Analisi molto interessante di Morgan Stanley sulla interconnessione delle politiche monetarie delle banche centrali e di come la FED debba tener conto di quanto succede nel mondo.
1. INVESTMENT MANAGEMENT
Il mondo perseguita la Fed
La Federal Reserve sembra scoprire che il mondo conta un mese,
per poi dimenticarsene in quello successivo. A settembre la Fed ha
rinviato la tanto attesa manovra di innalzamento dei tassi d’interesse
adducendo una motivazione insolita per giustificare il ritardo, ossia che
alla luce della debolezza della congiuntura globale un inasprimento
monetario appariva prematuro. La scorsa settimana, la Fed ha ancora
una volta rinviato la manovra, ma ha evitato ogni riferimento alle
condizioni economiche globali e segnalato di nuovo che il prossimo
rialzo potrebbe arrivare già a dicembre. Il comportamento altalenante
della Fed ci spinge a ricordare quello che gli avvenimenti recenti ci
hanno insegnato: l’economia e i mercati mondiali sono oggi più che
mai sensibili ai minimi segnali di mutamento della politica monetaria
statunitense e la loro reazione ha (a sua volta) ripercussioni sempre più
marcate sull’economia degli stessi Stati Uniti.
Seppure con riluttanza, la Fed era parsa accettare di miglior grado l’idea che i fattori
esterni contano. Non molto tempo dopo che la Fed aveva lanciato il suo esperimento di
quantitative easing (Qe), nel 2008, i governatori delle banche centrali e i ministri delle
finanze di tutto il mondo emergente cominciarono ad ammonirla sulle ripercussioni
che questa politica avrebbe avuto. Sostenevano che le politiche monetarie estremamente
accomodanti degli Stati Uniti spingevano al rialzo le valute dei paesi emergenti, minando
la competitività delle loro esportazioni e attraendo una marea destabilizzante di “hot
money” nei loro mercati finanziari. Nel 2010, il ministro delle finanze brasiliano
Guido Mantega dichiarò che la Fed stava provocando “guerre valutarie”. “La liquidità è
talmente abbondante da costituire una potenziale minaccia” ammonì Subir Gokarn, vice
governatore della banca centrale indiana. “Questi flussi di capitale a breve termine turbano
le economie emergenti” chiosò il governatore della banca centrale di Taiwan, Perng Fai-
Nan. A giugno 2013, subito prima di assumere la carica di governatore della banca centrale
indiana, Raghuram Rajan definì il programma di Qe “un salto nel buio” che distorceva i
segnali sui prezzi e alimentava le bolle speculative del credito e degli investimenti.
Inizialmente, i funzionari della Fed risposero che i timori del mondo erano esagerati
e che, in ogni caso, questo problema non li riguardava. Nel 2012, secondo l’allora
presidente della Fed, Ben Bernanke, non era affatto dimostrato che “le politiche
accomodanti attuate nelle economie avanzate comportassero costi netti per le economie
dei mercati emergenti” e che, in realtà, stimolando la spesa e la crescita negli Usa,
la politica monetaria statunitense aveva “l’effetto di sostenere anche la congiuntura
mondiale”. La ripresa era in atto – debole, ma c’era – perché quindi allarmarsi? La
preoccupazione dei leader dei mercati emergenti era dettata dal timore che quando la Fed
avesse interrotto il programma di Qe, i flussi di hot money avrebbero improvvisamente
invertito rotta, cosa che si è puntualmente verificata nel “taper tantrum” che ha tenuto
sulle spine i mercati emergenti nell’estate del 2013. Alle preoccupazioni di Rajan e di altri,
COMMENTO | NOVEMBRE 2015
Storie dal mondo emergente
AUTORI
TEAM GLOBAL EMERGING MARKET
EQUITY
AD USO ESCLUSIVO DEI CONSULENTI PROFESSIONISTI
2. 2
STORIE DAL MONDO EMERGENTE
i funzionari della Fed opposero una risposta secca: “Non
baseremo la nostra politica solo sulla volatilità dei mercati
emergenti” dichiarò nell’agosto di quell’anno James Bullard,
presidente della Fed di St. Louis. “Va ricordato che siamo
un’emanazione giuridica del Congresso e che il nostro unico
mandato è preoccuparci degli interessi degli Stati Uniti”
aggiunse Dennis Lockhart, Presidente della Fed di Atlanta.
“Gli altri paesi devono semplicemente riconoscere questo
dato di fatto e adeguarsi a noi se questo è rilevante per le
loro economie”.
Ciò che questa visione non riconosceva era il ruolo che la
Fed, ora più che mai, riveste come banca centrale del mondo.
Essa determina, sempre di più, i margini di manovra delle
altre banche centrali. È vero che la quota della produzione
mondiale attribuibile agli Stati Uniti è scesa al 23%,1
quasi ai
minimi nella storia del dopoguerra.
Tuttavia, l’egemonia finanziaria americana continua a essere
incontrastata e il dollaro resta la valuta dominante; gran
parte degli scambi mondiali sono effettuati in dollari, anche
nel caso di transazioni che non coinvolgono una controparte
statunitense. Più della metà delle passività bancarie globali
è denominata in dollari e oltre il 60% delle riserve valutarie
ufficiali è detenuto in dollari.2
Negli ultimi 15 anni tali riserve
sono cresciute vertiginosamente, da un valore complessivo
inferiore a 3000 miliardi di dollari Usa a 12.000 miliardi
(18.000 miliardi se si includono i fondi sovrani).3
Più della
metà delle riserve è stata accumulata in Cina e in altri paesi
asiatici e questo forte incremento è stato in larga misura
alimentato dal denaro facile messo in circolazione dalla Fed.
Ora la Fed è perseguitata dalla sue stesse politiche. Nel
periodo antecedente al 2009, tutto l’incremento delle riserve
valutarie globali era riconducibile ai flussi delle partite
correnti; da allora, tuttavia, i movimenti in conto capitale
hanno svolto un ruolo sempre più rilevante e il loro contributo
alla crescita delle riserve globali è passato da zero a un
terzo.4
Questi flussi finanziari globali sono stati trainati da
un’accelerazione dei flussi di capitali in dollari che uscivano
dagli Stati Uniti dopo l’istituzione del programma di Qe. E
la quota in dollari di alcuni flussi finanziari fondamentali è
salita bruscamente. In particolare, l’ammontare dei prestiti
in dollari concessi a debitori al di fuori degli Stati Uniti è
salito a 9000 miliardi di dollari Usa, il doppio rispetto al
2009. Questi prestiti rappresentano il 75% degli impieghi
complessivi a favore di non residenti.5
Gran parte di quei
prestiti in dollari è sotto forma di obbligazioni e gli investitori
obbligazionari sono estremamente sensibili ai tassi d’interesse
1
Fonte: Fmi, Banca Mondiale. Dati a ottobre 2015.
2
Fonte: International Financial Statistics, Swift, Bri, Msim Em Research.
Dati a ottobre 2015.
Figura 1: Il mondo vive una singolare recessione in termini di dollari
Pil globale nominale in Usd
Fonte: Fmi, Msci World Index. Dati a ottobre 2015.
-15,00%
-10,00%
-5,00%
0,00%
5,00%
10,00%
15,00%
20,00%
-60,00%
-40,00%
-20,00%
0,00%
20,00%
40,00%
60,00%
80,00%
3.1.81
8.1.82
5.1.83
1.1.84
6.1.85
11.1.86
9.1.87
4.1.88
9.1.89
12.1.90
2.1.91
7.1.92
12.1.93
2.1.94
5.1.95
10.1.96
9.1.97
3.1.98
8.1.99
6.1.00
1.1.01
6.1.02
11.1.03
2.1.04
4.1.05
9.1.06
10.1.07
2.1.08
7.1.09
12.1.10
6.1.11
5.1.12
10.1.13
3.1.14
2.1.15
Msci World (a/a Usd) Pil globale nominale (a/a Usd)
MsciWorld(a/aUsd)
Pilglobalenominale(a/aUsd)
3
Fonte: Fmi, International Financial Statistics, Sovereign Wealth Fund
Institute, Bank of America Merrill Lynch, Msim Em Research. Dati a
ottobre 2015.
4
Fonte: Deutsche Bank, Fmi, Haver Analytics. Dati a settembre 2015.
Ricerca. Dati a ottobre 2015.
5
Fonte: Bri. Calcoli a cura di Msim. Dati a ottobre 2015.
3. 3
IL MONDO PERSEGUITA LA FED
statunitensi, il che contribuisce a spiegare perché oggi i
mercati finanziari reagiscono a ogni minimo segnale di
inasprimento monetario da parte della Fed.
È sempre più difficile trascurare questo fatto. Nel secondo
semestre dello scorso anno, con la conclusione del programma
di Qe, il valore del dollaro ha cominciato a salire e il ciclo
ha iniziato a invertire rotta, proprio come avevano temuto i
banchieri centrali dei paesi emergenti. Il rafforzamento del
dollaro ha fatto salire i costi del credito per i mutuatari esteri
che avevano contratto nuovi debiti in dollari, penalizzando i
bilanci e gli utili degli emittenti societari e pregiudicando la
crescita economica. In un mondo in cui i mercati emergenti
sono molto più aperti ai flussi di capitali di quanto non
fossero in passato, l’economia globale si rivela ipersensibile
a qualsivoglia segnale di mutamento della politica della
Fed. Con il rafforzamento del dollaro e il rapido reflusso dei
capitali verso gli Stati Uniti, le riserve valutarie globali hanno
raggiunto il massimo a luglio 2014 e da allora sono diminuite
di 700 miliardi di dollari, un calo riconducibile soprattutto
alla Cina.6
Il nuovo governatore della banca centrale
brasiliana, Alexandre Tombini, ha recentemente avvertito
che la prospettiva di un innalzamento dei tassi statunitensi
potrebbe generare un effetto “aspirapolvere”, estraendo dollari
dalle economie emergenti.7
Un cambiamento di tale portata non può essere ignorato
dai funzionari della Fed, soprattutto perché per l’economia
statunitense il mondo riveste maggiore importanza di
quanto non avesse anche solo dieci anni fa. Nell’attuale
ripresa, la crescita delle esportazioni ha contribuito per circa
il 15% alla crescita del Pil statunitense, il doppio rispetto al
contributo medio fornito nelle riprese precedenti. Oggi, le
fonti estere rappresentano un terzo dei ricavi delle società
statunitensi, rispetto a un quarto quindici anni fa.8
Il
risultato è che le politiche della Fed che causano instabilità
nei mercati emergenti rimbalzano più rapidamente verso
gli Stati Uniti. Nel verbale della sua riunione di settembre,
la Fed ha citato la Cina e gli sviluppi globali sedici
volte – un numero insolitamente alto, forse addirittura
un record – e ha riconosciuto che l’apprezzamento del
dollaro e il rallentamento congiunturale in Cina e in altri
mercati emergenti “potrebbero in qualche modo frenare
l’attività economica.” Questo è parso il primo passo verso
il riconoscimento che, di fatto, la volatilità finanziaria dei
mercati emergenti è importante per l’economia statunitense.
Sfortunatamente, questa frase è scomparsa dall’annuncio della
scorsa settimana (il verbale integrale della riunione non verrà
diffuso prima che siano trascorse diverse settimane).
La Fed è parsa rispondere a segnali che annunciavano una
stabilizzazione delle condizioni globali, ma le ragioni per
confutare questa visione non mancano. Misurato in dollari,
il Pil mondiale dovrebbe ridursi di circa il 5% quest’anno,
il che rappresenterebbe la terza contrazione del Pil nominale
subita dall’economia globale dal 1980. Ogni volta che
ciò si è verificato in passato, i mercati azionari globali si
sono mossi immancabilmente al ribasso perché i profitti
subiscono contraccolpi in tali contesti (Figura 1). Una grande
preoccupazione è rappresentata dalla Cina dove la volatilità dei
flussi in dollari minaccia un’economia che ha tolto agli Stati
Uniti il primato di maggiore contributore alla crescita globale.
Il 12 ottobre, Lou Jiwei, il ministro delle finanze cinese, ha
dichiarato che gli Stati Uniti “per le loro responsabilità globali,
non possono innalzare i tassi” in considerazione del danno che
provocherebbero in molti paesi in via di sviluppo che legano il
valore della propria valuta al dollaro, e la Cina è l’esempio più
lampante. Persino il mese scorso, il vice presidente della Banca
centrale europea, Victor Constancio, ha sostenuto che la Fed
non può essere esclusivamente focalizzata a mettere ordine a casa
propria, perché gli “effetti di spillover innescati dalla politica
monetaria statunitense sull’economia globale potrebbero essere
maggiori di quelli avvertiti nell’economia statunitense”.
Le politiche del denaro facile attuate dalla Federal Reserve
hanno contribuito a stimolare la crescita economica su scala
mondiale, quanto meno temporaneamente; la Fed, tuttavia,
ha ignorato i segnali di allarme riguardanti gli eccessi che
quelle politiche stavano creando, tra cui bolle di credito e dei
prezzi delle attività. Ora, quei segnali di allarme riemergono
e ossessionano la Fed visto che, ogni volta che tenta di
innalzare i tassi, i mercati globali reagiscono negativamente, e
la minaccia che gli effetti possano propagarsi agli Stati Uniti
costringe la Fed a ripensarci. Ciò che accadrà in futuro non
è chiaro, ma la lezione sembra piuttosto semplice: il mondo
conta – o dovrebbe contare – per la Fed.
Morgan Stanley
Investment Management9
Morgan Stanley Investment Management, assieme alle
consociate specializzate in servizi di consulenza d’investimento,
vanta un organico formato da 596 professionisti d’investimento
dislocati in tutto il mondo e al 30 settembre 2015 gestiva o
vigilava attività per 404 miliardi di dollari. Morgan Stanley
Investment Management offre strumenti d’investimento
strutturati per generare rendimenti di lungo termine superiori,
un servizio d’eccellenza e una vasta gamma di soluzioni
finanziarie dedicate a un portafoglio di clienti estremamente
variegato, tra cui figurano governi, istituzioni, grandi aziende e
privati di tutto il mondo. Per maggiori informazioni consultare
il sito www.morganstanley.com/im. Il materiale contenuto in
questo articolo è aggiornato alla data indicata, ha solo natura
formativa e non pretende di rispondere agli obiettivi finanziari,
alla situazione o alle esigenze specifiche dei singoli investitori.
6
Fonte: International Financial Statistics. Dati a ottobre 2015.
7
New York Times. Dati a ottobre 2015.
8
Fonte: Ubs, Hsbc. Dati a ottobre 2015.
9
Fonte: patrimonio gestito al 30 settembre 2015. Morgan Stanley
Investment Management (“Msim”) è la divisione di asset management di
Morgan Stanley. Gli attivi sono gestiti dai team rappresentanti le diverse
entità giuridiche di Msim; i team di gestione di portafoglio lavorano
principalmente dagli uffici di New York, Filadelfia, Londra, Amsterdam,
Hong Kong, Singapore, Tokyo e Mumbai. Le cifre si riferiscono al patrimonio
totale gestito/amministrato da Morgan Stanley Investment Management.