La gestione del mobbing strategico di Maria Grazia De Angelis
1. La gestione del mobbing strategico
di Maria Grazia De Angelis
FinMag giugno 2010
Il fenomeno del mobbing sta diventando una delle piaghe più dilaganti nel mondo del lavoro per
motivazioni di carattere macroeconomico (globalizzazioni, fusioni, recessioni ecc.), per il
cambiamento delle tipologie di lavoro e dei correlati rischi lavorativi, e per la mancanza di una
normativa giuridica specifica tutelante.
Il fenomeno del mobbing, sebbene ormai da anni all’esame della giurisprudenza non ha ancora una
definizione normativa per la mancanza di una legge nazionale al riguardo. Non va scordato l’eco
suscitato dalla sentenza della Suprema Corte di Cassazione (sez. V penale 29 agosto 2007 n.
33624) nella quale i giudici di legittimità hanno affermato che il mobbing non costituisce reato, e
che la figura di reato maggiormente vicina è quella descritta dall’art. 572 c.p. In realtà, il principio
affermato dalla Suprema Corte non rappresenta una novità essendo stato già più volte affermato
(Cass. Sez. VI penale, n. 31413del 2006) che non esiste un reato di mobbing, mentre talune
condotte del datore di lavoro ( o di altri soggetti) possono comunque essere ricondotte ad altre
fattispecie di reato, previste dal codice penale, quali minacce, abuso di potere,
demansionamento, violenza privata, ostacoli posti nello svolgimento di doveri istituzionali.
I singoli atteggiamenti molesti (o emulativi), pur implicando uno sviamento o abuso di potere, non
necessariamente arrivano a configurare e sostanziare un reato né illeciti ed atti illegittimi, ossia
commessi in violazione di legge, ma nel complesso possono arrecare alla vittima danni anche gravi
sia sotto il profilo patrimoniale (ad esempio, nel caso di dimissioni volontarie da parte del
lavoratore per perdita del lavoro) sia alla salute (conseguenze sull’autostima, equilibrio psico-fisico,
insorgere di stati depressivi, etc..) sia alla sua esistenza in genere (pregiudizio alla vita di relazione)
E’ grazie a questa mancanza di chiarezza che il più delle volte il datore di lavoro, o il persecutore in
genere, non si pone il problema della dignità, della salute, della personalità del lavoratore, così
come non penseranno mai di offendere con il loro comportamento anche la Costituzione della
Repubblica (art.3; 32- 1c; 35 -1c; 41 -1c).
Secondo i dati ufficiali, in Italia, oggi oltre un milione e mezzo di lavoratori è colpito da azioni di
mobbing. Si tratta di una vera e propria emergenza sociale. Al numero relativo ai lavoratori vittime
di azioni di mobbing andrebbe aggiunto quello relativo alle altre persone coinvolte dal fenomeno
(amici, parenti, colleghi) che farebbe salire la cifra a circa 5 milioni di persone ed è più diffuso nella
grande impresa.
In uno articolo scritto da docenti dell’Università degli Studi di Catania, pubblicato sulla rivista
“Formazione Psichiatrica”, viene effettuata una disamina degli studi italiani sul fenomeno
mobbing dalla quale risulta che in Italia le denunce sono numerose nelle strutture ad alta
competitività e che le persone più colpite sono manager, dirigenti e quadri ed i lavoratori con una
scolarità medio alta.
Le infrazioni all’etica spesso sono il frutto della cultura aziendale o della pressione del management
quando l’azienda si scopre incapace di tener fede alle previsioni ed alle aspettative e cerca di
adattare le regole alla situazione. In tali situazioni alcuni manager si sentono autorizzati a compiere
2. azioni vessatorie con un carattere abituale e sistematico in quanto poste in atto come conseguenza
di una precisa strategia del vertice aziendale.
Giova ricordare che già nel 1976 Lorenz nel suo libro “l’aggressività’” aveva indicato nel
mantenimento della struttura gerarchica all’interno del gruppo uno dei motivi scatenanti delle azioni
di mobbing. Anche se in questi casi è più corretto usare il termine bossing o mobbing strategico
che indicano le azioni compiute dall’azienda, dalla Direzione o dall’amministrazione del personale
(risorse umane) nei confronti di uno o più dipendenti, quasi sempre con il preciso scopo di indurli
alle dimissioni
E’ una forma di mobbing che viene usata strategicamente dalle imprese per promuovere
l’allontanamento dal mondo del lavoro di soggetti in qualche modo scomodi. Può trattarsi di
soggetti appartenenti ad una gestione precedente o assegnati ad un reparto che deve essere
dismesso, di soggetti divenuti troppo costosi o che non corrispondono più alle attese
dell’organizzazione. E’ prassi frequente nelle imprese che hanno subito ristrutturazioni, fusioni,
cambiamenti che abbiano comportato un esubero di personale difficile da licenziare.
Raramente viene prestata la dovuta attenzione alla strategia da adottare per rendere meno
oltraggioso e gravoso l’allontanamento di ciascun lavoratore, per concertare soluzioni in grado di
salvare capra e cavoli (potrebbe essere sufficiente assumere un figlio ad un costo inferiore, oppure
dargli la possibilità di frequentare un corso di formazione, oppure ritardare di qualche mese il suo
allontanamento per fargli maturare il diritto alla pensione, oppure trasferirlo in un’altra città, etc.). Il
lavoratore improvvisamente diventa un peso solo perché trattasi di soggetti appartenenti a “cordate”
diverse, a gestioni precedenti, assegnati ad un reparto che deve essere dismesso, troppo costosi o
che si ritiene non “servano” più all’azienda.
Il mobbing si trasforma così in una vera e propria politica aziendale, assumendo caratteri di
normalità e di ineluttabilità. La strategia dell’espulsione prende forma nell’intenzione del diretto
superiore ed è mirata ad estromettere il soggetto dal processo lavorativo. L’obiettivo è quello di
isolare la persona che si ritiene rappresenti una minaccia o un pericolo, bloccargli la carriera,
togliergli il potere, renderlo innocuo.
Al riguardo può essere illuminante citare Adriano Olivetti a cui nel 1953, a causa di una crisi di
sovrapproduzione, fu proposto da un direttore generale di licenziare 500 operai. Adriano licenziò il
proponente, fece assumere 700 venditori raddoppiando la forza di vendita in Italia, costituì nuove
consociate estere.
La consapevolezza della validità dei prodotti consentì ad Adriano Olivetti di rispondere alla crisi
di sovrapproduzione con l’espansione. L’espansione proseguì negli anni: l’Olivetti conquistò il 27%
del mercato mondiale delle macchine per scrivere e il 33% di quello delle macchine da calcolo (nel
1972 i dipendenti erano 74.000, di cui 40.000 all’estero; nel 1976 le consociate estere erano
diventate 76).
Spesso sono troppo poche le organizzazioni che agiscono come Adriano Olivetti o come suggerito
da Grandori A. e Funari S. nel libro “Progettare l’instabilità organizzativa: dalle forme alle formule
organizzative” dove si afferma che “ la sfida attuale della progettazione organizzativa è sviluppare
approcci di progettazione capaci di indicare soluzioni tenendo conto che:
l’organizzazione è fatta per essere presto cambiata
3. le persone sono mobili
i modelli vanno costruiti su misura per le esigenze della singola impresa
i fattori che servono per decidere come costruire l’organizzazione non sono solo le strategie
d’impresa e le risorse tecniche, ma anche il loro equilibrio e compatibilità con le strategie
delle persone e le diverse configurazioni delle risorse umane”
Le aziende non dovrebbero sottovalutare che vi sono manager professionalmente validi, ma
talmente incapaci da un punto di vista relazionale che a volte, pur non volendo, hanno difficoltà a
rapportarsi socialmente. Queste persone andrebbero individuate e adeguatamente formate.
Spesso la promozione a manager è generata dalla preparazione tecnica di una persona, seguendo un
semplice sillogismo secondo il quale: un bravo manager deve conoscere bene il lavoro dei propri
collaboratori e se è bravo a svolgere il proprio lavoro, sarà sicuramente un bravo manager. Questa
logica perversa ha spesso messo in campo capi sbagliati, o manager con grosse difficoltà a capire il
proprio ruolo e ad esercitarlo con efficacia.
In un libro dal titolo un po’ forte, ma molto incisivo: “Il metodo Antistronzi”, il Prof. Sutton
dell’Università di Stanford afferma che una grande quantità di studi accademici dimostrano che
molti ambienti lavorativi sono caratterizzati da una serie di “azioni interpersonali” che provocano in
chi le riceve un senso di minaccia e di umiliazione e che spesso partono da persone che hanno più
potere verso persone che ne hanno meno. Sovente questi personaggi non si rendono conto del male
che fanno con i loro comportamenti. Nei casi peggiori, ne vanno addirittura fieri. Altre volte pure
essendone consapevoli del loro modo di comportarsi non riescono a controllare o contenere la loro
aggressività. Come afferma Sutton “Ciò che li accomuna, tuttavia, è la tendenza a esasperare,
sminuire e ferire i colleghi, superiori, sottoposti e, a volte, anche clienti e consumatori”.
Nel processo di crescita di un organizzazione va tenuto conto che, la comunità degli individui
coinvolti si manifesta energicamente e proattivamente come un organismo vivente che prospera
soltanto se le necessità più intime e fondamentali delle persone vengono comprese e soddisfatte. Ma
questo risultato è possibile se i manager sono disposti ad interpretare l’organizzazione come una
comunità vivente composta da individui pronti ad assumersi le loro responsabilità allorché ricevano
il dovuto riconoscimento dai dirigenti dell’organizzazione.
Del resto ogni individuo desidera essere qualcuno, essere notato, dare un contributo autentico e non
sentirsi solo un mezzo bensì un fine. I manager devono essere quindi adeguatamente stimolati e
formati a diventare leader e ad occuparsi delle persone che compongono l’organizzazione, con
particolare attenzione alla loro crescita e al loro benessere psicofisico anche in situazioni “difficili”.
Non a caso stanno sempre più avendo successo appositi corsi formativi che insegnano a gestire le
“emergenze”.