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Università degli Studi di Bologna
Scuola di Economia, Management e Statistica
Corso di Laurea Magistrale in Economia e Diritto
Corso di Economia Civile e Sistemi di Welfare
Prof. Stefano Zamagni
L’evoluzione storica ed i principi regolativi
dell’economia civile: verso una nuova “Golden
Age”?
di
Carlo Signor
Giugno 2013
2
Sommario
Introduzione............................................................................................... 3
Le radici dell’economia civile...................................................................... 4
Il Medioevo: dalla cultura monastica al francescanesimo................................................................4
L’umanesimo civile .........................................................................................................................................6
La notte del civile............................................................................................................................................7
L’età dell’oro dell’economia civile............................................................... 9
Genovesi e la scuola napoletana...............................................................................................................9
I concetti fondamentali dell’economia civile. .................................................................................... 10
Declino del “civile” e affermazione dell’economia politica..........................13
I punti in comune dell’umanesimo civile con la filosofia smithiana.......................................... 13
La caesura tra economia civile ed economia politica ..................................................................... 14
L’utilitarismo e la definitiva affermazione della political economy............................................ 15
I principi regolativi dell’economia civile ....................................................18
L’economia di mercato civile................................................................................................................... 18
Gli ordini sociali e il principio di reciprocità....................................................................................... 20
I beni relazionali ........................................................................................................................................... 22
Le ragioni del ritorno della prospettiva di economia civile .........................23
I limiti dell’economia politica................................................................................................................... 23
La questione occupazionale e la crisi del welfare state ................................................................. 24
La soluzione dell’economia civile........................................................................................................... 25
Da welfare state a welfare society ......................................................................................................... 27
I mercati di qualità sociale........................................................................................................................ 28
Prospettive e conclusioni...........................................................................30
Bibliografia ................................................................................................33
3
Introduzione
Negli ultimi anni, specialmente in concomitanza con la recente crisi economico-
sociale, è tornato in auge, negli ambienti accademici e non solo, il modello di
teoria economica dell’economia civile.
Esso rappresenta un paradigma alternativo a quello, sino ad ora dominante,
dell’economia politica di estrazione culturale anglosassone che, spesso, è risultato
incapace di rispondere, completamente ed efficacemente alle sfide di una società
sempre più complessa ed articolata. É inoltre, corretto parlare di “ritorno”, perché
l’economia civile, sul piano cronologico, trova origine nel Medioevo per evolversi,
embricandosi con la political economics, scandendo le fasi dello sviluppo del
pensiero economico nei secoli e trovando i momenti di massima fioritura durante
la prima fase dell’Umanesimo quattrocentesco e il Settecento napoletano, con
l’economista Genovesi, prima di venir oscurata dall’economia politica.
In realtà, la modernità e la capacità rinnovativa del modello teorico dell’economia
civile sono insite nei contenuti, in grado di intercettare molte esigenze della
società contemporanea, ma anche nel linguaggio con il ricorrente utilizzo di
termini quali relazioni, reciprocità, fraternità, dono, gratuità, bene comune,
felicità strettamente connessi con questioni che, ad oggi, si ritagliano un ruolo
non marginale nel dibattito socio-economico.
Tali considerazioni costituiscono i presupposti razionali per ipotizzare una nuova
golden age per l’economia civile e per l’approfondimento/riscoperta delle sue
peculiari caratteristiche, specialmente nelle sue implicazioni operative per il XXI
secolo. Pertanto, tramite questo working paper, l’autore si pone i seguenti
obiettivi:
1. l’inquadramento storico di tale paradigma economico, indagandone
l’integrazione evolutiva, fino alla sua sostituzione col più conosciuto
modello dell’economia politica;
2. la descrizione dei principi regolativi e fondanti di tale modello, forse in
grado di offrire alcune ipotetiche soluzioni alle gravi, talora drammatiche,
problematiche economiche/sociali/antropologiche che oggi affliggono le
nostre comunità.
4
Le radici dell’economia civile
Il Medioevo: dalla cultura monastica al francescanesimo
La tradizione dell’economia civile si distingue per aver radici profonde, intrecciate
ed in simbiosi con le vicende che hanno portato alla nascita della cosiddetta
“società civile”, alternativa, seppur collegata, ai concetti di Stato e di individuo.
(Bruni 2004)
Se l’idea di società civile si diffonde ai tempi della polis greca o della civitas
romana, essa sembra rivelare la sua essenza in seguito alla fioritura del
cristianesimo e, quindi, è fondamentale ripercorrere gli eventi cronologici a partire
dal Medioevo per meglio percepire l’evoluzione del paradigma sociale, economico,
politico e filosofico dell’economia civile.
In particolare, va considerato il ruolo essenziale svolto dal monachesimo, che
rappresentò, dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente, un grande movimento
spirituale europeo, e sul piano civile fu un faro di luce e di civiltà in secoli
storicamente ritenuti bui.
Monachesimo che, aldilà dell’essere la culla della neonata filosofia civile, è lo
stesso luogo di origine del primo vero lessico economico e commerciale, quindi
dell’economia moderna in sé; infatti, proprio all’interno delle abbazie, durante il
Basso Medioevo, si svilupparono le prime forme complesse di contabilità e
gestione che permisero la realizzazione, sebbene in forma primordiale, di ambienti
sociali e strutture economiche articolate. Ne è piena espressione il motto
benedettino “ora et labora”, non distante dalla cultura del lavoro e dell’economia
che ancora oggi è principio fondante di ogni teoria e cultura economica. Un altro
passo fondamentale fu il progressivo mutarsi del giudizio da parte dell’etica
cristiana tra il II e l’VIII secolo nei confronti del rapporto con i beni e la ricchezza,
non più condannati in sé, ma solo se usati con avarizia, che offre una prima
giustificazione dell’economia intesa come relazione tra soggetti e beni.
Altro punto di incontro con i principi dell’economia moderna che si può ricavare
dall’esperienza dei monasteri è l’approccio alla vita e alla comunità. La vita dei
monaci era volta allo scopo ultimo della salvezza, una sorta di mission aziendale
ante litteram guardando la comunità del monastero come un’impresa moderna.
Conseguentemente la loro vita era scandita e organizzata fin nei minimi dettagli
5
secondo un’ottica di razionalità strumentale che è al cuore della cultura e
dell’economia occidentale (Max Weber).
Ma, forse, la vera rivoluzione ha luogo nel momento in cui la cultura cristiana,
ormai dominante in Europa, con i possedimenti dei monasteri, creò le condizioni
per la legittimazione etica della proprietà privata, un istituto essenziale per la
nascita dell’economia di mercato.
Dall’altro lato, con l’apertura relazionale dei monasteri sulle città e l’obbligo del
monaco di assistere poveri e concedere prestiti ai bisognosi, si andò a profilare un
principio chiave dell’economia civile: il dono.
In definitiva, i monasteri fecero da humus per la nascita di linguaggio e cultura
che poi andranno a definire tutti i paradigmi economici moderni, ma proprio in
queste realtà sociali iniziò a profilarsi la prima idea di economia civile, unica in
grado di cogliere la stretta connessione tra caritas ed economia, tra dono e
contratto, tra reciprocità e razionalità economica.1
Un altro momento topico della storia del pensiero economico si ebbe con la
nascita dei mercati e l’affermazione della classe dei mercanti a partire dal XI
secolo. In questo contesto a contribuire da un lato alla prima vera esperienza di
economia civile e poi, paradossalmente, a rivelarsi la prima vera scuola
economica dalla quale emergerà il moderno spirito del capitalismo 2 è il
francescanesimo.
Con il francescanesimo ebbe luogo il primo tentativo di una vera e propria
riflessione economica. 3 In questa fase si ebbe una dettagliata riflessione sul
significato del “possesso”, sulla cultura della povertà medievale, sull’usura, ma
soprattutto si assistette alla nascita dei “monti di pietà”, esperienza considerata
la prima vera istituzione di economia civile, dai forti caratteri solidaristici e quindi
riconducibile al principio di reciprocità.4
Oggi queste organizzazioni potrebbero essere identificate come vere e proprie
banche etiche, che oggi trovano una continuazione ideale nelle varie forme di
1
La successiva affermazione della cultura del contratto ai danni di quella del dono e della
razionalità economica sulla reciprocità fu poi storicamente l’inizio del declino dell’economia civile.
2 Contributi di Ockham, San Bernardino da Siena.
3
La scuola francescana superò sul piano dottrinale la proibizione dell’interesse con tutte le
conseguenze commerciali e bancarie che ne derivarono.
4 I monti di pietà sorsero nel Quattrocento in Umbria e nelle Marche per mano dei francescani
come mezzi di “cura” della povertà e di lotta all’usura.
6
microcredito, nelle casse rurali, il cui capitale si accumulava per mezzo di collette
sottoscrizioni, eredità, donazioni, depositi vincolati e questue.
L’umanesimo civile
Dal Quattrocento ebbe luogo quella grande rivoluzione che portò la società
occidentale dal medioevo alla modernità, concomitante con l’umanesimo e
l’umanesimo civile in particolare.
“Questa fase è vista come la fioritura della semina e della coltivazione medievale,
quando si sviluppò la semantica di quel civile e di quell’economico che fiorì
nell’umanesimo civile” (Zamagni 2004).
Tuttavia, è bene precisare che la stagione dell’umanesimo civile non coincide con
l’intero periodo dell’umanesimo, in quanto nella seconda fase, corrispondente
alla seconda metà del Quattrocento, riprese il sopravvento l’anima individualista
platonica, chiudendo di fatto la stagione del primo umanesimo sociale ed
aristotelico.
Con l’umanesimo civile si assistette ad una forte rivalutazione, già iniziata nel
medioevo, della dimensione orizzontale e relazionale dell’essere umano, dalla
famiglia alla città, allo Stato.
Concetti come il “bene vivere” successivamente riconosciuti come i tratti distintivi
della discussione propria della tradizione economica civile del Settecento
richiamavano i contributi di Bruni, Alberti, Bernardino da Siena sulle tesi
medievali dell’utilità sociale delle ricchezze.
Rivoluzionario il nuovo approccio al lavoro umano, non più visto come attività
moralmente più bassa rispetto alla contemplazione, ma valorizzata e innalzata al
rango di partecipazione all’attività creatrice di Dio.
In questo contesto si sviluppò ulteriormente il valore del dono e il principio della
reciprocità come via al mercato, in quanto l’economia è civile solo se ne prende
parte tutta la città.
7
Come contraltare, il povero ozioso è condannato perché si autoesclude dalla
reciprocità.5
Infine è strettamente legata al paradigma di economia civile la discussione che si
sviluppò in questa fase sul tema della felicità, che, sulla scia di Aristotele, venne
vista come frutto delle virtù civiche e, quindi, di una realtà immediatamente
sociale: non esiste felicità disgiunta dalla vita civile.
La notte del civile
Come già anticipato, durante la seconda fase dell’umanesimo si assiste al declino
del “civile”. In particolare nella seconda parte del Quattrocento e nei primi anni
del Cinquecento si afferma la corrente di pensiero dell’individualismo che andò a
minare le fondamenta dell’umanesimo civile. I suoi più importanti autori di
riferimento sono Machiavelli, Hobbes e Mandeville.
Machiavelli incarna perfettamente la crisi morale e politica del suo tempo (inizio
XVI secolo): contesto caratterizzato dalla trasformazione delle repubbliche civili in
signorie che diedero luogo a continue guerre lungo tutta la penisola italica.
Nei contributi di Machiavelli si riconosce un radicale pessimismo antropologico,
poiché, diversamente dalle convinzioni dei primi umanisti, le virtù civili si erano
mostrate incapaci di creare e mantenere la pace e la coscienza nazionale.
L’individuo è, pertanto, incivile, malvagio, pauroso e scaltro. Ne consegue che la
base della vita in comune non può più essere l’amore reciproco, ma il reciproco
timore. In questo contesto diventa fondamentale la figura e il ruolo del princeps,
del quale Machiavelli descrive le virtù politiche, in una concezione
diametralmente opposta alle virtù civili, attraverso le quali egli libera i propri
sudditi dai conflitti distruttivi riconducibili all’inciviltà insita dell’individuo. Tipo
di approccio filosofico strettamente correlato al fenomeno di ricostituzione delle
gerarchie, quali le società feudali e castali, che ricreano le fondamenta di una
società non più basata sul principio di uguaglianza, tipico dell’economia civile.
5 Da una analisi attenta si può riconoscere in questa considerazione una delle principali
motivazioni di fallimento del welfare state.
8
Un secolo dopo, sulla scia di Machiavelli, si distingue un altro importante autore
le cui opere contribuiscono al declino del civile: Hobbes. “Gli uomini hanno in
comune solo la loro uccidibilità generalizzata, ossia chiunque può essere ucciso
da chiunque”. Il conflitto, la competizione, la lotta per sopraffare l’altro è la
condizione ordinaria degli uomini: la paura è, nuovamente, il fondamento della
vita in comune.
Ma il più significativo contributo, e vero grande capolavoro, di Hobbes è il
Leviatano (1651). Hobbes scrive che l’essenza fortemente negativa dell’uomo lo
porta a dover stipulare con un entità esterna, il Leviatano appunto, un patto
artificiale che permetta di evitare la guerra di tutti contro tutti attraverso la
rinuncia dei rapporti interpersonali delegando la mediazione intersoggettiva allo
Stato-Leviatano.
Prende forma il concetto di Stato, inteso come contrapposto all’individuo, che, in
chiave moderna, si può ricondurre al conflitto tra interesse pubblico ed interesse
privato. Il pubblico è il luogo di ciò che è comune e il privato è il luogo di ciò che è
proprio.
Un altro radicale attacco agli autori civili fu quello sferrato da Mandeville, con la
sua celebre “Favola delle api” del 1714.6 L’idea fondante è la sussistenza di una
consecutio tra “vizi privati” e “pubblici benefici”: è un concetto rivoluzionario in
totale contrasto rispetto alla filosofia civile, in quanto l’uomo non solo non è un
“animale civile” portato di natura a relazionarsi con gli altri, ma se lo fosse o lo
diventasse attraverso l’educazione e la cultura, dovrebbe tenere a freno le sue
virtù poiché negative per la vita della società.
A sintetizzare successivamente questa filosofia contribuì Kant, secondo cui
l’uomo è essenzialmente egoista e solo la morale e la vita gli impongono obblighi
sociali, dunque si manifesta l’esclusione della reciprocità sia su dimensione
essenziale che antropologica dell’essere umano.
Sembra evidente la stretta connessione tra questa nuova concezione dell’uomo e
della società, secondo cui la socialità è qualcosa di estrinseco, di transitorio, di
accidentale, e la cultura che poi nell’età contemporanea si è rivelata dominante.
6 La favola narra la storia di un alveare di api egoiste che, grazie alla loro avarizia e disonestà,
vivevano nell’abbondanza e nel benessere. Ad un certo punto le api si convertono e diventano
oneste, altruiste e virtuose. In breve tempo, l’alveare precipita nella miseria.
9
È proprio in questa fase che sembra profilarsi la vera frattura tra umanesimo
civile e modernità: la vita civile si riscopre fragile.
Tuttavia, il momento che apparentemente sembra il più buio per l’economia
civile, poiché minata alle sue fondamenta dell’essenza dell’uomo, in realtà non è
altro che il prologo per la successiva esplosione di quella che può essere definita
la vera “età dell’oro del civile”. Difatti, sarebbe riduttivo sentenziare che
l’economia moderna nasca emancipandosi dall’etica. In realtà, le due forme di
pensiero che poi successivamente si svilupparono, l’economia politica
anglosassone e l’economia civile italiana, ebbero come principale punto in
comune il tentativo di rifondazione di una nuova struttura sociale che
consentisse all’economia di tornare civile. Gli stessi filosofi dell’economia classica
cercarono a loro modo di oltrepassare le teorie antropologiche di Machiavelli,
Hobbes, Mandeville tentando di costruire una società civile come insieme di
azioni, regole, istituzioni per orientare l’uomo con la sua “insocievole-
socievolezza” verso il bene comune indagando quei meccanismi capaci di
rendere compatibili l’interesse personale, da cui l’uomo è antropologicamente ed
istintualmente spinto, e l’interesse comune.
L’età dell’oro dell’economia civile
Genovesi e la scuola napoletana
Il momento di massima fioritura dell’economia civile è il Settecento, precisamente
in Italia tra Napoli e Milano. Il Settecento è caratterizzato da un periodo di
sostanziale assenza di conflitti, soprattutto per Napoli l’avvento di Carlo III di
Borbone e poi di Ferdinando IV scandirono le fasi di una primavera del civile.
Una stagione breve, ma che creò l’ambiente culturale nel quale riapparvero i temi
tipici dell’umanesimo e in cui fiorì la tradizione napoletana dell’economia civile.
Relazioni sulla felicità e le sue interconnessioni con l’economia e la socialità
restano la più grande eredità di questa fase storica. Si sviluppa il concetto di
“pubblica felicità”, secondo cui la felicità, diversamente dalla ricchezza, può
10
essere goduta solo e grazie agli altri. Felicità pubblica, poiché non riguarda la
felicità dell’individuo in quanto tale, ma ha a che fare con le precondizioni
istituzionali e strutturali che permettono ai cittadini di sviluppare la loro felicità
individuale.
L’economista leader della scuola napoletana, e in un certo senso dell’intera Italia,
è il salernitano Antonio Genovesi (1713-1769). Una personalità fondamentale, in
quanto fu lo stesso Genovesi a coniare ed utilizzare il termine di economia civile. Il
suo principale trattato economico, del 1765-67, venne intitolato “Lezioni di
economia civile” e occupò la cattedra di “Economia civile e meccanica”.
I concetti fondamentali dell’economia civile.
La grande novità dell’illuminismo napoletano è l’idea di un’economia come luogo
di civiltà e come mezzo di incivilimento per migliorare il “bene vivere” delle
persone e dei popoli. Allo stesso tempo, la vita civile è pensata come il luogo in cui
la felicità può essere raggiunta pienamente grazie alle buone e giuste leggi, al
commercio e ai corpi civili nei quali gli uomini esercitano la loro socialità.
La visione di Genovesi dell’economia civile è riconducibile a dei concetti chiave
che poi nei secoli resteranno i punti di riferimento irrinunciabili di questo
paradigma.
Commerciare.
La tradizione napoletana considera l’attività economica come un’espressione della
vita civile, il “commercio” come un “fattore civilizzante”. Il luogo di scambio non
solo non si contrappone alle virtù, ma è vista come il luogo in cui le virtù possono
fiorire in pubblica felicità. Kant successivamente sentenziava come lo spirito del
commercio potesse fungere da strumento per evitare la guerra.
Rimane il forte senso di valore che viene attribuito, dunque, al commercio, ma é
altresì vero che la lode per lo stesso e per le civili ricchezze non fanno dimenticare
agli autori della scuola napoletana che i beni non fanno, di per sé, la felicità. Un
appunto fortemente innovativo che viene fatto da Filangieri e Bianchini, autori
11
riconducibili all’illuminismo napoletano, è che l’incivilimento significa soprattutto
equa distribuzione della ricchezza, definizione più che mai moderna ed attuale
in una chiave di lettura sociale.
Fiducia.
Un’altra parola chiave dell’economia civile italiana è la “fede pubblica”, la fiducia,
vista anche come la vera precondizione dello sviluppo economico. La fiducia è il
vero fondamento dell’economia e delle relazioni in senso più ampio. Il commercio
non può prescindere dalla reciproca “fede” nei confronti della controparte.
Ma aldilà del ruolo centrale che la fiducia svolge all’interno di qualsiasi ambiente
economico, Genovesi si sofferma particolarmente sull’idea di “fiducia pubblica”,
che trova la sua ragion d’essere nella necessità di amore genuino e non
strumentale per il bene comune.
Oggi sarebbe definita “social capital”, ossia il tessuto di fiducia e di virtù civili che
fa sì che lo sviluppo umano ed economico possa partire e mantenersi nel tempo.
La fede pubblica si sviluppa principalmente nella società civile, in un ottica di
“principio di sussidiarietà”, principio basilare ormai di tutti gli ordini sociali
contemporanei.
Reciprocità.
Alla base della teoria economica e civile della scuola napoletana, troviamo la
concezione della “socialità basata sulla reciprocità” che può essere considerata la
parola chiave di tutto l’impianto antropologico e sociale dell’economia civile, un
impianto che porta a considerare la società derivante direttamente dalla “civil
natura dell’uomo”.
Per Genovesi lo stesso mercato è un luogo dove prestarsi reciproco aiuto, per
praticare l’assistenza reciproca. Tale è la reciprocità. Il mercato è, come ogni
ambito della vita civile, fondato sulle virtù. Palese sembra il contrasto con la
filosofia dell’individualismo che ha preceduto l’illuminismo napoletano, ma lo
stesso Genovesi, tenendo in considerazione le opere fortemente pessimistiche di
Machiavelli, Hobbes e Mandeville sull’egoismo insito nell’uomo, mutua questa
definizione dichiarando che l’uomo è un essere sospinto certamente dall’amor
12
proprio, ma anche dall’amore per gli altri. Individua dunque una sorta di
bidimensionalità di ogni individuo ed ogni azione umane è funzionale ad essa.
Genovesi in particolare definisce queste due tendenze dell’uomo “forza
concentrativa” e “forza diffusiva” dove quest’ultima non rientra nella sfera della
benevolenza, nelle fattispecie di altruismo o filantropia, ma ha a che fare con i
rapporti interpersonali, e il suo elemento base è la capacità di simpatia, intesa
virtù naturale.
Felicità.
Parola che al giorno d’oggi è a volte abusata in certi ambienti, ma
paradossalmente ancor più spesso dimenticata e oscurata all’interno degli organi
decisionali di politiche economico-sociali e nei luoghi di pensiero e filosofia.
Durante l’illuminismo napoletano, invece, è principio e valore inamovibile,
soprattutto se intesa come costitutivamente relazionale.
La visione della felicità nella tradizione umanista e civile affermano la necessità
dell’educazione, in modo che “ciascuno resti persuaso, che per rinvenire il proprio
bene bisogna cercarlo nel procurarle quello de’ suoi simili” (Palmieri, 1788).
Ancora “Chi desidera il bene altrui scopre che la felicità degli altri è la fonte più
generosa per la propria felicità” (Ferguson, 1792).
Una “vita buona” non può essere vissuta se non con e grazie agli altri, facendo
“felici gli altri”. In questo senso, essendo incontrollabile la felicità, l’essere umano
ha bisogno, per realizzarsi, della reciprocità, attraverso la gratuità, senza la quale
la vita comune non fiorisce.
13
Declino del “civile” e affermazione dell’economia politica
I punti in comune dell’umanesimo civile con la filosofia
smithiana
Fino ad ora sembrano dunque profilarsi delle prime frizioni, del tutto fisiologiche
per via delle diverse influenze culturali e geografiche, tra economia civile ed
economia politica ma ancora sussiste una certa connessione tra le due filosofie di
pensiero che poi, successivamente, si ritroveranno a percorrere strade
diametralmente opposte.
Infatti, a ben vedere, lo stesso Adam Smith, conosciuto anche dai non addetti ai
lavori come il primo filosofo dell’economia politica che poi trovò maggior
affermazione nell’economia capitalistica in era contemporanea, presenta, nei suoi
scritti, più di un richiamo ai principi dell’umanesimo civile napoletano.
In definitiva non è Adam Smith, nel suo The wealth of nations (1776), la vera
caesura tra i diversi paradigmi delle scienze economiche, ma le conclusioni
raggiunte dalle generazioni successive dei filosofi di estrazione culturale
anglosassone.
In realtà fino ai primi decenni del Novecento l’economia civile, la sua visione
antropologica e sociale, ha avuto una certa fioritura, seppur limitata rispetto
all’esperienza italiana, anche in Gran Bretagna. L’economia classica da Smith a
Marshall non risulta, attraverso una visione più attenta, troppo lontana dalla
tradizione umanista.
Smith non dimentica l’egoismo istintuale dell’uomo, secondo cui niente è dato per
niente, ma dall’altro lato sottolinea come già la propensione allo scambio sia
riconducibile a quegli originari principi tipici della natura umana che richiamano
una tendenza alla relazione con gli altri.
Lo scambio con gli altri è un’espressione della socievolezza della natura umana,
che nella società civile si può esprimere nella sua pienezza grazie alla divisione
del lavoro che costringe ognuno a dipendere dagli altri.
Un altro fondamentale punto di incontro tra la filosofia smithiana e l’umanesimo
civile è la constatazione che per un buon funzionamento del mercato siano
essenziali elementi quali prudenza e giustizia, riconducibili alla sfera delle virtù
civili. Inoltre, il mercato in sé, istituzione fondamentale per Smith, è luogo che
14
lascia ampio spazio anche all’assistenza reciproca nei bisogni. Il mercato dunque
è una delle principali espressioni della società civile poiché l’unico vero luogo in
cui si possano sperimentare rapporti umani liberi, superando la logica
alleato/nemico. Il mercato è un momento importante nella vita civile, che edifica e
non distrugge le virtù civili.
La caesura tra economia civile ed economia politica
Naturalmente riconoscere dei punti di contatto tra umanesimo civile e la scienza
economica smithiana non può distrarre dal fatto che The wealth of nations sia la
pietra miliare su cui fa perno l’intero assetto dell’economia politica della
tradizione anglosassone.
Già dal titolo dell’opera, Smith devia lo sguardo dalla “pubblica felicità” o “scienza
del bene vivere” alla “scienza della ricchezza”.
Inoltre sussiste uno strano strabismo tra la teoria morale e la teoria economica
smithiana dove, in quest’ultima, non sembra trovare spazio la reciprocità.
Strabismo che negli occhi dei suoi seguaci, tra cui Bentham, diventa cecità,
poiché questi costruiscono l’assetto della political economy come il regno dei soli
rapporti strumentali, tralasciando qualsiasi riferimento riconducibile al “civile”.
Un filosofo di spicco che si posiziona sulla traiettoria del pensiero moderno che
smarrisce il senso del civile è Hegel.
Per Hegel nella società civile, cioè economica, i rapporti tra i soggetti sono
puramente auto-interessati e il fine di ogni individuo é di conseguenza
esclusivamente “egoistico”.
L’economia viene sganciata dal civile e dal principio di reciprocità viene così
definita “incivile”, non preoccupandosi più del bene comune.
Si torna al conflitto tra interesse pubblico ed interesse privato, tra Stato ed
individuo, già incontrato nella “notte del civile” con Hobbes. Allo “Stato etico”
hegeliano viene attribuito il compito esclusivo di sedare gli inevitabili conflitti che
scoppiano nel mercato e per portare ai cittadini giustizia e pace, questione di cui
il singolo individuo non deve preoccuparsene minimamente.
15
L’utilitarismo e la definitiva affermazione della political
economy
Un altro passaggio importante in questa fuga dall’economia civile è l’utilitarismo
di Bentham, il momento in cui la “felicità” diventa “piacere” e la “pubblica felicità”
la somma dei piaceri individuali, perdendo così ogni contatto con le virtù civili.7
Le parole chiave dell’economia con Bentham diventano pleasure nell’intendere la
felicità e utility da cui prende il nome la filosofia dell’utilitarismo.
“Per utilità si intende quella proprietà di ogni oggetto per mezzo del quale esso
tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità”.8
Dunque, utilità è la proprietà della relazione tra un soggetto e il bene/servizio,
mentre felicità è la proprietà della relazione tra persona e persona (relazione con
l’altro da cui non si prescinde). Con l’avvento dell’utilitarismo, utilità coincide
con felicità, concetto che influenzerà tutta la scienza economica neoclassica,
producendo l’eclissi della “felicità” come oggetto dagli studi dell’economia.
Una continuità di tale approccio si può riconoscere anche in Wicksteed, la cui
teoria della socialità ribadisce l’economia come luogo di relazioni anonime e
impersonali. La sfera economica, secondo Wicksteed, è quella caratterizzata dai
rapporti puramente anonimi, spersonalizzati e, quindi, strumentali. L’altruismo
esiste, ma in ambiti diversi da quello economico, nel quale non trova dunque
spazio la reciprocità.
Appare evidente che, a partire dalla metà, circa, dell’Ottocento, la visione civile
del mercato inizia a scomparire dalla scena sia della ricerca scientifica sia del
dibattito politico-culturale. Le cause sono, da un lato, la penetrazione e diffusione
degli ambienti culturali europei dell’utilitarismo di Bentham come filosofia
vincente e, dall’altro, l’affermazione piena della civiltà industriale con la
Rivoluzione Industriale di fine Settecento.
Si ricorda che l’Utilitarismo trova fondamento nel Consequenzialismo, secondo
cui le scelte delle azioni individuali vanno valutate rispetto alle conseguenze:
7 Da “An introduction to the principles of morals and legislation”, pubblicato nel 1789.
8
Bentham 1998, 90-91, corsivi aggiunti.
16
 il valore dell’azione è interamente ed esclusivamente determinato dal valore
delle sue conseguenze a prescindere dalle intenzioni e dalle disposizioni
dell’agente;
 la bontà della conseguenza è funzionale alla soddisfazione del soggetto che
l’ha posto in essere;
 la sola base eticamente giustificabile per valutare le conseguenze è il
benessere, espresso sulla base dell’utilità.
Altro aspetto determinante nella teoria utilitarista è quello relativo ai meccanismi
di calcolo del benessere collettivo, inteso come semplice aggregazione del
benessere dei singoli. La sommatoria delle utilità individuali è lo strumento per
scegliere tra opzioni alternative. Non trova espressione nell’orizzonte
dell’utilitarismo la giustizio distributiva.
Ulteriore sostegno alla cultura, ormai dominante, dell’utilitarismo viene dato dal
Positivismo di fine Ottocento, fondamentale nel suo impatto sulla scienza
economica. Il contributo maggiore al distacco dall’economia civile avviene nel
momento in cui l’economia viene innalzata a scienza esatta (determinanti i lavori
di Vilfredo Pareto), quindi libera dall’etica.
Anche la Rivoluzione Industriale rappresenta un evento fondamentale nello
sviluppo del paradigma utilitarista, poiché con essa nasce la società industriale.
Si tratta di un nuovo modello di ordine sociale che si colloca agli antipodi del
modello di civiltà cittadina che contraddistingueva la società civile.
Con l’avvento del sistema di fabbrica si diffonde, nella società occidentale, uno
stile di vita basato sulla separazione non solo concettuale, ma anche pratica tra
produzione e consumo testimoniata dalla separazione tra uomo-lavoratore
portatore di forza produttiva e uomo-consumatore portatore di bisogni.
Nascono nuovi termini all’interno dell’universo economico: efficienza,
ottimizzazione, massimizzazione della produzione.
Lo sviluppo tecnologico e l’evoluzione dell’economia produttiva portano ad una
sempre più definita divisione del lavoro, tra ruoli e funzioni all’interno della
fabbrica. Questa ripartizione dei compiti ha come conseguenza la divisione in
classi, categorie all’interno della società. Tale fenomeno ritrova le sua fondamenta
teoriche nel taylorismo, nel quale ci si avvia sempre più verso una progressiva
dequalificazione e spersonalizzazione del lavoratore. Si assiste all’esclusione
17
dell’individuo come soggetto pienamente attivo e determinante nella produzione,
con il fenomeno di alienazione dell’operaio e del suo lavoro rispetto al bene
prodotto (Karl Marx). Quello stesso lavoro che, ormai non più valore, è una
semplice variabile, peraltro sempre più marginale, nel calcolo della funzione di
produzione.
Sorge, in questa epoca, la prima forma di consumo opulento che, poi nel
ventesimo secolo, diverrà la cultura dominante nel mondo occidentale. Prende il
sopravvento un modello di società di mercato assai diversa da quella della
tradizione di pensiero dell’economia civile. Il mercato è un’istituzione che poggia
su un ben definito sistema normativo, che tuttavia non impedisce i
comportamenti opportunistici. Alla luce di ciò diventa dominante un altro
concetto che in precedenza nell’economia non aveva tale visibilità: la
competizione.
Ha luogo una vera scissione tra sfera dell’economia e sfera del civile, dove
quest’ultima trova spazio esclusivamente all’interno della famiglia, della società
civile e delle organizzazioni non profit. Il mondo delle relazioni esterne è
competizione, è selezione. Da questa nuova visione della realtà sociale, da un lato
va a definirsi il modello dell’homo oeconomicus9 e dall’altro il modello dell’homo
sociologicus.
L’individuo agisce sospinto esclusivamente dal self-interest. L’unico valore degno
di nota all’interno dei confini del mercato diventa l’efficienza, ossia l’adeguatezza
dei mezzi rispetto al fine, l’interesse di chi li realizza. Non c’è più spazio per
qualche forma di etica, se non esclusivamente nel rispetto della legge.
9
L’homo oeconomicus è un individuo razionale spinto dal self-interest. Egli persegue come
obiettivo la massimizzazione del proprio benessere, intesa in linguaggio matematico, come
funzione di utilità. Egli si impegna nel perseguire un certo numero di obiettivi cercando di
realizzarli in maniera più ampia possibile e con costi minori.
18
I principi regolativi dell’economia civile
L’economia di mercato civile
Fin qui è stata fatta chiarezza sui percorsi, diversi senz’altro, ma spesso
intrecciati tra economia civile ed economia politica. Si è dimostrato,
riorganizzando gli eventi cronologici che hanno segnato la storia del pensiero
economico, la totale infondatezza di un opposizione chiara e definita, secondo
una visione manichea, tra questi due paradigmi teorici. I punti d’incontro sono
molti, ma è inutile dall’altro lato negare l’evidenza di due visioni della realtà
economica alternative tra loro.
Infatti “l’economia civile non rappresenta nient’altro che un punto di vista
alternativo, ma non contrario, rispetto al paradigma dominante nella teoria
economica” (Zamagni).
Aldilà delle influenze filosofiche, del percorso evolutivo delle due teorie
economiche, dei principi fondamentali dell’economia civile, delle giustificazioni
storico-sociali del dominio della political economics, finora esposti, è necessario
dare una definizione più precisa di economia civile attraverso la rassegna dei suoi
principi regolativi.
In primo luogo, a conferma della sussistenza di fondamenta comuni su cui si
basano la political economics e la civil economics, anche quest’ultima può essere
definita un’economia di mercato. Già questa affermazione è rivoluzionaria, in
quanto il termine di economia di mercato è comunemente utilizzata come
sinonimo di economia capitalistica nella sua visione dualistica di economia
liberista di mercato e economia sociale di mercato.
Ogni economia di mercato si fonda su una serie di principi:
1. Il concetto di divisione del lavoro, ovvero la specializzazione delle
mansioni che ha come conseguenza la realizzazione di scambi endogeni
(differenti da quelli “esogeni”, derivanti dall’esistenza di un surplus) che,
quindi, vanno ad aumentare la produttività del sistema in cui si inseriscono
(Francescanesimo del 1300, ma anche Adam Smith nel 1700);
2. L’idea di sviluppo che, da un lato, presuppone l’esistenza di solidarietà
intergenerazionale, ovvero di interesse da parte della generazione presente
19
nei confronti di quelle future, mentre, dall’altro, si lega a quello di
accumulazione (Umanesimo del 1400);
3. Concetto di libertà d’impresa, secondo il quale chi è in possesso di doti
imprenditoriali deve essere lasciato libero di iniziare un’attività. Per doti
imprenditoriali si intendono: la propensione al rischio (ovvero
l’impossibilità di avere garanzia dei risultati derivanti dall’attività
imprenditoriale), l’innovatività o creatività (ovvero la capacità di aggiungere
in maniera incrementale conoscenza al prodotto/processo produttivo), l’ars
combinatoria (l’imprenditore, conoscendo le caratteristiche dei partecipanti
all’attività imprenditoriale, le organizza per ottenere il risultato migliore).
Questo principio introduce gli individui alla competizione;
4. il fine, ovvero la tipologia di prodotto (bene o servizio) da ottenere.
È in particolare quest’ultimo principio a differenziare l’economia civile
dall’economia di mercato capitalistica: se, infatti, quest’ultima ha assunto come
fine proprio del suo agire l’ottenimento del cosiddetto bene totale, l’economia
civile persegue, invece, ciò che va sotto il nome di bene comune.
La differenza tra i differenti fini perseguiti dalle due suddette economie di mercato
si può sintetizzare come segue. Il bene totale può essere calcolato come
sommatoria dei livelli di benessere (utilità) dei singoli:
Il bene comune, invece, tende all’ottenimento della produttoria dei livelli di
benessere dei singoli:
I due concetti differiscono per il fatto che nel primo caso il bene di qualcuno può
essere annullato senza cambiare il risultato finale; viceversa, nel caso del bene
comune, essendo esso il risultato di una produttoria, annullando anche uno solo
dei livelli di benessere si annulla il risultato finale. Traspare in maniera evidente
20
come, secondo la teoria civile, principi come quelli di equità e giustizia non siano
fini a loro stessi ma, secondo questo modello di calcolo, fondamentali per il
perseguimento del benessere collettivo. In questo senso sembra profilarsi già una
maggior sensibilità da parte dell’economia civile, attraverso la forma dell’economia
civile di mercato, nei confronti di temi etici quali equità sociale, coinvolgimento
degli individui, benessere diffuso, rispetto alle fattispecie dell’economia liberista di
mercato e dell’economia sociale di mercato orientati prevalentemente
all’accumulazione di benessere totale.
Gli ordini sociali e il principio di reciprocità
Si è citata l’economia di mercato secondo i suoi principi fondanti e le sue diverse
sfaccettature, ma è necessario fare un passo indietro nella definizione stessa di
mercato. Il mercato, in una visione ormai matura, non è un semplice meccanismo
di allocazione delle risorse, ma è un’istituzione sociale che si regge su specifiche
norme basate su convenzioni e prassi culturali.
Con l’economia civile, il mercato subisce la socialità umana e ingloba la
reciprocità all’interno di una normale vita economica, partendo dal presupposto
che possano esistere principi aggiuntivi al profitto e allo scambio strumentale.
Ne deriva che la sfida dell’economia civile è quella di far coesistere, all’interno del
medesimo sistema sociale, tutti e tre i principi regolativi riconducibili all’ordine
sociale.
Questi principi sono:
1. lo scambio di equivalenti di valore: le relazioni si basano su un prezzo,
che è l’equivalente in valore di un bene/servizio scambiato. Si tratta del
principio che garantisce l’efficienza del sistema;
2. il principio di redistribuzione: per essere efficace, il sistema economico
deve redistribuire la ricchezza tra tutti i soggetti che ne fanno parte per dar
loro la possibilità di partecipare al sistema stesso. Si tratta del principio
che garantisce l’equità del sistema;
21
3. la reciprocità: è il principio fondante dell’economia civile ed è
caratterizzato dalla presenza di tre soggetti, di cui uno (homo reciprocans)
compie un’azione nei confronti di un altro mosso non da "pretesa" di
ricompensa dell’azione stessa, bensì da aspettativa, pena la rottura della
relazione tra le due.
Negli scambi, governati da quest’ultimo principio, si susseguono una serie di
trasferimenti bi-direzionali, indipendenti, ma allo stesso tempo interconnessi. Il
fatto che gli scambi siano indipendenti implica la volontà, la libertà in ogni
trasferimento, in modo tale che nessuno di questi possa essere un prerequisito di
uno successivo.
La bi-direzionalità dei trasferimenti, inoltre, permette di differenziare la
reciprocità dal mero altruismo 10 , che si manifesta attraverso trasferimenti
unidirezionali, pur avendo a che fare, in entrambi i tipi di scambio, con
trasferimenti di natura volontaria.
L’ultima caratteristica degli scambi regolati dal principio di reciprocità è
la transitività: la risposta dell’altro può anche non essere rivolta versa colui che
ha scatenato la reazione di reciprocità, bensì è ammissibile che sia indirizzata
verso un terzo soggetto.
Attuando questi comportamenti l’homo reciprocans non solo agisce mettendo in
primo piano le emozioni (la cosiddetta intelligenza emotiva), bensì riesce anche a
rendere la razionalità "ragionevole", in modo tale che i sentimenti possano essere
maggiormente rilevanti rispetto alla pura e semplice razionalità, intesa come
l’utilità caratteristica dell’homo oeconomicus.
Il fine della reciprocità è l’affermazione della fraternità, principio che permette
agli “uguali” di essere “diversi” "e" postula, di conseguenza, il pluralismo, il quale
permette ad una società di garantirsi un futuro e di non scomparire.
10 La filantropia, a cui si ricorre nel mondo capitalista, non ha nulla a che vedere con la
reciprocità.
22
I beni relazionali
Un importante elemento di novità introdotto dall’economia civile è rappresentato
da un tipo di bene alternativo a quelli presi in considerazione comunemente nella
teoria economica classica: il cosiddetto bene relazionale. Si tratta di un bene la
cui utilità per il soggetto che lo consuma dipende, oltre che dalle sue
caratteristiche intrinseche ed oggettive, dalle modalità di fruizione con altri
soggetti.
Il bene relazionale è una tipologia di bene con determinate caratteristiche: esso,
infatti, postula la conoscenza dell’identità dell’altro, in cui i soggetti coinvolti si
conoscono a fondo; si tratta, inoltre, di un bene anti-rivale, il cui consumo
alimenta il bene stesso, e che richiede un investimento di tempo, bensì non di
mero denaro.
Pertanto, la produzione di beni relazionali non può essere lasciata all’agire del
mercato in quanto non può avvenire secondo le regole di produzione dei beni
privati, perché nel caso dei beni relazionali non si pone solo un problema di
efficienza, ma anche di efficacia. Al contempo, essa non può avvenire nemmeno
secondo le modalità di fornitura dei beni pubblici da parte dello Stato, anche se i
beni relazionali hanno tratti comuni con i beni pubblici.
Per tale ragione, le nostre società hanno bisogno di soggetti di offerta che fanno
della relazionalità la loro ragione di esistere: in questo senso nasce assieme
all’economia civile un nuovo tipo di impresa: l’impresa civile. Sostanzialmente si
tratta di una sorta di espressione della società civile che riesce ad inventarsi un
assetto organizzativo capace, per un verso, di liberare la domanda dal
condizionamento, talora soffocante, dell’offerta, facendo in modo che sia la prima
a dirigere la seconda e, per l’altro verso, di acculturare il consumo facendo in
modo che questo, entrando nella produzione, costituisca un avere per essere.
La funzione obiettivo di un’impresa civile è, allora, quella di
produrre intenzionalmente, nell’ammontare più elevato possibile, esternalità
sociali, che rappresentano uno dei più rilevanti fattori di accumulo di capitale
sociale. Esempi efficaci di imprese civili sono le organizzazioni non-profit e tutto
il mondo aziendale riconducibile al cosiddetto terzo settore, alternativo ai due
mondi del mercato-privato e del pubblico-stato.
23
Allo stesso modo le imprese civili rappresentano la più grande rappresentazione
in termini di organismo sociale della filosofia del civile che si è evoluta nei secoli
ed è una sorta di punto di arrivo di tale percorso.
Le ragioni del ritorno della prospettiva di economia civile
I limiti dell’economia politica
Sussistono due insiemi di ragioni fondamentali nel ritorno dell’economia civile in
tempi recenti. Da un lato la presa d’atto, da parte degli economisti
contemporanei, che una comprensione adeguata dell’odierno processo economico
postula il superamento del carattere riduzionista di gran parte della teoria
economica moderna. L’applicazione della political economics non trova più
risultati soddisfacenti rispetto alle nuove esigenze sociali, culturali, economiche.
Basandosi spesso su assunzioni teoriche particolarmente forti, ma fonti di
fenomeni distorsivi, tra le altre l’individuo come homo oeconomicus, danno
soluzioni semplici rispetto alla complessità della realtà economico-sociale.
Per esempio, la teoria economica non sembra essere in grado di far presa sui
nuovi problemi che tormentano le nostre società quali la salvaguardia ambientale,
le disuguaglianze sociali in aumento, il senso di insicurezza che colpisce i
cittadini nonostante l’aumento delle ricchezze, la perdita di senso delle relazioni
interpersonali.
Dall’altro lato, sussiste la consapevolezza che di fronte a questioni cruciali quali
la crisi del modello tradizionale di welfare state e le difficoltà crescenti di
assicurare a tutte le persone un’attività lavorativa gratificante, sia necessario
riflettere sulle caratteristiche di fondo dell’attuale modello di crescita, piuttosto
che continuare ad affrontare tali questioni con manovre spesso tampone o di
ripiego.
24
La questione occupazionale e la crisi del welfare state
Tra le altre, merita senza dubbio, una più approfondita riflessione la questione
occupazionale. Il welfare state, spesso riconducibile al modello più efficace in
chiave di equità e giustizia, non sembra più lo strumento efficace nella risoluzione
di tali problematiche in una realtà ormai globale e altamente competitiva.
Benché i valori che lo hanno sorretto fin dal suo nascere e benché rappresenti
una delle più alte manifestazioni del progresso democratico e civile entro il
contesto della civiltà industriale, lo Stato Sociale è in crisi.
Il problema non è di natura fiscale, ma deriva dall’incapacità di un modello di
coniugare in maniera armonica valori fondamentali quali equità e libertà. Non
sembra in grado di trovare la collocazione ottimale nel trade-off tra sicurezza e
libertà.
L’aspetto principale dello Stato Sociale è la socializzazione dell’incertezza in
chiave assistenzialista. Il passaggio dalla società fordista a quella postfordista
però causa un mutamento della natura dell’incertezza. Un esempio lampante è la
questione relativa all’occupazione: il lavoro cambia natura attraverso la
separazione tra attività lavorativa (work) e posto di lavoro (job). Per lungo tempo
attività lavorativa e posto di lavoro hanno significato la stessa cosa, ma con il
passaggio a una società soggetta al fenomeno del de-jobbing il posto di lavoro
fisso non esiste più.
Il disagio di questi tempi deriva dal fatto che la flessibilità lavorativa odierna dà
opportunità e valorizza talenti ma, allo stesso tempo, nella precarietà delle
condizioni del passaggio da un’attività lavorativa ad un’altra, genera insicurezza.
In passato invece il posto fisso, nonostante potesse essere alienante ed inficiare la
libertà, almeno dava certezze.
Le soluzioni adottate dal sistema di welfare state scontano la loro inefficacia a
causa del fenomeno della globalizzazione e all’apertura a nuovi mercati,
imponendo, come unica chiave di successo nella creazione di posti di lavoro, il
ricorso a politiche manageriali orientate alla competitività selvaggia.
25
Tuttavia questa nuova regola aurea dell’occupazione11 risulta insostenibile nel
lungo periodo. Infatti, se una società registra aumenti costanti di produttività
media, al fine di mantenere immutato il livello di impiego, deve aumentare allo
stesso ritmi i propri consumi. Allo stesso tempi però, l’aumento dell’intensità del
consumo riduce l’utilità degli individui, soprattutto nella fase post-industriale in
cui gran parte del benessere è già stata ottenuta (Linder 1970).
Allo stesso tempi il rischio è quello che la competizione si trasformi in
competizione posizionale (Hirsch 1976), la quale si esprime sui beni posizionali12.
È una competizione distruttiva perché peggiora il benessere individuale e sociale,
in quanto, mentre genera lo spreco da opulenza, lacera il tessuto sociale.
La soluzione dell’economia civile
Dunque, il limite del welfare state è quello di non poter affrontare in maniera
risolutiva la piaga della disoccupazione. Gli strumenti adottati rischiano di
generare pericolosi trade-offs per le società: per distribuire un lavoro a tutti si
impone uno stile di vita neoconsumista, oppure si legittima nuove forme di
povertà (working poors13), oppure si restringono gli spazio di libertà dei cittadini e
ciò nella misura in cui non si consente loro di concorrere a determinare il menù
dei beni da consumare. Tutto ciò è inaccettabile sotto il profilo etico e certamente
non sostenibile sotto quello economico.
In questo senso, nei prossimi paragrafi verrà descritta una possibile soluzione
alla problema occupazionale ricorrendo ai principi su cui si fonda l’economia
civile.
Tutto parte dalla separazione concettuale tra posto di lavoro e attività di lavoro.
L’intuizione dell’economia civile è che restando nell’ambito del solo mercato dei
beni privati è impensabile sperare di dare lavoro a tutti quello che vengono
11 I posti di lavoro aumentano con l’aumento dei margini di competitività dell’impresa: solamente
imprese competitive possono nascere e crescere e così facendo possono creare impiego.
12 Sono quei beni che possono essere consumati solamente se distribuiti in modo ineguale tra una
pluralità di soggetti. Per esempio i beni socialmente scarsi, richiesti in quanto mezzi di distinzione
o di prestigio.
13 Individui che lavorando ottengono un reddito sotto la soglia di povertà.
26
“liberati” a seguito degli aumenti di produttività senza che ciò scateni i problemi
di sostenibilità precedentemente descritti.
È necessario incanalare il lavoro liberato verso attività che producono beni che il
mercato privato non ha interessi a produrre, per sua stessa natura. Tra questi
beni ricadono i beni relazionali, i beni di merito e diverse tipologie di beni
pubblici, tutti beni a cui risulta impensabile applicare la logica dello scambio
degli equivalenti.
Bisogna superare l’assunto che identifica il lavoro come solo quello che transita
sul mercato privato. Invece, il lavoro è definibile come quell’insieme di attività
necessarie alla crescita umana, ma dell’uomo inteso nella globalità delle sue
dimensioni.
È necessario aggiungere alle attività monetarizzate, che passano attraverso il
mercato privato, le attività non monetarizzate e, soprattutto, iniziare a
contabilizzarle.
È fondamentale superare il dualismo che contrappone produzione e lavoro a
consumo e tempo libero, attraverso il riconoscimento di una nuova categoria di
soggetti riconducibile alla società post-industriale: i prosumers.
I prosumers auto-producono una parte del proprio consumo. In questi nuovi
soggetti si può riconoscere la convergenza tra lavoro e consumo.
Il consumatore diventa un attore sociale che scopre di detenere un potere di
influenza non solo nei confronti di cosa si produce, ma anche di come lo si
produce. L’era post-industriale ci direziona verso un nuovo modello di crescita
ormai riconducibile ad una specifica domanda di qualità della vita.
Non è una mera domanda di beni manifatturieri ben fatti, ma piuttosto una
domanda di attenzione, di cura, di servizio, di partecipazione, insomma di
relazionalità. La qualità richiesta non è tanto quella dei prodotti oggetto di
consumo, quanto piuttosto di qualità delle relazioni umane.
27
Da welfare state a welfare society
La soluzione dell’economia civile si esprime attraverso la trasformazione del
modello tradizionale di welfare state nel modello di welfare society.
Prima di definire nel dettaglio le modalità di realizzazione di una società del
benessere è bene richiamare il presupposto fondamentale secondo cui il welfare
va mantenuto su basi universalistiche. Buchanan (1997) definisce una
democrazia stabile dal momento in cui i suoi programmi di welfare si ispirano a
principi di generalità, cioè di universalismo. Programmi di welfare che
discriminano tra i gruppi sociali finiscono per indebolire il sostegno della società
all’intero processo politico.
Universalismo che, tuttavia, è assunzione necessaria ma non sufficiente, per il
buon funzionamento di un modello di welfare, in quanto la questione
fondamentale coincide con il rischio che il sistema degeneri in assistenzialismo.14
Per evitare ciò, è bene richiamare la triplice funzione dello stato-regolatore: la
definizione del pacchetto dei servizi sociali, con i relativi standard qualitativi, che
si intendono assicurare ai cittadini; la fissazione delle regole d’accesso alle
prestazione e i conseguenti interventi in chiave redistributiva finalizzati alla
fruizione effettiva di tutti i cittadini; l’esercizio delle forme di controllo sulle
erogazioni effettive delle prestazioni.
La teoria definisce sostanzialmente tre modelli di welfare society.
Il modello neostatalista secondo cui lo Stato deve conservare il monopolio della
committenza, pur rinunciando, in tutto o in parte, al monopolio della gestione dei
servizi di welfare. Il cosiddetto welfare mix, in quanto nell’erogazione del servizio,
l’ente pubblico si avvale della collaborazione fattiva delle imprese civili. Il ruolo del
terzo settore è dunque quello di risorsa supplementare e/o complementare
all’intervento dell’ente pubblico.
Il secondo modello è quello del compassionate conservatorism che si affida al
fenomeno della filantropia e all’azione volontaria, che, tuttavia, già deficita del
principio universalista. Questo modello, favorito dal pensiero liberal-
individualsta, vede il terzo settore come segmento minore del mercato privato.
14 L’assistenzialismo è una delle concause della crisi in corso.
28
Il terzo modello è quello civile, secondo cui alle organizzazioni della società civile
va riconosciuta la capacità di diventare partner attivi nel processo di
programmazione degli interventi e nell’adozione delle conseguenti scelte
strategiche.
Si presuppone però la necessità di una nuova regolamentazione di tali
organizzazioni a cui va riconosciuta una soggettività, non solamente giuridica, ma
anche economica. Per perseguire tale obiettivo, tuttavia, bisogna garantire
l’indipendenza economico-finanziaria per gli enti del terzo settore.
Un metodo è la creazione di una nuova categoria di mercati, i mercati di qualità
sociale.
I mercati di qualità sociale.
Affinché il welfare civile possa essere adottato è necessario attivare una specifica
tipologia di mercati, in cui si opera in maniera diversa dai privati: i mercati di
qualità sociale. Nei mercati di qualità sociale le risorse che lo Stato ottiene dalla
fiscalità generale e che decide di destinare al welfare vengono utilizzate per
interventi di promozione e sostegno della domanda di servizi sociali. I fondi
pubblici dunque vengono utilizzati per finanziare la domanda invece che
l’offerta.15
Dall’altro lato, bisogna intervenire sul lato dell’offerta dei servizi, con misure
legislative e amministrative per assicurare la pluralità dei soggetti di offerta dei
vari servizi in modo da scongiurare monopoli, posizioni di rendita e consentire
una reale libertà di scelta da parte dei cittadini. In definitiva il mercato di qualità
sociale inserisce la dimensione sociale dentro il mercato, invece che a monte
(welfare mix) o a valle (compassionate conservatorism).
Un mercato di qualità sociale poggia su tre pilastri:
- l’ente pubblico finanzia il portatore di bisogni allo scopo di trasformare una
domanda di servizi potenziale in una domanda effettiva;
15 Gli strumenti adottabili possono essere buono-servizi alla deducibilità fiscale, alla promozione
di forme di mutualismo diffuso sul territorio ecc.
29
- l’ente pubblico, onde evitare fenomeni distorsivi legati ad asimmetria
informativa, procede ad accertare la reale capacità dei soggetti di offerta a
fornire le prestazioni alle quali costoro sono interessati;
- l’esercizio della libertà di scelta da parte dei portatori di bisogni realizza
una sorta di competizione tra soggetti di offerta dei servizi alla persona su
base qualitativa.16
Il mercato di qualità sociale si smarca dal mercato capitalistico dal momento che
può essere definito una sorta di mercato relazionale, nel quale vengono prodotti
e scambiati beni che non sono monetizzabili e che postulano l’adozione di
pratiche relazionali.
Il mercato di qualità permette, in definitiva, di applicare a livello pratico il
principio di reciprocità, pilastro dell’economia civile, presupponendo un altro
principio fondamentale: il principio personalista, secondo cui l’essere umano non
è solo individuo, realtà distinta e autosufficiente, ma è soprattutto persona, cioè
diventa pienamente se stesso nel rapporto di reciprocità con l’altro.
Attraverso l’adozione del principio di reciprocità, il coinvolgimento maggiore del
terzo settore e la salvaguardia delle imprese civili, la creazione di mercati di
qualità va a profilarsi la proposta di riforma del nostro sistema di welfare e,
conseguentemente, del nostro sistema socio-economico.
16 De Vincenti e Gabriele 1999.
30
Prospettive e conclusioni
Per decenni il dibattito economico, espressione di filosofie sociali, antropologiche
e politiche si è focalizzato sul dualismo tra Stato, nell’ideologia socialista, e
mercato privato, nell’ideologia capitalista. Una contrapposizione poi diventata
scontro violento durante il Ventesimo Secolo. Da un lato il mercato, in cui
vengono perseguiti gli scopi degli individui e in cui il principale strumento di
regolazione è il contratto, dall’altro lo Stato che si esprime attraverso il monopolio
dell’azione politica con l’emanazione delle leggi.
Una contrapposizione che, tuttavia, si è bilanciata, in discreto equilibrio, nel
mantenimento dell’ordine sociale. Il rapido susseguirsi della crisi del modello
socialista, del fenomeno della globalizzazione e dell’attuale crisi del modello
capitalista, hanno portato alla peggior crisi economica della storia moderna,
scompaginando e disgregando, a tutti i livelli, sovrastrutture socioeconomiche
apparentemente solide e profilando la necessità di seguire altre strade.
In effetti, in breve tempo, i paradigmi dell’economia politica, le sue assunzioni
teoriche e le dedotte ricette economico-sociali, sono andati incontro ad un
declinare delle loro “quotazioni/gradimenti”. Soprattutto, nel mondo occidentale,
il delicato equilibrio tra capitalismo e democrazia sembra essersi rotto. Sebbene
declinato in modo diverso in America ed Europa, questo equilibrio si basava su
un capitalismo in grado di arricchire tutti e di una democrazia che rinunciava agli
eccessi redistributivi per garantire il prosperare del sistema di mercato. A sigillare
questo patto contribuiva un sistema fiscale e previdenziale che gratificava le
generazioni presenti, trasferendo i costi su quelle future. Fintantoché le
generazioni future erano più numerose e più ricche, il peso di questo
trasferimento era minimo: il cosiddetto free lunch.
Ora questo gioco non trova più partecipanti e le sue regole non sono più
largamente condivise come prima.
La crisi economica e l’evidente insostenibilità di lungo periodo hanno minato per
la prima volta in maniera seria un modello teorico vincente per secoli.
Ma è anche vero che i momenti più bui, di maggior sfiducia ed incertezza, si sono
rivelati spesso preambolo di vere e proprie età di rivoluzione civica; esempio
citabile è quello dato dei fenomeni dell’Umanesimo e del Rinascimento dopo il
31
Medioevo. Fase storica che tra l’altro coincide anch’essa con un periodo di
fioritura dell’economia civile.
La riproposizione dell’economia civile è riconducibile alle nuove esigenze della
società moderna: un ritorno ai principi valoriali, agli ideali di benessere, alle
regole comportamentali di un ordine sociale che vadano a definire una “civiltà
cittadina”.
Per certi versi, si tratta di un passo indietro per seguire un sentiero che nei secoli
si era abbandonato, nel tentativo di ricercare un modello che si contraddistingua
per un funzionamento sostenibile della società, attraverso la definizione di una
nuova prospettiva culturale da cui gettare le basi per una diversa teoria
economica. Ne consegue la possibile nuova Golden Age dell’economia civile che,
si badi bene, non è in contrapposizione all’economia politica, ma un punto di
vista alternativo, non contrario rispetto al paradigma dominante della teoria
economica. Si sono potuti identificare diversi punti di incontro, a partire dai
percorsi evolutivi, spesso intrecciati, per arrivare alla condivisione di diversi
principi regolativi, ma, allo stesso tempo, non mancano evidenti differenze.
L’economia civile è anch’essa economia di mercato al pari dell’economia liberista
di mercato e dell’economia sociale di mercato riconducibili al paradigma della
political economics, ma il fine è completamente diverso: vi è un orientamento verso
il bene comune piuttosto che il bene totale, introducendo nei meccanismi di
calcolo economico, valori quali giustizia, equità, redistribuzione.
Con l’economia civile il mercato incorpora la reciprocità all’interno della vita
economica, raggiungendo un equilibrio con lo scambio di equivalenti di valore e il
principio di redistribuzione quali fondamenti regolativi dell’ordine sociale.
Si presentano nuovi termini e nuovi soggetti tra cui l’homo reciprocans che si
esprime attraverso il dono ricucendo il principio di reciprocità al principio di
contratto.
Tali concetti hanno sofferto una netta separazione andando a definire forme
alternative di organizzazione della vita in comune, ciascuno con il proprio ambito
di applicazione esclusiva: il mercato per il contratto e tutto il resto per la
reciprocità. Principio di reciprocità rimasto confinato alla vita privata anche
durante il Novecento con l’avvento del “palliativo” principio di redistribuzione
della ricchezza. Questa separazione e successiva sostituzione hanno portato ad
32
un profondo distacco dell’economia contemporanea dalla tradizione dell’economia
civile, attraverso l’emarginazione della reciprocità dalla vita economica.
Finora, infatti, in nessuna società contemporanea i tre principi regolativi hanno
trovato terreno fertile dal punto di vista culturale ma anche regolamentare per
coesistere.
Ma allo stesso tempo l’evidenza empirica dimostra come lo stesso mercato, per
poter funzionare ed essere sostenibile, abbia bisogno naturalmente dello scambio
strumentale, ma anche di gratuità, di redistribuzione del reddito, di relazionalità.
Ci si rende dunque conto di come la ricerca scientifica in campo socio-economico
debba applicarsi nell’allargare gli orizzonti al fine di poter essere in grado di
rispondere alle nuove esigenze e nuove sfide che contraddistinguono una società
ormai evoluta.
La necessità di ridefinire e rendere più efficaci strumenti quali il welfare state
deve spingere gli studiosi prima, i legislatori poi e ancora di più ogni individuo a
cambiare strategie decisionali e tecniche comportamentali.
La creazione dei mercati di qualità sociale, il coinvolgimento del terzo settore, la
regolamentazione e conseguente salvaguardia delle imprese civili costituiscono
esempi di come un paradigma teorico come l’economia civile, alternativo al
modello finora dominante, possa dare soluzioni pratiche nella proposta di riforma
del nostro sistema di welfare e garantire risultati validi nella gestione del nostro
sistema socio-economico.
Restano evidenti le difficoltà e le insidie insite nella traduzione pratica della
prospettiva dell’economia civile. Pensare che processi di trasformazione o di
transizione non rechino tassi anche elevati di conflittualità sarebbe ingenuo.
D’altro canto è proprio nei momenti di crisi ed incertezza, quali quello odierni, in
cui si può rinvenire il terreno più fertile per la ricerca e l’adozione di nuovi
principi filosofici, modelli teorici, strumenti pratici volti all’attuazione di soluzioni
finalizzate alla ricerca del benessere sociale.
33
Bibliografia
Bruni, L., Zamagni, S., Economia Civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il
Mulino, Bologna, 2004.
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Pelligra V., I Paradossi della Fiducia, Il Mulino, 2007.
Sacco P. L. e Zamagni S. (a cura di), Complessità Relazionale e Comportamento
Economico, Il Mulino, 2002.
Sacco P.L. e Zamagni S. (a cura di), Teoria Economica e Relazioni Interpersonali, Il
Mulino, 2006.

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L’evoluzione storica ed i principi regolativi dell’economia civile: verso una nuova “Golden Age”?

  • 1. 1 Università degli Studi di Bologna Scuola di Economia, Management e Statistica Corso di Laurea Magistrale in Economia e Diritto Corso di Economia Civile e Sistemi di Welfare Prof. Stefano Zamagni L’evoluzione storica ed i principi regolativi dell’economia civile: verso una nuova “Golden Age”? di Carlo Signor Giugno 2013
  • 2. 2 Sommario Introduzione............................................................................................... 3 Le radici dell’economia civile...................................................................... 4 Il Medioevo: dalla cultura monastica al francescanesimo................................................................4 L’umanesimo civile .........................................................................................................................................6 La notte del civile............................................................................................................................................7 L’età dell’oro dell’economia civile............................................................... 9 Genovesi e la scuola napoletana...............................................................................................................9 I concetti fondamentali dell’economia civile. .................................................................................... 10 Declino del “civile” e affermazione dell’economia politica..........................13 I punti in comune dell’umanesimo civile con la filosofia smithiana.......................................... 13 La caesura tra economia civile ed economia politica ..................................................................... 14 L’utilitarismo e la definitiva affermazione della political economy............................................ 15 I principi regolativi dell’economia civile ....................................................18 L’economia di mercato civile................................................................................................................... 18 Gli ordini sociali e il principio di reciprocità....................................................................................... 20 I beni relazionali ........................................................................................................................................... 22 Le ragioni del ritorno della prospettiva di economia civile .........................23 I limiti dell’economia politica................................................................................................................... 23 La questione occupazionale e la crisi del welfare state ................................................................. 24 La soluzione dell’economia civile........................................................................................................... 25 Da welfare state a welfare society ......................................................................................................... 27 I mercati di qualità sociale........................................................................................................................ 28 Prospettive e conclusioni...........................................................................30 Bibliografia ................................................................................................33
  • 3. 3 Introduzione Negli ultimi anni, specialmente in concomitanza con la recente crisi economico- sociale, è tornato in auge, negli ambienti accademici e non solo, il modello di teoria economica dell’economia civile. Esso rappresenta un paradigma alternativo a quello, sino ad ora dominante, dell’economia politica di estrazione culturale anglosassone che, spesso, è risultato incapace di rispondere, completamente ed efficacemente alle sfide di una società sempre più complessa ed articolata. É inoltre, corretto parlare di “ritorno”, perché l’economia civile, sul piano cronologico, trova origine nel Medioevo per evolversi, embricandosi con la political economics, scandendo le fasi dello sviluppo del pensiero economico nei secoli e trovando i momenti di massima fioritura durante la prima fase dell’Umanesimo quattrocentesco e il Settecento napoletano, con l’economista Genovesi, prima di venir oscurata dall’economia politica. In realtà, la modernità e la capacità rinnovativa del modello teorico dell’economia civile sono insite nei contenuti, in grado di intercettare molte esigenze della società contemporanea, ma anche nel linguaggio con il ricorrente utilizzo di termini quali relazioni, reciprocità, fraternità, dono, gratuità, bene comune, felicità strettamente connessi con questioni che, ad oggi, si ritagliano un ruolo non marginale nel dibattito socio-economico. Tali considerazioni costituiscono i presupposti razionali per ipotizzare una nuova golden age per l’economia civile e per l’approfondimento/riscoperta delle sue peculiari caratteristiche, specialmente nelle sue implicazioni operative per il XXI secolo. Pertanto, tramite questo working paper, l’autore si pone i seguenti obiettivi: 1. l’inquadramento storico di tale paradigma economico, indagandone l’integrazione evolutiva, fino alla sua sostituzione col più conosciuto modello dell’economia politica; 2. la descrizione dei principi regolativi e fondanti di tale modello, forse in grado di offrire alcune ipotetiche soluzioni alle gravi, talora drammatiche, problematiche economiche/sociali/antropologiche che oggi affliggono le nostre comunità.
  • 4. 4 Le radici dell’economia civile Il Medioevo: dalla cultura monastica al francescanesimo La tradizione dell’economia civile si distingue per aver radici profonde, intrecciate ed in simbiosi con le vicende che hanno portato alla nascita della cosiddetta “società civile”, alternativa, seppur collegata, ai concetti di Stato e di individuo. (Bruni 2004) Se l’idea di società civile si diffonde ai tempi della polis greca o della civitas romana, essa sembra rivelare la sua essenza in seguito alla fioritura del cristianesimo e, quindi, è fondamentale ripercorrere gli eventi cronologici a partire dal Medioevo per meglio percepire l’evoluzione del paradigma sociale, economico, politico e filosofico dell’economia civile. In particolare, va considerato il ruolo essenziale svolto dal monachesimo, che rappresentò, dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente, un grande movimento spirituale europeo, e sul piano civile fu un faro di luce e di civiltà in secoli storicamente ritenuti bui. Monachesimo che, aldilà dell’essere la culla della neonata filosofia civile, è lo stesso luogo di origine del primo vero lessico economico e commerciale, quindi dell’economia moderna in sé; infatti, proprio all’interno delle abbazie, durante il Basso Medioevo, si svilupparono le prime forme complesse di contabilità e gestione che permisero la realizzazione, sebbene in forma primordiale, di ambienti sociali e strutture economiche articolate. Ne è piena espressione il motto benedettino “ora et labora”, non distante dalla cultura del lavoro e dell’economia che ancora oggi è principio fondante di ogni teoria e cultura economica. Un altro passo fondamentale fu il progressivo mutarsi del giudizio da parte dell’etica cristiana tra il II e l’VIII secolo nei confronti del rapporto con i beni e la ricchezza, non più condannati in sé, ma solo se usati con avarizia, che offre una prima giustificazione dell’economia intesa come relazione tra soggetti e beni. Altro punto di incontro con i principi dell’economia moderna che si può ricavare dall’esperienza dei monasteri è l’approccio alla vita e alla comunità. La vita dei monaci era volta allo scopo ultimo della salvezza, una sorta di mission aziendale ante litteram guardando la comunità del monastero come un’impresa moderna. Conseguentemente la loro vita era scandita e organizzata fin nei minimi dettagli
  • 5. 5 secondo un’ottica di razionalità strumentale che è al cuore della cultura e dell’economia occidentale (Max Weber). Ma, forse, la vera rivoluzione ha luogo nel momento in cui la cultura cristiana, ormai dominante in Europa, con i possedimenti dei monasteri, creò le condizioni per la legittimazione etica della proprietà privata, un istituto essenziale per la nascita dell’economia di mercato. Dall’altro lato, con l’apertura relazionale dei monasteri sulle città e l’obbligo del monaco di assistere poveri e concedere prestiti ai bisognosi, si andò a profilare un principio chiave dell’economia civile: il dono. In definitiva, i monasteri fecero da humus per la nascita di linguaggio e cultura che poi andranno a definire tutti i paradigmi economici moderni, ma proprio in queste realtà sociali iniziò a profilarsi la prima idea di economia civile, unica in grado di cogliere la stretta connessione tra caritas ed economia, tra dono e contratto, tra reciprocità e razionalità economica.1 Un altro momento topico della storia del pensiero economico si ebbe con la nascita dei mercati e l’affermazione della classe dei mercanti a partire dal XI secolo. In questo contesto a contribuire da un lato alla prima vera esperienza di economia civile e poi, paradossalmente, a rivelarsi la prima vera scuola economica dalla quale emergerà il moderno spirito del capitalismo 2 è il francescanesimo. Con il francescanesimo ebbe luogo il primo tentativo di una vera e propria riflessione economica. 3 In questa fase si ebbe una dettagliata riflessione sul significato del “possesso”, sulla cultura della povertà medievale, sull’usura, ma soprattutto si assistette alla nascita dei “monti di pietà”, esperienza considerata la prima vera istituzione di economia civile, dai forti caratteri solidaristici e quindi riconducibile al principio di reciprocità.4 Oggi queste organizzazioni potrebbero essere identificate come vere e proprie banche etiche, che oggi trovano una continuazione ideale nelle varie forme di 1 La successiva affermazione della cultura del contratto ai danni di quella del dono e della razionalità economica sulla reciprocità fu poi storicamente l’inizio del declino dell’economia civile. 2 Contributi di Ockham, San Bernardino da Siena. 3 La scuola francescana superò sul piano dottrinale la proibizione dell’interesse con tutte le conseguenze commerciali e bancarie che ne derivarono. 4 I monti di pietà sorsero nel Quattrocento in Umbria e nelle Marche per mano dei francescani come mezzi di “cura” della povertà e di lotta all’usura.
  • 6. 6 microcredito, nelle casse rurali, il cui capitale si accumulava per mezzo di collette sottoscrizioni, eredità, donazioni, depositi vincolati e questue. L’umanesimo civile Dal Quattrocento ebbe luogo quella grande rivoluzione che portò la società occidentale dal medioevo alla modernità, concomitante con l’umanesimo e l’umanesimo civile in particolare. “Questa fase è vista come la fioritura della semina e della coltivazione medievale, quando si sviluppò la semantica di quel civile e di quell’economico che fiorì nell’umanesimo civile” (Zamagni 2004). Tuttavia, è bene precisare che la stagione dell’umanesimo civile non coincide con l’intero periodo dell’umanesimo, in quanto nella seconda fase, corrispondente alla seconda metà del Quattrocento, riprese il sopravvento l’anima individualista platonica, chiudendo di fatto la stagione del primo umanesimo sociale ed aristotelico. Con l’umanesimo civile si assistette ad una forte rivalutazione, già iniziata nel medioevo, della dimensione orizzontale e relazionale dell’essere umano, dalla famiglia alla città, allo Stato. Concetti come il “bene vivere” successivamente riconosciuti come i tratti distintivi della discussione propria della tradizione economica civile del Settecento richiamavano i contributi di Bruni, Alberti, Bernardino da Siena sulle tesi medievali dell’utilità sociale delle ricchezze. Rivoluzionario il nuovo approccio al lavoro umano, non più visto come attività moralmente più bassa rispetto alla contemplazione, ma valorizzata e innalzata al rango di partecipazione all’attività creatrice di Dio. In questo contesto si sviluppò ulteriormente il valore del dono e il principio della reciprocità come via al mercato, in quanto l’economia è civile solo se ne prende parte tutta la città.
  • 7. 7 Come contraltare, il povero ozioso è condannato perché si autoesclude dalla reciprocità.5 Infine è strettamente legata al paradigma di economia civile la discussione che si sviluppò in questa fase sul tema della felicità, che, sulla scia di Aristotele, venne vista come frutto delle virtù civiche e, quindi, di una realtà immediatamente sociale: non esiste felicità disgiunta dalla vita civile. La notte del civile Come già anticipato, durante la seconda fase dell’umanesimo si assiste al declino del “civile”. In particolare nella seconda parte del Quattrocento e nei primi anni del Cinquecento si afferma la corrente di pensiero dell’individualismo che andò a minare le fondamenta dell’umanesimo civile. I suoi più importanti autori di riferimento sono Machiavelli, Hobbes e Mandeville. Machiavelli incarna perfettamente la crisi morale e politica del suo tempo (inizio XVI secolo): contesto caratterizzato dalla trasformazione delle repubbliche civili in signorie che diedero luogo a continue guerre lungo tutta la penisola italica. Nei contributi di Machiavelli si riconosce un radicale pessimismo antropologico, poiché, diversamente dalle convinzioni dei primi umanisti, le virtù civili si erano mostrate incapaci di creare e mantenere la pace e la coscienza nazionale. L’individuo è, pertanto, incivile, malvagio, pauroso e scaltro. Ne consegue che la base della vita in comune non può più essere l’amore reciproco, ma il reciproco timore. In questo contesto diventa fondamentale la figura e il ruolo del princeps, del quale Machiavelli descrive le virtù politiche, in una concezione diametralmente opposta alle virtù civili, attraverso le quali egli libera i propri sudditi dai conflitti distruttivi riconducibili all’inciviltà insita dell’individuo. Tipo di approccio filosofico strettamente correlato al fenomeno di ricostituzione delle gerarchie, quali le società feudali e castali, che ricreano le fondamenta di una società non più basata sul principio di uguaglianza, tipico dell’economia civile. 5 Da una analisi attenta si può riconoscere in questa considerazione una delle principali motivazioni di fallimento del welfare state.
  • 8. 8 Un secolo dopo, sulla scia di Machiavelli, si distingue un altro importante autore le cui opere contribuiscono al declino del civile: Hobbes. “Gli uomini hanno in comune solo la loro uccidibilità generalizzata, ossia chiunque può essere ucciso da chiunque”. Il conflitto, la competizione, la lotta per sopraffare l’altro è la condizione ordinaria degli uomini: la paura è, nuovamente, il fondamento della vita in comune. Ma il più significativo contributo, e vero grande capolavoro, di Hobbes è il Leviatano (1651). Hobbes scrive che l’essenza fortemente negativa dell’uomo lo porta a dover stipulare con un entità esterna, il Leviatano appunto, un patto artificiale che permetta di evitare la guerra di tutti contro tutti attraverso la rinuncia dei rapporti interpersonali delegando la mediazione intersoggettiva allo Stato-Leviatano. Prende forma il concetto di Stato, inteso come contrapposto all’individuo, che, in chiave moderna, si può ricondurre al conflitto tra interesse pubblico ed interesse privato. Il pubblico è il luogo di ciò che è comune e il privato è il luogo di ciò che è proprio. Un altro radicale attacco agli autori civili fu quello sferrato da Mandeville, con la sua celebre “Favola delle api” del 1714.6 L’idea fondante è la sussistenza di una consecutio tra “vizi privati” e “pubblici benefici”: è un concetto rivoluzionario in totale contrasto rispetto alla filosofia civile, in quanto l’uomo non solo non è un “animale civile” portato di natura a relazionarsi con gli altri, ma se lo fosse o lo diventasse attraverso l’educazione e la cultura, dovrebbe tenere a freno le sue virtù poiché negative per la vita della società. A sintetizzare successivamente questa filosofia contribuì Kant, secondo cui l’uomo è essenzialmente egoista e solo la morale e la vita gli impongono obblighi sociali, dunque si manifesta l’esclusione della reciprocità sia su dimensione essenziale che antropologica dell’essere umano. Sembra evidente la stretta connessione tra questa nuova concezione dell’uomo e della società, secondo cui la socialità è qualcosa di estrinseco, di transitorio, di accidentale, e la cultura che poi nell’età contemporanea si è rivelata dominante. 6 La favola narra la storia di un alveare di api egoiste che, grazie alla loro avarizia e disonestà, vivevano nell’abbondanza e nel benessere. Ad un certo punto le api si convertono e diventano oneste, altruiste e virtuose. In breve tempo, l’alveare precipita nella miseria.
  • 9. 9 È proprio in questa fase che sembra profilarsi la vera frattura tra umanesimo civile e modernità: la vita civile si riscopre fragile. Tuttavia, il momento che apparentemente sembra il più buio per l’economia civile, poiché minata alle sue fondamenta dell’essenza dell’uomo, in realtà non è altro che il prologo per la successiva esplosione di quella che può essere definita la vera “età dell’oro del civile”. Difatti, sarebbe riduttivo sentenziare che l’economia moderna nasca emancipandosi dall’etica. In realtà, le due forme di pensiero che poi successivamente si svilupparono, l’economia politica anglosassone e l’economia civile italiana, ebbero come principale punto in comune il tentativo di rifondazione di una nuova struttura sociale che consentisse all’economia di tornare civile. Gli stessi filosofi dell’economia classica cercarono a loro modo di oltrepassare le teorie antropologiche di Machiavelli, Hobbes, Mandeville tentando di costruire una società civile come insieme di azioni, regole, istituzioni per orientare l’uomo con la sua “insocievole- socievolezza” verso il bene comune indagando quei meccanismi capaci di rendere compatibili l’interesse personale, da cui l’uomo è antropologicamente ed istintualmente spinto, e l’interesse comune. L’età dell’oro dell’economia civile Genovesi e la scuola napoletana Il momento di massima fioritura dell’economia civile è il Settecento, precisamente in Italia tra Napoli e Milano. Il Settecento è caratterizzato da un periodo di sostanziale assenza di conflitti, soprattutto per Napoli l’avvento di Carlo III di Borbone e poi di Ferdinando IV scandirono le fasi di una primavera del civile. Una stagione breve, ma che creò l’ambiente culturale nel quale riapparvero i temi tipici dell’umanesimo e in cui fiorì la tradizione napoletana dell’economia civile. Relazioni sulla felicità e le sue interconnessioni con l’economia e la socialità restano la più grande eredità di questa fase storica. Si sviluppa il concetto di “pubblica felicità”, secondo cui la felicità, diversamente dalla ricchezza, può
  • 10. 10 essere goduta solo e grazie agli altri. Felicità pubblica, poiché non riguarda la felicità dell’individuo in quanto tale, ma ha a che fare con le precondizioni istituzionali e strutturali che permettono ai cittadini di sviluppare la loro felicità individuale. L’economista leader della scuola napoletana, e in un certo senso dell’intera Italia, è il salernitano Antonio Genovesi (1713-1769). Una personalità fondamentale, in quanto fu lo stesso Genovesi a coniare ed utilizzare il termine di economia civile. Il suo principale trattato economico, del 1765-67, venne intitolato “Lezioni di economia civile” e occupò la cattedra di “Economia civile e meccanica”. I concetti fondamentali dell’economia civile. La grande novità dell’illuminismo napoletano è l’idea di un’economia come luogo di civiltà e come mezzo di incivilimento per migliorare il “bene vivere” delle persone e dei popoli. Allo stesso tempo, la vita civile è pensata come il luogo in cui la felicità può essere raggiunta pienamente grazie alle buone e giuste leggi, al commercio e ai corpi civili nei quali gli uomini esercitano la loro socialità. La visione di Genovesi dell’economia civile è riconducibile a dei concetti chiave che poi nei secoli resteranno i punti di riferimento irrinunciabili di questo paradigma. Commerciare. La tradizione napoletana considera l’attività economica come un’espressione della vita civile, il “commercio” come un “fattore civilizzante”. Il luogo di scambio non solo non si contrappone alle virtù, ma è vista come il luogo in cui le virtù possono fiorire in pubblica felicità. Kant successivamente sentenziava come lo spirito del commercio potesse fungere da strumento per evitare la guerra. Rimane il forte senso di valore che viene attribuito, dunque, al commercio, ma é altresì vero che la lode per lo stesso e per le civili ricchezze non fanno dimenticare agli autori della scuola napoletana che i beni non fanno, di per sé, la felicità. Un appunto fortemente innovativo che viene fatto da Filangieri e Bianchini, autori
  • 11. 11 riconducibili all’illuminismo napoletano, è che l’incivilimento significa soprattutto equa distribuzione della ricchezza, definizione più che mai moderna ed attuale in una chiave di lettura sociale. Fiducia. Un’altra parola chiave dell’economia civile italiana è la “fede pubblica”, la fiducia, vista anche come la vera precondizione dello sviluppo economico. La fiducia è il vero fondamento dell’economia e delle relazioni in senso più ampio. Il commercio non può prescindere dalla reciproca “fede” nei confronti della controparte. Ma aldilà del ruolo centrale che la fiducia svolge all’interno di qualsiasi ambiente economico, Genovesi si sofferma particolarmente sull’idea di “fiducia pubblica”, che trova la sua ragion d’essere nella necessità di amore genuino e non strumentale per il bene comune. Oggi sarebbe definita “social capital”, ossia il tessuto di fiducia e di virtù civili che fa sì che lo sviluppo umano ed economico possa partire e mantenersi nel tempo. La fede pubblica si sviluppa principalmente nella società civile, in un ottica di “principio di sussidiarietà”, principio basilare ormai di tutti gli ordini sociali contemporanei. Reciprocità. Alla base della teoria economica e civile della scuola napoletana, troviamo la concezione della “socialità basata sulla reciprocità” che può essere considerata la parola chiave di tutto l’impianto antropologico e sociale dell’economia civile, un impianto che porta a considerare la società derivante direttamente dalla “civil natura dell’uomo”. Per Genovesi lo stesso mercato è un luogo dove prestarsi reciproco aiuto, per praticare l’assistenza reciproca. Tale è la reciprocità. Il mercato è, come ogni ambito della vita civile, fondato sulle virtù. Palese sembra il contrasto con la filosofia dell’individualismo che ha preceduto l’illuminismo napoletano, ma lo stesso Genovesi, tenendo in considerazione le opere fortemente pessimistiche di Machiavelli, Hobbes e Mandeville sull’egoismo insito nell’uomo, mutua questa definizione dichiarando che l’uomo è un essere sospinto certamente dall’amor
  • 12. 12 proprio, ma anche dall’amore per gli altri. Individua dunque una sorta di bidimensionalità di ogni individuo ed ogni azione umane è funzionale ad essa. Genovesi in particolare definisce queste due tendenze dell’uomo “forza concentrativa” e “forza diffusiva” dove quest’ultima non rientra nella sfera della benevolenza, nelle fattispecie di altruismo o filantropia, ma ha a che fare con i rapporti interpersonali, e il suo elemento base è la capacità di simpatia, intesa virtù naturale. Felicità. Parola che al giorno d’oggi è a volte abusata in certi ambienti, ma paradossalmente ancor più spesso dimenticata e oscurata all’interno degli organi decisionali di politiche economico-sociali e nei luoghi di pensiero e filosofia. Durante l’illuminismo napoletano, invece, è principio e valore inamovibile, soprattutto se intesa come costitutivamente relazionale. La visione della felicità nella tradizione umanista e civile affermano la necessità dell’educazione, in modo che “ciascuno resti persuaso, che per rinvenire il proprio bene bisogna cercarlo nel procurarle quello de’ suoi simili” (Palmieri, 1788). Ancora “Chi desidera il bene altrui scopre che la felicità degli altri è la fonte più generosa per la propria felicità” (Ferguson, 1792). Una “vita buona” non può essere vissuta se non con e grazie agli altri, facendo “felici gli altri”. In questo senso, essendo incontrollabile la felicità, l’essere umano ha bisogno, per realizzarsi, della reciprocità, attraverso la gratuità, senza la quale la vita comune non fiorisce.
  • 13. 13 Declino del “civile” e affermazione dell’economia politica I punti in comune dell’umanesimo civile con la filosofia smithiana Fino ad ora sembrano dunque profilarsi delle prime frizioni, del tutto fisiologiche per via delle diverse influenze culturali e geografiche, tra economia civile ed economia politica ma ancora sussiste una certa connessione tra le due filosofie di pensiero che poi, successivamente, si ritroveranno a percorrere strade diametralmente opposte. Infatti, a ben vedere, lo stesso Adam Smith, conosciuto anche dai non addetti ai lavori come il primo filosofo dell’economia politica che poi trovò maggior affermazione nell’economia capitalistica in era contemporanea, presenta, nei suoi scritti, più di un richiamo ai principi dell’umanesimo civile napoletano. In definitiva non è Adam Smith, nel suo The wealth of nations (1776), la vera caesura tra i diversi paradigmi delle scienze economiche, ma le conclusioni raggiunte dalle generazioni successive dei filosofi di estrazione culturale anglosassone. In realtà fino ai primi decenni del Novecento l’economia civile, la sua visione antropologica e sociale, ha avuto una certa fioritura, seppur limitata rispetto all’esperienza italiana, anche in Gran Bretagna. L’economia classica da Smith a Marshall non risulta, attraverso una visione più attenta, troppo lontana dalla tradizione umanista. Smith non dimentica l’egoismo istintuale dell’uomo, secondo cui niente è dato per niente, ma dall’altro lato sottolinea come già la propensione allo scambio sia riconducibile a quegli originari principi tipici della natura umana che richiamano una tendenza alla relazione con gli altri. Lo scambio con gli altri è un’espressione della socievolezza della natura umana, che nella società civile si può esprimere nella sua pienezza grazie alla divisione del lavoro che costringe ognuno a dipendere dagli altri. Un altro fondamentale punto di incontro tra la filosofia smithiana e l’umanesimo civile è la constatazione che per un buon funzionamento del mercato siano essenziali elementi quali prudenza e giustizia, riconducibili alla sfera delle virtù civili. Inoltre, il mercato in sé, istituzione fondamentale per Smith, è luogo che
  • 14. 14 lascia ampio spazio anche all’assistenza reciproca nei bisogni. Il mercato dunque è una delle principali espressioni della società civile poiché l’unico vero luogo in cui si possano sperimentare rapporti umani liberi, superando la logica alleato/nemico. Il mercato è un momento importante nella vita civile, che edifica e non distrugge le virtù civili. La caesura tra economia civile ed economia politica Naturalmente riconoscere dei punti di contatto tra umanesimo civile e la scienza economica smithiana non può distrarre dal fatto che The wealth of nations sia la pietra miliare su cui fa perno l’intero assetto dell’economia politica della tradizione anglosassone. Già dal titolo dell’opera, Smith devia lo sguardo dalla “pubblica felicità” o “scienza del bene vivere” alla “scienza della ricchezza”. Inoltre sussiste uno strano strabismo tra la teoria morale e la teoria economica smithiana dove, in quest’ultima, non sembra trovare spazio la reciprocità. Strabismo che negli occhi dei suoi seguaci, tra cui Bentham, diventa cecità, poiché questi costruiscono l’assetto della political economy come il regno dei soli rapporti strumentali, tralasciando qualsiasi riferimento riconducibile al “civile”. Un filosofo di spicco che si posiziona sulla traiettoria del pensiero moderno che smarrisce il senso del civile è Hegel. Per Hegel nella società civile, cioè economica, i rapporti tra i soggetti sono puramente auto-interessati e il fine di ogni individuo é di conseguenza esclusivamente “egoistico”. L’economia viene sganciata dal civile e dal principio di reciprocità viene così definita “incivile”, non preoccupandosi più del bene comune. Si torna al conflitto tra interesse pubblico ed interesse privato, tra Stato ed individuo, già incontrato nella “notte del civile” con Hobbes. Allo “Stato etico” hegeliano viene attribuito il compito esclusivo di sedare gli inevitabili conflitti che scoppiano nel mercato e per portare ai cittadini giustizia e pace, questione di cui il singolo individuo non deve preoccuparsene minimamente.
  • 15. 15 L’utilitarismo e la definitiva affermazione della political economy Un altro passaggio importante in questa fuga dall’economia civile è l’utilitarismo di Bentham, il momento in cui la “felicità” diventa “piacere” e la “pubblica felicità” la somma dei piaceri individuali, perdendo così ogni contatto con le virtù civili.7 Le parole chiave dell’economia con Bentham diventano pleasure nell’intendere la felicità e utility da cui prende il nome la filosofia dell’utilitarismo. “Per utilità si intende quella proprietà di ogni oggetto per mezzo del quale esso tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità”.8 Dunque, utilità è la proprietà della relazione tra un soggetto e il bene/servizio, mentre felicità è la proprietà della relazione tra persona e persona (relazione con l’altro da cui non si prescinde). Con l’avvento dell’utilitarismo, utilità coincide con felicità, concetto che influenzerà tutta la scienza economica neoclassica, producendo l’eclissi della “felicità” come oggetto dagli studi dell’economia. Una continuità di tale approccio si può riconoscere anche in Wicksteed, la cui teoria della socialità ribadisce l’economia come luogo di relazioni anonime e impersonali. La sfera economica, secondo Wicksteed, è quella caratterizzata dai rapporti puramente anonimi, spersonalizzati e, quindi, strumentali. L’altruismo esiste, ma in ambiti diversi da quello economico, nel quale non trova dunque spazio la reciprocità. Appare evidente che, a partire dalla metà, circa, dell’Ottocento, la visione civile del mercato inizia a scomparire dalla scena sia della ricerca scientifica sia del dibattito politico-culturale. Le cause sono, da un lato, la penetrazione e diffusione degli ambienti culturali europei dell’utilitarismo di Bentham come filosofia vincente e, dall’altro, l’affermazione piena della civiltà industriale con la Rivoluzione Industriale di fine Settecento. Si ricorda che l’Utilitarismo trova fondamento nel Consequenzialismo, secondo cui le scelte delle azioni individuali vanno valutate rispetto alle conseguenze: 7 Da “An introduction to the principles of morals and legislation”, pubblicato nel 1789. 8 Bentham 1998, 90-91, corsivi aggiunti.
  • 16. 16  il valore dell’azione è interamente ed esclusivamente determinato dal valore delle sue conseguenze a prescindere dalle intenzioni e dalle disposizioni dell’agente;  la bontà della conseguenza è funzionale alla soddisfazione del soggetto che l’ha posto in essere;  la sola base eticamente giustificabile per valutare le conseguenze è il benessere, espresso sulla base dell’utilità. Altro aspetto determinante nella teoria utilitarista è quello relativo ai meccanismi di calcolo del benessere collettivo, inteso come semplice aggregazione del benessere dei singoli. La sommatoria delle utilità individuali è lo strumento per scegliere tra opzioni alternative. Non trova espressione nell’orizzonte dell’utilitarismo la giustizio distributiva. Ulteriore sostegno alla cultura, ormai dominante, dell’utilitarismo viene dato dal Positivismo di fine Ottocento, fondamentale nel suo impatto sulla scienza economica. Il contributo maggiore al distacco dall’economia civile avviene nel momento in cui l’economia viene innalzata a scienza esatta (determinanti i lavori di Vilfredo Pareto), quindi libera dall’etica. Anche la Rivoluzione Industriale rappresenta un evento fondamentale nello sviluppo del paradigma utilitarista, poiché con essa nasce la società industriale. Si tratta di un nuovo modello di ordine sociale che si colloca agli antipodi del modello di civiltà cittadina che contraddistingueva la società civile. Con l’avvento del sistema di fabbrica si diffonde, nella società occidentale, uno stile di vita basato sulla separazione non solo concettuale, ma anche pratica tra produzione e consumo testimoniata dalla separazione tra uomo-lavoratore portatore di forza produttiva e uomo-consumatore portatore di bisogni. Nascono nuovi termini all’interno dell’universo economico: efficienza, ottimizzazione, massimizzazione della produzione. Lo sviluppo tecnologico e l’evoluzione dell’economia produttiva portano ad una sempre più definita divisione del lavoro, tra ruoli e funzioni all’interno della fabbrica. Questa ripartizione dei compiti ha come conseguenza la divisione in classi, categorie all’interno della società. Tale fenomeno ritrova le sua fondamenta teoriche nel taylorismo, nel quale ci si avvia sempre più verso una progressiva dequalificazione e spersonalizzazione del lavoratore. Si assiste all’esclusione
  • 17. 17 dell’individuo come soggetto pienamente attivo e determinante nella produzione, con il fenomeno di alienazione dell’operaio e del suo lavoro rispetto al bene prodotto (Karl Marx). Quello stesso lavoro che, ormai non più valore, è una semplice variabile, peraltro sempre più marginale, nel calcolo della funzione di produzione. Sorge, in questa epoca, la prima forma di consumo opulento che, poi nel ventesimo secolo, diverrà la cultura dominante nel mondo occidentale. Prende il sopravvento un modello di società di mercato assai diversa da quella della tradizione di pensiero dell’economia civile. Il mercato è un’istituzione che poggia su un ben definito sistema normativo, che tuttavia non impedisce i comportamenti opportunistici. Alla luce di ciò diventa dominante un altro concetto che in precedenza nell’economia non aveva tale visibilità: la competizione. Ha luogo una vera scissione tra sfera dell’economia e sfera del civile, dove quest’ultima trova spazio esclusivamente all’interno della famiglia, della società civile e delle organizzazioni non profit. Il mondo delle relazioni esterne è competizione, è selezione. Da questa nuova visione della realtà sociale, da un lato va a definirsi il modello dell’homo oeconomicus9 e dall’altro il modello dell’homo sociologicus. L’individuo agisce sospinto esclusivamente dal self-interest. L’unico valore degno di nota all’interno dei confini del mercato diventa l’efficienza, ossia l’adeguatezza dei mezzi rispetto al fine, l’interesse di chi li realizza. Non c’è più spazio per qualche forma di etica, se non esclusivamente nel rispetto della legge. 9 L’homo oeconomicus è un individuo razionale spinto dal self-interest. Egli persegue come obiettivo la massimizzazione del proprio benessere, intesa in linguaggio matematico, come funzione di utilità. Egli si impegna nel perseguire un certo numero di obiettivi cercando di realizzarli in maniera più ampia possibile e con costi minori.
  • 18. 18 I principi regolativi dell’economia civile L’economia di mercato civile Fin qui è stata fatta chiarezza sui percorsi, diversi senz’altro, ma spesso intrecciati tra economia civile ed economia politica. Si è dimostrato, riorganizzando gli eventi cronologici che hanno segnato la storia del pensiero economico, la totale infondatezza di un opposizione chiara e definita, secondo una visione manichea, tra questi due paradigmi teorici. I punti d’incontro sono molti, ma è inutile dall’altro lato negare l’evidenza di due visioni della realtà economica alternative tra loro. Infatti “l’economia civile non rappresenta nient’altro che un punto di vista alternativo, ma non contrario, rispetto al paradigma dominante nella teoria economica” (Zamagni). Aldilà delle influenze filosofiche, del percorso evolutivo delle due teorie economiche, dei principi fondamentali dell’economia civile, delle giustificazioni storico-sociali del dominio della political economics, finora esposti, è necessario dare una definizione più precisa di economia civile attraverso la rassegna dei suoi principi regolativi. In primo luogo, a conferma della sussistenza di fondamenta comuni su cui si basano la political economics e la civil economics, anche quest’ultima può essere definita un’economia di mercato. Già questa affermazione è rivoluzionaria, in quanto il termine di economia di mercato è comunemente utilizzata come sinonimo di economia capitalistica nella sua visione dualistica di economia liberista di mercato e economia sociale di mercato. Ogni economia di mercato si fonda su una serie di principi: 1. Il concetto di divisione del lavoro, ovvero la specializzazione delle mansioni che ha come conseguenza la realizzazione di scambi endogeni (differenti da quelli “esogeni”, derivanti dall’esistenza di un surplus) che, quindi, vanno ad aumentare la produttività del sistema in cui si inseriscono (Francescanesimo del 1300, ma anche Adam Smith nel 1700); 2. L’idea di sviluppo che, da un lato, presuppone l’esistenza di solidarietà intergenerazionale, ovvero di interesse da parte della generazione presente
  • 19. 19 nei confronti di quelle future, mentre, dall’altro, si lega a quello di accumulazione (Umanesimo del 1400); 3. Concetto di libertà d’impresa, secondo il quale chi è in possesso di doti imprenditoriali deve essere lasciato libero di iniziare un’attività. Per doti imprenditoriali si intendono: la propensione al rischio (ovvero l’impossibilità di avere garanzia dei risultati derivanti dall’attività imprenditoriale), l’innovatività o creatività (ovvero la capacità di aggiungere in maniera incrementale conoscenza al prodotto/processo produttivo), l’ars combinatoria (l’imprenditore, conoscendo le caratteristiche dei partecipanti all’attività imprenditoriale, le organizza per ottenere il risultato migliore). Questo principio introduce gli individui alla competizione; 4. il fine, ovvero la tipologia di prodotto (bene o servizio) da ottenere. È in particolare quest’ultimo principio a differenziare l’economia civile dall’economia di mercato capitalistica: se, infatti, quest’ultima ha assunto come fine proprio del suo agire l’ottenimento del cosiddetto bene totale, l’economia civile persegue, invece, ciò che va sotto il nome di bene comune. La differenza tra i differenti fini perseguiti dalle due suddette economie di mercato si può sintetizzare come segue. Il bene totale può essere calcolato come sommatoria dei livelli di benessere (utilità) dei singoli: Il bene comune, invece, tende all’ottenimento della produttoria dei livelli di benessere dei singoli: I due concetti differiscono per il fatto che nel primo caso il bene di qualcuno può essere annullato senza cambiare il risultato finale; viceversa, nel caso del bene comune, essendo esso il risultato di una produttoria, annullando anche uno solo dei livelli di benessere si annulla il risultato finale. Traspare in maniera evidente
  • 20. 20 come, secondo la teoria civile, principi come quelli di equità e giustizia non siano fini a loro stessi ma, secondo questo modello di calcolo, fondamentali per il perseguimento del benessere collettivo. In questo senso sembra profilarsi già una maggior sensibilità da parte dell’economia civile, attraverso la forma dell’economia civile di mercato, nei confronti di temi etici quali equità sociale, coinvolgimento degli individui, benessere diffuso, rispetto alle fattispecie dell’economia liberista di mercato e dell’economia sociale di mercato orientati prevalentemente all’accumulazione di benessere totale. Gli ordini sociali e il principio di reciprocità Si è citata l’economia di mercato secondo i suoi principi fondanti e le sue diverse sfaccettature, ma è necessario fare un passo indietro nella definizione stessa di mercato. Il mercato, in una visione ormai matura, non è un semplice meccanismo di allocazione delle risorse, ma è un’istituzione sociale che si regge su specifiche norme basate su convenzioni e prassi culturali. Con l’economia civile, il mercato subisce la socialità umana e ingloba la reciprocità all’interno di una normale vita economica, partendo dal presupposto che possano esistere principi aggiuntivi al profitto e allo scambio strumentale. Ne deriva che la sfida dell’economia civile è quella di far coesistere, all’interno del medesimo sistema sociale, tutti e tre i principi regolativi riconducibili all’ordine sociale. Questi principi sono: 1. lo scambio di equivalenti di valore: le relazioni si basano su un prezzo, che è l’equivalente in valore di un bene/servizio scambiato. Si tratta del principio che garantisce l’efficienza del sistema; 2. il principio di redistribuzione: per essere efficace, il sistema economico deve redistribuire la ricchezza tra tutti i soggetti che ne fanno parte per dar loro la possibilità di partecipare al sistema stesso. Si tratta del principio che garantisce l’equità del sistema;
  • 21. 21 3. la reciprocità: è il principio fondante dell’economia civile ed è caratterizzato dalla presenza di tre soggetti, di cui uno (homo reciprocans) compie un’azione nei confronti di un altro mosso non da "pretesa" di ricompensa dell’azione stessa, bensì da aspettativa, pena la rottura della relazione tra le due. Negli scambi, governati da quest’ultimo principio, si susseguono una serie di trasferimenti bi-direzionali, indipendenti, ma allo stesso tempo interconnessi. Il fatto che gli scambi siano indipendenti implica la volontà, la libertà in ogni trasferimento, in modo tale che nessuno di questi possa essere un prerequisito di uno successivo. La bi-direzionalità dei trasferimenti, inoltre, permette di differenziare la reciprocità dal mero altruismo 10 , che si manifesta attraverso trasferimenti unidirezionali, pur avendo a che fare, in entrambi i tipi di scambio, con trasferimenti di natura volontaria. L’ultima caratteristica degli scambi regolati dal principio di reciprocità è la transitività: la risposta dell’altro può anche non essere rivolta versa colui che ha scatenato la reazione di reciprocità, bensì è ammissibile che sia indirizzata verso un terzo soggetto. Attuando questi comportamenti l’homo reciprocans non solo agisce mettendo in primo piano le emozioni (la cosiddetta intelligenza emotiva), bensì riesce anche a rendere la razionalità "ragionevole", in modo tale che i sentimenti possano essere maggiormente rilevanti rispetto alla pura e semplice razionalità, intesa come l’utilità caratteristica dell’homo oeconomicus. Il fine della reciprocità è l’affermazione della fraternità, principio che permette agli “uguali” di essere “diversi” "e" postula, di conseguenza, il pluralismo, il quale permette ad una società di garantirsi un futuro e di non scomparire. 10 La filantropia, a cui si ricorre nel mondo capitalista, non ha nulla a che vedere con la reciprocità.
  • 22. 22 I beni relazionali Un importante elemento di novità introdotto dall’economia civile è rappresentato da un tipo di bene alternativo a quelli presi in considerazione comunemente nella teoria economica classica: il cosiddetto bene relazionale. Si tratta di un bene la cui utilità per il soggetto che lo consuma dipende, oltre che dalle sue caratteristiche intrinseche ed oggettive, dalle modalità di fruizione con altri soggetti. Il bene relazionale è una tipologia di bene con determinate caratteristiche: esso, infatti, postula la conoscenza dell’identità dell’altro, in cui i soggetti coinvolti si conoscono a fondo; si tratta, inoltre, di un bene anti-rivale, il cui consumo alimenta il bene stesso, e che richiede un investimento di tempo, bensì non di mero denaro. Pertanto, la produzione di beni relazionali non può essere lasciata all’agire del mercato in quanto non può avvenire secondo le regole di produzione dei beni privati, perché nel caso dei beni relazionali non si pone solo un problema di efficienza, ma anche di efficacia. Al contempo, essa non può avvenire nemmeno secondo le modalità di fornitura dei beni pubblici da parte dello Stato, anche se i beni relazionali hanno tratti comuni con i beni pubblici. Per tale ragione, le nostre società hanno bisogno di soggetti di offerta che fanno della relazionalità la loro ragione di esistere: in questo senso nasce assieme all’economia civile un nuovo tipo di impresa: l’impresa civile. Sostanzialmente si tratta di una sorta di espressione della società civile che riesce ad inventarsi un assetto organizzativo capace, per un verso, di liberare la domanda dal condizionamento, talora soffocante, dell’offerta, facendo in modo che sia la prima a dirigere la seconda e, per l’altro verso, di acculturare il consumo facendo in modo che questo, entrando nella produzione, costituisca un avere per essere. La funzione obiettivo di un’impresa civile è, allora, quella di produrre intenzionalmente, nell’ammontare più elevato possibile, esternalità sociali, che rappresentano uno dei più rilevanti fattori di accumulo di capitale sociale. Esempi efficaci di imprese civili sono le organizzazioni non-profit e tutto il mondo aziendale riconducibile al cosiddetto terzo settore, alternativo ai due mondi del mercato-privato e del pubblico-stato.
  • 23. 23 Allo stesso modo le imprese civili rappresentano la più grande rappresentazione in termini di organismo sociale della filosofia del civile che si è evoluta nei secoli ed è una sorta di punto di arrivo di tale percorso. Le ragioni del ritorno della prospettiva di economia civile I limiti dell’economia politica Sussistono due insiemi di ragioni fondamentali nel ritorno dell’economia civile in tempi recenti. Da un lato la presa d’atto, da parte degli economisti contemporanei, che una comprensione adeguata dell’odierno processo economico postula il superamento del carattere riduzionista di gran parte della teoria economica moderna. L’applicazione della political economics non trova più risultati soddisfacenti rispetto alle nuove esigenze sociali, culturali, economiche. Basandosi spesso su assunzioni teoriche particolarmente forti, ma fonti di fenomeni distorsivi, tra le altre l’individuo come homo oeconomicus, danno soluzioni semplici rispetto alla complessità della realtà economico-sociale. Per esempio, la teoria economica non sembra essere in grado di far presa sui nuovi problemi che tormentano le nostre società quali la salvaguardia ambientale, le disuguaglianze sociali in aumento, il senso di insicurezza che colpisce i cittadini nonostante l’aumento delle ricchezze, la perdita di senso delle relazioni interpersonali. Dall’altro lato, sussiste la consapevolezza che di fronte a questioni cruciali quali la crisi del modello tradizionale di welfare state e le difficoltà crescenti di assicurare a tutte le persone un’attività lavorativa gratificante, sia necessario riflettere sulle caratteristiche di fondo dell’attuale modello di crescita, piuttosto che continuare ad affrontare tali questioni con manovre spesso tampone o di ripiego.
  • 24. 24 La questione occupazionale e la crisi del welfare state Tra le altre, merita senza dubbio, una più approfondita riflessione la questione occupazionale. Il welfare state, spesso riconducibile al modello più efficace in chiave di equità e giustizia, non sembra più lo strumento efficace nella risoluzione di tali problematiche in una realtà ormai globale e altamente competitiva. Benché i valori che lo hanno sorretto fin dal suo nascere e benché rappresenti una delle più alte manifestazioni del progresso democratico e civile entro il contesto della civiltà industriale, lo Stato Sociale è in crisi. Il problema non è di natura fiscale, ma deriva dall’incapacità di un modello di coniugare in maniera armonica valori fondamentali quali equità e libertà. Non sembra in grado di trovare la collocazione ottimale nel trade-off tra sicurezza e libertà. L’aspetto principale dello Stato Sociale è la socializzazione dell’incertezza in chiave assistenzialista. Il passaggio dalla società fordista a quella postfordista però causa un mutamento della natura dell’incertezza. Un esempio lampante è la questione relativa all’occupazione: il lavoro cambia natura attraverso la separazione tra attività lavorativa (work) e posto di lavoro (job). Per lungo tempo attività lavorativa e posto di lavoro hanno significato la stessa cosa, ma con il passaggio a una società soggetta al fenomeno del de-jobbing il posto di lavoro fisso non esiste più. Il disagio di questi tempi deriva dal fatto che la flessibilità lavorativa odierna dà opportunità e valorizza talenti ma, allo stesso tempo, nella precarietà delle condizioni del passaggio da un’attività lavorativa ad un’altra, genera insicurezza. In passato invece il posto fisso, nonostante potesse essere alienante ed inficiare la libertà, almeno dava certezze. Le soluzioni adottate dal sistema di welfare state scontano la loro inefficacia a causa del fenomeno della globalizzazione e all’apertura a nuovi mercati, imponendo, come unica chiave di successo nella creazione di posti di lavoro, il ricorso a politiche manageriali orientate alla competitività selvaggia.
  • 25. 25 Tuttavia questa nuova regola aurea dell’occupazione11 risulta insostenibile nel lungo periodo. Infatti, se una società registra aumenti costanti di produttività media, al fine di mantenere immutato il livello di impiego, deve aumentare allo stesso ritmi i propri consumi. Allo stesso tempi però, l’aumento dell’intensità del consumo riduce l’utilità degli individui, soprattutto nella fase post-industriale in cui gran parte del benessere è già stata ottenuta (Linder 1970). Allo stesso tempi il rischio è quello che la competizione si trasformi in competizione posizionale (Hirsch 1976), la quale si esprime sui beni posizionali12. È una competizione distruttiva perché peggiora il benessere individuale e sociale, in quanto, mentre genera lo spreco da opulenza, lacera il tessuto sociale. La soluzione dell’economia civile Dunque, il limite del welfare state è quello di non poter affrontare in maniera risolutiva la piaga della disoccupazione. Gli strumenti adottati rischiano di generare pericolosi trade-offs per le società: per distribuire un lavoro a tutti si impone uno stile di vita neoconsumista, oppure si legittima nuove forme di povertà (working poors13), oppure si restringono gli spazio di libertà dei cittadini e ciò nella misura in cui non si consente loro di concorrere a determinare il menù dei beni da consumare. Tutto ciò è inaccettabile sotto il profilo etico e certamente non sostenibile sotto quello economico. In questo senso, nei prossimi paragrafi verrà descritta una possibile soluzione alla problema occupazionale ricorrendo ai principi su cui si fonda l’economia civile. Tutto parte dalla separazione concettuale tra posto di lavoro e attività di lavoro. L’intuizione dell’economia civile è che restando nell’ambito del solo mercato dei beni privati è impensabile sperare di dare lavoro a tutti quello che vengono 11 I posti di lavoro aumentano con l’aumento dei margini di competitività dell’impresa: solamente imprese competitive possono nascere e crescere e così facendo possono creare impiego. 12 Sono quei beni che possono essere consumati solamente se distribuiti in modo ineguale tra una pluralità di soggetti. Per esempio i beni socialmente scarsi, richiesti in quanto mezzi di distinzione o di prestigio. 13 Individui che lavorando ottengono un reddito sotto la soglia di povertà.
  • 26. 26 “liberati” a seguito degli aumenti di produttività senza che ciò scateni i problemi di sostenibilità precedentemente descritti. È necessario incanalare il lavoro liberato verso attività che producono beni che il mercato privato non ha interessi a produrre, per sua stessa natura. Tra questi beni ricadono i beni relazionali, i beni di merito e diverse tipologie di beni pubblici, tutti beni a cui risulta impensabile applicare la logica dello scambio degli equivalenti. Bisogna superare l’assunto che identifica il lavoro come solo quello che transita sul mercato privato. Invece, il lavoro è definibile come quell’insieme di attività necessarie alla crescita umana, ma dell’uomo inteso nella globalità delle sue dimensioni. È necessario aggiungere alle attività monetarizzate, che passano attraverso il mercato privato, le attività non monetarizzate e, soprattutto, iniziare a contabilizzarle. È fondamentale superare il dualismo che contrappone produzione e lavoro a consumo e tempo libero, attraverso il riconoscimento di una nuova categoria di soggetti riconducibile alla società post-industriale: i prosumers. I prosumers auto-producono una parte del proprio consumo. In questi nuovi soggetti si può riconoscere la convergenza tra lavoro e consumo. Il consumatore diventa un attore sociale che scopre di detenere un potere di influenza non solo nei confronti di cosa si produce, ma anche di come lo si produce. L’era post-industriale ci direziona verso un nuovo modello di crescita ormai riconducibile ad una specifica domanda di qualità della vita. Non è una mera domanda di beni manifatturieri ben fatti, ma piuttosto una domanda di attenzione, di cura, di servizio, di partecipazione, insomma di relazionalità. La qualità richiesta non è tanto quella dei prodotti oggetto di consumo, quanto piuttosto di qualità delle relazioni umane.
  • 27. 27 Da welfare state a welfare society La soluzione dell’economia civile si esprime attraverso la trasformazione del modello tradizionale di welfare state nel modello di welfare society. Prima di definire nel dettaglio le modalità di realizzazione di una società del benessere è bene richiamare il presupposto fondamentale secondo cui il welfare va mantenuto su basi universalistiche. Buchanan (1997) definisce una democrazia stabile dal momento in cui i suoi programmi di welfare si ispirano a principi di generalità, cioè di universalismo. Programmi di welfare che discriminano tra i gruppi sociali finiscono per indebolire il sostegno della società all’intero processo politico. Universalismo che, tuttavia, è assunzione necessaria ma non sufficiente, per il buon funzionamento di un modello di welfare, in quanto la questione fondamentale coincide con il rischio che il sistema degeneri in assistenzialismo.14 Per evitare ciò, è bene richiamare la triplice funzione dello stato-regolatore: la definizione del pacchetto dei servizi sociali, con i relativi standard qualitativi, che si intendono assicurare ai cittadini; la fissazione delle regole d’accesso alle prestazione e i conseguenti interventi in chiave redistributiva finalizzati alla fruizione effettiva di tutti i cittadini; l’esercizio delle forme di controllo sulle erogazioni effettive delle prestazioni. La teoria definisce sostanzialmente tre modelli di welfare society. Il modello neostatalista secondo cui lo Stato deve conservare il monopolio della committenza, pur rinunciando, in tutto o in parte, al monopolio della gestione dei servizi di welfare. Il cosiddetto welfare mix, in quanto nell’erogazione del servizio, l’ente pubblico si avvale della collaborazione fattiva delle imprese civili. Il ruolo del terzo settore è dunque quello di risorsa supplementare e/o complementare all’intervento dell’ente pubblico. Il secondo modello è quello del compassionate conservatorism che si affida al fenomeno della filantropia e all’azione volontaria, che, tuttavia, già deficita del principio universalista. Questo modello, favorito dal pensiero liberal- individualsta, vede il terzo settore come segmento minore del mercato privato. 14 L’assistenzialismo è una delle concause della crisi in corso.
  • 28. 28 Il terzo modello è quello civile, secondo cui alle organizzazioni della società civile va riconosciuta la capacità di diventare partner attivi nel processo di programmazione degli interventi e nell’adozione delle conseguenti scelte strategiche. Si presuppone però la necessità di una nuova regolamentazione di tali organizzazioni a cui va riconosciuta una soggettività, non solamente giuridica, ma anche economica. Per perseguire tale obiettivo, tuttavia, bisogna garantire l’indipendenza economico-finanziaria per gli enti del terzo settore. Un metodo è la creazione di una nuova categoria di mercati, i mercati di qualità sociale. I mercati di qualità sociale. Affinché il welfare civile possa essere adottato è necessario attivare una specifica tipologia di mercati, in cui si opera in maniera diversa dai privati: i mercati di qualità sociale. Nei mercati di qualità sociale le risorse che lo Stato ottiene dalla fiscalità generale e che decide di destinare al welfare vengono utilizzate per interventi di promozione e sostegno della domanda di servizi sociali. I fondi pubblici dunque vengono utilizzati per finanziare la domanda invece che l’offerta.15 Dall’altro lato, bisogna intervenire sul lato dell’offerta dei servizi, con misure legislative e amministrative per assicurare la pluralità dei soggetti di offerta dei vari servizi in modo da scongiurare monopoli, posizioni di rendita e consentire una reale libertà di scelta da parte dei cittadini. In definitiva il mercato di qualità sociale inserisce la dimensione sociale dentro il mercato, invece che a monte (welfare mix) o a valle (compassionate conservatorism). Un mercato di qualità sociale poggia su tre pilastri: - l’ente pubblico finanzia il portatore di bisogni allo scopo di trasformare una domanda di servizi potenziale in una domanda effettiva; 15 Gli strumenti adottabili possono essere buono-servizi alla deducibilità fiscale, alla promozione di forme di mutualismo diffuso sul territorio ecc.
  • 29. 29 - l’ente pubblico, onde evitare fenomeni distorsivi legati ad asimmetria informativa, procede ad accertare la reale capacità dei soggetti di offerta a fornire le prestazioni alle quali costoro sono interessati; - l’esercizio della libertà di scelta da parte dei portatori di bisogni realizza una sorta di competizione tra soggetti di offerta dei servizi alla persona su base qualitativa.16 Il mercato di qualità sociale si smarca dal mercato capitalistico dal momento che può essere definito una sorta di mercato relazionale, nel quale vengono prodotti e scambiati beni che non sono monetizzabili e che postulano l’adozione di pratiche relazionali. Il mercato di qualità permette, in definitiva, di applicare a livello pratico il principio di reciprocità, pilastro dell’economia civile, presupponendo un altro principio fondamentale: il principio personalista, secondo cui l’essere umano non è solo individuo, realtà distinta e autosufficiente, ma è soprattutto persona, cioè diventa pienamente se stesso nel rapporto di reciprocità con l’altro. Attraverso l’adozione del principio di reciprocità, il coinvolgimento maggiore del terzo settore e la salvaguardia delle imprese civili, la creazione di mercati di qualità va a profilarsi la proposta di riforma del nostro sistema di welfare e, conseguentemente, del nostro sistema socio-economico. 16 De Vincenti e Gabriele 1999.
  • 30. 30 Prospettive e conclusioni Per decenni il dibattito economico, espressione di filosofie sociali, antropologiche e politiche si è focalizzato sul dualismo tra Stato, nell’ideologia socialista, e mercato privato, nell’ideologia capitalista. Una contrapposizione poi diventata scontro violento durante il Ventesimo Secolo. Da un lato il mercato, in cui vengono perseguiti gli scopi degli individui e in cui il principale strumento di regolazione è il contratto, dall’altro lo Stato che si esprime attraverso il monopolio dell’azione politica con l’emanazione delle leggi. Una contrapposizione che, tuttavia, si è bilanciata, in discreto equilibrio, nel mantenimento dell’ordine sociale. Il rapido susseguirsi della crisi del modello socialista, del fenomeno della globalizzazione e dell’attuale crisi del modello capitalista, hanno portato alla peggior crisi economica della storia moderna, scompaginando e disgregando, a tutti i livelli, sovrastrutture socioeconomiche apparentemente solide e profilando la necessità di seguire altre strade. In effetti, in breve tempo, i paradigmi dell’economia politica, le sue assunzioni teoriche e le dedotte ricette economico-sociali, sono andati incontro ad un declinare delle loro “quotazioni/gradimenti”. Soprattutto, nel mondo occidentale, il delicato equilibrio tra capitalismo e democrazia sembra essersi rotto. Sebbene declinato in modo diverso in America ed Europa, questo equilibrio si basava su un capitalismo in grado di arricchire tutti e di una democrazia che rinunciava agli eccessi redistributivi per garantire il prosperare del sistema di mercato. A sigillare questo patto contribuiva un sistema fiscale e previdenziale che gratificava le generazioni presenti, trasferendo i costi su quelle future. Fintantoché le generazioni future erano più numerose e più ricche, il peso di questo trasferimento era minimo: il cosiddetto free lunch. Ora questo gioco non trova più partecipanti e le sue regole non sono più largamente condivise come prima. La crisi economica e l’evidente insostenibilità di lungo periodo hanno minato per la prima volta in maniera seria un modello teorico vincente per secoli. Ma è anche vero che i momenti più bui, di maggior sfiducia ed incertezza, si sono rivelati spesso preambolo di vere e proprie età di rivoluzione civica; esempio citabile è quello dato dei fenomeni dell’Umanesimo e del Rinascimento dopo il
  • 31. 31 Medioevo. Fase storica che tra l’altro coincide anch’essa con un periodo di fioritura dell’economia civile. La riproposizione dell’economia civile è riconducibile alle nuove esigenze della società moderna: un ritorno ai principi valoriali, agli ideali di benessere, alle regole comportamentali di un ordine sociale che vadano a definire una “civiltà cittadina”. Per certi versi, si tratta di un passo indietro per seguire un sentiero che nei secoli si era abbandonato, nel tentativo di ricercare un modello che si contraddistingua per un funzionamento sostenibile della società, attraverso la definizione di una nuova prospettiva culturale da cui gettare le basi per una diversa teoria economica. Ne consegue la possibile nuova Golden Age dell’economia civile che, si badi bene, non è in contrapposizione all’economia politica, ma un punto di vista alternativo, non contrario rispetto al paradigma dominante della teoria economica. Si sono potuti identificare diversi punti di incontro, a partire dai percorsi evolutivi, spesso intrecciati, per arrivare alla condivisione di diversi principi regolativi, ma, allo stesso tempo, non mancano evidenti differenze. L’economia civile è anch’essa economia di mercato al pari dell’economia liberista di mercato e dell’economia sociale di mercato riconducibili al paradigma della political economics, ma il fine è completamente diverso: vi è un orientamento verso il bene comune piuttosto che il bene totale, introducendo nei meccanismi di calcolo economico, valori quali giustizia, equità, redistribuzione. Con l’economia civile il mercato incorpora la reciprocità all’interno della vita economica, raggiungendo un equilibrio con lo scambio di equivalenti di valore e il principio di redistribuzione quali fondamenti regolativi dell’ordine sociale. Si presentano nuovi termini e nuovi soggetti tra cui l’homo reciprocans che si esprime attraverso il dono ricucendo il principio di reciprocità al principio di contratto. Tali concetti hanno sofferto una netta separazione andando a definire forme alternative di organizzazione della vita in comune, ciascuno con il proprio ambito di applicazione esclusiva: il mercato per il contratto e tutto il resto per la reciprocità. Principio di reciprocità rimasto confinato alla vita privata anche durante il Novecento con l’avvento del “palliativo” principio di redistribuzione della ricchezza. Questa separazione e successiva sostituzione hanno portato ad
  • 32. 32 un profondo distacco dell’economia contemporanea dalla tradizione dell’economia civile, attraverso l’emarginazione della reciprocità dalla vita economica. Finora, infatti, in nessuna società contemporanea i tre principi regolativi hanno trovato terreno fertile dal punto di vista culturale ma anche regolamentare per coesistere. Ma allo stesso tempo l’evidenza empirica dimostra come lo stesso mercato, per poter funzionare ed essere sostenibile, abbia bisogno naturalmente dello scambio strumentale, ma anche di gratuità, di redistribuzione del reddito, di relazionalità. Ci si rende dunque conto di come la ricerca scientifica in campo socio-economico debba applicarsi nell’allargare gli orizzonti al fine di poter essere in grado di rispondere alle nuove esigenze e nuove sfide che contraddistinguono una società ormai evoluta. La necessità di ridefinire e rendere più efficaci strumenti quali il welfare state deve spingere gli studiosi prima, i legislatori poi e ancora di più ogni individuo a cambiare strategie decisionali e tecniche comportamentali. La creazione dei mercati di qualità sociale, il coinvolgimento del terzo settore, la regolamentazione e conseguente salvaguardia delle imprese civili costituiscono esempi di come un paradigma teorico come l’economia civile, alternativo al modello finora dominante, possa dare soluzioni pratiche nella proposta di riforma del nostro sistema di welfare e garantire risultati validi nella gestione del nostro sistema socio-economico. Restano evidenti le difficoltà e le insidie insite nella traduzione pratica della prospettiva dell’economia civile. Pensare che processi di trasformazione o di transizione non rechino tassi anche elevati di conflittualità sarebbe ingenuo. D’altro canto è proprio nei momenti di crisi ed incertezza, quali quello odierni, in cui si può rinvenire il terreno più fertile per la ricerca e l’adozione di nuovi principi filosofici, modelli teorici, strumenti pratici volti all’attuazione di soluzioni finalizzate alla ricerca del benessere sociale.
  • 33. 33 Bibliografia Bruni, L., Zamagni, S., Economia Civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 2004. Bruni L. e Zamagni S. (a cura di), Dizionario di Economia Civile, Città Nuova, 2009. Bruni L., L’impresa Civile, Università Bocconi Editore, 2009. Bruni L., Abecedario dell’Economia Civile, in Communitas n.33 5/2009, 2009. Guala F., Filosofia dell’economia: modelli, causalità, previsione, Il Mulino, 2006. Pelligra V., I Paradossi della Fiducia, Il Mulino, 2007. Sacco P. L. e Zamagni S. (a cura di), Complessità Relazionale e Comportamento Economico, Il Mulino, 2002. Sacco P.L. e Zamagni S. (a cura di), Teoria Economica e Relazioni Interpersonali, Il Mulino, 2006.