella raccolta fondi (vedi le sottoscrizioni dei princi-
pali quotidiani e tg italiani per i terremoti che hanno colpito la
penisola negli ultimi 15 anni, dall’’Umbria all’’Emilia). E sarebbe
ipocrita negare che accanto al desiderio di dare una mano e al
«feel good factor» pesi in questo impegno un tornaconto in termi-
ni di interesse del lettore e numero di copie. Questa è la logica
dei media e a questa logica le Ong hanno imparato a rispondere,
vuoi per rassegnazione, vuoi per convenienza. «La mediatizzazio-
ne delle crisi umanitarie ha portato a una marketizzazione della
raccolta fondi», ammette Cecchini. «Le emergenze umanitarie
sono leve incredibili per raccogliere aiuti: hanno grande impatto,
facilità di narrazione e soprattutto non richiedono alcun livello di
analisi politica. Non ci sono buoni e cattivi, solo vittime».
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11. il lavoro dei giornalisti/2
E così a volte sono le stesse Ong a piegarsi ai criteri di notiziabi-
lità per le storie dal Terzo mondo, così sintetizzati con cinismo e
altrettanta sincerità da un ex corrispondente della BBC: un bam-
bino affamato (preferibilmente in lacrime); un centro di acco-
glienza, completo di madre con il seno raggrinzito, un operatore
umanitario (di solito bianco, di solito una donna, che combatte
contro ogni avversità), e il giornalista senza fiato e scioccato che
sottolinea quanto sia terribile il tutto (Cooper, 2007). Niente
attrae l’’attenzione dei media come una foto drammatica, un
numero per la conta dei morti o «quel pacchetto di notizia gla-
mour e patinata» come l’’Angelina Jolie di turno in visita a un
campo profughi.
Tutto questo porta a quello che Natalie Fenton definisce il pro-
cesso di «clonazione delle news», ossia «la pratica delle Ong di
fornire notizie che imitino o comunque rispondano alle richieste
dell’’agenda dei media mainstream», rinunciando di conseguenza
a cambiarla, quell’’agenda (Fenton, 2008). Secondo Simon Cottle
e David Nolan la subalternità delle Ong alla «media logic» si mi-
sura in molti modi, per esempio «in come le Ong cercano di creare
un brand per la loro organizzazione nei media in risposta a un
campo sempre più affollato e competitivo (in Italia viene in mente
l’’esempio di Emergency), o in come confezionano le storie in
modo pensato per attrarre noti interessi dei media» (Cottle-Nolan,
2009). E anche, cosa che ci introduce a un altro aspetto del rap-
porto giornalisti-operatori umanitari, «in come spendono tempo
prezioso, risorse ed energie per salvaguardare la loro reputazione
e credibilità contro i rischi degli scandali esposti dai media».
Amore-odio Sì perché molto spesso i media oscillano tra il fornire al pubblico
«storie di donazioni semplicistiche che non danno tempo e spazio
per indagare sul come» e «una puntuta e sempre più polemica
critica delle Ong» (Kalcsics, 2011). Una totale rinuncia a spiegare
la complessità di queste operazioni sul campo prima salvo ri-
spondere a logiche sensazionalistiche nella denuncia poi. La veri-
tà è che il lavoro delle organizzazioni umanitarie è estremamente
sfaccettato e duro e complicato, e spesso richiede anche di venire
a patti con i «cattivi» della storia. L’’operatore umanitario in
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12. Media e Ong: un altro giornalismo «embedded»?
Burundi che offre cibo ai ribelli per evitare che facciano razzia
delle minime risorse dei civili cosa potrebbe aspettarsi dal giorna-
lista che lo scoprisse? Un racconto che spieghi la situazione o uno
di denuncia della Ong che «nutre il conflitto»? La seconda, so-
stiene per esperienza quell’’operatore (Avril, 2004).
L’’11 gennaio del 2011, un anno dopo il terribile terremoto di
Haiti, BBC Radio 4 mandò in onda un documentario di 45 mi-
nuti intitolato «Haiti e la verità sulle Ong», in cui si chiedeva se
quello che era accaduto sull’’isola, la ricostruzione a rilento nono-
stante miliardi di dollari di donazioni, non fosse «sintomatico di
una più ampia crisi dell’’umanitarismo». Un servizio che scatenò
le ire di molte organizzazioni: «L’’assoluta mancanza di riconosci-
mento per quello che è stato fatto nell’’ultimo anno è irresponsa-
bile e fuorviante», tuonò Barbara Stocking, Presidente esecutivo
di Oxfam GB (Kalcsics, 2011). E certo mancava quasi del tutto
l’’autocritica per aver contribuito, come abbiamo visto, alla spro-
porzionata raccolta di fondi. A siderale distanza come livello di
approfondimento giornalistico, ma altrettanto utile a capire come
oscilla il pendolo del rapporto media-Ong, c’’è un servizio di
Unomattina andato in onda il 16 luglio scorso, intitolato «Profit
a chi?». Il montato e il dibattito successivo partiva dal caso della
finta onlus dell’’attore Edoardo Costa per sparare una denuncia a
tratti poco circostanziata al mondo non profit.
«Il problema della Ong che sbaglia o peggio ancora che truffa è
che ci danneggia tutti. Non è un settore, il nostro, in cui se un
““concorrente”” fa un errore gli altri se ne avvantaggiano. No, la
mela marcia la paghiamo tutti», dice Greta Nicolini, Responsa-
bile Ufficio stampa Intervita Onlus.
E di mele marce ce ne sono, eccome. A volte sono le Ong locali,
più piccole, a mancare di trasparenza quando non a ricorrere
all’’imbroglio vero e proprio. Hanno meno da perdere in termini
di reputazione rispetto a grandi organizzazioni, e capita che gio-
chino sporco su casi che calamitano l’’attenzione internazionale.
Per esempio quest’’estate mentre scrivevo del caso di una bambi-
na pachistana cristiana accusata di blasfemia ho raccolto la de-
nuncia del ministro per l’’armonia nazionale, Paul Bhatti, sul
comportamento infame di alcune Ong locali che chiedevano soldi
183
13. il lavoro dei giornalisti/2
per l’’assistenza legale e la protezione della piccola, cose di cui lui
si era personalmente occupato.
Detto tutto questo, se è vero che i media dovrebbero offrire una
copertura più equilibrata dei successi e delle disfatte delle Ong, è
anche vero che queste dovrebbero cominciare a fare i conti con la
necessità di una maggiore trasparenza. «Lo facciamo in conti-
nuazione, ci autocensuriamo», confessa Dominic Nutt di World
Vision’’s. «Sappiamo che un grosso donatore ci impedisce di par-
lare di [...] una compagnia petrolifera in Birmania. Siamo tutti
preoccupati di essere cacciati dall’’Etiopia quindi nessuno di noi
si alzerà a dire che il governo è responsabile di affamare i bambi-
ni. Non parliamo di politica, non siamo adulti sulle difficoltà che
affrontiamo [...] non siamo onesti» (Nguyen, 2011).
E non lo sono i giornalisti, che non ne parlano perché sono em-
bedded, o perché una storia semplice senza buoni e cattivi, come
diceva Cecchini, ma solo con vittime, funziona meglio, e vende di
più. Ma se è vero che gli uni e gli altri sono più abituati al frame
semplicistico secondo cui «due dollari al mese possono salvare il
mondo», è anche vero che quel frame non riesce più a contenere
la realtà. Non ci riesce in un mondo in cui le vittime non sono
più solo oggetto –– degli aiuti e della copertura mediatica –– ma
anche soggetto attivo. In cui –– non sempre ma sempre più spesso
–– possono far arrivare la loro voce senza mediazioni.
Ong e media hanno poca scelta: dovranno imparare a essere più
trasparenti, singolarmente e sul rapporto simbiotico che ormai li
unisce.
Riferimenti bibliografici
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