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L’INSOSTENIBILITÁ DELLO SVILUPPO ‘SOSTENIBILE’
di
Alberto Brandi
Una certa “opposizione” (di sinistra quanto di “destra”) ama il pensiero e la contestazione debole.
Essa, in apparenza, è adornata di belle parole, contesta le scelte del capitale e del liberismo, ma
nei fatti non vi si oppone ma, anzi, vi contrappone idee ipocrite e deboli: tra di esse, di drammatica
attualità nel centralissimo problema dell’ecologia, quello del cosiddetto “sviluppo sostenibile”.
Una devastazione dell’ecosistema a “rate” invece che immediata?
E se invece di marciare sull’acquitrinoso sentiero del capitale non lo invertissimo? La
nazionalizzazione dell’economia e il corporativismo non sono idee nate ieri…
Diciassette anni non sono pochi.
Tanti ne sono passati da quando fu pubblicato l’importante libro di Enzo Tiezzi “Tempi storici,
tempi biologici” (Garzanti, 1987). Tiezzi, docente di chimica fisica, si chiedeva allora perché la
sinistra (a sua opinione l’unica opposizione) concentrasse la sua attenzione quasi unicamente ai
problemi macroeconomici e a quelli legati ai processi di produzione e non alla realtà e alla storia
nella sua interezza: ovvero alla storia naturale (che non è solo storia umana, come
l’antropocentrismo dominante ci inculca fin dalla nascita) e alla comprensione della posizione
dell’uomo in un ambiente naturale maturato milioni di anni prima del suo avvento.
Tralasciando le critiche ovvie alla visione “da sinistra” di Tiezzi (insomma, se quell’idea si auto-
denominò “materialismo storico” una ragione ci sarà stata) gli si deve rendere merito di aver
finalmente posto, a livello politico ed ecologico, un problema di enorme rilevanza: ovvero, che vi è
una divaricazione tra i cosiddetti “due tempi”: i “tempi storici” - quelli legati allo sviluppo umano e
che sono caratterizzati da una drammatica distruzione di quegli equilibri e di quelle risorse che la
Natura , con i suoi “tempi biologici”, ha impiegato ere intere a costituire.
I tempi storici tendono quindi a contrarsi: basti pensare al rapidissimo “sviluppo” che l’uomo ha
compiuto in pochi millenni, mutando radicalmente un ambiente costituitosi in lassi temporali
inimmaginabili. Volendo esemplificare con un paragone riferito alla società umana, è come se un
neonato di pochi mesi riuscisse a sconvolgere e a far decadere un’intera nazione con secoli di storia.
Come molti scienziati italiani ed esteri hanno rilevato negli ultimi quindici anni, i tempi storici sono
destinati a provocare la fine dei tempi biologici. Questo naturalmente non significa, come molti
immaginano - rinchiusi nel loro individualismo antropocentrico -, che l’uomo causerà
“l’Apocalisse” o una hollywoodiana fine del mondo (l’attitudine decadentista del “muoia Sansone
con tutti i Filistei”), ma semplicemente implica che la Natura sarà (è!) costretta ad azzerare i suoi
tempi biologici, e questo comporterà l’estinzione di quello che la Terra percepisce (secondo la
teoria che vede il nostro pianeta come un vero e proprio organismo vivente) come il “parassita-
uomo”.
Lo si ripete quasi come una litania o un esorcismo: l’uomo sta distruggendo l’ecosistema e sé
stesso. Ma al contempo la nostra società è sempre più malata di un positivismo assurdo,
propagandato dai media, che inebetisce i popoli con le sue nuove droghe tecnologiche e fittizie.
Nonostante il surriscaldamento del pianeta, nonostante i paradisi naturali che vengono soppressi
sistematicamente con il tacito benestare dei media ( basti pensare all’oasi del Danubio, che verrà
spazzata via da uno dei geniali progetti della UE o la nuova diga in Cina, che determinerà la fine di
aree protette e dell’agricoltura tradizionale, ma soprattutto il detestabile e immorale fenomeno dei
paesi discarica: Uganda, Kenya e altri paesi africani che accettano rifiuti tossici e radioattivi in
cambio di prestiti), le “magnifiche sorti e progressive” sono sempre la chimera degli occidentali
odierni. Ma il tempo stringe, e l’inganno ordito dal grande capitale e dal liberismo più sfrenato sta
portando l’uomo a un punto di non ritorno. Il concetto dei tempi storici, e quindi l’applicazione
dell’approccio termodinamico alla storia rompe il concetto della circolarità e della riproducibilità
eterna (paventata dal capitalismo) di tempo ed energia.
Il tempo, l’energia, le risorse, non sono infiniti. Stiamo arrivando al termine del cosiddetto circuito
della riproducibilità, e l’inganno e l’illusione del capitale presto svaniranno. Ma il nostro non vuole
essere un vano catastrofismo o una decadente teleologia. Il nostro vuole essere un invito ad aprire
gli occhi e una critica radicale anche a certe cosiddette “opposizioni” che oppongono alle logiche
liberiste quello che noi identifichiamo come un vero e proprio “pensiero debole”: ovvero quello
dello “sviluppo sostenibile”.
Questa teoria, che ha guadagnato consensi ipocriti da ogni parte degli schieramenti politici classici
all’interno della UE (soprattutto il centro-sinistra e le formazioni ecologiste, mentre in genere le
formazioni di destra liberista ignorano completamente il problema - e non consideriamo nemmeno
gli USA o la Cina, che non comprendono neanche vagamente l’idea), teorizza uno sviluppo
compatibile tra l’espansione antropica e la conservazione delle risorse naturali.
All’analisi scientifica dei fatti (e quindi non in base a chiacchiere da bar o da sezione) quello dello
sviluppo sostenibile appare invece l’ennesima prova di un pensiero debole e connivente (come –
pensiamo all’Italia – in riferimento alla questione immigrazione o criminalità).
Questo perché?
Perché, innanzitutto, le dinamiche economiche globali ci dimostrano che è la crescita economica a
non essere sostenibile: una limitazione della crescita economica (quindi dei classici inumani
processi di produzione e consumo) è contraddittoria alle formulazioni di base del capitalismo e del
liberismo. Nel processo del capitale globale è impossibile ridurre o arginare i processi produttivi, in
quanto la nostra sovrapproduzione e il consumo delle risorse è talmente rapido da rendere inutile un
qualsiasi concetto di “limitazione produttiva”. L’alternativa reale è quella dello sviluppo senza
crescita, ovvero dell’avanzamento scientifico non asservito alle logiche di produzione e che quindi
sia svincolato dal concetto che da un oggetto utile ne debbano essere obbligatoriamente prodotti
milioni. Il parametro che va sconfitto è quello della crescita obbligata dell’economia: infatti, per una
legge economica basilare, la crescita incrementa i consumi, cosa che di conseguenza aumenta
l’inquinamento.
È infatti la crescita incontrollata (quella del mercato globale attuale) ad essere la contraddizione di
fondo della sostenibilità ambientale. Questa teorizzazione è bellamente ignorata, parlando
dell’Italia, sia dal liberismo sfrenato di Berlusconi che dal materialista storico no global (?)
Bertinotti, la cui attenzione è sempre focalizzata su stantii concetti astratti di “redistribuzione della
ricchezza” di marxiana memoria invece che su processi economici alternativi reali.
Forse darà fastidio, ma l’unica soluzione che ci pare di suggerire, di fronte allo scempio che ci
sconforta, è quello della socializzazione e della nazionalizzazione corporativa dell’economia, che
come le politiche ambientali dell’Italia degli anni ’30 prima e della RSI dopo ci hanno insegnato,
sono mirate all’integrazione dell’individuo nel suo ambiente invece che sull’effimero “dominio” su
di una Terra che non ci è nemica, ma Madre.
3/7/2004

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  • 2. odierni. Ma il tempo stringe, e l’inganno ordito dal grande capitale e dal liberismo più sfrenato sta portando l’uomo a un punto di non ritorno. Il concetto dei tempi storici, e quindi l’applicazione dell’approccio termodinamico alla storia rompe il concetto della circolarità e della riproducibilità eterna (paventata dal capitalismo) di tempo ed energia. Il tempo, l’energia, le risorse, non sono infiniti. Stiamo arrivando al termine del cosiddetto circuito della riproducibilità, e l’inganno e l’illusione del capitale presto svaniranno. Ma il nostro non vuole essere un vano catastrofismo o una decadente teleologia. Il nostro vuole essere un invito ad aprire gli occhi e una critica radicale anche a certe cosiddette “opposizioni” che oppongono alle logiche liberiste quello che noi identifichiamo come un vero e proprio “pensiero debole”: ovvero quello dello “sviluppo sostenibile”. Questa teoria, che ha guadagnato consensi ipocriti da ogni parte degli schieramenti politici classici all’interno della UE (soprattutto il centro-sinistra e le formazioni ecologiste, mentre in genere le formazioni di destra liberista ignorano completamente il problema - e non consideriamo nemmeno gli USA o la Cina, che non comprendono neanche vagamente l’idea), teorizza uno sviluppo compatibile tra l’espansione antropica e la conservazione delle risorse naturali. All’analisi scientifica dei fatti (e quindi non in base a chiacchiere da bar o da sezione) quello dello sviluppo sostenibile appare invece l’ennesima prova di un pensiero debole e connivente (come – pensiamo all’Italia – in riferimento alla questione immigrazione o criminalità). Questo perché? Perché, innanzitutto, le dinamiche economiche globali ci dimostrano che è la crescita economica a non essere sostenibile: una limitazione della crescita economica (quindi dei classici inumani processi di produzione e consumo) è contraddittoria alle formulazioni di base del capitalismo e del liberismo. Nel processo del capitale globale è impossibile ridurre o arginare i processi produttivi, in quanto la nostra sovrapproduzione e il consumo delle risorse è talmente rapido da rendere inutile un qualsiasi concetto di “limitazione produttiva”. L’alternativa reale è quella dello sviluppo senza crescita, ovvero dell’avanzamento scientifico non asservito alle logiche di produzione e che quindi sia svincolato dal concetto che da un oggetto utile ne debbano essere obbligatoriamente prodotti milioni. Il parametro che va sconfitto è quello della crescita obbligata dell’economia: infatti, per una legge economica basilare, la crescita incrementa i consumi, cosa che di conseguenza aumenta l’inquinamento. È infatti la crescita incontrollata (quella del mercato globale attuale) ad essere la contraddizione di fondo della sostenibilità ambientale. Questa teorizzazione è bellamente ignorata, parlando dell’Italia, sia dal liberismo sfrenato di Berlusconi che dal materialista storico no global (?) Bertinotti, la cui attenzione è sempre focalizzata su stantii concetti astratti di “redistribuzione della ricchezza” di marxiana memoria invece che su processi economici alternativi reali. Forse darà fastidio, ma l’unica soluzione che ci pare di suggerire, di fronte allo scempio che ci sconforta, è quello della socializzazione e della nazionalizzazione corporativa dell’economia, che come le politiche ambientali dell’Italia degli anni ’30 prima e della RSI dopo ci hanno insegnato, sono mirate all’integrazione dell’individuo nel suo ambiente invece che sull’effimero “dominio” su di una Terra che non ci è nemica, ma Madre. 3/7/2004