Politica monetaria euro forte, analisi macoreconima e operativa
1. POLITICA MONETARIA
Analisi macroeconomica ed operativa del
fenomeno del cosiddetto “Euro Forte”
Introduzione
Lettura degli operatori finanziari: sopravvalutazione
dell’euro, e guerra monetaria
Crisi economica Italiana : analisi economico-monetaria
La strong-stagflazione: inflazione, recessione ed euro forte
2. Introduzione
Nel 1999, l’euro è stato introdotto per il raggiungimento di una maggiore stabilità e per perseguire
l’obiettivo di un benessere diffuso nell’area Europea. Oggi, l’entusiasmo che ha seguito il passaggio
alla moneta unica ha lasciato posto alla delusione, e recenti sondaggi spingono alle stesse
constatazioni : numerosi europei hanno nostalgia della loro moneta nazionale. I politici se la
prendono di continuo con la forza dell’euro, che è indicato come la causa principale dei mali di cui
soffrono molte economie europee che crescono a fatica. E’ tuttavia opportuno moderare questa
posizione allarmista, analizzando i punti forti e le debolezze della moneta unica.
L’Unione europea effettua un terzo dei suoi scambi con il mondo esterno e la sua economia è
pertanto influenzata dall’evoluzione dei tassi di cambio delle principali valute internazionali. Tra il
primo gennaio 1999, data di introduzione della moneta unica e l’autunno 2000, il tasso di cambio
dell’euro è passato da 1,18 a 0,83 $. La valuta europea si è poi notevolmente rafforzata rispetto al
biglietto verde. Al di là delle discussioni sugli effetti inflazionistici del passaggio alla moneta unica
e della crisi di fiducia che investe attualmente quest’ultima, numerosi politici e industriali europei
sono oggi preoccupati della forza della moneta europea rispetto alle principali valute internazionali.
Le opinioni divergono sugli effetti di un euro forte e sul comportamento da tenersi in materia di
politica del cambio. La serenità tedesca si scontra con le paure francesi. Senza affrontare il ruolo
dell’euro nel dinamismo economico europeo, l’obbiettivo è qui di gettare un po’ di luce sulle cause
e gli effetti dell’evoluzione del tasso di cambio della moneta europea.
Per quel che concerne i rischi, è chiaro che un euro forte riduce la competitività delle imprese del
vecchio continente a fronte dei loro concorrenti giapponesi e di oltre-Atlantico. In effetti, quando la
moneta unica è forte, il prezzo pagato per i prodotti europei è relativamente più alto di quello per i
prodotti di altri paesi. Per conservare le proprie quote di mercato, numerose imprese esportatrici
europee sono così spinte a ridurre i prezzi, ciò che incide negativamente sulle loro prospettive di
profitto.
Le imprese che fatturano in dollari vedono invece il loro margine di profitto direttamente eroso
dall’ascesa dell’euro. Così la forza dell’euro, se dovesse perdurare, rischierebbe secondo alcuni
specialisti di danneggiare la crescita della zona euro e di condurre in prospettiva ad un nuovo
aumento della disoccupazione. Studi econometrici hanno stabilito che un apprezzamento della
moneta europea del 10% rispetto al biglietto verde riduce il tasso di crescita della zona euro di un
valore compreso tra 0,5 e 1%.
A livello dei vantaggi, il primo sta certo nel miglioramento delle ragioni di scambio per la zona
euro. Dato che i prezzi delle principali materie prime sono espressi in dollari, l’Europa ha
notevolmente ridotto il costo dei suoi approvvigionamenti in questi ultimi anni. L’incidenza
sull’economia europea dei ripetuti rialzi del prezzo del greggio è stata così ampiamente limitata
dalla forza dell’euro.
Un secondo vantaggio è rappresentato dal fatto che un euro forte sostiene previsioni positive
sull’evoluzione delle condizioni monetarie nella zona euro e sull’andamento del tasso di cambio
medio dell’euro rispetto al dollaro. Ciò si traduce in un livello generale dei tassi d’interesse nella
zona euro inferiore a quello della zona dollaro e rende pertanto l’ambiente economico europeo più
favorevole per gli investimenti. Riassumendo, un euro forte è più proficuo per gli investitori
stranieri. Secondo alcuni, l’euro forte crea così una dinamica positiva ove basso tasso d’interesse,
risparmio disponibile e previsioni verso un miglioramento delle ragioni di scambio favoriscono gli
investimenti e dunque la crescita. Infine, la caduta del biglietto verde rispetto all’euro rende
quest’ultimo più attraente per numerosi paesi in cerca di impieghi precauzionali e risulta in
conseguenza favorevole all’investimento nella zona euro. Del resto, la forza e la stabilità dell’euro
concorrerebbero sul lungo periodo a un suo utilizzo come moneta di riserva e di scambio a livello
internazionale (ruolo attualmente ricoperto dal dollaro) ; ciò limiterebbe le fluttuazioni dei costi di
approvvigionamento energetico e sarebbe certo proficuo per la zona euro. L’impiego massiccio
dell’euro nelle transazioni internazionali potrebbe dover prima passare per un delicato periodo di
3. transizione, ma risulterebbe benefico a lungo termine. Siamo tuttavia ancora lontani
dall’obbiettivo : al contrario di quanto sostenuto da numerosi scritti, non ci sarebbe una sostituzione
di attivi in dollari con attivi in euro nelle riserve di cambio mondiali. Il dollaro resterebbe così
tuttora la prima moneta di riserva mondiale (65%). Certamente la quota dell’euro nelle riserve delle
banche centrali è aumentata questi ultimi anni (sino al 25%), ma ciò sarebbe dovuto principalmente
all’apprezzamento della moneta unica rispetto al biglietto verde sul mercato dei cambi. Si può
rilevare, per contro, che l’euro sarebbe divenuto la valuta di riferimento per le transazioni in
contanti (circolerebbero più euro che dollari sul pianeta), il che indicherebbe la fiducia acquisita a
livello internazionale dalla moneta unica. Un euro forte ha dunque pregi e difetti e non vi sono
argomenti che siano unicamente a favore di un apprezzamento o di un deprezzamento della moneta
unica. Quello su cui numerosi economisti concordano è la necessità di mantenere una relativa
stabilità dei cambi e di non oltrepassare una soglia, arbitrariamente fissata da alcuni intorno a 1,4$
per 1€.
Lettura degli operatori finanziari: sopravvalutazione dell’euro, e guerra
monetaria
Big Mac Index
Big Mac index mette a confronto il valore di uno stesso bene in paesi che hanno valuta diversa. L’obiettivo
dell’analisi è capire se dal punto di vista fondamentale una moneta sia sopra/sotto valutata dal mercato.
In base all’analisi il valore dell’Euro sarebbe 0,97 dollari, quindi un corso molto più basso rispetto ai livelli
attuali, 1,22.Pertanto l’euro, in base a tali assunti è sopravvalutato rispetto al dollaro del 20%
4. Analisi quantitativa Barclays
Secondo le analisi quantitativa di Barclay, lo scambio Euro-Dollaro è sopravvalutato. Gli analisti
hanno confrontato la quotazione attuale con il Fair Value (valore intrinseco).Il modello restituisce
un valore fondamentale del cambio molto più basso di quanto battuto in questo momento sul
mercato forex. Nella matrice che restituisce il valore finale Barclays tiene conto di tutti i fattori che
possono influenzare il tasso di cambio. Il modello tiene conto dello spread dei tassi di interesse sulla
parte a brevissimo della curva dei rendimenti, sulla scadenza da 3 mesi e a 1 anno, delle differenze
dei rendimenti dei mercati azionari e infine del prezzo del petrolio.
L’ipercomprato sull’Euro-Dollaro, oltre che sui modelli quantitativi, è segnalato anche dal mercato
delle opzioni. Il sentiment è estremamente positivo segnala la volatilità implicita.
La discesa dell’Euro nei confronti del biglietto verde potrebbe essere favorita anche dalle posizione
nette sul mercato dei derivati. “Vi è una netta prevalenza di posizioni short”, hanno spiegato dalla
banca inglese.
I nuovi target ribassisti per l’Euro-Dollaro potrebbero essere ostacolati solo da un leggero
ipervenduto di medio periodo.
5. Guerra monetaria
L'andamento attuale non tradisce tanto "la forza" dell'euro quanto la debolezza, voluta o subita,
delle altre valute. In effetti, in Giappone, il nuovo governo conservatore del primo ministro Shinzo
Abe ha deciso di perseguire una politica aggressiva di deprezzamento dello yen per rilanciare
l'economia del paese. Il cambiamento annunciato a capo della Banca centrale del Giappone
conferma questa politica, i cui effetti hanno già cominciato a farsi sentire. un deprezzamento dello
yen del 12%. Il governo giapponese non ha fatto mistero del suo obiettivo di arrivare a un
deprezzamento almeno del 20% della sua moneta, e per questo è disposto a sacrificare quel po' di
indipendenza che resta della Banca Centrale del Giappone.
Gli Stati Uniti hanno registrato un 4 ° trimestre 2012 molto deludente, con una crescita zero e un
lieve aumento del tasso di disoccupazione, che attualmente è al 7,9%. La Banca Centrale degli Stati
Uniti è di nuovo in manovra, e si prevedono di nuovo massicci acquisti di debito pubblico e privato.
Non è quindi sorprendente che il dollaro sia sceso nei confronti dell'euro. Ma, dal momento che il
dollaro è anche in concorrenza con lo yen, a causa degli scambi tra gli Stati Uniti e il Giappone, nel
corso delle ultime tre settimane il fenomeno della caduta del dollaro tende ad aumentare.
6. Fenomeni simili si osservano con la sterlina, e cosa un po' più sorprendente, con il franco svizzero.
Per il tasso di cambio tra la sterlina e l'euro, anche in questo caso è chiaro che ragioni economiche
(la stagnazione dell'economia britannica) spingono dirigenti della Banca d'Inghilterra a cercare un
deprezzamento della valuta. Il caso svizzero è interessante per il fatto che in questo paese le autorità
monetarie hanno fatto di tutto per evitare l'apprezzamento della moneta, ma non hanno cercato di
deprezzarla.
Si può quindi considerare il franco svizzero il metro di misura. Ora, si dà un apprezzamento
dell'euro solo del 3%, mentre è molto superiore al 10% rispetto alle altre valute. In altre parole, non
è tanto l'euro ad essere più forte del dollaro, quanto lo yen e la sterlina ad essere deboli. Lo scarto
tra l'apprezzamento dell'euro con queste valute e con lo Franco svizzero lo testimonia.
7. Crisi economica Italiana : analisi economico-monetaria
L'euro è erroneamente visto come la causa della crisi mediterranea, e la politica monetaria estrema
di uscire dall'euro è vista come la soluzione. Gli attuali problemi sono interamente dovuti a
politiche fiscali sbagliate sia nel passato che nel presente. La soluzione sta in riforme di natura
fiscale, anche se estreme.
Per giustificare il titolo basterebbe notare che durante questi 12 anni dell’euro i due paesi
dell’eurozona che hanno perso meno quote di export nel totale mondiale sono proprio la Spagna e
l’Italia. Ma la situazione è sempre più drastica, e il pessimismo crescente per l’Italia sta fomentando
tra l’opinione pubblica ricette di politica economica sempre meno lucide. In parte questo è dovuto
ad un gioco di credibilità che tenta di fuorviare le colpe ad elementi esterni (i subprime, gli
speculatori, le banche, le agenzie di rating) per celare con il mantello dell’ottimismo le debolezze
interne che sono alla vera base della crisi. In parte però i facili rimedi oggi in auge sono dovuti ad
una confusione sulle dinamiche della crisi e sulla differenza tra politiche fiscali e monetarie
Ci sono almeno tre luoghi comuni sull’euro. Il primo riguarda la convinzione che la politica
monetaria può funzionare solo se sotto il diretto controllo dei governi di ogni stato. Il fatto è che
una banca centrale, anche se praticasse il rimedio estremo di stampar moneta in maniera massiccia,
non creerebbe ricchezza e non stimolerebbe la crescita. Avere più euro in circolazione, o lire e
dracme, non affronta per niente il vero problema di questa crisi. Il problema odierno è di debito
pubblico, di poca crescita, e di un mercato finanziario che considera sempre più rischioso fare
credito a certi stati.
Il secondo luogo comune considera il peccato originale nel cambio euro-lira sbagliato in partenza
che ha causato un decennio intero di crescita anemica per l’Italia. E’ importante sottolineare che il
cambio di quasi 2000 lire per euro era dovuto anche al fatto che lo stato italiano aveva anche allora
un enorme debito pubblico.I 2,5 milioni di miliardi di lire di debito nel 1999 sono diventati “solo”
1300 miliardi di euro, anziché 2500 miliardi di euro se il cambio fosse stato, per fare un esempio,
1000 lire per euro. L’euro ha costretto lo stato italiano a guardare in faccia i propri problemi
8. strutturali privandolo della scorciatoia della svalutazione, cosa che comunque non sarebbe stata
concessa all’infinito in un mercato unico come quello europeo.
Il terzo luogo comune riguarda l’inevitabile uscita dall’euro “per evitare il default” della Grecia o
dell’Italia. Un eventuale default e la permanenza della Grecia e dell’Italia nell’euro sono due cose
separate. Dal punto di vista degli altri paesi europei, l’unica conseguenza avversa per loro sarebbe
se la BCE decidesse di monetizzare il debito greco e italiano. Questo spalmerebbe il peso del debito
pubblico greco e italiano a tutta l’Europa tramite un euro svalutato e più inflazione per tutti. In
assenza di questa politica monetaria europea non c’è alcun motivo nel credere che l’uscita dall’euro
avvenga per “espulsione”. Dal punto di vista del paese in difficoltà (Grecia o Italia), si può discutere
se far parte dell’euro convenga o no, ma questo non è pertinente con la crisi attuale. Uscire
dall’euro servirebbe a ripagare i propri creditori (i detentori dei titoli di stato) in dracme o in lire
svalutate. Si avrà pertanto maggiore difficoltà a trovare finanziatori del deficit pubblico in futuro.
È vero che l’attuale crisi ha le sue radici in uno shock esterno. La crisi finanziaria del 2008 e 2009
non è nata in Italia o in Grecia, ma l’atrofizzarsi dell’economia globale ha ridotto le entrate fiscali
per tutti i paesi, e gli stati fiscalmente più deboli, e cioè con un debito pubblico maggiore, si sono
trovati in prima linea.
Bisogna inoltre tener conto che con la globalizzazione la competizione si è fatta globale.
I timidi tentativi di riforma del mercato del lavoro, delle privatizzazioni, o la recente promessa di
ripagare i debiti che lo stato ha verso le imprese aiutano solo in maniera marginale. Se non si tocca
il vero problema di competitività che ha l’Italia e che ormai ha messo in ginocchio troppe imprese è
impensabile parlare di politiche monetarie “miracolose”.
La strong-stagflazione: inflazione, recessione ed euro forte
Ci sono in esecuzione degli scenari di stagflazione. Tutto ciò potrebbe vedere gli investitori
rivolgersi alle strategie che hanno storicamente fatto bene in quel periodo, tra cui le scommesse su
aziende più piccole, quelle che sono relativamente a buon mercato, così come quelle con un
bilancio particolarmente forte. L’inflazione nella zona euro è di circa il 2%, in linea con gli obiettivi
della banca centrale e lontano dalle due cifre dei precedenti periodi di stagflazione. Mentre le
aspettative di inflazione restano ancorate, la volatilità su questi livelli è aumentata, il che suggerisce
la convinzione del mercato che la capacità che hanno banche centrali di controllare l’inflazione
viene erosa. Tenuto conto delle prospettive di crescita debole, con la zona euro che dovrebbe
raggiungere la sua “flatline” il prossimo anno dopo la contrazione dello 0,5% nel 2012, e con la
disoccupazione nella regione in doppia cifra, alcuni intravedono un possibile e lungo periodo di
stagflazione.
La stagflazione è stata citata come una preoccupazione da parte dei gestori di fondi globali
interpellati da Bank of America e Merrill Lynch, mentre la Banca d’Inghilterra ha avvertito che la
Gran Bretagna si sta affacciando verso un mix “sgradevole” di una ripresa debole e di inflazione
elevata. L’impatto sull’inflazione dei miliardi di nuovi fondi è stato riconosciuto da parte della
Federal Reserve. E ‘impegnata a mantenere i tassi di interesse costanti fino a che la disoccupazione
non scende almeno al 6,5%, e fino a quando l’inflazione non romperà la soglia del 2,5% dove le
aspettative di inflazione più ampie sono state contenute. Mentre stagflazione può colpire la
domanda per i titoli azionari, l’inflazione è in grado di supportare le scorte, a condizione che sia
accompagnata da una crescita.
Un’analisi utile per capire il fenomeno della stagflazione in europa,ed in particolare in italia, può
essere quella di prendere in esame il ratio tra l’indice dei prezzi al consumo e l’indice del Pil Reale
9. Dal 1996 al 2010, Il Pil italiano è quello cresciuto di meno a confronto con Francia, Germania,
Regno Unito e Spagna. La dinamica del Pil è rappresentata con le linee a tratteggio, fatto pari
all'unità il Pil del 1996. Le serie sono quelle Eurostat, concatenate e ai cambi del 2000.
Se l'indice dei prezzi al consumo (l'armonizzato europeo) è rapportato all'indice del Pil, la posizione
dell'Italia si contraddistingue ancora. Si tratta dell'unico Paese per il quale questo ratio resta
praticamente sempre sopra l'unità, mostrando anzi una chiara tendenza alla divaricazione dal 1996
in poi. Per Francia, Regno Unito e Spagna, il ratio è sempre inferiore all'unità lungo tutti gli anni di
osservazione, pur mostrando un forte aumento a partire dal 2008, a cavallo con la crisi economica.
Per la Germania, il ratio è inferiore all'unità sino al 2007 compreso, per poi superare l'unità dal 2008
in poi, attestandosi poco sopra l'unità nel 2010.
In questo grafico sono riassunte le due caratteristiche che segnano il sistema Italia da oltre un
quindicennio: bassa crescita lungo un continuo trend inflazionistico.
Questo binomio ci parla di una strisciante stagflazione che, per la durata e le radici messe nel
sistema economico italiano, ha assunto di fatto quasi una natura fisiologica.
Per rompere questo binomio, le ricette di policy non possono ora fare affidamento su risorse del
bilancio pubblico, che dovrà rispettare condizioni di austerity per ripristinare un sufficiente percorso
convergente del debito pubblico.
Le ricette di policy dovranno necessariamente riguardare riforme "a costo zero", dal ridisegno
dell'architettura dei mercati, alla promozione della concorrenza con riassorbimento di rendite e
sovraprofitti, all'ammodernamento delle professioni e dei mestieri pervasi di regole
corporativistiche. In interventi di questo tipo si può e si deve ricercare il rilancio dell'attività
economica e, nel contempo, il contenimento delle tensioni inflazionistiche.