1. Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
Facoltà di Economia “Marco Biagi”
Master Universitario di I Livello
“Mercati del lavoro, Intermediazione,
Prevenzione e Sicurezza”
Anno Accademico 2005/2006
“La responsabilità civile del datore di lavoro in tema
di infortuni sul lavoro e malattie professionali”
Relatore
Prof. Francesco Basenghi
Candidata
dott.ssa Rosa Pinneri
2. INDICE
Introduzione
pag.
3
PARTE I :
L’OBBLIGO DI SICUREZZA
capitolo 1:
Cenni storici
pag.
4
capitolo 2:
natura giuridica dell’obbligazione di sicurezza
pag.
11
2.1
terorie extracontrattualistiche e pubblicistiche
pag.
11
2.2
teorie contrattualistiche
pag.
13
2.3
carattere bifrontale dell’art. 2087 c.c.
pag.
14
Capitolo 3: Il contenuto dell’obbligazione
pag.
15
Capitolo 4: I soggetti
pag.
19
4.1
Il datore di lavoro
pag.
20
4.2
Dirigenti e preposti
pag.
23
4.3
Il lavoratore
pag.
25
PARTE II
RESPONSABILITÀ E RISARCIMENTO
Capitolo 1: Lo speciale regime di responsabilità: il principio del parziale
esonero
1.1
Il rischio professionale
pag.
27
1.2
l’art. 10 del D.P.R. 1124/1965
pag.
31
pag.
34
Capitolo 2: Il danno
2.1
Il danno risarcibile
pag.
34
2.2
l’assicurazione obbligatoria: oggetto e prestazioni
pag.
42
pag.
48
Capitolo 3: Le azioni di risarcimento
3.1
Le azioni di rivalsa dell’INAIL: regresso e surroga
pag.
48
6.2
Le azioni del lavoratore
pag.
51
pag.
57
pag.
57
pag.
60
pag.
65
Capitolo 4: Il ruolo dell’assicuratore privato
4.1
il contratto di responsabilità civile
4.2
l’assicurazione della responsabilità civile verso
prestatori di lavoro
BIBLIOGRAFIA
2
3. INTRODUZIONE
La tematica della responsabilità civile per infortunio sul lavoro si inserisce a pieno titolo
nella materia della sicurezza del lavoro che vive, nel nostro Paese, alterne vicende.
L’anno appena trascorso si è chiuso con un bilancio assai pesante per il mondo del lavoro,
che ha contato oltre un milione di infortuni e più di mille morti. Queste cifre, davvero
inquietanti, hanno indotto il Capo dello Stato, nel tradizionale messaggio di fine anno, ad
un monito forte, con il quale ha ribadito che “…una società più giusta, libera e aperta può
anche essere più sicura, attraverso il richiamo severo, che non deve mancare, al rispetto
delle leggi, delle regole, dei doveri…”.
E’ un messaggio assai significativo, che induce a sperare che la sicurezza sul lavoro inizi
ad essere intesa non solo come costo, ma come valore. In questo senso pare di poter
leggere lo schema di disegno di legge presentato il 17/2/2007 recante “Delega al Governo
per l’emanazione di un testo unico per il riassetto normativo e la riforma della salute e
sicurezza sul lavoro” con il quale il Governo, “in conformità all’art. 117
della
Costituzione e garantendo l’uniformità della tutela dei lavoratori sul territorio nazionale..”
proceda ad un riordino dell’ intera
normativa (penale, civile, amministrativa) della
Sicurezza sul lavoro.
L’approccio giuridico qui affrontato non ha sicuramente la pretesa di essere esaustivo di
un tema multidisciplinare e dalle mille sfaccettature, che coinvolge le diverse forze sociali
ed il sistema produttivo nel suo insieme, ma può aiutare, seppure nella sintesi che il lavoro
impone, a comprendere i sostanziali mutamenti che il nostro ordinamento ha approntato
(spesso con sovrapposizioni normative di dubbia interpretazione) per arginare il fenomeno
infortunistico e per riconoscere il ristoro dei pregiudizi subiti dai lavoratori.
3
4. PARTE I - L’OBBLIGO DI SICUREZZA
Capitolo 1. Cenni storici
In ossequio al principio della lex aquilia, cardine dell’ordinamento romano, per cui non vi
è responsabilità in assenza di colpa, sino alla fine del 1800 il lavoratore che si trovava a
subire un infortunio sul lavoro poteva ottenere un indennizzo a titolo di risarcimento solo
qualora avesse dimostrato la ricorrenza di due fattori: la responsabilità civile del datore di
lavoro e l’esistenza di un danno. 1
Al fine di contenere i rilevanti effetti sociali di tale impianto normativo, si pervenne, da
parte della dottrina, all’elaborazione della teoria del c.d. “rischio professionale”2, ritenendo
che il datore di lavoro, così come si avvantaggiava del lavoro altrui, dovesse sostenere i
costi subiti dal lavoratore nello svolgimento dell’attività lavorativa. Ciò comportò
dapprima l’ampliamento delle ipotesi di risarcimento da parte dell’imprenditore e,
successivamente, con l’approvazione della legge 17/03/1898 n. 70 - che ha rappresentato
nel nostro ordinamento il primo, importante impulso normativo previdenziale l’obbligatorietà dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.
L’ambito di operatività, seppur limitato (venivano corrisposte le sole prestazioni
economiche e la tutela previdenziale era subordinata al carattere contrattuale del rapporto
assicurativo) rappresentava una significativa innovazione, poiché si estendeva la tutela agli
infortuni determinati da caso fortuito, forza maggiore o colpa (non grave) del lavoratore, a
differenza di quanto avveniva con il tradizionale schema assicurativo della responsabilità
civile per danni.
Dopo vari interventi, attuatisi nel corso degli anni ed aventi per oggetto alcuni particolari
settori produttivi, l’introduzione nel nostro ordinamento del nuovo codice civile ed in
particolare dell’art. 2087,
rappresentò una vera e propria svolta, poiché si impose
all’imprenditore un comportamento di tipo dinamico, teso ad adeguare la propria attività
alle esigenze di tutela della salute dei lavoratori.
Si pervenne pertanto all’esplicitazione di un vincolo a carico del datore, di un obbligo
generale di sicurezza nei confronti dei propri dipendenti e, conseguentemente, ad
1
2
G. Alibrandi “ Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano, 2002, p. 32
Dell’argomento si tratterà più diffusamente nel seguito del lavoro
4
5. organizzare l’attività predisponendo tutti i mezzi e gli accorgimenti idonei ad evitare il
verificarsi di eventi nocivi.
Il dovere di sicurezza divenne perciò parte integrante dell’oggetto dell’intera prestazione,
che doveva potersi svolgere in un ambiente di lavoro sicuro, condizionando e
ridimensionando i poteri del datore in ordine all’organizzazione del lavoro.
Tuttavia, nonostante l’ampio respiro conferito a questa norma, definita dai più “norma di
chiusura
dell’intero sistema prevenzionale” 3,
nella realtà l’efficacia
del disposto
normativo si rivelò piuttosto limitata.
Va infatti considerato come l’art. 2087 c.c. non abbia espletato il ruolo di norma
prevenzionale, ma sia stata per lo più invocata in occasione dell’esercizio di un’azione di
risarcimento ad opera del lavoratore 4.
La necessità di rendere in concreto più specifiche, applicabili ed esigibili le disposizioni
contenute nell’art. 2087 c.c. si tradusse, tra gli anni 50 e 60, nell’approvazione di alcuni
decreti tuttora vigenti, che forniscono elementi concreti per l’esplicitazione dell’obbligo di
sicurezza.
Si ricordano, tra i più importanti:
D.P.R. 27/4/1955 n. 547 recante norme per la prevenzione degli infortuni sul
lavoro e integrato dal D.P.R. 302/1956, contenente norme integrative per situazioni
di elevato grado di pericolosità
D.P.R. 19/3/1956 N. 303, recante norme per l’igiene del lavoro
D.P.R. 7/1/1956 n. 164, disciplinante la prevenzione infortuni nelle costruzioni
Queste disposizioni hanno rappresentato il quadro normativo di riferimento per gli
operatori della prevenzione fino all’emanazione del D. Lgs. 19/9/1994 n. 626 ed ancora
oggi costituiscono un importante strumento, elaborato avendo quale obiettivo la “tutela
integrale” dell’ambiente di lavoro, da realizzarsi attraverso l’imposizione di obblighi e
divieti intesi
a preservare sia la salute che la sicurezza dei lavoratori dagli effetti dei
fattori di nocività presenti negli ambienti di lavoro.
3
In tal senso, anche di recente, la Corte di Cassazione, 27/2/2004 n. 4075. Nella precedente sentenza
22/7/1999 n. 9328 ha affermato che l’art. 2087 cod.civ., pur non contenendo prescrizioni come quelle
rinvenibili nelle leggi organiche per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, non si risolve in una mera
norma di principio, ma deve considerarsi inserito a pieno titolo nella legislazione antinfortunistica, di cui
costituisce norma di chiusura.
4
L. Montuschi “Diritto alla salute e organizzazione del lavoro” Milano, 1989, p. 49
5
6. Il principio della tutela del lavoro, sino ad allora dal carattere assai generale (l’art. 35 della
Costituzione sanciva la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni e l’art. 2087
c.c. faceva genericamente riferimento ai
prestatori di lavoro) subì una ridefinizione,
stabilendo l’art. 1 del D.P.R. 27/4/1955 un preciso ambito di operatività delle disposizioni
ivi contenute: “tutte le attività alle quali siano addetti lavoratori subordinati o ad essi
equiparati, comprese quelle esercitate dallo Stato o dagli Enti pubblici”5.
La decretazione si caratterizzò
per la puntualizzazione, talvolta estrema, di prescrizioni
impartite al datore di lavoro (il D.P.R. 547/1955 si suddivide in 13 titoli e 406 articoli
recanti disposizioni generali), attuando una prevenzione di tipo “tecnologico”, determinata
dalla volontà di creare un ambiente oggettivamente sicuro.
L’analiticità, che rappresentò in effetti uno dei presupposti della decretazione di quegli
anni, offriva la possibilità di affidare l’azione prevenzionale a mezzi tecnici, in grado di
garantire una tutela anche in ipotesi di imperizia, negligenza o imprudenza degli stessi
addetti.6 E, sebbene la puntuale indicazione dei suoi precetti impedisse alla normativa di
decretazione di auto-adeguarsi all’evoluzione del processo produttivo, la presenza nel testo
normativo di termini quali “per quanto possibile”, “compatibilmente”, ne ha consentito
l’applicazione sino ai giorni nostri.
Altro importante principio introdotto è identificabile nel concetto di condivisione
dell’obbligo di sicurezza, che veniva ripartito attraverso l’applicazione del principio di
effettività. E’ a tali decreti che si deve
l’introduzione, nel nostro ordinamento, della
legislazione penale del lavoro: le norme ivi inserite si componevano per lo più di un
precetto e di una sanzione, i cui destinatari erano soggetti identificati in relazione alla
funzione rivestita (datore di lavoro, dirigente, preposto, ecc)7.
E’ a tali norme che si può far derivare inoltre il principio di condivisione dell’obbligo di
sicurezza, da ripartirsi attraverso il criterio di effettività.8
Grazie a queste
imposizioni dal carattere tassativo, alcune aziende iniziarono a
riorganizzare i propri servizi di medicina aziendale e l’attenzione delle OO.SS. si fece via
5
Smuraglia C. “La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale” Milano, 1974, pag. 52
6
Celestino L “Infortuni sul lavoro: responsabilità civile e penale” Milano, 1989 p. 46
7
Tacconi G. “ Le responsabilità penali in materia di sicurezza sul lavoro” Torino, 2004
8
cass. Pen. Sez IV 14/11/1967 n. 1658, cass. Pen. Sez VI 17/3/1970 n. 681
p. 8
6
7. via sempre più viva, con un costante impegno alla sensibilizzazione sul tema della salute
nei luoghi di lavoro, affrontando anche i problemi legati all’organizzazione aziendale.9
Tale fase culminò con l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori in cui, all’art. 9, venne
introdotto il diritto per i lavoratori di attivarsi per la proposizione di nuove misure di tutela
e sicurezza e di poter controllare, per mezzo di proprie rappresentanze, l’applicazione delle
norme poste a prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali.
Si trattava di un principio innovativo, di un diritto di controllo da esercitarsi
collettivamente, avendo attribuito
alla rappresentanza (collettiva) dei lavoratori la
legittimazione a difendere il contenuto di un diritto la cui titolarità, tuttavia, permaneva in
capo al singolo lavoratore.
A tale diritto fu collegato l’obbligo, per il datore di lavoro, di assoggettarsi ai controlli
richiesti dalle rappresentanze dei lavoratori, rendendoli possibili. Un eventuale
inadempimento venne da alcuni autori considerato comportamento antisindacale e pertanto
sanzionabile, ai sensi del disposto di cui all’art. 28 della legge 300/1970 10.
Nonostante l’art. 9 facesse riferimento a generiche “rappresentanze”, queste furono, anche
a seguito di interventi della Suprema Corte, ben presto identificate con le rappresentanze
sindacali di cui all’art. 19 della stessa legge 300 e pertanto la possibilità di creare entità
autonome, avulse dalla contrattazione e con il compito di gestire in totale autonomia il
tema del diritto alla salute e della sua tutela in azienda, non venne coltivata .11
Va poi ancora osservato come, sia per l’opera di mediazione, tipica dell’organizzazione
sindacale, quanto per la contingenza politico/sociale che caratterizzava quegli anni,
il
ricorso ad un’azione giudiziaria volta a garantire, di volta in volta, la soddisfazione di
un’attività prevenzionale fu di fatto impedito e l’attività sindacale si indirizzò sul consueto
binario della contrattazione, ove il tema della sicurezza nei luoghi di lavoro non
rappresentava di norma il fulcro della piattaforma rivendicativa.
9
Di notevole interesse lo studio “avanguardista” della FIOM di Torino risalente al 1964 che suddivideva in
quattro macrosettori gli elementi di nocività presenti nell’ambiente di lavoro: 1) fattori presenti anche in
ambito extra lavorativo: luce, temperatura, rumore, umidità, ventilazione; 2) fattori tipici dell’ambiente di
lavoro: polveri,fumi,gas, vapori; 3) fatica: fisica, mentale; 4) effetti stancanti: monotonia, tempi di lavoro
insostenibili, ritmi di lavoro eccessivi, ansia, responsabilità, disagio
Riportato in Montuschi “Diritto alla salute….” Cit., pag. 194
10
Treu T. “Atti discriminatori e condotta antisindacale” Milano, 1994, pag. 70
11
Galantino L. in AA.VV. “ La sicurezza del lavoro – commento ai decreti legislativi 19/9/1994 n. 626 e
242/1996”, Milano, 1996, pag. 9
7
8. Le innovazioni legislative e contrattuali del periodo vennero riprese dalla legge 23/12/1978
n. 833, istitutiva del SSN, i cui principi ispiratori vennero direttamente attinti dalla Carta
Costituzionale (l’art. 1 al 1° comma riproduce testualmente il contenuto dell’art. 32 Cost.)
L’intero settore subì un mutamento sostanziale:
venne introdotta la previsione di sanzioni penali in caso di violazioni;
venne prevista la costituzione dell’ISPSEL e la contemporanea soppressione
dell’ENPI, istituto spesso contestato dalle rappresentanze dei lavoratori per
l’ambiguità del ruolo rivestito;
al titolo III vennero disciplinate le funzioni e le sfere di competenza delle USL alle
quali, nel rispetto di condizioni e garanzie valide per l’intero territorio nazionali,
vennero affidati i compiti di individuazione, accertamento e controllo dei fattori di
nocività, pericolosità e deterioramento degli ambienti di lavoro.
Anche il controllo sullo stato di salute dei lavori, sino ad allora esercitato dall’Ispettorato
del Lavoro, venne affidato alle USL, mentre altre attività, quali gli accertamenti medico
legali e le certificazioni, rimasero di competenza dell’INAIL.
Al SSN veniva quindi, tra le altre, attribuita la finalità di perseguire la sicurezza del
lavoro, con la partecipazione dei lavoratori e delle OO.SS., con la volontà di
imprimere un forte impulso all’attività prevenzionale, da gestire non in via
generale, ma sulla base delle esigenze in concreto verificate, congiuntamente alle
organizzazioni
sindacali e datoriali.12 Non pochi
furono
i problemi
di
coordinamento tra i diversi organismi preposti ai
ruoli di garanzia e controllo, ingenerando per un lungo periodo sovrapposizioni e, talvolta,
lacune, alcune delle quali ancora non colmate.13
12
Montuschi L.: “Diritto alla salute…” cit. pag. 221
13
Interessanti spunti al proposito possono trarsi dalla “piattaforma sindacale nazionale unitaria per il
rilancio, la qualificazione ed un assetto stabile dell’attività di prevenzione nei luoghi di lavoro”, ove si fa
esplicito riferimento alla necessità avvertita di ridefinire ed aggiornare il “mandato” dei servizi di
Prevenzione delle ASL, sulla base della nuova, forte domanda, proveniente dagli organi paritetici e RLS e
che ha per oggetto oltre all’esecuzione dei compiti istituzionalmente previsti, anche l’esercizio di altre
attività, quali la formazione qualificata.
8
9. Verso la fine degli anni ’70 si assistette ad una sensibilizzazione a livello europeo, sul tema
della sicurezza sul lavoro ed alla conseguente emanazione di alcune direttive comunitarie,
miranti all’armonizzazione della legislazione dei singoli Stati.
Si citano, quale esempio:
direttiva 576/1977 sulla segnaletica di sicurezza nei luoghi di lavoro,
direttiva quadro 1197/1980 contro i rischi derivanti dall’esposizione ad agenti
chimici, fisici e biologici durante il lavoro
direttiva 501/1982 sui rischi da incidenti rilevanti connessi a determinate attività
industriali.
In particolare, la Carta Comunitaria dei diritti sociali, approvata il 9/12/1989, ribadì il
diritto dei lavoratori ad operare in un ambiente sicuro e la necessità, per gli Stati membri,
di adottare norme adeguate, tali da rendere armonica, tra i diversi paesi, la gestione della
sicurezza. Tale armonizzazione si rendeva ancora più necessaria in considerazione del fatto
che il differente costo della gestione della sicurezza avrebbe potuto creare un’alterazione
degli equilibri tra gli stati membri in tema di concorrenza sul mercato.14
In tema di responsabilità civile va evidenziato che, all’art. 5, venivano
previsti due
differenti regimi, da recepire, integralmente o in parte, a cura di ogni stato membro: a)
una responsabilità assoluta, che non incontrava alcun limite (neanche nell’ipotesi di caso
fortuito); b) una responsabilità oggettiva, che prevedeva, quale limite, il verificarsi di
alcuni fatti-eventi (con la conseguente esclusione / graduazione della responsabilità civile
dei datori di lavoro nell’ipotesi di fatti o circostanze a loro estranee, eccezionali ed
imprevedibili).15
Le direttive comunitarie si caratterizzarono per la previsione di elementi generali di tutela,
quali la prevenzione soggettiva (il singolo lavoratore incide nel processo produttivo e
pertanto deve essere adeguatamente informato e formato) e l’individuazione di procedure
(valutazione dei rischi) attraverso le quali, organicamente, intervenire; vennero individuati
nuovi ruoli, rivestiti da soggetti che con la loro opera coadiuvavano il datore di lavoro nella
gestione della sicurezza.
14
Galantino L., “Commento….” cit., pag. 11
15
Franco M.: “Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro”, Milano, 1995 pag. 85
9
10. Dopo anni di dibattiti parlamentari venne emanato il D. Lgs. 626/1994, che finalmente,
anche nel nostro ordinamento, recepiva le principali otto direttive in materia di sicurezza
sul lavoro - ultima delle quali la direttiva quadro 391/1989 - prescrivendo misure per la
tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nell’ambito di tutti i settori produttivi.
Per riformare i limiti presenti nell’impianto normativo sino ad allora in vigore, vennero
introdotte importanti novità, che manifestarono i propri effetti non tanto sul contenuto
dell’obbligo di sicurezza – che sembrava aver subito piuttosto specificazioni che non
innovazioni – quanto sulle modalità gestionali di tale obbligo.16
L’intento del legislatore di attribuire a questo decreto una portata generale è ravvisabile
nelle disposizioni contenute nel titolo I, che consentono di predisporre concretamente le
necessarie condizioni di tutela e della sicurezza dei lavoratori e di offrire tanto un valido
ausilio interpretativo, quanto un’efficace possibilità di auto-adeguamento al variare della
realtà tecnico-produttiva.17
In particolare l’art. 3, con la sua lunga elencazione di misure necessarie ad assicurare la
tutela della salute e della sicurezza, può costituire una sorta di direttiva alla quale il datore
di lavoro deve conformare la propria azione, sia per quanto riguarda l’adempimento delle
prescrizioni contenute nel decreto stesso che per l’adozione delle misure contenute nella
legislazione precedente.
Si può correttamente parlare di un’organizzazione del sistema sicurezza, che per la sua
complessità giustificava la nuova previsione di uno staff, il Servizio di Prevenzione e
Protezione, che avrebbe affiancato e coadiuvato il datore di lavoro nella gestione e nella
programmazione di tutti quegli interventi ritenuti necessari a garantire la sicurezza
dell’ambiente lavorativo.
Venivano inoltre previste, in concreto, le modalità, le procedure per mezzo delle quali tale
obbligo dovesse realizzarsi, adottando strumenti di assoluta novità per il nostro
ordinamento ed il cui fine era quello di garantire efficacia alla programmazione
16
Galantino L. “Commento…” cit., pag. 11
17
Romei P. “Il campo di applicazione del d.lgs. n. 626 del 1994 e i soggetti” in AA.VV. “Ambiente, salute
e sicurezza” cit. pag. 60; M. Franco “Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro” Milano,
1995, pag. 69 ss.
10
11. (valutazione dei rischi e redazione del relativo documento, riunione periodica)18, attraverso
una gestione partecipata. Ne conseguiva il coinvolgimento di
tutte le risorse umane
presenti nell’ambito dell’azienda, compresi gli stessi lavoratori che sono “tenuti a
contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti, ai preposti, all’adempimento di tutti gli
obblighi previsti “.(art. 5 D. Lgs. 626/1994).
Capitolo 2. Natura giuridica dell’obbligazione di sicurezza
Il problema della natura, aquiliana o contrattuale, della responsabilità del datore di lavoro,
è stato lungamente dibattuto in dottrina ed il fulcro della disamina è stato rappresentato,
prevalentemente, dall’art. 2087 c.c., che ha svolto (e svolge) un ruolo di assoluto rilievo
nell’ambito del sistema prevenzionale, rappresentandone
un punto di inizio – per la
qualità intrinseca di norma assolutamente elastica – e di chiusura, supportando la
legislazione tecnica esistente in tema di infortuni e malattie sul lavoro e costituendo altresì
un costante riferimento giurisprudenziale ai fini della valutazione della responsabilità del
datore di lavoro 19.
Tale norma, come autorevolmente sostenuto20, è stata oggetto di un fenomeno che ha
caratterizzato la definizione di molte altre norme peculiari del diritto del lavoro ad opera
della dottrina: il tentativo di “costringere” la disposizione in uno schema privatistico o in
uno schema di tipo pubblicistico.
18
A tale proposito Romei “Il campo di applicazione ….” cit., pag. 67 evidenzia come l’impostazione fosse
radicalmente mutata rispetto al passato, quando era il legislatore che provvedeva, caso per caso, ad
individuare i rischi connessi all’impianto o al tipo di produzione, indicando anche gli adempimenti necessari
ad evitarli o a ridurre gli effetti negativi.
19
Così M. Lai “Flessibilità e sicurezza del lavoro” Torino, 2006, pag. 7; P. Romei “Il campo di applicazione
del D. Lgs. 626 in AA.VV. “Ambiente, salute e sicurezza” Torino 1997 evidenzia come il D. Lgs. 626,
pur esplicitandone e talvolta anche innovandone i contenuti, sembra tuttavia presupporre una norma di
carattere generale come l’art. 2087 c.c. , che conserva perciò la funzione di norma di chiusura dell’intero
sistema
20
C. Smuraglia “La sicurezza nel lavoro e la sua tutela penale” Torino, 1974 pag. 81
11
12. 2.1 Teorie “extra contrattualistiche” e pubblicistiche
I primi commentatori ravvisarono nella norma un carattere pubblicistico, evidenziando
come il contenuto della disposizione non faccia esclusivo riferimento all’interesse
personale del creditore, ma soddisfi anche interessi ed obiettivi più generali (tutela
dell’ambiente di lavoro) . Secondo tale teoria, pertanto, l’art. 2087 cod. civ. non attribuisce
al lavoratore un diritto soggettivo, ma una mera “situazione di vantaggio, classificabile
come interesse legittimo, in quanto connessa alla tutela di un pubblico e, quindi, di più
ampio interesse”21.
Anche in seguito all’introduzione nel nostro ordinamento della Carta Costituzionale, tale
interpretazione non mutò sostanzialmente e, pur riconoscendo una stretta correlazione tra
l’art. 2087 C.C. e l’art. 32 Cost., si giunse alla conclusione che il diritto alla sicurezza altro
non è che un’estrinsecazione di un principio generale e pertanto, rientrando il diritto alla
salute tra i diritti della personalità, non può essere confinato nel ristretto ambito
contrattuale.22
Dal che conseguirebbe, in caso di inadempimento del datore di lavoro, l’applicazione del
generale principio del neminem laedere, di cui all’art. 2043 cod. civ.
Un’evoluzione della teoria pubblicistica pose poi in evidenza come, coordinando le
disposizioni contenute all’art. 2087 cod. civ. e l’art. 40 2° cod. pen. (non impedire un
evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo), il principio
generale del neminem laedere assumerebbe, per il datore di lavoro, connotati del tutto
particolari, traducendosi non solo in un obbligo negativo (non fare), ma anche in un
obbligo positivo (attuazione di una tutela preventiva del bene giuridicamente protetto,
coincidente con la salubrità dell’ambiente di lavoro).23
21
D’Eufemia I pag. 14
22
Di opposto parere L. Montuschi “diritto alla salute e organizzazione del lavoro” Milano 1986, pag. 55, il
quale reputa la tesi dell’appartenenza del dovere di sicurezza alla sfera del diritto pubblico “politicamente
pericolosa e giuridicamente discutibile”
23
Con la sentenza 29/9/2006 n. 32286 la Cass. Penale rimarca tale posizione, affermando che il datore di
lavoro è garante dell’incolumità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro dal che deriva che,
in caso di inadempimento del suo obbligo di tutela, l’evento lesivo gli viene imputato in forza del
meccanismo previsto dall’art. 40 2° comma cod. pen.
M. Franco “Diritto alla salute…” cit., pag. 354 sostiene che la salubrità dell’ambiente di lavoro può essere
considerata, in linea di principio, un bene giuridicamente rilevante, che ha per oggetto una situazione di
vantaggio per la collettività dei lavoratori.
12
13. Tale tesi, come osservato,
è di interesse, poiché “consente di estendere gli obblighi di
sicurezza anche nei confronti di soggetti non legati da un vincolo di subordinazione con il
datore di lavoro, ma solo temporaneamente inseriti nell’organizzazione produttiva”24.
Secondo tale teoria, inoltre, la sola violazione dell’obbligo in astratto considerato - e non
già il verificarsi dell’evento lesivo ed il conseguente danno al lavoratore - consentirebbe al
lavoratore di poter agire per la tutela del proprio interesse.
2.2 Le tesi contrattualistiche
Di contro, la dottrina e la giurisprudenza prevalente hanno attribuito all’art. 2087 c.c. una
valenza preminentemente contrattualistica e pertanto un’applicazione pressoché indiscussa
nell’ambito del contratto di lavoro subordinato.25
Nell’ambito dell’elaborata
teoria “contrattualistica”, le interpretazioni sono
tuttavia
tutt’altro che univoche.
Secondo taluni va ravvisato un obbligo di protezione 26, riconducendo il contenuto dell’art.
2087 c.c. agli obblighi di correttezza e buona fede cui il datore di lavoro è tenuto ex art.
1175 e 1375 cod. civ. Il rapporto di lavoro veniva quindi valutato come struttura
complessa, composta da alcuni obblighi principali ed altri, quali quello di sicurezza,
meramente accessori, la violazione dei quali non avrebbe pregiudicato l’obbligazione
principale.
Di diverso avviso altra parte della dottrina, il cui pensiero viene ricondotto nell’ area della
cooperazione creditoria: il datore di lavoro deve rendere possibile al proprio dipendente, in
totale sicurezza, l’esecuzione della propria prestazione lavorativa . 27
Qualora il datore di lavoro fosse inadempiente, l’obbligazione di lavoro ne rimarrebbe
fortemente influenzata, sul presupposto “ che il debito trova la sua misura ed incontra il
24
M. Lai “La sicurezza del lavoro tra legge e contrattazione collettiva” Torino, 2002, pag. 7
25
Cass. 18/11/1976 n. 4318
26
L. Mengoni “Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi” in Riv. Dir. Comm. 1954, I, p. 185 ss. E,
per una nota bibliografica accurata si rimanda a M. Lai “La sicurezza…” cit. p. 3
27
M. Franco “Diritto alla salute e responsabilità civile del datore di lavoro” Milano, 1995 pag. 31, secondo
il quale la responsabilità contrattuale del datore deriva anzitutto dal legame sussistente tra l’art. 2087 cc. Ed il
precetto costituzione, ritenendo che il danno alla salute venga a coincidere con quel danno che l’art. 1218 c.c.
fa gravare sul debitore che non esegue la prestazione.
13
14. suo limite nel rispetto pregiudiziale della persona del debitore stesso”28, con la conseguente
giustificazione del rifiuto del lavoratore ad operare in un ambiente di lavoro riconosciuto
insalubre o insicuro.
Va osservato tuttavia che, qualora si accogliesse senza riserve la tesi sopra esposta, al
creditore di sicurezza spetterebbe solo una facoltà di natura non processuale, cioè il diritto
di rifiutare sì la prestazione lavorativa senza subire per tale ragione alcuna sfavorevole
conseguenza giuridica 29, ma nessun diritto a pretendere il corretto ed esatto adempimento
dell’obbligazione sub specie di una modificazione dell’organizzazione del lavoro. 30
Soprattutto a seguito dell’introduzione dello Statuto dei lavoratori, molti interpreti non si
limitarono a considerare una predominanza, all’interno del rapporto di lavoro,
dell’interesse del datore di lavoro, ma ritennero che l’aver ricondotto l’art. 2087 c.c.
nell’ambito delle obbligazioni principali avrebbe consentito di individuare non più un
mero onere, ma un dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro, cui corrispondeva un
diritto soggettivo di credito. 31
Si poteva quindi affermare che il contenuto dell’art. 2087 c.c., penetrando e condizionando
il rapporto di lavoro, di fatto modella il sinallagma contrattuale32.
2.3
Carattere bifrontale dell’art. 2087 codice civile
Altri interpreti, coniugando alcune delle tesi sopra esposte, hanno riconosciuto all’art. 2087
cod. civ. un carattere “bifrontale”: pur concordando sulla rilevanza civilistica e contrattuale
dell’art. 2087 cod. civ., ne hanno evidenziato anche il profilo pubblicistico.
Taluni hanno poi evidenziato come sia poco corretto, riduttivo, definire la sicurezza mero
obbligo a carico del datore di lavoro, ritenendo assai più appropriato parlare di “dovere”,
28
L. Montuschi “ Diritto alla salute..” cit. p. 71
29
Spagnuolo Vigorita:
30
L. Montuschi “Diritto …” cit., p. 53
pag. 453 M. Franco “Diritto alla salute..” cit., pag. 107
31
M. Lai “ La sicurezza…” cit. , p. 6 , Bianchi D’Urso F. “Profili giuridici della sicurezza nei luoghi di
lavoro” Napoli, 1980, pag. 57 , Cass. 18/11/1976 n. 4318
32
L. Montuschi: “Diritto alla salute…” cit. pag. 75
14
15. facendo derivare da tale accezione un comportamento di obbedienza astratto da un
rapporto giuridico identificato e non necessariamente correlato ad un diritto soggettivo .33
Si andrebbe dunque a configurare una situazione nella quale il dovere di sicurezza permane
in capo ad un singolo soggetto (datore di lavoro), mentre il corrispettivo credito viene
ripartito tra due soggetti: lo Stato (quale titolare di un interesse pubblico collettivo) ed il
lavoratore.
L’astrazione dal rapporto giuridico individuato – contratto di lavoro dipendente –
offrirebbe inoltre la possibilità di garantire l’applicazione delle disposizioni a tutti i casi in
cui fosse comunque rilevabile una prestazione lavorativa34.
Tale interpretazione, che estende la tutela infortunistica a “tutti gli addetti”, ben si potrebbe
coniugare con il contenuto dell’art 7 del D. Lgs. 626/1994, che integra il dettato della
norma civilistica. 35
Vanno tuttavia valutati l’importanza e gli effetti che la considerazione dell’obbligo di
sicurezza quale bifrontale sortirebbe, ad esempio per quanto concerne l’agibilità dei mezzi
reattivi ai quali è possibile ricorrere in caso di inadempimento ( infra, pag 49).36
Capitolo 3. Il contenuto dell’obbligazione
L’evoluzione del dibattito sulla natura delle posizioni soggettive ha condotto a considerare
indiscusso il contenuto prevenzionistico dell’art. 2087 c.c. e, di conseguenza, a ritenere
superate le posizioni volte a circoscriverne la portata in senso esclusivamente risarcitorio37
33
Smuraglia “La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale”
p. 47
34
Lai “La sicurezza..” cit., p. 9 e M. Franco “L’obbligo di sicurezza del datore di lavoro nell’età
corporativa e dopo, i Riv. It. Dir. Lav. 1993, I pag. 114
35
In tal senso Cass. 22/3/2002 n. 4129 che, ritenendo che l’art. 2087 c.c. integri le disposizioni in materia di
prevenzione degli infortuni previste da leggi speciali e sia applicabile anche nei confronti del committente,
tenuto al dovere di provvedere alle misure di sicurezza dei lavoratori (anche se non suoi dipendenti) ove si
assuma i poteri tecnico-organizzativi dell’opera da eseguire. La pronuncia va nel senso di una responsabilità
solidale tra committente ed appaltatore (datore di lavoro “titolare”degli infortunati), in base alla
responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
36
37
Così L. Montuschi “Diritto alla salute…” cit., p. 53
Natullo “La tutela..” cit. pag. 22
15
16. Come più volte ricordato, l’art. 2087 c.c. rappresenta una norma di chiusura del sistema
antinfortunistico nel senso che, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva,
la suddetta disposizione impone al datore di lavoro di adottare comunque le misure
generiche di prudenza, diligenza e l’osservanza delle norme tecniche e di esperienza.38
L’estrema elasticità della norma determina di fatto un ampio vincolo a carico del datore di
lavoro circa le modalità di adempimento del suo obbligo di sicurezza: essendogli affidata
l’indagine circa la potenzialità e la probabilità di un danno e, in conseguenza, circa la
sussistenza concreta di un pericolo, questi dovrà comportarsi utilizzando una diligenza
non comune, bensì qualificata, ex art. 1176 2° c.c.
Il datore di lavoro è infatti tenuto ad adottare tutte le misure “necessarie” a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro secondo i parametri della
particolarità del lavoro, dell’esperienza e della tecnica.39
Il concetto di particolarità del lavoro è estremamente ampio e comprende tutte le attività,
anche quelle definibili come preparatorie o complementari.
Secondo alcuni, l’ambito di applicazione non può limitarsi alle attrezzature, ai macchinari
o ai servizi, ma va esteso a tutte le condizioni ambientali e cioè a quel complesso di
condizioni di pericolo, di disagio e di faticosità che sono insite nelle caratteristiche
peculiari di ogni specifica attività lavorativa
40
, andando a coinvolgere l’intera gestione
dell’attività nella sua fase dinamica 41.
I termini esperienza e tecnica sono pressoché unanimemente considerati dalla dottrina
42
parametri “esterni”, sulla base dei quali individuare le misure di carattere preventivo
adeguate alla particolarità del lavoro. Il datore di lavoro dovrà quindi, nel predisporre le
misure prevenzionali, riferirsi alle conoscenze messe a disposizione dal progresso tecnico
scientifico e, nel fare ciò, non potrà subordinare l’adozione di misure di sicurezza a criteri
38
Cassazione 9/5/1998 n. 4721. Nello stesso senso anche la pronuncia Cass. 29 marzo 1995, n. 3738
secondo cui 'art. 2087 c.c. costituisce norma di chiusura del sistema antinfortunistico, la cui operatività non è
esclusa, bensì rafforzata dalla sussistenza di norme speciali che dispongano l'adozione di particolari cautele.
39
40
Lai “La sicurezza..” cit. pag. 15, Bianchi D’Urso “Profili giuridici.. cit., pag. 41
Smuraglia, “La sicurezza…”cit. pag. 85
41
Cass. 20/04/1998 n. 4012 e Cass. 6/9/1988 n. 5048 Per la Corte, che si trovava a giudicare se nel caso di
specie (aggressione di dipendenti bancari ad opera di malviventi), si è espressa nel senso che, una volta che
un determinato tipo di attività lavorativa venga a trovarsi, nei fatti, esposto a rischi prima inesistenti, il datore
di lavoro dovrà adoperarsi affinché, in concreto, per mezzo dell’organizzazione del lavoro, i rischi possano
essere prevenuti.
42
V. per tutti, Natullo G. “La tutela dell’ambiente di lavoro” Torino 1995, pag. 25
16
17. di fattibilità economica o produttiva (massima sicurezza ragionevolmente praticabile), ma
dovrà tendere al raggiungimento, in concreto, della massima sicurezza tecnologicamente
possibile43.
Il concetto di esperienza va anch’esso inteso, secondo un autorevole autore 44 in senso lato,
per cui diviene penalmente perseguibile il datore di lavoro che non abbia usato quelle
misure e quei rimedi preventivi che in altre lavorazioni dello stesso tipo si siano rivelati
idonei a prevenire i sinistri.45
Se da un lato il datore di lavoro è tenuto ad adottare, secondo la giurisprudenza costante,
tutte le misure di prevenzione espressamente indicate
46
, si è altresì considerato come,
qualora le norme specialistiche siano di fatto obsolete, il datore di lavoro dovrà rapportarsi
alle nuove conoscenze acquisite47 .
La legislazione italiana, con l’approvazione del D. Lgs. 626/1994, si è di fatto rivelata una
tra le più “garantiste” nei confronti del lavoratore48, attuando e talvolta superando i criteri
assunti dalla legislazione comunitaria dell’epoca. 49
43
Marino F. “La responsabilità del datore per infortuni e malattie del lavoro” Milano 1990, pag. 71 rileva, a
proposito dell’art. 2087 c.c. , come “pur antecedente alla carta costituzionale la norma si appalesa come un
vero gioiello di modernità e si pone come strumento attuativo degli articoli 32 e 41, laddove negano che
l’attività economica possa svolgersi in contrasto con le esigenze di dignità e sicurezza umana e quindi con il
primario diritto alla salute”. Conforme Cass. 29/3/1995 n. 3738. La Cass. Penale con sent. 29/9/2006 n.
32286 ha ribadito come un’eventuale indisponibilità dello strumentario di sicurezza, dipendente da qualsiasi
causa, non può assurgere ad esimente, considerando che il diritto alla salute è un diritto fondamentale
dell’individuo che non può ammettere eccezioni.
44
Smuraglia, cit. pag. 85
45
La Cassazione civile, con sentenza 29 marzo 1995, n. 3738 ha esteso tale concetto, imponendo al datore
di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge per la specifica attività,
ma anche alle altre misure che si rendano necessaria in base alla particolarità dell’attività lavorativa,
all’esperienza ed alla tecnica, misure per l’individuazione delle quali può farsi riferimento, ove sussista
identità di ratio, anche ad altre norme dettate ad altri fini, ancorché peculiari ad attività diverse da quella
dell’imprenditore.
46
Al proposito va ricordata la decisione della corte costituzionale 25/7/1996 n. 312 che, pronunciandosi su
una questione di legittimità avente per oggetto la genericità del contenuto dell’art. 41 comme 1° D. Lgs.
277/1991 (riduzione al minimo dei fattori di rischio da rumore “in relazione alle conoscenze acquisite in base
al progresso tecnico, i rischi derivanti dall’esposizione al rumore mediante misure tcniche, organizzative e
procedurali, concretamente attuabili, privilegiando gli interventi alla fonte”) rispetto alla previsione dell’art.
25 comma 2° Costituzione (necessaria determinazione delle previsioni della legge penale), ha evidenziato la
necessità di ridurre l’ambito dell’interpretazione, valutando volta per volta se il comportamento del datore di
lavoro deriva dagli standard i sicurezza acquisiti per le diverse produzioni.
47
48
Cass. Pen. 24/6/2000; Cass. 30/08/2004 n. 17314
Romei “Il campo di applicazione..” cit. pag. 63
49
Il rapporto tra obbligo di sicurezza ed acquisizioni scientifiche è così qualificato dalla Sentenza della
Corte di Giustizia Europea 15/11/2001: “i rischi professionali che devono essere oggetto di una valutazione
17
18. L’art. 3, in particolare, pur non contenendo alcun richiamo al principio di esperienza che
nell’art. 2087 c.c. assolve alla funzione di individuare un criterio di normalità tecnica,
introduce una “direttiva di ragionevolezza nell’adozione delle misure di sicurezza, verso il
raggiungimento di un (difficile) equilibrio tra il principio della massima sicurezza
tecnologicamente possibile ed il rispetto della funzionalità dell’organizzazione
produttiva”50.
Va infatti rammentata la tendenza della giurisprudenza e di parte della dottrina a fornire
una interpretazione estensiva del contenuto della norme prevenzionistiche e dell’art. 2087
c.c. in particolare, che si ritiene contenga non solo un dovere di tipo positivo (adozione
delle misure di sicurezza necessarie), ma anche un dovere di tipo negativo, individuato
all’art. 3 D. Lgs. 626/1994 nel rispetto dei principi ergonomici, nella definizione dei
metodi di lavoro e produzione, al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.51
E’ in ogni caso accolto dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalente il concetto secondo
il quale dal verificarsi dell’evento lesivo non derivi una responsabilità oggettiva a carico
del datore di lavoro. Si ritiene infatti che dal dovere di prevenzione non possa desumersi
un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ma che, al fine dell’attribuzione di
responsabilità debba accertarsi, oltre che il verificarsi di un danno, anche la colpa del
da parte dei datori di lavoro non sono stabiliti una volta per tutte, ma si evolvono costantemente in funzione,
in particolare, del progressivo sviluppo delle condizioni di lavoro e delle ricerche scientifiche in materia di
rischi professionali”. Ne consegue, per il datore di lavoro un obbligo “di tenersi aggiornato e di tenere conto
di quanto risulta da acquisizioni tecniche e scientifiche che abbiano un margine sufficienti di solidità, di
sperimentazione e di effettiva possibilità di conoscenza al di là del mondo scientifico strictu sensu
considerato”
50
Romei, ibidem pag. 66
51
Natullo “La tutela..” cit. pag. 27 e, in tema di incidenza dell’obbligo di sicurezza sull’organizzazione del
lavoro, Smuraglia, “La sicurezza..” cit pag. 87 e segg. osservava ..”e’ chiaro che tra i doveri di sicurezza del
datore vi è anche quello di occuparsi dell’intera organizzazione aziendale… ogni cura deve essere posta nella
scelta del lavoratori da adibire ai singoli reparti e specialmente a quelli in cui si svolgono lavorazioni
pericolose o nocive; da essi devono essere allontanati i prestatori che manifestino predisposizione alle
malattie…” .
Lai “sicurezza..” cit., pag. 30 evidenzia inoltre come il dovere di sicurezza venga ad incidere anche sul potere
di assegnazione o modifica delle mansioni, indicazione prima implicitamente dedotta dal 2087 c.c. ed ora
espressamente oggetto di obbligo ai sensi dell’art. 4 comma 5 D.Lgs. 626/94.
La S.C. con sentenza sez. lav., 30 agosto 2000, n. 11427 ha comunque negato il diritto del lavoratore, in
caso di sopravvenuta inidoneità, ad essere adibito a mansioni del tutto diverse da quelle per le quali è stato
assunto, con la necessaria adozione da parte del datore di lavoro di modifiche dell'assetto organizzativo
implicanti ampliamenti di organico o innovazioni strutturali.
18
19. datore di lavoro per violazione di obblighi di comportamento (derivanti sia da leggi che
suggeriti dalla tecnica e/o dall’esperienza) concretamente individuati. 52
Capitolo 4. I SOGGETTI
Il modello della ripartizione intersoggettiva degli obblighi di sicurezza è adottato dal nostro
ordinamento sin dagli anni ’50, quando i D.P.R. 547/1957 e
303/1956 ed il D. Lgs.
277/1991 hanno introdotto la possibilità di una ripartizione degli obblighi in capo a più
soggetti - datore di lavoro, dirigenti e preposti - ai quali veniva fatto carico di attuare le
misure di sicurezza previste. Veniva quindi legittimata la delega, cioè la traslazione di
poteri, responsabilità e funzioni da parte del datore di lavoro, che poteva così sgravarsi
di tutti o di alcuni dei suoi obblighi, affidandoli ad un suo sottoposto.
Al fine di evitare “la creazione di zone di extraterritorialità penale mediante ripartizioni di
funzioni di carattere fraudolento”53, la Giurisprudenza introdusse una serie di limitazioni,
avendo come riferimento costante l’organizzazione dell’impresa e la ripartizione delle
incombenze effettuata in concreto tra quanti sono chiamati a collaborare con
l’imprenditore e ad assumere in sua vece l’onere della tutela delle condizioni di lavoro54.
Altri elementi ritenuti di assoluta rilevanza erano riconducibili a: la presenza di
un’organizzazione produttiva complessa55, l’esistenza di una autonomia decisionale e di
spesa del dirigente delegato56, l’idoneità tecnica del delegato a rivestire l’incarico
affidatogli 57, gli specifici contenuti della delega e la sua accettazione.58
52
Cfr. per tutti, P. Rossi in AA.VV. “Il sistema di tutela degli infortuni e delle malattie professionali” a
cura di F. Facello pag. 238 . Cass. 10/5/2000 n. 6018 Cass. 23/07/2004 n. 13887 e Cass. 1/6/2004 n. 10510
53
54
Marino “cit “ pag. 139
Cass. Pen sez. IV 24/1/1962 n. 761
55
Contra Cass. Pen. 12/04/2005 n. 26122, che ammette la delega anche all’interno delle strutture non
complesse
56
57
Cass. Pen. 23/02/1993
Cass. Pen. 26/10/1985 e, più recentemente, Cass. Pen. 1/04/2004 n. 27857
58
A tale proposito va comunque evidenziato che, qualora dirigenti e preposti siano investiti di responsabilità
ex lege, ininfluente sarà l’eventuale delega attribuita (Cass. Pen. 1/4/2004 n. 24055 e Cass. Pen. 31/3/2006
n. 11351)
19
20. Non può infatti considerarsi legittima una delega di fatto priva dei contenuti o dei poteri
necessari alla concreta attuazione degli obblighi gravanti sul delegante.59
Fedele a questo modello che consentiva di raggiungere un obiettivo di sicurezza diffusa 60
il D. Lgs. 626/94 ripropose una suddivisione del carico prevenzionistico tra tutti coloro
che, ai vari livelli, sono titolari di poteri di intervento o di influenza sull’ambiente di
lavoro61.
4.1
Il datore di lavoro
Il datore di lavoro, quale primo garante del debito prevenzionistico, trova la sua formale
definizione per la prima volta nel nostro ordinamento all’art. 2 lettera b) del D. Lgs.
626/94 (come modificato dal D. Lgs. 242/1996) ove viene qualificato come “il soggetto
titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il
tipo dell’organizzazione dell’impresa, ha la responsabilità dell’impresa stessa, ovvero
dell’unità produttiva…in quanto titolare dei poteri decisionali e di spesa”. 62
La norma ricomprende pertanto anche i soggetti che, pur non formalmente titolari del
rapporto di lavoro, abbiano però la responsabilità dell’impresa o di una sua unità
produttiva. Viene quindi a configurarsi, accanto ad un datore di lavoro “formale”,
un
datore di lavoro “sostanziale”, identificato con colui che, considerate le particolari
59
Cass. 22/6/2000 n. 9343
60
Basenghi F. “La ripartizione intersoggettiva degli obblighi prevenzionistici nel nuovo quadro legale” in
AA.VV. “La sicurezza del Lavoro – commento….” cit.pag. 61
61
Ibidem 61
62
Come osservato da F. Basenghi “La ripartizione ...” cit., pag. 66 e seg., la definizione inizialmente
contenuta nel d. lgs. 626/94 era stata oggetto di seri problemi interpretativi poiché la trasposizione della
direttiva comunitaria qualificava datore di lavoro “qualsiasi persona fisica o giuridica o soggetto
pubblico…titolare del rapporto di lavoro … e che abbia la responsabilità dell’impresa o dello stabilimento”.
La definizione presentava aspetti di incompatibilità con l’assenza di attribuzione alla persona giuridica, nel
nostro ordinamento, di capacità giuridica in ambito penale.
Altro elemento di critica veniva dalla considerazione che la necessità – che la norma sembrava richiedere –
del cumulo delle due condizioni di titolare del rapporto di lavoro e di responsabile dell’impresa o dello
stabilimento – era assai difficilmente riscontrabile nella realtà (cfr. Romei “ Il campo di applicazione.. “ cit,
pag. 76) e, paradossalmente, applicando letteralmente la disposizione, “lo status datoriale non avrebbe dovuto
invece spettare all’amministratore delegato plenipotenziario che avesse avuto la responsabilità dell’intera
impresa costituita in forma societaria. Su tale soggetto, infatti, non si sarebbe imputata la titolarità dei
rapporti correnti con i dipendenti dell’impresa gestita”
20
21. modalità organizzative dell’intera impresa o di un suo ramo appare provvisto dei relativi
poteri operativi e gestionali.63
Si determina dunque un effetto diffusivo del debito, con la possibilità di identificare più
datori di lavoro (e come tali anche i dirigenti che abbiano la responsabilità dell’impresa o
di una unità produttiva) ai fini della sicurezza in un’impresa articolata in più unità
produttive,64 ove per unità produttiva va intesa un’articolazione dell’azienda, dotata di
autonomia tecnico funzionale, cioè una struttura dotata di una propria identità da un punto
di vista produttivo, spaziale e organizzativo65
Mentre nelle aziende meno strutturate il datore di lavoro sostanziale potrà essere
agevolmente identificato nella persona fisica che concretamente risulti titolare dei più ampi
poteri di gestione e amministrazione dell’azienda, nelle strutture più complesse,
normalmente società, il ruolo va attribuito solitamente agli amministratori, previa tuttavia
una verifica circa l’entità dei poteri e delle prerogative ad essi attribuite.66
Per tale verifica non si potrà prescindere dal canone della c.d. “effettività”, unanimemente
accolto in dottrina ed in giurisprudenza, che individua nella concreta e reale assegnazione
di compiti e poterei a ciascun soggetto nell’ambito dell’organizzazione aziendale il criterio
che consente di scomporre il debito prevenzionistico.67
Per quanto attiene la Pubblica Amministrazione, per l’individuazione del datore di lavoro
viene fatto riferimento al “dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il
funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto
ad un ufficio avente autonomia gestionale”. Tale individuazione è, ai fini formali piuttosto
agevole, poichè pressoché tutte le amministrazioni hanno proceduto all’individuazione, al
63
Franco, “La responsabilità…”cit. pag. 257
64
Montuschi “Diritto…” cit. pag. 45, Ferraro in “Il datore di lavoro e l’obbligazione di sicurezza:
attribuzione di compiti e delegabilità di funzioni nel complessivo quadro dei nuovi adempimenti” in AA.VV.
“Ambiente, lavoro…” cit. pag. 112
65
Romei “Il campo di applicazione…” cit.
pag. 78 . Conforme Cass. 5892/1999
66
Basenghi “ La ripartizione…” cit. pag. 64
In tema di operatività della delega di funzioni in azienda, la recente sentenza Cass. Pen. Sez. III 4/4/2006
ha stabilito che rientra tra i compiti dell’amministratore della società l’organizzazione dell’impresa e la
vigilanza sull’intero andamento aziendale all’interno di una struttura semplice, atteso che in tali ipotesi non
sussiste la necessità di decentrare, in funzione partecipativa, l’esercizio dei poteri di direzione e controllo
dell’attività produttiva.
67
Montuschi “Diritto…” cit. pag. 102
Per riferimenti alla indispensabile valutazione di merito sui criteri endoaziendali di ripartizione dei
compiti si rimanda alla trattazione di Basenghi, cit. pag. 57 e segg.
21
22. loro interno, dei soggetti da qualificare quali datori di lavoro, in applicazione al disposto di
cui all’art. 30 D. Lgs. 242/1996.
L’autonomia gestionale cui si è fatto riferimento, soprattutto a seguito delle ripetute
riforme del settore pubblico, si ritiene non possa limitarsi ad un mero potere di indirizzo,
ma debba coniugarsi ad una capacità gestionale di natura patrimoniale.68 In ogni caso, la
responsabilità dell’organo di vertice o di governo non può essere totalmente esclusa,
poiché questi debbono, tra l’altro, formulare obiettivi e programmi anche in tema di
sicurezza, predisponendo nel bilancio le necessarie risorse e vigilando sulla corretta
attuazione delle misure prestabilite.
Si può parlare quindi di una contrapposizione tra una responsabilità derivante da carenze
strutturali, addebitabile ai vertici dell’ente e una responsabilità derivante da deficienze
nell’ordinario funzionamento, cui rispondono, secondo il consolidato principio
dell’effettività, i soggetti istituzionalmente preposti 69
Una particolare fattispecie di responsabilità del datore di lavoro in tema di sicurezza si
realizza nell’ipotesi dell’appalto.
Secondo la definizione fornita dall’art. 1655 c.c., tale tipologia contrattuale si caratterizza
per l’autonomia gestionale ed organizzativa che l’appaltatore utilizza per il compimento di
un’opera o di un servizio. Il committente, pertanto, dovrebbe essere considerato terzo
rispetto alla tutela del personale dell’appaltatore, al quale dovrebbero invece far capo tutti
gli obblighi prevenzionali. Tuttavia, qualora tale autonomia non fosse di fatto
compiutamente realizzata, si potrebbe incorrere in una co-responsabilità del committente.
Ciò si verifica
quando quest’ultimo attui un’ingerenza nell’attività dell’appaltatore
attraverso modalità di tipo funzionale-direttivo (andando oltre il normale e legittimo
potere di controllo) o di tipo tecnico-operativo (quando l’appaltatore utilizzi mezzi e
strumenti messi a sua disposizione dal committente - che, ai sensi dell’art. 6 D.Lgs.
626/1994 dovranno essere del tutto conformi alle riposizioni sulla sicurezza). In caso di
infortunio la responsabilità penale dell’imprenditore ai fini della sicurezza non esclude
l’esistenza di una colpa concorrente (talvolta anche esclusiva) dell’interposto, a seconda
del ruolo rivestito di fatto nei confronti dell’imprenditore e del personale da lui reclutato 70
68
69
70
Guariniello “Obblighi e responsabilità” pag. 550 . Conforme Cass. Pen. 28/7/2000 e Cass. Pen 15/1/2001
Lai “ La sicurezza…” cit. pag. 128 e seguenti
Marando “Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul lavoro” Milano, 2003 pag. 154
22
23. L’art. 7 D.Lgs. 626/1994 prevede infatti una serie di oneri (verifica dell’idoneità tecnicoprofessionale delle imprese appaltatrici o dei lavoratori autonomi, formazione,
informazione, cooperazione e coordinamento con l’appaltatore) che gravano sul datore di
lavoro committente in relazione ai lavoratori autonomi ed ai dipendenti degli appaltatori
che eseguono lavori all’interno dell’azienda.
Situazione più gravosa si aveva per l’appalto di manodopera, sino al 2003 vietato dal
nostro ordinamento. Ove si fosse verificato tale illecito, i prestatori di lavoro, occupati in
violazione, erano a tutti gli effetti considerati alle dipendenze dell’imprenditore-utilizzatore
(art. 1 legge 1369/1960), pure tenuto a tutti gli obblighi connessi al rapporto assicurativoprevidenziale (art. 9 T.U. 1124).
La legge 30/2003 ha fortemente rinnovato tale settore, derogando il divieto di appalto di
manodopera con il riconoscimento della possibilità di collocamento della stessa a società di
intermediazione autorizzate. L’art. 29 del D.Lgs. 276/2003 individua nell’assunzione del
rischio di impresa e nell’organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore la
distinzione tra appalto (anche d’opera) e somministrazione.
Per quanto attiene la sicurezza, gli obblighi di prevenzione di cui al D.Lgs. 626/1994
gravano sull’utilizzatore, il quale deve tutelare i lavoratori a lui affidati alla stregua di
propri dipendenti.71
Il contratto di somministrazione può inoltre prevedere che alla formazione, informazione e
addestramento all’uso delle attrezzature debba provvedere l’utilizzatore anzichè l’agenzia
fornitrice e, in tal caso, l’atto dovrà contenere anche l’indicazione della presenza di
eventuali rischi per la salute e l’integrità dei lavoratori addetti, nonché delle misure di
sicurezza adottate.
4.2 Dirigenti e preposti
Mentre sino agli anni ’90
gli obblighi di sicurezza potevano, in presenza di valida
delega72, competere indifferentemente al datore di lavoro, ai dirigenti o ai preposti, il D.
71
Marando “Il sistema vigente della sicurezza del lavoro” Milano, 2006 pag. 142
72
Per la cui sussistenza dovevano coesistere alcune caratteristiche, così riassunte da Basenghi in “ La
ripartizione… “ cit. pag. 91 e segg. : a) l’assenza di ingerenza del delegante sull’operato del delegato, b)
l’insussistenza di una integrale attribuzione dell’obbligo di sicurezza, permanendo in ogni caso a carico del
lavoro l’obbligo di vigilanza e di programmazione, c) l’idoneità tecnico-professionale del delegato
23
24. Lgs. 626 introduce una limitazione, escludendo espressamente la possibilità di delegare
una serie di adempimenti, previsti all’art. 4 commi 1– 2- 4a) e all’art. 11 (valutazione del
rischio, elaborazione del relativo documento, designazione del responsabile del servizio di
prevenzione e protezione, autocertificazione per le imprese familiari o sino a 10 addetti,
dell’avvenuta valutazione del rischio e degli obblighi relativi).
Alcuni autori hanno posto in rilievo la non assoluta coincidenza tra gli obblighi sopra
indicati ed il contenuto, più ampio, dell’art. 89, ove vengono previste sanzioni a carico del
solo datore di lavoro qualora vi sia un inadempimento di alcune altre disposizioni. Da ciò
si è considerato derivare l’impossibilità, per tutte le fattispecie ivi indicate, di delegare ad
altri l’adempimento73 o, al più, la facoltà di delegarne la mera esecuzione materiale.74
Individuato il dirigente come il soggetto cui spetta il compito di dirigere il lavoro altrui con
una notevole discrezionalità e con ampio margine di autonomia e che, nell’ambito della
sicurezza deve non solo predisporre le misure specifiche nell’ambito delle direttive
generali ricevute, ma anche individuare e adottare, di volta in volta, quelle misure che
l’esecuzione della lavorazione venga via via rivelando come necessarie75, va tuttavia
rilevato che, facendo la normativa riferimento alla qualifica sostanziale e non formale, il
dirigente, come già accennato, potrebbe essere qualificato come datore di lavoro ai fini
della sicurezza.
Anche per la figura del dirigente, come già evidenziato per quella del datore di lavoro, si
potrebbe realizzare una dissociazione tra la figura elaborata ai fini prevenzionistici e
quella individuata all’art. 2095 c.c. per cui, a prescindere dalla formale attribuzione, il
dirigente che ai fini della sicurezza diviene l’alter ego del datore di lavoro, sarà
responsabile di una cospicua parte degli obblighi a quest’ultimo attribuiti; d’altro canto
un’investitura
solo formale da parte del datore di lavoro, senza il conferimento di
autonomi poteri decisionali e di spesa, non sarà sufficiente a determinare un’eventuale
responsabilità del dirigente.76 Anche in questo caso, la guida alla corretta identificazione
73
Lai “La sicurezza…” cit., pag. 9
74
Franco “Diritto alla salute..” cit., pag. 276. Il Ferraro in “Il datore di lavoro…” cit. pag.126 ritiene invece
che alcuni adempimenti, specie di natura tecnica, quali la valutazione del rischio, possano essere dal datore di
lavoro delegati a persone di fiducia e qualificate, pur permanendo la responsabilità penale in capo al primo.
75
Smuraglia “La sicurezza..” cit. pag. 112
76
Lai “ La sicurezza …” cit., pag.132
Cass. Pen. Sez. IV 9/1/1963 n 678 in cui si evidenzia come la individuazione del soggetto penalmente
responsabile per la mancata attuazione deve essere effettuata, più che attraverso la qualificazione giuridica
24
25. del debitore in prevenzione verrà fornita dal criterio di effettività che, valutando la concreta
determinazione dei poteri gestionali - anche di ordine economico - a questi riferibili e
suscettibili di condurre a tale identificazione sostanziale.
Per quanto attiene il preposto,
in assenza di una definizione codicistica, questi veniva
identificato, sino alla fine degli anni ’50, con il soggetto che aveva funzioni sia di
supervisione del lavoro, sia di controllo diretto sulle modalità di esecuzione della
prestazione, attraverso una relazione diretta con i suoi sottoposti
77
. La sua attività di
vigilanza è stata definita come sussidiaria, riferendosi esclusivamente agli sviluppi
esecutivi dell’opera ed essendo la sua autonomia costituita dallo stesso grado di cognizioni
tecniche
in suo possesso, nonché dal ruolo assunto all’interno dell’organizzazione
dell’impresa.78
Con il D. lgs. 626/94 le responsabilità attribuite al preposto divengono agevolmente
desumibili dalle sanzioni poste a suo carico dall’art. 90 qualora non ottemperi ai compiti
definiti dall’art. 4 (quali ad esempio l’obbligo di aggiornamento delle misure di
prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che abbiano rilevanza ai
fini della sicurezza o la fornitura ai lavoratori dei necessari ed idonei DPI) ma, anche in
questo caso, così come avviene per gli altri soggetti debitori della sicurezza, andrà
verificata, in concreto, la reale autonomia decisionale necessaria ad
adempiere agli
obblighi di cui è destinatario 79 e la qualificazione soggettiva80.
dei rapporti esistenti tra i diversi soggetti che si inseriscono nel ciclo produttivo, tenendo conto delle
mansioni reali di ciascuno di essi, disimpegnate per incarico ricevuto o anche di propria iniziativa. Cass.
23/2/1994 n. 1806 e Cass. 9/9/2003 n. 13191, ove il dirigente viene identificato come colui che, pur in
presenza di direttive programmatiche del datore di lavoro è preposto a dirigere l’intera organizzazione
aziendale o un settore della stessa.
77
Lai “La sicurezza…”, cit. pag. 133, Marino “La responsabilità del datore…” cit., pag. 143
78
Smuraglia “La sicurezza..” cit. pag. 121
79
Cfr., quale esempio, la sentenza Cass. Pen. 29/10/2003 n. 49492, nella quale si afferma il principio
secondo il quale il preposto è responsabile per la vigilanza ed il controllo nei confronti dei lavoratori. Di
recente la Cass. Pen., sez. III con la sentenza 15/4/2005 n. 14017 ha individuato, quale specifica competenza
prevenzionale del preposto “quella di controllare la ortodossia antinfortunistica della esecuzione delle
prestazioni lavorative, cioè di assolvere agli obblighi specificamente indicati nell’art. 4 comma 5…..” Tra
questi obblighi rientra quello di aggiornare le misure prevenzionali in relazione ai mutamenti organizzativi e
produttivi, “ma sempre nell’ambito delle sue limitate attribuzioni., che attengono alla organizzazione delle
modalità lavorative e non alla scelta dei dispositivi di sicurezza o dei macchinari conformi alle norme
antinfortunistiche…”
80
Ai fini della validità della delega, il preposto dovrà essere persona tecnicamente capace e dotata dei
necessari poteri (Cass. Pen., sez. III, 20/12/2002 )
25
26. 4.3 Il lavoratore
Successivamente agli anni ’50 la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che le norme di
prevenzione contro gli infortuni non avessero come unici soggetti debitori il datore di
lavoro, i dirigenti ed i preposti, ma che, seppure in misura contenuta, anche al lavoratore,
dovesse essere richiesta una partecipazione attiva alla gestione del sistema.
Con il D. Lgs. 626 il ruolo del lavoratore ha sicuramente subito consistenti modificazioni,
trasformandosi da titolare del credito di sicurezza o, al più, destinatario passivo di precetti
da eseguire, a soggetto attivo e responsabile della sicurezza propria e altrui nell’ambito
dell’ambiente lavorativo.81
La decretazione prevedeva infatti solo alcuni doveri a carico dei lavoratori, in
contrapposizione ad obblighi previsti invece per il datore di lavoro, i dirigenti ed i
preposti82, mentre secondo l’attuale ordinamento anche il lavoratore è destinatario di
obblighi, la cui violazione è sanzionata penalmente.
L’avvenuta riqualificazione della sua posizione obbligatoria non va tuttavia attribuita
automaticamente, non potendo prescindere dalla congiunta verifica dell’applicazione, in
concreto, delle nuove prerogative (informazione e formazione) delle quali il lavoratore è
investito e che rappresentano uno strumento non solo per la realizzazione dell’interesse del
lavoratore stesso (tutela della sua salute), ma anche per il corretto adempimento degli
obblighi posti a suo carico.83
La bivalente responsabilità attribuita determina il superamento della visione individuale
dell’attività lavorativa, collocandola all’interno di una determinata organizzazione
produttiva84.
Ne deriva che il comportamento del lavoratore che non ottemperi alle
previsioni dell’art. 5, assume un valore ancora più rilevante e pertanto potrà essere non
solo sanzionato penalmente nelle fattispecie espressamente indicate, ma potrà condurre,
81
Lai “Flessibilità e sicurezza”.. cit pag. 87
82
Alcuni autori, tra i quali V. Marino “ “ cit. pag. 145 hanno considerato che l’inclusione del lavoratore tra
i co-obbligati della sicurezza, avvenuta con il DPR 303/1956 trovava la sua ragion d’essere nel
riconoscimento dell’onere di cooperazione che grava sul lavoratore. Valorizzando la natura pubblicistica
della tutela, si è quindi ritenuto che la violazione delle norme poteva indurre a conseguenze sia in ambito
disciplinare che in ordine alla ripartizione della responsabilità, qualora un evento dannoso si fosse realizzato.
In ogni caso la responsabilità del lavoratore sarebbe stata completamente esclusa qualora il datore di lavoro
non avesse per primo adempiuto al proprio obbligo di sicurezza.
83
R. Del Punta “Diritti e obblighi del lavoratore: informazione e formazione” in AA. VV. “Ambiente….”
Cit. pag. 158
84
Lai “ Flessibilità..” cit. pag. 89
26
27. in caso di insuccesso di tutti gli altri percorsi (informazione, formazione, richiami) a
sanzioni disciplinari, sino al licenziamento, ovviamente da proporzionarsi all’entità della
violazione.85
85
Cass. 26/1/1994 n. 774 e Cass. 27/2/2004 n. 4050
27
28. PARTE II – RESPONSABILITA’ E RISARCIMENTO
Capitolo 1. Lo speciale regime di responsabilità: il principio del parziale
esonero
1.1 Il rischio professionale
Verso la fine del 1800 il grande sviluppo del settore industriale produsse, accanto ad un
forte sviluppo economico, un consistente aumento del fenomeno infortunistico, con
conseguenze sociali di altissimo rilievo. La situazione, di grande drammaticità, costrinse
l’intera collettività a confrontarsi con il problema inerente il risarcimento dovuto agli
infortunati o ai loro superstiti, acquisendo la consapevolezza che si rendeva necessaria una
particolare protezione verso i soggetti colpiti (all’epoca chi subiva un infortunio sul lavoro
veniva aiutato, alla stregua di tutti gli altri indigenti, dagli istituti di assistenza e
beneficenza).
La dottrina e la giurisprudenza, in applicazione alle disposizioni comuni previste agli artt.
1151 e seguenti del vigente codice civile del 1865, ricondussero
inizialmente il
fondamento dell’indennizzabilità degli infortuni ad una responsabilità extra contrattuale.
L’infortunio sul lavoro era considerato un illecito comune, sottoposto pertanto alle generali
regole in ordine all’onere della prova: il soggetto leso era tenuto a dimostrare la
colpevolezza del datore di lavoro (o di terzi) nel determinismo dell’evento e rimaneva
privo di qualsiasi riparazione tutte le volte in cui l’evento dannoso fosse imputabile al
soggetto stesso o a forza maggiore.86
Come intuibile, l’inadeguatezza della tutela offerta al lavoratore - derivante essenzialmente
dalle esigue possibilità di accertare la responsabilità datoriale (anche in assenza di norme
specifiche per la prevenzione degli infortuni), dai lunghi tempi processuali e dalle forti
implicazioni psicologiche della lite si palesò rapidamente - e, con il costante sviluppo del
settore industriale, parte della dottrina si avviò verso un’interpretazione di segno opposto,
individuando nella responsabilità contrattuale il fondamento del risarcimento al prestatore
d’opera, con una totale inversione dell’onere della prova, stavolta a carico del datore di
86
Per un’approfondita analisi del fenomeno v., tra gli altri, Marando G. “Responsabilità, danno e rivalsa per
gli infortuni sul lavoro” Milano 2003, pag. 104 e segg.
28
29. lavoro87. Nonostante l’attribuzione di questa responsabilità “aggravata”, va osservato che,
qualora il datore di lavoro avesse dimostrato l’utilizzo dell’ordinaria diligenza al fine di
evitare il danno, sarebbe stato considerato non responsabile dell’evento lesivo, con
conseguente inefficacia dell’azione promossa dal lavoratore.
Ci si rese tuttavia conto che anche quest’interpretazione, peraltro non condivisa da molte
parti, - soprattutto in virtù del fatto che, nel completo silenzio della legge non potesse
desumersi a carico del datore di lavoro un’obbligazione di protezione e sicurezza - non era
di per sé sufficiente a tutelare l’alto numero di soggetti infortunatisi in occasione di lavoro.
Si fece strada la convinzione che gli infortuni, se considerati nel loro complesso,
apparivano non più imprevedibili, ma come accessori inevitabili e ricorrenti,88
individuando un vero e proprio rischio professionale.
Nell’ambito della dottrina venne pertanto sempre maggiormente in considerazione l’idea
che “l’imprenditore, il quale spera di ricavare lucro dall’azione combinata di tutti gli
strumenti necessari per la produzione, debba anche sopportare i rischi per i danni che
fortuitamente, in causa o occasione dell’industria, possa colpire quegli elementi”89.
Si aprì dunque un importante dibattito che portò all’emanazione della legge 17/03/1898 n.
80, che tradusse il principio del rischio professionale in una forma transattiva, costituendo
la prima legge di tipo “sociale” del nostro ordinamento, non solo per i suoi contenuti, ma
anche per la sua forma.
Il contenuto del compromesso elaborato in dottrina venne dunque tradotto in legge,
divenendo applicabile nei confronti di alcuni soggetti (la tutela non si estese a tutti gli
operai, ma solo a coloro che erano addetti ad attività industriali ritenute particolarmente
pericolose sia per la loro natura intrinseca che per l’utilizzo di macchine “mosse da agenti
inanimati o da animali”), che venivano finalmente indennizzati anche per gli infortuni che
fossero derivati da forza maggiore, caso fortuito o dalla stessa colpa del lavoratore,
fattispecie sino ad allora completamente escluse dalla tutela (tale indennizzo era tuttavia
87
Nonostante l’attribuzione di questa responsabilità “aggravata”, va osservato che, qualora il datore di lavoro
avesse dimostrato l’utilizzo dell’ordinaria diligenza al fine di evitare il danno, sarebbe stato considerato non
responsabile dell’evento lesivo, con conseguente inefficacia dell’azione promossa dal lavoratore.
Tra gli altri, Di Cerbo “L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali nella
giurisprudenza” Milano, 1998 p. 124
88
G. Marando “Responsabilità, danno …” cit., pag. 113
89
Fusinato “Gli infortuni sul lavoro e il Diritto civile” in Riv. It. Scienze giur. 1887 III p. 209, riportato in
De Matteis-Giubboni “Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano, p.38
29
30. determinato in forma prestabilita, normalmente
inferiore al risarcimento che sarebbe
90
spettato secondo i comuni criteri civilistici) .
Dal canto suo il datore di lavoro traeva un indubbio vantaggio poiché, accollandosi il
pagamento del premio assicurativo, si liberava di qualsiasi responsabilità nei confronti
dell’operaio.
L’attuazione del principio del rischio professionale presentava un carattere di forte
originalità, disciplinando la tutela infortunistica in modo del tutto differente da quanto
avvenisse per le altre assicurazioni sociali, poichè teneva in considerazione soprattutto il
nesso eziologico al lavoro ed il suo complesso e peculiare determinismo91.
Si era dunque, seppur con una soluzione compromissoria, riusciti a coniugare l’esigenza di
garantire la tutela infortunistica (evitando il rigoroso sistema probatorio prima in capo al
prestatore d’opera) e l’esonero, seppur entro determinati limiti, del datore di lavoro dalla
responsabilità civile.
Rimanevano a questo punto privi di tutela gli infortunati nel solo caso in cui, in mancanza
di regolare copertura assicurativa, il datore di lavoro risultasse insolvibile.
Tale lacuna venne sanata dal Regio Decreto 17/8/1935 n. 1765, con l’affidamento delle
funzioni assicurative ad un ente di diritto pubblico e con l’introduzione dell’automatismo
assicurativo, grazie al quale anche qualora la procedura amministrativa non fosse stata
regolarmente avviata, il lavoratore avrebbe comunque potuto fruire, in tutta la loro portata,
delle prestazioni previste per legge.92
Al regime di eccezione che, rispetto al diritto comune, era disposto in favore del datore di
lavoro, vennero apportate
critiche dopo l’emanazione del codice civile del 1942 ed una
parte della dottrina ritenne che l’art. 2087 C.C., con il suo ampio respiro, avesse abrogato
l’art. 4 del R.D. 1765/19635, posizione che venne respinta dalla giurisprudenza e dalla
dottrina dominante.
90
De Matteis Giubboni, cit. p.48
91
Alibrandi “Infortuni sul lavoro e malattie professionali” Milano 2002, p. 163
92
De Strobel D. “L’assicurazione di responsabilità civile” Milano, 2004, pag. 585
30
31. 1.2
L’ART. 10 DEL D.P.R. 30/06/1965 n. 1124
Il D.P.R. 1124 del 30/06/1965 (TU delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria
contro gli infortuni e le malattie professionali) accolse tutti questi principi e sviluppò
ulteriormente l’automatismo assicurativo, garantendo al lavoratore infortunato un
indennizzo da parte dell’ente pubblico sul presupposto oggettivo di un rapporto di lavoro,
indipendentemente dall’avvenuto adempimento da parte del datore di lavoro.
Anche dopo l’approvazione di tale legge, vennero ribaditi alcuni dubbi sulla
costituzionalità di tale automatismo, rilevando un’ipotesi di illegittimità costituzionale del
sistema indennitario ove, non sottoponendo il datore di lavoro alle comuni disposizioni in
materia di responsabilità civile, si sarebbe sottratto al lavoratore infortunato il diritto al
risarcimento del danno.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 9/3/1967 n. 22 ritenne non fondata la questione in
riferimento agli invocati artt. 3, 35 e 38 della Costituzione, argomentando che la peculiarità
del sistema assicurativo garantisce al lavoratore infortunato una tutela “più ampia di quella
consentita dal diritto comune, indennizzandolo per il danno professionale subito anche
nelle ipotesi di caso fortuito o colpa”. La Corte ritenne invece costituzionalmente
illegittimi:
1. l’art. 4 3° comma dell’art. 4 RD 1765/1935, nella parte in cui limitava la
responsabilità datoriale al solo fatto commesso dai dirigenti e dai preposti e non
anche dagli altri dipendenti del cui fatto dovesse rispondere, ai sensi dell’art. 2049
Cod. Civ.
2. l’art. 4 comma 5° nella parte in cui consentiva al giudice civile di accertare che il
fatto che aveva cagionato l’infortunio costituiva reato soltanto nelle ipotesi di
estinzione dell’azione penale per morte dell’imputato o per amnistia, senza
considerare quella di prescrizione del reato (che opera con la stessa efficacia delle
altre ipotesi invece espressamente considerate)
3. l’art. 10 T.U. 1124/1965, comma 3° e 5°, poiché riproducevano integralmente le
due ipotesi sopra indicate.
La Giurisprudenza costante, uniformandosi a tale criterio, ha pertanto ridisegnato la sfera
di applicazione della regola del parziale esonero, per cui si è in presenza di una
responsabilità civile del datore di lavoro non solo quando sussista, in ordine al fatto che ha
dato luogo all’infortunio, “la responsabilità penale di lui o di persona che egli abbia
31
32. incaricato della direzione o della sorveglianza del lavoro, ma anche quando una
responsabilità penale venga accertata a carico di un altro suo dipendente, del cui fatto egli
debba rispondere secondo le norme del Codice civile (artt. 2043 e seguenti c.c.)”93.
Tale ampliamento comporta, in sé, una corrispondente estensione del diritto di regresso
dell’istituto assicuratore, del quale la responsabilità civile costituisce un presupposto.94
Il citato articolo 10 è stato oggetto di altre due importanti pronunce della Corte
Costituzionale, la quale
con sentenza 102 del 29/4/1981 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del
comma 5° della disposizione nella parte in cui non consente che l’accertamento
del fatto-reato possa essere svolto
dal giudice civile anche nei casi in cui il
procedimento penale si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria o vi
sia procedimento di archiviazione (la pronuncia aveva per oggetto l’esercizio
del diritto di regresso dell’INAIL, che era stato precluso)95
con sentenza 118 del 24/4/1986, riaffermando il contenuto della sentenza 102,
ha stabilito che l’accertamento della responsabilità civile in seguito ad
infortunio sul lavoro deve seguire gli stessi criteri, tanto per l’INAIL, quanto
per l’infortunato stesso. L’accertamento del fatto-reato può essere oggetto di
giudizio civile anche nei casi in cui, non essendo stata promossa l’azione penale
nei confronti del datore di lavoro o di un suo dipendente, vi sia procedimento di
archiviazione e quando il procedimento penale nei confronti del datore o di un
suo dipendente si sia concluso con proscioglimento in sede istruttoria.
L’intero quadro di questi rapporti è stato modificato dalla Corte Costituzionale e riadattato
dal c.p.p., che ha superato il principio della pregiudizialità penale, accentuando la
93
F. de Compandri/ P. Gualtierotti “L’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali” Milano, 2002, pag. 808. V. in tal senso, la pronuncia della S.C. Cass. 24/1/1990 n. 906,
94
Alibrandi “Infortuni sul lavoro…2 cit. pag. 736
95
Fino al 1981 - in applicazione della disciplina dei rapporti tra giudicato penale e procedimento civile
dettata dalle norme del previdente c.p.p. - qualora la responsabilità civile dovesse risultare da un giudicato
penale di condanna, un’ eventuale pronuncia di assoluzione avrebbe precluso l’azione civile. Ne deriva che
se il datore di lavoro fosse stato prosciolto in fase istruttoria o avesse ottenuto un’assoluzione dibattimentale,
si sarebbe affermato il suo totale esonero da responsabilità e alcuna azione in sede civile (di rivalsa da parte
dell’Ente o da parte del lavoratore) sarebbe stata proponibile.
32
33. differenza tra i due procedimenti.96
Secondo il 5° comma dell’art. 10 TU, è dunque il giudice civile, su domanda proposta a
pena di decadenza
97
dagli interessati entro tre anni dal passaggio in giudicato della
sentenza penale, a decidere se, per il fatto che avrebbe costituito reato, sussiste
responsabilità civile a carico del datore di lavoro. Il giudice civile dovrà pertanto accertare:
se il fatto da cui è derivato l’infortunio costituisca un reato perseguibile d’ufficio, se per
tale reato si sarebbe dovuta emettere sentenza penale di condanna ove non fossero
intervenute le ipotesi di amnistia, morte dell’imputato.
Nell’effettuare tale accertamento il giudice dovrà attenersi al principio della causalità
materiale (art. 40 c.p. e 41 c.p. nell’ipotesi di concause) disciplinato nel codice penale.98
Passando ora ad esaminare,
in relazione all’indennizzo spettante al lavoratore, i
comportamenti del datore di lavoro (o di un terzo) che abbiano avuto un’efficacia causale
rispetto all’infortunio, va osservato come, più volte evidenziato, che l’art. 10 del TU
riafferma il principio del parziale esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile
conseguente agli infortuni dei propri dipendenti.
Si tratta di una norma speciale ed in quanto tale non suscettibile di estensione analogica.
Non è dunque applicabile nei confronti di un terzo responsabile ed è invocabile dal datore
di lavoro (compresa la Pubblica Amministrazione), per il sopra espresso automatismo,
anche qualora questi non abbia provveduto a regolare il premio assicurativo 99
Va in ultimo rilevato che il parziale esonero dalla responsabilità civile opera erga omnes e
non soltanto nei rapporti tra lavoratore e datore di lavoro. Ne consegue “che il terzo
corresponsabile dell’infortunio non può agire in rivalsa contro il datore di lavoro per la
96
Sino ad allora, gli articoli 25, 27 e 28 c.p. stabilivano la preminenza della giurisdizione penale su quella
civile, attribuendo validità erga omnes al giudicato penale. Il giudizio civile rimaneva fortemente
condizionato da un eventuale giudizio penale, non potendosi infatti modificare la fase di accertamento già
avvenuta in tale sede.
Tuttavia tale principio era stato ripetutamente oggetto di pronuncia da parte della Corte Costituzionale, che
con le sentenze 22/3/1971 n. 55, 27/6/1973 n. 99 e 26/6/1975 n. 165, aveva stabilito l’illegittimità del vincolo
posto dall’accertamento penale nei confronti di soggetti non presenti nel precedente giudizio o per
impossibilità giuridica (assenza di legittimazione, come ad esempio nel caso dell’ente mutualistico che, non
essendo né direttamente né indirettamente qualificabile come “persona” offesa dal reato, non può partecipare
al giudizio penale) o perché non posti in condizione di partecipare (mancanza di cognizione legale del
processo).
97
trattandosi di azione a tutela degli interessi individuali, la decadenza è rinunciabile, l’eccezione non può
essere rilevata d’ufficio né essere eccepita per la prima volta nel giudizio di cassazione
98
Alibrandi “Infortuni sul lavoro…” cit., pag. 732
99
Cassazione 21/10/1961 n. 2324)
33
34. quota di responsabilità di questi; al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 10 T.U. manca,
infatti, il titolo della responsabilità civile del datore di lavoro e quindi anche della sua
corresponsabilità ex art. 2055 c.c.”.100
Si può quindi concludere, come autorevolmente affermato, che il meccanismo presuntivo
derivante dal combinato disposto degli artt. 2087 e 1218 c.c. (giusta il quale incombe al
datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie, secondo
l’esperienza e la tecnica, ad evitare l’evento dannoso) può, dunque, operare solo al di fuori
dell’ambito di applicazione della garanzia assicurativo sociale e, quindi, della regola di cui
all’art. 10 TU la quale subordina, appunto, il riconoscimento della responsabilità civile del
datore all’accertamento - in sede penale o, eventualmente, di una colpa in ogni caso
effettiva. 101
Capitolo 2. Il danno
Nell’ambito di applicazione dell’art. 10 del TU, perchè possa darsi luogo ad un
risarcimento, è necessario che il giudice adito riconosca che l’entità del danno subito dal
lavoratore, a causa di infortunio sul lavoro o malattia professionale, corrisponda ad un
importo superiore a quanto già indennizzato dall’INAIL.
Al fine dunque di determinare in cosa consiste questo danno “differenziale”, è opportuno
identificare, seppure in estrema sintesi - come imposto dalla trattazione in questa sede la composizione del danno il cui ristoro compete al lavoratore infortunato e quali siano le
prestazioni erogate dall’INAIL.
2.1
Danno risarcibile
Il codice civile aveva racchiuso il concetto di danno risarcibile nella dicotomia disciplinata
agli articoli 2043 e 2059 c.c., le cui previsioni individuavano rispettivamente il danno
100
Alibrandi “infortuni.. cit pag. 734
101
S. Giubboni “La responsabilità civile del datore di lavoro” in AA. VV. “ Dottrina e giurisprudenza
sistematica di diritto della previdenza sociale” (a cura di M. Cinelli) Torino 1995, pag. 688
34
35. patrimoniale ed il danno morale.
Danno patrimoniale
E’ identificabile in un pregiudizio di carattere meramente economico, che può distinguersi,
a seconda della relazione, diretta o indiretta con l’evento, in danno emergente (perdita di
reddito ed esborso di somme) e lucro cessante (perdita di un futuro vantaggio).
Mentre il danno emergente deve essere liquidato secondo l’equo apprezzamento del
giudice, ex art. 2056, il lucro cessante è da quantificarsi ex art. 1223 c.c. secondo le
circostanze del caso.
Per lungo tempo il risarcimento del danno alla persona veniva
in considerazione per la
sola patrimonialità delle conseguenze e pertanto valutato secondo il concetto astratto di
“capacità lavorativa generica”, cioè in relazione alla perdita, causata dalla lesione subita, di
una generica capacità di produrre reddito. Venivano così risarciti tutti quei pregiudizi che
diminuivano il valore della persona senza tuttavia intaccarne il reddito e, proprio per tale
motivo, ne erano destinatari tutti i soggetti, indipendentemente dallo svolgimento di
un’attività lavorativa in senso proprio (studenti, casalinghe, ecc.)
Per la liquidazione di tale danno il giudice poteva procedere all’assegnazione di una
somma, alla determinazione di una rendita o ad una capitalizzazione del mancato guadagno
in relazione alla presunta durata della vita lavorativa.
La prassi che andò tuttavia consolidandosi utilizzava il metodo della capitalizzazione
anticipata. Ipotizzando che la percentuale di invalidità accertata si ripercuotesse in egual
misura
sulla generica capacità lavorativa si procedeva alla valutazione del futuro
pregiudizio attraverso un calcolo che teneva in considerazione il guadagno, la percentuale
di menomazione e l’età. Tale quantificazione non poteva tuttavia ipotizzarsi come equa,
risarcendo allo stesso modo anche soggetti che, in concreto, non avevano subito lo stesso
pregiudizio.
Danno morale
L’art. 2059 c.c. venne considerato, dalla sua introduzione, come norma legittimante il
riconoscimento del solo danno morale soggettivo, cioè di quel patema d’animo e quella
sofferenza di origine psichico che il leso è costretto a sopportare in conseguenza
dell’illecito. Il risarcimento veniva infatti qualificato come pretium doloris e veniva
35
36. inscindibilmente collegato all’art. 185 c.p., limitandone quindi il riconoscimento alle sole
ipotesi di fatto-reato indipendentemente dalla componente volontaria dell’azione e
dall’esistenza di una condanna penale. La previsione di una condanna al pagamento di una
somma era riconducibile, nelle intenzioni del legislatore, alla volontà di rafforzare la
sanzione principale.
Titolari del diritto al risarcimento del danno morale sono il danneggiato stesso ed i suoi
familiari, iure proprio , mentre i legittimati passivi sono, in solido, l’autore dell’illecito ed
il responsabile civile (nel caso di sinistro stradale, ad esempio, il conducente, il proprietario
del veicolo e l’assicuratore).
Il danneggiato non è tenuto a quantificare il pregiudizio arrecatogli ma gli sarà sufficiente,
ai fini risarcitori, dare prova del fatto che ha prodotto le lesioni.102
A seguito di alcune importanti sentenze della Corte di Cassazione risalenti al 2003103, al
danneggiato è stato inoltre riconosciuto il diritto al riconoscimento del danno morale
anche qualora si fosse in presenza di una mera presunzione di colpa (es. art. 2054 2°
comma). Tale orientamento è stato avallato dalla Corte Costituzionale che con la sentenza
11.7.2003 n. 233, ha ricompreso
“la fattispecie corrispondente nella sua oggettività
all’astratta previsione di una figura di reato, con la conseguente possibilità che, ai fini
civili, la responsabilità sia ritenuta per effetto di una presunzione di legge”
Il giudice civile può autonomamente procedere al riconoscimento ed alla successiva
liquidazione del danno morale, ma l’accertamento del fatto è imprescindibile e va attuato
secondo i criteri che governano il procedimento penale. La liquidazione del danno morale
compete al giudice e viene affidata alla sua concreta valutazione; potrà, ai fini della
quantificazione, utilizzare criteri “tabellati” (normalmente ancorati ad una frazione del
danno biologico – da ¼ ad ½ a seconda della gravità del caso), ma dovrà apportare i
correttivi necessari a valorizzare la specificità del caso.104
102
La Corte di cassazione con la sent. 10/1/2007 n. 238 conferma, in tema di risarcibilità del danno non
patrimoniale, che in presenza di una fattispecie contrattuale, quale il contratto di lavoro, non può sussistere
alcuna incompatibilità tra responsabilità contrattuale e risarcimento del danno morale, atteso che la fattispecie
astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver
fornito la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 cod. civ.
103
104
N. 7281-7282 – 7283 del 12/5/2003
Cass. 12/5/2006 n. 11039
36
37. Diverso dal danno morale è il danno psichico, vera e propria malattia (ed in quanto tale
componente autonoma del danno alla salute) che consiste nella rinuncia ad attività
esistenziali ed è accertabile solo attraverso un giudizio medico legale.
Danno biologico
In antitesi al vecchio sistema risarcitorio previsto dal nostro codice, la giurisprudenza di
merito avvertì l’esigenza di valutare il soggetto leso nella totalità della sua persona e non
solo per la sua capacità economica e, in conseguenza, vennero in considerazione altri
elementi che connotavano il danno realmente subito. A partire dal 1974 si individuò un
tertium genus, che traeva la sua origine dall’art. 32 Cost. ed è identificabile con l’integrità
psico-fisica di per sé considerata, la cui lesione è comune ad ogni soggetto e va
indennizzata in modo equanime, rapportando l’entità del danno ad un parametro
uniforme.105
L’ipotesi del c.d. tertium genus venne presto abbandonata e l’obbligo del risarcimento del
danno biologico venne ricondotto al vasto contenuto dell’art. 2043 c.c., che contempla
l’obbligo generale di risarcimento del danno ingiusto, cioè della lesione di un interesse
giuridicamente tutelato. La rinnovata interpretazione si fondava sull’immediata precettività
dei diritti primari ed assoluti – quali il diritto alla salute – nell’ambito dei rapporti
intersoggettivi, così come confermato dalla stessa Corte Costituzionale.106
Parte della magistratura riteneva tuttavia che sussistesse comunque un dubbio di
costituzionalità, ex art. 2059 c.c., considerando come tale norma potesse comunque
limitare la già affermata posizione soggettiva direttamente tutelata dalla Costituzione.
La corte Costituzionale, con la sentenza 14/7/1986 n. 184, dichiarò infondata la questione,
riconducendo la risarcibilità del danno biologico al combinato disposto degli artt. 32 Cost.
e 2043 c.c..
La motivazione della sentenza era assai articolata e, in sintesi, si affermava che l’art. 2059
c.c. è da riferirsi al solo danno morale soggettivo, mentre l’art. 2043 c.c. è da considerarsi
come rappresentazione di una sanzione per chi provoca ad altri un danno ingiusto, ma
giacchè non indica espressamente le ipotesi in cui ciò si verifica, affinché queste possano
esplicitarsi, dovrà essere fatto riferimento ai diritti soggettivi inviolabili che la Carta
105
Le prime sentenze in tal senso furono emanate dal Tribunale di Genova, sent. 25/5/1974 e 20/10/1975
106
Che con la sentenza 26/7/1979 n. 88 ha incluso, tra gli interessi meritevoli di tutela, ex art. 2043 c.c.,
anche quelli protetti dalla Costituzione.
37
38. Costituzionale individua. Veniva quindi effettuata un’importante distinzione tra il “danno
evento”, identificato nel danno biologico, in quanto indipendente dagli arrecati pregiudizi
patrimoniali e morali, questi ultimi identificati invece come “danni conseguenze”, dal
carattere eventuale ed esterni al fatto illecito.
Dopo tale pronuncia la Corte Costituzionale continuò a valorizzare la sussistenza e
l’importanza del danno biologico, seppure con modalità non del tutto lineari, così
riassumibili: “ con la sentenza del 1979 la fonte di tutela della salute è ravvisata nell’art.
2059 c.c., nel 1986, per evitare l’abbattimento di tale norma, il risarcimento del danno
biologico è affidato all’art. 2043 c.c. combinato con l’art. 32 Cost.; infine nel 1994 e 1996
si adotta un sistema misto, con riferimento all’ipotesi di danno biologico per il decesso del
congiunto”.107
Tali pronunce in realtà non fecero che confermare la tendenza espressa dalla S.C., ormai
orientata verso la risarcibilità del danno biologico come componente del “danno
ingiusto”di cui all’art. 2043 c.c.
In un primo momento, sull’esempio della scuola genovese, il danno biologico veniva
calcolato utilizzando quale parametro il triplo della pensione sociale, ma ben presto si
ritenne questo metodo incongruo poiché, come evidenziato dalla S. C.
108
, esso assumeva
comunque come parametro un reddito, impedendo una personalizzazione del risarcimento.
L’evoluzione di tale orientamento portò all’elaborazione delle tabelle di Pisa e quindi di
quelle di Milano che adottarono il criterio del cosiddetto “punto variabile”. La liquidazione
del danno assumeva quale base la media del valore risarcito nei procedimenti giudiziari del
distretto, rettificato secondo criteri stabiliti non solo in base al sesso ed all’età, ma anche
in relazione all’accertato grado di invalidità permanente residuato. Il valore del punto si
modifica, dunque, in misura più che proporzionale all’aggravarsi della lesione, mentre
diminuisce in misura proporzionale all’età del soggetto. L’importo ottenuto poteva poi
essere dal giudice equitativamente aumentato, in considerazione della specificità del caso.
107
G. Marando “Responsabilità…” cit. pag. 375.
Con la sentenza 372/1994 la Consulta si pronunciò in merito al diritto al risarcimento del danno biologico ai
familiari anche nell’ipotesi di lesioni non mortali del congiunto (danno conseguenza); con l’ordinanza
22/7/1996 n. 293 precisò il contenuto della sentenza appena richiamata, chiarendo che il danno morale non è
considerabile lesione della salute psico-fisica (oggetto era una particolare ipotesi di somatizzazione in capo ai
congiunti della vittima) e pertanto si era proceduto a parificare il trattamento delle due figura ex art. 2059 c.c.
108
Sentenza 13/1/1993 n. 357
38
39. Conformandosi pienamente alle indicazioni della Consulta109, il metodo del punto variabile
venne adottato in modo pressoché uniforme dalla magistratura.
Va tuttavia rilevato che il principio innovatore di un’autonoma categoria di danno, che
andava a risarcire il pregiudizio indipendentemente dalla condizione sociale o dalla
capacità produttiva del singolo, si scontrò con la sua concreta applicazione, a causa degli
innumerevoli criteri valutativi che i vari tribunali elaborarono e che, ben presto, produssero
risultati di assoluta disuguaglianza.110
Sebbene la necessità di fornire regole comuni alla determinazione del danno biologico sia
assai sentita, il legislatore non ha ancora provveduto ad una disciplina organica sul danno
biologico, realizzando solo alcuni interventi in settori specifici.
L’art. 13 del D. Lgs. 38/2000, di cui si parlerà più diffusamente nel seguito, fornisce la
prima definizione del danno biologico: “In attesa della definizione di carattere generale di
danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, il presente
articolo definisce, in via sperimentale, ai fini della tutela dell'assicurazione obbligatoria
conto gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico come la lesione
all'integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona. Le
prestazioni per il ristoro del danno biologico sono determinate in misura indipendente
dalla capacità di produzione del reddito del danneggiato”, mentre il D.L. 28/3/2000 n. 70
(disposizioni urgenti per il contenimento delle spinte inflazionistiche) non convertito in
legge e con la successiva legge 5/3/2001 n. 57 che riprende buona parte del suo contenuto,
fornisce, all’art. 5, una definizione assai simile: “.. lesione dell’integrità psico-fisica della
persona suscettibile di accertamento medico legale, il danno biologico è risarcibile
indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del
danneggiato”. (unica differenza è
ravvisabile nella valutazione, piuttosto che
nell’accertamento medico legale).
Al fine di raggiungere l’auspicata valorizzazione soggettiva, viene introdotta la possibilità
per il giudice di deliberare un aumento non superiore ad un quinto, “con equo e motivato
apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato”.
109
Che con la sentenza 184/1986 raccomandava di adeguare la liquidazione alla peculiarità del caso
concreto, evitando il pericolo di una liquidazione che tendesse ad un eccessivo livellamento o che di fatto
duplicasse il risarcimento.
110
Basti pensare, ai diversi criteri elaborati dai Tribunali, limitrofi, di Reggio Emilia, Modena (che applicava
le tabelle Milanesi) e Bologna dove la medesima lesione riceveva risarcimenti assai diversi
39