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Una Panda per l’Eurasia




               Di
       Pietro Acquistapace




                1
“Fletto i muscoli e sono nel vuoto”
                             (Rat Man)




2
Premessa necessaria




Questo non vuole essere un classico diario di viaggio, innanzitutto perche’ i diari di viaggio
sono viziati da un’ottica “turisticoentrica”; ossia dal vedere solo la superficie delle cose,
senza pensare che il magnifico paesaggio che si sta vedendo non e’ una cartolina, e le genti
che quel paesaggio lo vivono non sono dei “buoni selvaggi” messi li’ per il nostro piacere o
peggio ancora per permettere confronti tra chi sta meglio e chi sta peggio.
Non e’ un diario di viaggio anche per il tipo di viaggio stesso, ossia circa 16000 e
piu’chilometri su di una Fiat Panda, il che ne fa un potenziale resoconto mortalmente
noioso, con mattine tutte uguali di sveglia (che fosse in un sacco a pelo o in una stanza
d’albergo), controllo del mezzo e partenza, dopodiche’ ore ore ed ore di guida. Va da se che
non sara’ la dinamica delle giornate al centro di questo racconto.
Vorrei anche far notare che il resoconto segue di un anno l’esperienza, diciamo che ho fatto
sedimentare per bene le emozioni...
Quello che vorrei propormi in queste pagine e’ mettere al centro della narrazione i paesi
visitati, quasi sparendo, cosa impossibile, come spettatore soggetivo, evitando inoltre di
atteggiarmi a macho man di turno bullandomi della mia “impresa”. Vorrei invece tentare di
dare al lettore un’idea di cosa ci sia dietro la facciata dei luoghi che ho attraversato, fornire
qualche spunto per chi, nell’augurato caso lo volesse, fosse interessato ad approfondire il
tema per conto suo.
Ma di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di un viaggio in Panda, come gia’ detto, che
ha portato me ed il mio socio, Matteo, dall’Italia alla Mongolia attraversando buona parte
dell’Europa orientale, la Turchia, l’Iran, tutti gli -stan Ex-sovietici, la Russia per poi approdare
ad Ulaan Bataar, in Mongolia. Il tutto nel contesto di un rally, per quanto disorganizzato
fosse, finalizzato alla raccolta fondi per dei progetti che gli organizzatori, un’associazione
inglese, portano avanti in Mongolia con varie realta’ non governative.
L’idea mi frullava in testa da un paio d’annetti, voglia di evadere dalla routine, di cambiare
qualcosa, insomma voglia di fare qualcosa di non ordinario. E la scoperta dell’esistenza del
Mongolrally fu una vera e propria conversione sulla via di Damasco, ops... Ulaan Bataar.
Detto fatto, alla prima occasione di pesante crisi personale mollo il mio lavoro ultasicuro e


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relativi benefit (una follia? Assolutamente si!) e mi metto alla ricerca di un compagno di
viaggio in rete, dopo che amici e conoscenti si erano tutti defilati repentinamente. Nel giro
di qualche mese conosco Matteo su un forum di viaggi, ci sentiamo al telefono e decidiamo
che si fa. Si parte!!!
Ed inizia l’organizzazione: di fronte alla quantita’ incredibile di fattori da tenere presente ho
avuto la certezza di essermi lanciato, come mio solito, all’avventura senza capire troppo
cosa stessi facendo. Le cose a cui badare erano infinite: visti, mappe, calcolo delle
tempistiche, rapporti con l’organizzazione, raccolta fondi, campagna informativa e non
ultimo la macchina. Ma la fortuna mi e’ sta benigna dato che grazie al suo lavoro Matteo ha
risolto tutta la componente tecnico-meccanica, reperimento del mezzo compreso; senza
parlare del suo incontro, per il quale renderemo sempre grazie ad un dio a scelta, con
Sergio, meccanico di rally e persona squisita.
Il primo impatto con i paesi che “affronteremo” e’ quello burocratico: la richiesta di visti
mostra come ogni Stato sia un mondo a se’; il visto kirghizo si rivela estremamente semplice
da ottenere (da notare l’iconografia consolare dal sapore statunitense), quello kazako ricalca
le procedure russe e come quest’ultimo chiede citta’ e alberghi previsti (che ovviamente
tutti mettono a caso, me compreso con il mitico Kazzol Hotel), il visto iraniano mostra una
certa tendenza al paradosso dato che se fatto per via classica consolare necessita anche di
due mesi per il rilascio (con richiesta di impronte digitali per cittadini britannici e
statunitensi) mentre se fatto on line diventa una procedura molto piu’ veloce, ma senza la
sicurezza del rilascio. Discorso a parte merita la richiesta del visto turkmeno: il primo
contatto con il paese dice moltissimo su quello che troveremo. Per entrare in Turkmenistan
esistono due tipi di visti: turistico e di transito (valido 5 giorni e con tassativa richiesta di
indicare il percorso); il visto turistico prevede una guida che dovra’ essere sempre presente
dall’ingresso nel paese fino alla fine del viaggio. Per motivi di costi (il visto turistico e’
nettamente piu’ costoso) e di logistica (la maggior parte dei turisti attraversa il paese
andando in Iran o Uzbekistan) il piu’ richiesto e’ il visto di transito ed e’ prassi comune dei
consolati turkmeni annullare all’ultimo momento l’emissione di tale visto, proponendo
l’acquisto di quello turistico. Nel nostro caso il governo turkmeno ha predisposto un visto
unico per tutti i partecipanti al Mongolrally, con risultati che vedremo in seguito.
Altro grande ostacolo, perlopiu’ comunicativo, con il quale ci trovammo a fare i conti fu la
assoluta non conoscenza da parte della maggior parte delle persone dei paesi che stavamo
per attraversare; fu quasi buffo vedere le facce confuse degli interlocutori di fronte al
rosario di –stan dopo la fatidica domanda: “che percorso farete?”. La totale mancanza di
informazione relativamente all’Asia Centrale risulta quindi lampante, il che fa abbastanza
riflettere visto che stiamo parlando di una zona, per quanto remota, strategicamente
fondamentale per il futuro dell’Europa. Ma tant’e’... In quel momento non c’era spazio per
la geopolitica ma solo per quintali di carta recante gli emblemi piu’ bizzarri, ricerca
spasmodica di informazioni su assicurazioni varie e tante tante tante mail.
Sta di fatto che dopo ennesime peripezie, il magistrale lavoro di Sergio nel preparare la
macchina, comprese prove techiche di massacro meccanico sulle alpi piemontesi, e un visto
mongolo rifatto all’ultimo minuto (due giorni prima della partenza) il momento tanto atteso
e’ arrivato: si parte alla scoperta di una parte di mondo; Eurasia a noi!




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Europe
24/07 - 28/07
Italia-Svizzera-Austria-Germania-Rep.Ceca-Rep. Slovacca-Ungheria-Romania-Bulgaria




Partiamo da casa mia, sul confine italo-svizzero e dopo due chilometri la prima disavventura.
Alla dogana, che faccio quasi quotidianamente, un finanziere dal lato italiano ferma la Panda
carica (comprese taniche e pezzi di ricambio sul tetto). Per la prima volta in vita mia sono
respinto ad una frontiera, anzi a dire la verita’ per la prima volta l’Italia si dimostra cosi’
legata a me da non volermi farmi uscire dai suoi confini... Il finanziere inizia a parlare di
bolle, dogane commerciali e altra fantascienza, col risultato che ci spedisce alla dogana
vicina, dove nessuno bada a noi tranne un finanziere elvetico che dopo avere saputo dove
andiamo commenta: “con l’aereo e’ piu’ comodo”, sicuramente avra’ anche pensato:
“quezti ‘taliani...”! Riflettendo sul finanziere emblema dell’italico attaccamento al lavoro
tramite Svizzera, Austria e Germania arriviamo in Rep. Ceca dove e’ prevista la partenza
comune. Che sensazione di liberta’ attraversare frontiere senza dogane, un pensiero a
Altiero Spinelli, Gaetano Bresci ed anche Gengis Khan; a modo loro tutti artefici di questo
risultato.
La prima casa che vediamo in Rep. Ceca, dopo essere entrati nel paese da un parco
nazionale, e’ il Bar Campionato!!! O gaudio...
L’aria che tira al “campo base” e’ quella di un raduno di folli ma tant’e’. Conosciamo qualche
team italiano e mangiamo insieme in una trattoria della zona. L’impressione e’ quella di un
paese povero, dove per pochi euro mangia un reggimento, la popolazione locale sembra
guardarci abbastanza male e nessuno parla inglese, tranne un poco la barista che il suo
tatuaggio rivela essere l”alternativa” del paese.
La non conoscenza dell’inglese si rivelera’ una costante in tutto il tragitto ceco e anche solo
comprare la “vignetta” autostradale si rivelera’ non essere cosi’ semplice, nemmeno le
strade sono il massimo.
La Rep. Ceca, anche per via del tempo, sembra grigia ed ha l’incredibile effetto di rivalutare
immensamente la Rep. Slovacca, dove le strade sono ottime e dove compare anche il sole
ad illuminare i palazzoni tristi ma colorati di Bratislava.


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In Ungheria le prime prove di mediazione culturale: incerti se arrivare in Bulgaria tramite la
Serbia o la Romania chiediamo a dei romeni; questi partono in una tirata antiserba e ci
dicono assolutamente di passare per il loro paese ma di non fermarsi ad Arad (lasciando
sottendere che la citta’ non brilla per sicurezza). Facciamo la prova poco dopo con un
bulgaro che ripete i commenti sulle guardie di frontiera serbe aggiungendo: “voi siete
italiani quindi meglio la Romania...”!!!
La Romania rivela a colpo d’occhio una poverta’ immensa (la tangenziale di Bucarest e’ in
parte sterrata e tutti vendono qualcosa alle auto in coda: dalle bottiglie d’acqua ai
telefonini), tutti o quasi parlano italiano (tutti i romeni con i quali abbiamo parlato dicono di
aver lavorato in Italia), la guardie di frontiera sono gentilissime e Arad ha mantenuto le sue
promesse con una quantita’ innumerevole di camion che corrono come pazzi (tutti in
direzione dell’Ungheria) e le strade davvero dissestate. I posti di blocco della polizia sono
ovunque, ci sono un’infinita’ di cani per le strade e per la prima volta facciamo una coda di
ore per via di un ponte dissestato, ma l’aspetto piu’ interessante sono i rom (o gitani?) che
troviamo ovunque, alcune citta’ sembrano addirittura popolate solo da “zingari”. La
Romania e’ davvero bella.
La buona impressione delle persone e’ confermata anche dalla signora che ci ospita (a
pagamento ovviamente) per la notte, anche se lei tende a sottolineare di essere di origine
ungherese.
Uscendo dal paese ci scontriamo con le prime forme di “non amicizia” interetnica: tra
romeni e bulgari sembra non correre buon sangue dato che per trovare la frontiera a
Giurgiu ci impieghiamo ore. Nessun cartello indicatore e quando provo a chiedere
indicazioni ad’un impiegata in un’agenzia di viaggi mi risponde qualcosa del tipo: “e a me
cosa interessa se vuoi andare in Bulgaria?”, ma poi sorride e mi dice la strada da prendere. Il
posto di frontiera e’ immerso nel nulla in mezzo ai campi, ma attraversare il Danubio su un
antico ponte rende il tutto migliore (compresa la tassa d’uscita dal paese presumo
finalizzata alla manutenzione del ponte). Questa ricerca delle frontiere ci accompagnera’
fino in Mongolia e come scopriro’ poi le indicazioni per arrivarvici sono un chiaro indicatore
dello stato delle relazioni diplomatiche tra i paesi confinanti.
Una volta in Bulgaria ci ritroviamo immersi nei boschi, chilometri e chilometri di vegetazione
senza vedere una casa. Unici segni di vita sono statue dalla spiccatissima retorica sovietica
che spuntano dal nulla della foresta in una stranissima unione di natura selvaggia ed atea
mistica meccanica. Cio’ nonostante la prima citta’ che incontriamo sembra Gardaland (ed il
fatto che si tratti di Veliko Tarnovo fa capire quanti chilometri senza nulla intorno abbiamo
percorso): fantasmagoriche luci colorate illuminano un castello posto sopra la cittadina, un
immenso casino’ da’ sfoggio di se’ e nelle strade una folla che nemmeno nella Saint Tropez
dei tempi d’oro...
Saltiamo la cittadina non trovando alberghi e una volta immersi nuovamente nei boschi ci
accoglie un bed and breakfast gestito da un simpaticissimo vecchietto; anche qui essere
italiani apre molte porte (e sara’ una costante del viaggio).
La Bulgaria vive dell’asse est-ovest, infatti fino al raggiungimento della strada che collega
Burgas-Plovdiv-Sofia non abbiamo incontrato nessuno camion e quasi nessuna macchina,
per contro abbiamo affrontato le prime difficolta’ dato che le strade tra Veliko Tarnovo e
Stara Zagora sono tremende, una buca unica dove davvero una velocita’ maggiore di 10km
orari puo’ distruggere la macchina. Troveremo lungo l’intero percorso pochi paesi con
strade cosi’ terribili.


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Una riflessione su cosa significhi Europa viene spontanea ma di certo si deve saper
apprezzare le diversita’, nonostante le difficolta’ che ne derivano.




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Il Bosforo come eccezione
28/07 - 31/07
Turchia




Turchia: il paese che forse mi fara’ piu’ riflettere. Subito le prime difficolta’ culturali: capire
come funziona l’autostrada esige una sosta al casello e cinque minuti di spiegazioni del
casellante. Sembra assurdo trovare difficile qualcosa che per qualcuno fa parte del
quotidiano, sicuramente sono esperienze che insegnano qualcosa. Come la prima cosa che si
impara attraversando i confini: attenzione al cambio nero! E anche quello ufficiale meglio se
lontano dalla frontiera; sta di fatto che ci perdiamo una cinquantina di euro, non per colpa
mia, e per il futuro saremo piu’ organizzati.
Istanbul sembra la porta dell’inferno: nelle strade il caos piu’ assoluto, con i prezzi della
benzina alle stelle (in tutto il viaggio solo la Turchia ci porra’ di fronte a questo problema) e
gli alberghi carissimi. Facciamo veloci due conti e considerando la lunghezza della Turchia,
nonche’ del viaggio, decidiamo di risparmiare andando oltre. Sono abbastanza spiaciuto per
la mancata sosta a Istanbul ma in effetti il viaggio e’ lungo e impegnativo ed impone delle
scelte, alla fine ne saro’ ripagato. In realta’ avrei voluto vedere Santa Sofia per affetto
“musicale” ma mi accontentero’di una fuggitiva capatina in piazza Sultanhamet, e mi
riprometto di tornarci. La delusione aumenta col fatto che il ponte che ci troviamo a fare e’
il ponte nuovo e non quello vecchio e famoso, vabbe’... A mitigare il malumore la straba
visione nel traffico di un vecchio camion scoperto a fare le veci di un carro funebre islamico
verde come la bandiera che ricopre la bara, la prima di una lunghissima serie di situazioni
inusuali.
Altro elemento che colpisce una volta in Turchia e’ la curiosita’ che suscitiamo nella
popolazione, tutti ci guardano e moltissimi ci salutano dalle macchine che ci superano,
sinceramente non me l’aspettavo; come non mi aspettavo la quantita’ di donne velate, la
Turchia si mostra subito per quello che si rivelera’ essere: un paese islamico e decisamente
osservante. Nel mio immaginario personale non avevo mai associato il paese anatolico e
l’islam in maniera cosi’ netta. L’islam sara’ l’elemento caratterizzante di tutto il tragitto
turco, gia’ nella periferia di Istanbul moschee svettano nel mezzo di quartieri fatiscenti, al


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centro di spiazzi circondati da case popolari delle piu’ povere. Anche lungo la strada le
moschee sono innumerevoli. Ogni area di sosta ha una propria sala di preghiera, con entrate
differenti per uomini e donne, mentre, per contro, nel market non si vede una birra. Queste
“moschee-autogrill” fanno riflettere anche solo per l’uso sconsiderato di tubi al neon
fosforescenti, qualcosa che sta tra La Mecca e Las vegas...
Il Bosforo e’ una colata di cemento immensa, solcata da innumerevoli tir diretti agli
altrettanto innumerevoli capannoni industriali, decisamente un’area di commerci in pieno
fermento. E tornando al lato umano non posso dimenticare un kebabbaro di Gebze ed il
piccolo aiutante (penso il figlio) che si industriano per prepararci un panino con le poche
cose che hanno in negozio cercando di presentarlo il meglio possibile, decisamente non un
posto turistico. La tenerezza di tanti atteggiamenti umani mi accompagnera’ fino all’arrivo a
Ulaan Bataar.
Passato il Bosforo e’ un’altro pianeta. La strada, che nel giro di pochi chilometri passa
dall’essere quasi un’autostrada allo sterrato con lavori in corso pressoche’ ovunque, e’
deserta e corre nel nulla. La stessa Ankara e’ un ammasso di palazzoni che si elevano nel
vuoto, intorno niente: i turchi costruiscono in verticale nonostante lo spazio a disposizione
con effetti sorprendenti, quasi un set da film post-atomico. E a rendere il tutto piu’ surreale
continua anche l’impossibilita’ di trovare una birra.
Passata Ankara e’ la Cappadocia, paesaggi bellissimi ed incantevoli, con la strada che si alza
nel nulla verso altipiani fino a 2000 metri. I paesaggi sono mozzafiato, interrotti solo dai
numerosi cantieri stradali. Incontriamo solo pochi camion improbabili (la Turchia asiatica ha
decisamente un parco mezzi antiquato) e ci stupiamo dall’attraversare pochissimi paesi ma
tutti popolatissimi, come riportato regolarmente dal cartello di ingresso, vere e proprie oasi
di condomini popolari che si ergono nel deserto degli altipiani. Incontriamo anche il primo, e
non sara’ putroppo l’ultimo, incidente serio; qui le strade si prestano davvero a correre
come pazzi, e questo sara’ monito dato che e’ si’ un viaggio di piacere ma non e’ certo facile.
Sosta a Sivas dove la notte ci ricordera’ che siamo in un paese islamico, e per giunta all’inizio
del ramadan. Infatti il meritato riposto e’ interrotto dal muezzin che con un impianto stereo
degno di un concerto metal chiama i fedeli alla preghiera (questo lo presumo visto che con
la mia conoscenza della lingua locale potrebbe anche avere annunciato i saldi al centro
commerciale). Inoltre nella reception da’ sfoggio di se’ un calendario del ramadan alle spalle
del computer aperto su facebook. Questa sara’ l’unica volta che il muezzin ci svegliera’ e la
Turchia davvero sara’ il paese dove il fattore religioso risultera’ piu’ “presente”e, come
vedremo, lo sara’ anche piu’ che in Iran.
Dopo Sivas la foschia rende il viaggio piu’ monotono e l’unico fatto degno di nota e’ la sosta
ad un benzinaio nei dintorni di Erzurum che ci offre’ il the, lo sorseggiamo in compagnia di
numerosi camionisti che approfittano del rifornimento per fare una sosta rigenerante.
L’ultimo giorno in Turchia sara’ il gran finale: arriviamo in una citta’ di frontiera decisamente
brutta da dove si vede l’Ararat svettare, e su consiglio di un poliziotto arriviamo in un
campeggio altamente improbabile gestito da un olandese altrettanto improbabile, che ci
dice vivere in Turchia da decenni. Piazziamo la tenda tra pulcini e tacchini e ci accorgiamo
che tutti, ma davvero tutti, stanno grigliando! L’olandese ci informa trattarsi di zona kurda,
ci dice anche che i kurdi sono molto conservatori e ci vende birra avvolta in carta di giornale
e sovraprezzata. Sara’ un vecchio hyppie ma di certo ha senso degli affari. In serata
scopriremo che l’alcool non e’ cosi’ malvisto, perlomeno dall’olandese e dal socio turco, e
che anche diversi kurdi mimetizzano vodka in bottiglie d’acqua.


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Abbiamo la fortuna di assistere ad un matrimonio kurdo, che si rivela spettacolare: canti
tradizionali rifatti su base techno e danze con movimenti lentissimi nonostante la musica
degna della miglior discoteca tra Rimini e Brescia, aggiungiamo che il look medio e’ alquanto
imbarazzante... Ma finisce che ci offrono la torta degli sposi! Nel frattempo l’olandese e’
completamente sbronzo e ci dice circa 500 volte di salire al castello da dove si vede l’Ararat
mentre il suo socio turco, anche piu’ sbronzo, sfoggia il suo inglese con un “how are you”
ripetuto circa un migliaio di volte ad ogni incontro, e calcolando le dimensioni lillipuziane del
campeggio significa ogni quaranta secondi...
Al mattino saliamo al castello ma la foschia non rende merito al panorama, si punta verso il
temutissimo (da me no, ma dall’opinione pubblica mondiale si) Iran.
Ripenso alla serata appena trascorsa nonche’ ai primi giorni di viaggio, e mi sento un po’
disorientato, e va bene cosi’!




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Sorridi, sei in Iran!
31/07 – 05/08
Iran




Siamo in Iran! Quello che viene presentato come il terribile Iran! Spauracchio della geopolitica
internazionale; ed e’ davvero il paese che non ti aspetti. Probabilmente l’Iran e’ stata la sorpresa piu’
positiva dell’intero viaggio, ma andiamo con ordine...
Lasciamo la Turchia da un posto di frontiera sperso nel nulla, intruppati in una coda interminabile di
camion che attendono di entrare in Iran. In uscita mi fermano, sale un po’ di panico poi, una volta
negli uffici della polizia turca scopro che i loro sistemi non leggono il mio passaporto poiche’,
essendo nuovo, presenta una diversa numerazione; questo mi fa riflettere sul fatto che anche per le
carte d’identita’ i cittadini italiani possono avere problemi: negli scorsi anni in Italia i rinnovi sono
spesso stati fatti con un semplice timbro, il che rende il possessore a rischio di possibili
respingimenti, essendo la procedura non riconosciuta all’estero.
D’ora in poi ogni dogana esigera’ il fare molta attenzione dato che ovunque troveremo cambiavalute
decisamente poco onesti che vendono moneta per meta’ del valore. Il consiglio e’ quello di cambiare
piccole cifre se non si e’ sicuri del tasso di cambio e tenere gli occhi aperti per vedere il
comportamento delle altre persone per capire quanto la situazione sia normale e quanto sia invece
una “trappola per turisti”.
Al controllo di frontiera iraniana l”omino che ti aiuta” e’ di importanza notevole, in cambio di cifre da
concordare, e soprattutto trattare, questi personaggi aiutano con lo svolgimento delle pratiche,
indirizzando verso uffici e funzionari, velocizzando cosi’ l’ingresso nell”asse del male”...
La dogana si presenta abbbastanza caotica con file di bus in attesa di ingresso e con i doganieri che
pesano tutti i bagagli, da qui dispute infinite tra i militari ed i possessori di borsoni sequestrati, fino a
sfiorare vere e proprie risse; presumo ci siano per i cittadini iraniani rigide leggi sull’importazione di
merci. Per noi occidentali l’incubo si chiama “carnet de douane”, un documento relativo
all’autovettura, decisamente complicato da ottenere in Italia e discretamente costoso, ma in ogni
caso il tutto si conclude con il solo controllo del numero di telaio da parte del funzionario. E in ultimo
la tessera del carburante: l’Iran riesce ad essere un importante paese produttore che raziona la
benzina!!! Il paese manca infatti, abbastanza incredibilmente, di impianti di raffinazione e di fatto
esporta, per poi reimportarlo, il petrolio che produce... Noi riusciamo a saltare la tessera, o meglio
nessuno ci chiede di farla, il che ci permettera’ di fare alcune interessanti constatazioni sul
quotidiano iraniano. In ogni caso la tessera per gli stanieri costa circa 5 volte il prezzo pagato dagli


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iraniani al quale va aggiunto il costo della benzina che, ovviamente, per gli stranieri e’ maggiorato;
per l’islam il tasso di interesse e’ considerato usura, non ho notizie in merito al furto legalizzato...
L’impatto con l’Iran e’ incredibile: per le strade ci sono ovunque ritratti di Khomeini e di quelli che
presumo essere martiri, non so se della rivoluzione o della guerra con l’Iraq. Solo il fastidio di dossi
dello stesso colore del manto stradale, e quindi invisibili, rovinano l’attenzione con la quale osservo
cio’ che mi circonda. L’architettura islamica e’ bellissima, ma quello che colpisce e’ il fatto che
ovunque posi lo sguardo veda iraniani sorridenti che salutano, e questa sara’ una costante. Il popolo
iraniano si rivelera’ di una squisitezza commovente, con una voglia di contatto con lo “straniero” che
fa riflettere. L’Iran e’ l’unico paese attraversato in tutto il viaggio dove comunicare in inglese non e’
stato un problema ed anche lo stile di vita, per quanto visto, e’ decisamente sopra la media dei paesi
centroasiatici e della stessa Turchia. Basti sapere che tutte, ma davvero tutte, le macchine che
abbiamo incrociato in Iran ci hanno salutato, e con una vera e propria tecnica: colpo di clacson da
dietro, sorpasso, tutti gli occupanti compreso l’autista che si lanciano fuori dal finestrino per
salutarci in fase di sorpasso, una volta sorpassato noi fase di rallentamento per farsi superare a loro
volta, bis della scena del saluto ma dall’altro lato della vettura!
Preciso che so di avere visto pochissimo e molto in fretta quindi sottolineo che sono tutte mie
impressioni personali e magari completamente lontane dal vero, ma tant’e’...
Un capitolo a parte le donne iraniane: semplicemente bellissime. In frontiera ho avuto un paio di
innamoramenti ma quello che stupisce e’ il non trovarsi di fronte a neri lenzuoli tanto amati dai
mezzi di (dis)informazione ma ragazze, e donne, vestite all’occidentale con soltanto lo Hijab a
coprirne i capelli. Ad “aggravare” la situazione il loro rivelarsi estremamente civette e sorridenti; non
sono mai stato tanto guardato da una donna in vita mia... Prima di essere sepolto da una valanga di
critiche qualche ulteriore precisazione: come vedremo non sara’ ovunque cosi’ e la zona al confine
turco ha una notevole appartenenza etnica azera. In ogni caso sento che per l’Iran sto avendo un
vero e proprio colpo di fulmine. Si lo so, viverci e’ tutta un’altra cosa, che noiosi i professorini...
Una parola anche sugli uomini: le fattezze persiane sono incredibili, volti e pizzetti che sembrano
usciti direttamente dai manuali di storia!
Torniamo a noi: arrivati a Tabriz due ragazzi conosciuti nel traffico danno prova della gentilezza
iraniana e ci scortano per la citta’ alla ricerca di un albergo, episodio divertente il fraintedimento
sulla parola camping, come scopriamo quando vi ci portano. Infatti tale prola per i due ragazzi
significa semplicemente mettere una tenda in un prato, anche se trattasi del piu’ grande parco di
Tabriz. Finiamo in ogni caso in un albergo niente male che ci permette anche di mettere la macchina
nei sotterranei, il primo giorno in Iran e’ decisamente positivo.
Ci addentriamo nel paese mentre inizia il ramadan e l’unione di questi due fattori fanno si che le
donne siano sempre bellissime ma meno civettuole e piu’ velate, ed allo stesso tempo gli uomini
siano piu’ “seri” e meno propensi al saluto ma la stragrande maggioranza delle persone incontrate si
comporta ancora come descritto in precedenza. Mi aspettavo con il ramadan di trovare negozi o
luoghi dove mangiare chiusi, invece tutte le attivita’ commerciali sono aperte. L’unica differenza dal
resto dell’anno sta nel fatto che fino al tramonto gli unici clienti di ristoranti e negozi sono stranieri.
Lungo la strada per Qazvin incontriamo un team di italiani con i quali abbiamo fatto amicizia alla
partenza: sono senza gasolio per la loro ambulanza e li aiuto facendo da intermediario con un
camionista iraniano che vende loro qualche litro di carburante. I ragazzi ci raccontano delle loro
disavventure all’ ingresso in Iran: sono stati obbligati a fare la tessera del carburante (pagata 300
euro) ed hanno avuto diversi problemi per sdoganare l’ambulanza. Probabilmente il diverso
trattamento e’ dovuto al fatto che il diesel in Iran e’ usato solo dai camion, quindi da mezzi
commerciali, da qui presumo diverse tassazioni in cui ritrovare l’origine dei problemi che si sono
trovati ad affrontare. Il team amico si trova anche di fronte allo strano modo di dire i prezzi proprio
degli iraniani: in Iran infatti viene comunemente omessa l’ultima cifra, in pratica spostano la virgola,
creando, in chi non ne fosse a conoscenza, vera e propria confusione.




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Tocca anche a noi fare benzina, e senza tessera. Scopriamo presto la cosa non essere assolutamente
un problema visto che tutti i benzinai vendono benzina in nero registrandola con prezzo iraniano, ma
facendola pagare con il prezzo per stranieri, su altre tessere o non registrandola affatto.
Ultima annotazione in tema di carburanti sono le code infinite di auto alle stazioni di servizio del gas,
sembra che l’uso di macchine a GPL sia molto diffuso nel paese.
Andando verso Teheran la polizia aumenta visibilmente, cosi’ come le immagini dei martiri, di
Khomeini, di Khamenei e del Presidente; praticamente su ogni muro. Fuori dalle citta’ ci sono file di
tralicci dell’alta tensione ovunque e le persone sono meno espansive, anche se tutti salutano
sempre. Teheran appare come una citta’ di palazzoni tristi e dalle tangenziali infinite e
complicatissime, infatti ci perdiamo. Sempre a Teheran possiamo constatare la fama della guida
iraniana, tutti infatti guidano in maniera spericolata infilandosi ovunque per sorpassare e facendo le
manovre piu’ bizzarre nello spazio di pochi centimetri. Nel giro di qualche minuto assistiamo a due
retromarce da fantascienza: una su una rampa di accesso alla tangenziale (aveva sbagliato uscita) ed
una in una rotonda trafficatissima (le retro alla rotonda e’ da standing ovation), il bello e’ che
nessuno suona e che non fanno incidenti...
Stiamo andando a sud verso Isfahan, che sara’ meta di un paio di giorni di sosta.
Andando verso sud ci imbattiamo nella tomba di Khomeini, appena fuori Teheran. In realta’ non si
vede molto ma si notano le guardie armate all’ingresso e la quantita’ di pullman nel parcheggio, un
po’ come a Gardaland... Si nota molto di piu’ la scuola coranica di fronte al mausoleo, nonche’ i
cartelli che annunciano i lavori di ammodernamento ed allargamento dell’edificio gia’ imponente.
Continuando verso meridione il caldo aumenta, siamo sui 45 gradi, e la strada corre dritta in una
zona arida e quasi desertica. Arriviamo a Qom, la citta’ santa sede di un’importantissima scuola
coranica, che ci accoglie con un cartello che la indica come “capitale della Jihad”. Qui le donne sono
tutte velate e tendono a distogliere lo sguardo mentre gli uomini continuano a salutarci ed ad
affiancarci con i motorini.
Isfahan e’ bellissima: la Naghshe Jahan, ossia la “piazza grande” toglie il fiato, qui si affacciano la
moschea dello Sciah ed il palazzo dei Savafidi; fantastico anche il bazar coperto, enorme, dove
l’odore delle spezie stordisce e trasporta in un’altra dimensione. Vediamo anche il ponte Khaju con i
suoi portici, ma il fiume in secca, e da molti anni (come ci dice un negoziante che parla itaiano e si
presenta come sosia di Fernandel, in effetti e’ identico!).
A contornare il tutto un’inflazione economica che rende la moneta (il rial) talmente instabile che
cambiare valuta quotidianamente si rivela notevolmente vantaggioso.
Due giorni in una citta’ da paradiso ma il viaggio e’ ancora lungo, prossima tappa il Turkmenistan.
Risalendo verso Teheran noto come verso il Mar Caspio corra una catena di monti alla cui base ci
sono campi coltivati ed un accenno di zona industrale, e da qualche parte noto pure un edificio che
mi ricorda una centrale nuclerare, e probabilmente lo e’!
La strada corre calda e monotona, e purtroppo assistiamo a qualche incidente serio, il caldo e
l’assenza di curve favoriscono i colpi di sonno. Notiamo che il parco camion iraniano e’ vecchissimo
mentre nel frattempo la strada sale lungo altipiani desertici.
L’ultima notte iraniana la passiamo in un albergo dall’aspetto estremamente lussuoso nei pressi di
Sabzevar. Entro fantozzianamente da una scalinata imponente, ed il ragazzo alla reception mi
accoglie con un inglese oxfordiano che presto ci sommerge di domande su come il suo paese e’ visto
nel nostro, forse meglio non dire tutta la verita’... Per la prima volta siamo registrati con tanto di
modulistica, sembra davvero un albergo di “regime” (compresi i ritratti di ordinanza appesi al muro)
ma come ogni istituzione di regime si rivela molto fumo e poco arrosto dato che le camere non
corrispondono affatto allo sfarzo della facciata e della hall.
Ultima citta’ che attraversiamo e’ Mashad, dovei oltre alla polizia nelle strade compare l’esercito, io
trascorro due ore alla ricerca di una buca delle lettere per spedire una cartolina... Su di noi incombe
lo spettro della chiusura del confine turkmeno ed io scambio continuamente le cassette delle offerte
che sono ovunque, essendo la carita’ un dovere per l’islam, per buche delle lettere; ma ne trovo una
ed un vecchio islamico seduto nei pressi con bastone e barba bianca mi guarda, io lo guardo e


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mostro la cartolina, lui annuisce, io imbuco, grazie vecchio islamico!!! Prima di lasciare la citta’
ancora una prova della gentilezza iraniana quando chiedo a unl passante dove abbia comperato il
pane che ha in mano (il pane iraniano e’ buonissimo) e lui mi ci accompagna, facendo pure un
prestito al negoziante, perche’ questo possa darmi il resto, alla faccia dell’”asse del male”!
Fuori da Mashad il deserto e quella che sembra una vera tempesta di sabbia con mulinelli che si
alzano in una zona decisamente povera, dove lungo la strada sono sparsi pochi negozi vuoti.
Ci inerpichiamo sui monti del Panoramiso, i paesaggi sono incredibili ed intorno solo vuoto, vediamo
solo un paio di villaggi che mi chiedo ancora come possano sopravvivere cosi’ remoti su quei monti;
dopo qualche ora di nulla e salite arriviamo al confine con il Turkmenistan, da dove si gode il
paesaggio delle vallate sottostanti, ed i gentilissimi, anche loro, funzionari iraniani ci aprono le porte
verso il paese piu’ “misterioso” del nostro viaggio: il Turkmenistan.




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Il deserto dei pirati
05/08 – 07/08
Turkmenistan




Il primo impatto con il Turkmenistan e’ significativo: nemmeno siamo entrati che un militare si
avvicina per chiedere se abbiamo un “regalino” per lui... D’ora in poi, in tutto lo spazio ex-sovietico,
questo sara’ il leit-motiv di ogni frontiera.
Il posto di confine turkmeno e’ un luogo paradossale, se non altro per il fare orario di ufficio con
chiusura nel fine settimana, come ha ben capito un team spagnolo che attende nel piazzale da 24
ore che qualcuno si degni di dar loro il “benvenuto” in Turkmenistan! L’eta’ media di poliziotti e
soldati (in divisa da rangers) e’ davvero bassa, una frontiera presidiata da adolescenti... Una volta
entrati scopriamo che fanno solo visti per tre persone alla volta dato che, come ci spiega il
funzionario, si sono stancati di fare visti individuali dato che dal mattino sono arrivate troppe
persone!!! Troviamo uno svedese che sembra disperato, scopriremo essere una sua caratteristica, e
siamo pronti per il visto. Veniamo subito dirottati alla banca (la porta di fianco) dove una matrona
incinta e dai modi spicci riceve i pagamenti e rilascia una ricevuta da riconsegnare al funzionario.
Tutta la dogana turkmena sembra popolata da queste imponenti matrone che danno ordini a tutti,
siano essi civili o militari. Altra caratterisica che si impone e’ la burocrazia imperante negli uffici, tutti
pieni di personale dove uno legge, uno firma, uno timbra e gli altri non fanno niente, si prospetta
davvero un paese interessante...
Per fortuna conoscendo in anticipo le usanze locali sono munito di numerosi cd della peggior musica
italiana, da Pupo a Toto Cutugno passando per i Ricchi e Poveri. Restando in tema la popolarita’ di
Toto Cutugno nel mondo ex-sovietico e’ qualcosa di geopoliticamente preoccupante, tutte le
frontiere ci hanno accolto con la stessa frase: “Italiano? Toto Cutugno!” Qualcosa su cui riflettere...
Al rilascio del visto, che nel nostro caso e’ di transito, viene richiesto il percorso che faremo e, come
spiegato nella premessa, su questo le procedure sono rigide.
Per attraversare il Turkmenistan in direzione dell’Uzbekistan esistono due strade: la prima piu’
trafficata che, tramite la strada principale del paese, attravero l’oasi di Mary arriva al confine nei
pressi di Bukhara e la seconda che taglia il deserto del Karakum da sud a nord per arrivare in
Uzbekistan nella regione autonoma del Karakalpakstan. Scegliamo la via del deserto in quanto
interessati a vedere il cratere di gas di Darvaza che brucia incessantemenre da decenni.
Usciti dal posto di frontiera scendiamo verso la capitale Ashgabat che ci accoglie con un arco di
marmo riportante le effigie presidenziali, decisamente il minimalismo non e’ di casa qui.

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La citta’ sembra uscita da un fumetto e certe zone ricordano davvero Gotham City; il marmo bianco
e’ ovunque, anche nei condomini, ci sono fontane che cambiano colore ed edifici che mi sembrano la
replica della Casa Bianca. La polizia e’ ovunque, e diventa isterica quando scendo dalla macchina per
filmare il palazzo presidenziale urlandomi di tutto ma in lingue a me fortunatamente sconosciute.
Il Turkmenistan e’ uno stato che vive di rendita grazie ai suoi giacimenti di gas, inoltre e’ in gran
parte desertico quindi non densamente abitato. Ne consegue una certa ricchezza, nonostante le
contraddizioni come gli slum dietro al palazzo presidenziale, che si accompagna ad una leadership
autoritaria e con il vizio di autocelebrarsi attraverso imponenti opere pubbliche e monumenti, come
la statua del precedente presidente costruita per ruotare con il sole, ma che non troviamo. Uno
strano personaggio dalle fattezze occidentali ci dice che il nuovo presidente ha fatto smontare il
monumento e l’ha trasferito fuori citta’, aggiungendo (in Italiano) che “e’ finita la commedia!”, se lo
dice lui...
Tentiamo poi di trovare un albergo ma i prezzi sono folli. Come scopriro’ poi in rete il governo
Turkmeno ha costruito nella capitale alberghi di super lusso per dare un’immagine di ricchezza,
peccato che questi alberghi siano sempre vuoti. Mentre continuiamo nella ricerca sale la tensione
per via della leggenda mai chiarita, dato che forse e’ realta’, che nella capitale turkmena viga il
coprifuoco e gli stranieri trovati in strada dopo una certa ora possano essere arrestati. Decidiamo
quindi di lasciare la citta’ per puntare verso il deserto ma sbagliamo strada e finiamo per imboccare
la via che porta al palazzo presidenziale; inutile dire che siamo fermati da un nugolo di poliziotti che
dopo brevi spiegazioni ci aiutano disegnandoci la mappa per raggiungere la via verso il cratere. Da
notare che tutti i poliziotti turkmeni ai quali abbiamo chiesto qualcosa sono finiti per fare dei
disegnini... La ricerca del cratere si rivelera’ una delle imprese piu’ massacranti di tutto il viaggio.
Abbiamo poblemi con la benzina ma siamo in pieno deserto e non ci sono benzinai, e’ il primo
problema serio che incontriamo. Passiamo la notte vicino ad un bivacco di camionisti sotto un cielo
stellato che piu’ stellato non si puo’, mentre vediamo che dove ci sono camion ci sono venditori di
acqua e carne alla griglia. Le strade sono piene di topini che attraversano e anche qualche specie di
volpe bianca fa la sua comparsa. Stavolta siamo davvero stremati.
Al mattino grazie alla benzina di un turkmeno riusciamo a proseguire per scoprire poi di essere quasi
arrivati al confine uzbeko, avendo abbondantemente superato la zona del cratere. Tutta la giornata
sara’ una rincorsa a questa meta con un continuo avanti e indietro nel deserto ogni volta sbagliando
di circa 100 chilometri. Per fortuna le nuvole attenuano il caldo che altrimenti non sarebbe stato
sopportabile. Come vedremo poi questa giornata trascorsa su strade ricoperte di stranissimi dossi
(come bolle createsi per il calore) non sara’ positiva per la salute della macchina, considerato che
riusciamo anche ad insabbiarci e solo l’aiuto di un camionista del luogo ci permettera’ di proseguire.
Alla fine troviamo in una specie di area di servizio un ragazzo gia’ conosciuto in precedenza (e che ha
piu’ volte sottolineato di non essere turkmeno ma kazako) che ci porta al cratere con la sua jeep
dietro modico compenso. Il posto non e’ segnalato, nessun cartello indicatore e ci si arriva attraverso
un minuscolo sentiero tra la sabbia, ma una volta davanti al cratere si e’ ripagati dalla fatica fatta per
trovarlo: e’ enorme, le fiamme sono altissime e di notte si vedono a decine di chilometri, sembra
davvero meritato il nome di “porta del diavolo” con il quale viene solitamente chiamato.
Nella stessa area di servizio dove abbiamo trovato la nostra “guida” ritroviamo anche lo svedese del
giorno prima in compagnia di un team svizzero con problemi di benzina, e dopo un the tutti assieme
rigorosamente su tappeto ed in compagnia di svariate persone del luogo, ci aiutiamo a vicenda.
Ora possiamo puntare verso l’Uzbekistan lungo la strada cosparsa di dromedari e, in prossimita’ del
confine, di posti di blocco. Come vedremo nei giorni successivi la presenza di polizia all’ingresso di
citta’ e villaggi sara’ elemento ricorrente.
L’ultimo centinaio di chilometri si rivelano quasi impossibili, con strade ricoperte di “bolle” e crateri,
al punto che per guidare si deve continuamente sterzare in uno stile di guida assurdo al punto di
diventare quasi divertente, soprattutto se lo fai con in mano un bottiglione da due litri di birra
turkmena!!!



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L’ultima notte turkmena si rivela degna dalla fama del paese, ci fermiamo in un albergo di
Köneürgenç che ci chiede un prezzo folle in dollari, dando il resto in manat considerando la valuta
locale pari al dollaro, siamo troppo stanchi per discutere e d’altronde siamo una cittadina di
frontiera tra Turkmenistan ed Uzbekistan...




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A misura di turista, ma senza macchina...
7/08 – 11/08
Uzbekistan




La frontiera uzbeka, che ovviamente era debitamente nascosta, si presenta come un cumulo di
immondizie in una strada sterrata. Un buon inizio... Va comunque detto che in realta’ non siamo
propriamente in Uzbekistan, ma nella regione autonoma del Karakalpakstan, il che come vedremo
ha una certa rilevanza.
Passiamo i controlli in compagnia del solito svedese il quale inizia a prendere a martellate la sua
vecchia Mercedes per “aggiustare” non so cosa, una scena buffissima. Sono stupito che non lo
arrestino per il rumore che fa, in Italia penso sarebbero intervenuti i reparti d’assalto! Ma lo stupore
prosegue allorche’ le guardie di confine passano al setaccio la sua auto (un vero e proprio caos su
quattro ruote) trovandoci addirittura un motorino!!! A me sembra incredibile che quel motorino
sprovvisto di qualunque tipo di documento sia arrivato fino a li’, penso che ogni poliziotto incontrato
abbia diplomaticamente adottato la tattica dello “sparisci e non farti piu’ vedere”.
I poliziotti, uno dei quali perlustra ogni centimetro della Panda, sono incuriositi dalla macchina ed
oltre a fare domande su domande vogliono salirci, e scherzando uno di loro dice che vuole fare
anche lui il Mongolrally ma, dato da sottolineare, non come primo team uzbeko ma come primo
team karakalpako. In frontiera riceviamo poi la notizia dataci da un militare, che e’ lo stereotipo della
fisionomia russa, dela chiusura del confine con il Tagikistan nei pressi di Samarcanda, dovremo
quindi fare una lunga deviazione verso nord-est.
L’Uzbekistan ci accoglie con un caldo umido, e la poverta’ della regione autonoma e’ evidente nelle
strade dove ritroviamo semafori, stop e gente che ci si ferma... Troviamo anche una marea di posti di
blocco, ci fermano due volte in dieci minuti, ed un fiorente cambio nero. Intorno a noi ci sono
ovunque donne dai vestiti coloratissimi e una sensazione di miseria. Gli uzbeki si rivelano insistenti
nel chiedere soldi, siamo davvero lontani dal pianeta turkmeno, e le possibilita’ di truffa sono
concrete: i benzinai non espongono il prezzo della benzina e bisogna chiedere prima di pagare il
numero di litri richiesto, ovviamente tempo dieci minuti e si impara: prima chiedere il prezzo, poi
fare benzina!
La strada per Buchara e’ terribile, totalmente distrutta dai lavori in corso. La percorriamo in
compagnia dello svedese e di una coppia scozzese alla velocita’ di 10 chilometri orari, evitando
buche e camion che procedono in carovana, per contro il tramonto e’ di uno splendido colore viola.



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Stremati ci accampiamo da qualche parte lungo la strada che corre parallela al confine turkmeno,
siamo ancora nel Karakum e, visto quello che ci circonda, probabilmente la regione autonoma non
gode del favore del governo centrale per quanto riguarda le politiche di investimento pubblico.
Nella notte mi faccio portare, da due ragazzini venuti a curiosare, a comprare dell’acqua, ovviamente
in nero da quello penso essere un meccanico o un fabbro, e scopro che i prezzi uzbeki sono “a caso”
dato che, il giorno dopo, in un vicino negozio dal quale presumo essere venuta l’acqua della notte
prima, i prezzi sono piu’ alti. Ai ragazzini ho anche dato uno dei palloni portati da Matteo, che con i
miei cd saranno la nostra salvezza alle frontiere ex-sovietiche.
Procedendo verso Buchara inziano le prime noie meccaniche: la Panda ha perso molta acqua, inizia
quindi anche la preoccupazione. Lungo la strada, che migliora sensibilmente, ci sono molti camion
bulgari ed ucraini, nonche’ posti di blocco all’entrata di ogni paese, cosi’ come era stato in
Turkmenistan; ma alla fine arriviamo a Buchara.
Troviamo un albergo nel quartiere ebraico in pieno centro e ci dedichiamo al turismo, sempre in
compagnia degli scozzesi e dello svedese. Meritato riposo: birra e shashlik nella piazza principale, la
Lyabi-Hauz, davanti alla bellissima fontana. La sensazione girando per Buchara e’ che tutto sia a
misura di turista e poco autentico, tutto e’ infatti troppo “pulito”, compreso l’Ark, la cittadella, dove
nei sotterranei ci sono anche i manichini che raffigurano Storddart e Connolly, due delle vittime del
“Grande gioco” ottocentesco.
Sistemato, a pagamento, il problema della registrazione (che in Uzbekistan e’ obbligatoria) per la
notte passata in macchina e senza Gustav, lo svedese, che resta a Buchara con una Mercedes da
demolire ed un visto afghano, si parte per Samarcanda, siamo sulla via della seta e dopo Buchara ci
sono distese di prati e campi coltivati.
A Samarcanda saranno due giorni di turismo, albergo di lusso con piscina (e con ufficio postale) e
ristoranti da Lonely Planet (che gli scozzesi hanno sempre in mano); le spese stanno decisamente
lievitando.
Come Buchara anche Samarcanda si presenta “ricostruita” per i turisti con le mosche dalle facciate
bellissime e gli interni cadenti; e che sia una citta’ abituata ai turisti si percepisce anche dal numero
di bambini che mendica cibo al ristorante per poi farsi trovare fuori dall’albergo... Bambini che sono
tantissimi e che si tuffano ovunque ci sia acqua, una fontana nei quartieri popolari,la citta’ vecchia,
vicino alla sinagoga, era stata letteralmente trasformata in una piscina. I bambini tentano di parlare
inglese e salutano in tutte le lingue, uno addirittura in giapponese!
In ogni caso il fascino di Samarcanda e’ fortissimo e la citta’ racchiude dei gioelli come la moschea di
Bibi Khanum, la piu’ grande dell’Asia Centrale.
Tuttavia l’Uzbekistan non mi ha colpito, e gli uzbeki sembrano confermare la cattiva fama della quale
godono presso gli altri popoli centroasiatici, personalmente non vedo l’ora di arrivare sulle
montagne tagike.
Lasciata Samarcanda e’ un’odissea: tutti i benzinai sono chiusi, arriviamo addirittura a pensare possa
trattarsi di uno sciopero, il che mi lascia perplesso, e solo grazie alla generosita’ di un benzinaio (ed
alla sua onesta’ visto il mancato rincaro) riusciamo ad uscire dalla zona di chiusura delle stazioni di
servizio. Infatti come ci dicono dei ragazzi la serrata riguarda solo la regione di Samarcanda e come
scopriro’ poi si tratterebbe in realta’ di uno dei mezzi che la “mafia” locale usa per fare pressioni sul
governo centrale e per gestire i prezzi della benzina.
Uscire dall’Uzbekistan si rivelera’ impresa ardua, dato che, come impareremo durante il viaggio, e
come gia’ detto, uno dei principali indici rivelatori dello stato delle relazioni internazionali tra paesi
confinanti e’ la chiarezza nelle indicazioni per trovare i posti di confine. Uzbekistan e Tagikistan non
sono mai stati ottimi vicini e quindi noi impieghiamo un pomeriggio per riuscire a trovare la
frontiera, dopo aver chiesto a circa 100 persone ognuna delle quali con una propria teoria, compresi
dei militari che ci dicono essere la frontiera addirittura chiusa, ma noi sappiamo che in realta’ e’
soltanto quella di Samarcanda a non essere percorribile. Probabilmente lungo quel tratto di confine
e’ in corso una qualche “operazione di polizia” contro alcuni movimenti islamici uzbeki che dalle loro
basi in Tagikistan compiono azioni contro il governo uzbeko. L’Uzbekistan e’ infatti il paese centro-


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asiatico dove e’ piu’ forte la presenza islamica, anche radicale, soprattutto in aree come la valle di
Ferghana.
Fatto sta che impieghiamo davvero ore e ore per raggiungere la frontiera con il Tagikistan, che corre
lungo il Syr Daria ed e’ circondata da tralicci dell’alta tensione; con noi sono in attesa i soliti
camionisti ucraini e bulgari, piu’ un polacco. Per rendere l’idea di quanto sia stato difficile trovare il
posto di confine dico solo che ad un certo punto stavamo per incodarci alla frontiera sbagliata ed
ancora oggi non ho capito se era qulla con il Kirghizistan o con il Kazakistan...
L’avventura uzbeka si chiude in bellezza: la macchina viene passata al setaccio con tanto di controllo
tramite cani antidroga e ce la caviamo con la “perdita” di un paio di guanti da meccanico ed il solito
pallone (in tutti i paesi attraversati le guardie di confine sembrano essere bambini troppo cresciuti
con una forte propensione al calcio ed alla peggiore musica italiana). L’ultimo poliziotto ci chiede
bellamente dei dollari: quando e’ troppo e’ troppo!




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Rotture d’alta quota
11/08 – 17/08
Tagikistan




Dopo avere rischiato di sbagliare frontiera siamo arrivati alla frontiera Tagika che appare alquanto
improbabile, con un cancello di ferro chiuso che viene prontamente, piu’ o meno, aperto quando e’ il
nostro turno di entrare nel paese.
Le guardie di confine ci accolgono con un preoccupantissimo “welcome” ed infatti di li’ a pochi
minuti si entra nel magico mondo dell’inventiva centroasiatica.
Fatti 5 metri in suolo tagiko da una roulotte esce un grasso baffone con una divisa ineccepibile
(sembra un cadetto di marina in un telefilm da seconda serata) che, come da legge tagika, ci
disinfetta le ruote della macchina!!! Poi entro con lui nella roulotte e chiede compenso. Facendo il
finto tonto e gli lascio solo i pochi sum uzbeki rimasti, venendo poi cacciato come “pezzente”. Altri 5
metri, letteralmente, ed un militare mi chiama nel suo ufficio, non guarda nemmeno i documenti
andando dritto al sodo: vuole soldi. Niet! Seconda figura da pezzente... Ormai disperiamo di riuscire
ad usicre dal posto di frontiera di Ali’ Baba’ e i quaranta tagiki quando arriviamo all’ultimo ufficio
dove il funzionario ci accoglie cantando Toto Cutugno! Ci fa pagare la tassa sulla macchina ma non ci
deruba, dando pure il resto... Si merita un cd!
Appena il tempo di notare come i tratti somatici tagiki siano molto diversi da quelli uzbeki e
turkmeni e siamo in viaggio. Attraverso strade senza luci, percorse da macchine senza luci, arrivamo
a Kojand che invece e’ piena di luci e di gente, tra cui moltissimi di etnia russa, tanto da sembrare
una piccola Las Vegas...
Fuori dalla citta’ campi coltivati, pecore e mucche e commerci di bordo strada con la vendita “al
dettaglio” di angurie e meloni, come in Uzbekistan; a differenza del paese vicino pero’ in Tagikistan si
vendono pomodori e non mele. La strada inizia a salire (il Tagikistan ha un’altezza media di circa
3000 metri) e a tratti buoni si alternano tratti di lavori in corso dove le buche sono enormi e le
dimensioni fanno sembrare la strada una mulattiera. Facciamo un passo a quota 3378 metri ma in
prossimita’ di un secondo passo ci troviamo in una situazione davvero poco piacevole: stanno
scavando la galleria per evitare di risalire la montagna e le condizioni sono tremende. Nel tunnel non
ci sono luci, le buche sono veri e propri crateri e come se non bastasse a tratti la galleria e’ allagata;
sale un po’ di panico. Ci accodiamo ad un camion che procede a 10 km orari ma almeno riusciamo a
vedere le buche nascoste dall’acqua. Una volta usciti la sopresa: c’e’ il casello autostradale!!! Il



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Tagikistan e’ pieno di caselli autostradali, nemmeno troppo economici come non lo e’ la benzina, piu’
cara che nei paesi precedenti (escludendo la Turchia).
Di fatto l’asse che collega nord e sud del paese, Kojand a Dushanbe, e’ a tratti impraticabile, il che si
somma al fatto che tra le due parti del Tagikistan non corrano buoni rapporti tanto che il nord ha
volonta’ separatiste, ma in compenso le strade sono ricoperte di manifesti celebranti l’anniversario
dell’indipendenza.
Dushanbe e’ davvero brutta, ma in compenso troviamo un team italiano conosciuto alla partenza.
Sono un gruppo di ragazzi in preda a crisi isteriche e nervosismi vari: hanno rotto il loro furgone (un
vero ferrovecchio) e sono bloccati nella capitale da giorni, con in piu’ problemi di dissenteria in via di
risoluzione. In ogni caso ci portano al loro albergo, che si rivela l’ennesima struttura del vecchio
regime sovietico con moltissime camere tutte vuote. Giusto per fare un po’ di multiculturalismo la
cena e’ in un ristorante messicano con il team milanese, un italiano che lavora per qualche
organizzazione internazionale (che ci racconta come la corruzione sia diffusa e la polizia sia usa a
chiedere soldi) ed un inglese che e’ arrivato in moto dal Kenia...
Nella capitale ci sono ovunque merci russe, come il kvas e la birra Baltika, mentre in Uzbekistan
erano molto diffuse quelle tedesche.
Il giorno dopo lasciamo i ragazzi alle decisioni sul loro futuro, dopo che il loro furgone stava pure per
prendere fuoco, e partiamo verso il Pamir. Uscire da Dushanbe non e’ per niente facile, e c’e’ polizia
ovunque: fuori citta’ ci fermano continuamente ai posti di blocco per “registrarci”. La Panda torna ad
arrampicarsi verso passi di 3000 metri lungo una strada costeggiante un fiume e aiutiamo anche tre
tagiki rimasti senza benzina; l’aiuto reciproco per il carburante e’ una costante per gli automobilisti
centroasiatici, decisamente non si tratta di andare in ufficio in macchina... In questa occasione
scopriamo la totale incapacita’ tagika di valutare le distanze, tutti hanno sempre dato risposte
diverse ad ogni richiesta di informazioni!
Per contro i paesaggi tagiki sono splendidi, un vero paradiso per chi ama la montagna ed infatti,
come vedremo, non sono pochi gli amanti del trekking o del cicloturismo, abbastanza estremo, che
visitano questo paese. Fatto un piccolo guado al buio, aiutati da tre camionisti, arriviamo al confine
della regione autonoma del Gorno-Badakhshan dove uno dei militari addirittura vuole la mia
macchina fotografica, mi salvo dicendo che le foto sono per la mamma!!!
La lunga giornata finisce a Khalaikum, lungo il confine afghano, in una casa privata dove la scelta e’
dormire sui tappeti dentro casa o nel cortile in riva al fiume, un sogno...
La strada verso Khorog costeggia il fiume, che funge da confine con l’Afghanistan, e sull’altra riva si
possono vedere i villaghi afghani. Tutto procede tranquillamente, compreso l’incontro con una
formazione di carri armati tagiki. Khorog e’ una cittadina, e l’ufficio del turismo del Pamir e’
composto da ragazzi giovanissimi e gentili, sembra decisamente una zona piacevole ed a riprova di
cio’ il numero di turisti incontrati, molti in bici.
I primi guai pero’ iniziano presto, giusto all’inizio dell’M-41, l’autostrada del Pamir che taglia tutta la
regione ed arriva a Murgab. Tali guai si materializzano sotto forma, ovviamente, di poliziotti, che
all’ennesimo posto di blocco vogliono sia pagata una cifra nemmeno troppo bassa per poter
proseguire. Sotengono infatti che secondo il visto dovremmo passare da sud lungo le strade del
Pamir vero e proprio, cosa che a ripensarci avrei fatto volentieri ma, col senno di poi, sono contento
di non avere fatto visto che la Panda iniziava a dare segni di cedimento. Fatto sta che quelle strade
sono una delle maggiori attrazioni del paese passando per ghiacciai e passi d’alta quota, ma inutile
rivangare, abbiamo pagato (togliendomi la soddisfazione di spaventarli) e ci siamo avviati verso
Murgab sostando per la cena in un posto che diverra’, purtroppo per noi, conosciuto: il sanatorio di
Jelondi. Ufficialmente, come detto, un sanatorio, ma viste le facce sarei piu’ propenso per qualche
centro legato a tossicodipendenza o altre problematiche sociali.
Ed ecco che accade cio’ che non doveva: appena dopo Jelondi la macchina si rompe!!! Un semiasse
e’ andato, ci penseremo domani. Dormiamo in macchina su un altipiano che credo essere a circa
3500 metri nel nulla piu’ assoluto davanti a delle catene montuose mozzafiato, tra le quali penso di
riconoscere l’Hindu Kush, fa freddissimo.


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Ci svegliamo ed e’ ferragosto, un freddo ferragosto. Rompere la macchina in un posto piu’ bello era
difficile, il panorama e’ stupendo e ci sono pure le marmotte. Fermo una macchina, di marca cinese
come molte auto in Tagikistan (in Uzbekistan erano coreane) e torno al sanatorio. In realta’ l’autista
mi voleva portare a Khorog in cambio di soldi, breve discussione e mi faccio lasciare a Jelondi. Qui
trovo un ragazzo conosciuto la sera prima che parla inglese. Mi dice che andra’ a studiare in Polonia,
con la quale ci sono scambi di studenti e insegnanti, e mi dice che le “genti del Pamir” sono portate
per le lingue, ecco perche’ a Khorog molti parlavano inglese.
Insieme al “giro del sanatorio” cerchiamo una soluzione: concordiamo di caricare la macchina su un
camion e portarla a Khorog, prendo un taxi (che si rompe tre volte in cinque minuti) annuncio la cosa
a Matteo e torno al sanatorio, dove mi attendono cattive notizie. Mi dicono infatti che il meccanico
“quello bravo” e’ in ferie (andare da altri viene sconsigliato vista la cattiva fama della citta’), e che le
strade sono chiuse per una visita presidenziale, ma che possiamo andare comuque a prendere la
macchina.
Parto con un gruppo decisamente improbabile, tra cui un ragazzo dalla faccia inquietante in
mimetica e denti d’oro, e, con un camion sovietico del ’73, un vero bisonte che necessita riparazioni
praticamente ogni chilometro ci avviamo, sulle note di musica russa sparata a tutto volume dal
mangiacassette del mezzo. La Panda arriva al sanatorio, dopo che una ruota ha sfondato il pianale
marcio del camion, paghiamo il trasporto in benzina e concludiamo la giornata cenando con altri
stranieri, tedeschi e francesi, che mi stupisco di trovare li’; in realta’ il sanatorio e’ la sola struttura
nell’arco di moltissimi chilometri, da qui il suo fungere anche da pensione.
Al mattino tutto il paese assiste il camionista che ripara la macchina, senza ne’ ponte ne’ buca, e
ripartiamo. I Tagiki sono incredibili, una poverta’ assoluta e tanta arte di arrangiarsi, non stupisce
che il governo sia alle prese con il problema dei traffici legati all’essere il paese rotta di passaggio
per l’eroina proveniente dall’Afghanistan.
La strada continua a salire e guardando la cartina mi viene il dubbio che la macchina si sia rotta in
prossimita’ di un passo ad oltre 4000 metri. Vediamo le prime yurta (che sono piu’ tipicamente
kirghize) ed i primi yak, siamo stupiti da come per delimitare i confini amministrativi si usino statue
di stambecchi e veneri varie...
In giro ci sono molti turisti in bici, tra i quali tanti francesi, e le strade non sono per niente belle;
meno male che cumuli di pietre indicano i punti dove il bordo ha ceduto o ci sono buche
particolarmente pericolose. Ci sono anche una marea di camion cinesi ma i camionisti dalle
fisionomie sembrano uighuri, ed infatti uno di loro si rivolge a noi con un “salam”. Verso Murgab
rimaniamo piu’ volte senza benzina, e colgo l’occasione per chiaccherare con le “genti del Pamir” che
mi spiegano quello tagiko essere il piccolo Pamir mentre quello grande sta in Afghanistan. Con
qualche difficolta’ arrivamo a Murgab ed all’usuale posto di blocco. I militari sembrano poverissimi
ma ci regalano della benzina senza nemmeno volere dei soldi, quando l’abito non fa il monaco...
Finiamo la lunga giornata in una guest house alquanto bizzarra, senza nessuna insegna, trovata per
caso e retta da una donna originaria della capitale trasferitasi a Murgab per sfuggire al traffico. La
signora, parlando un russo velocissimo, ci accoglie con the, pane e patate con cipolle, mentre
l’elettricita’ va e viene. Oltre a noi solo una coppia di ragazzi polacchi.
Al mattino da un meccanico dai tratti cinesi compro della benzina sfusa fatta in casa (il Pamir e’
praticamente sprovvisto di carburante) e noto che nella piazza principale c’e’ una statua di Lenin. Gli
abitanti hanno fisionomie cinesi come il meccanico e ovunque si vedono gli alti cappelli kirghizi.
Dopo murgab il nulla: gruppi di case e stalle abbandonate, quello che presumo essere un vecchio
posto di frontiera abbandonato anche’esso e tutte le (poche) insegne fanno pensare che siamo
ormai in “territorio kirghizo”. La strada arriva al passo piu’ alto dell’M-41 ad oltre 4600 metri e la
vegetazione si fa rada, davvero un paesaggio desolante, non auguro a nessuno di rimanere in panne
qui. Infatti in giro non c’e’ nessuno e i cumuli di pietre continuano a segnare i punti in cui il disgelo
ha eroso la strada, mentre intorno ci sono laghi e fiumi.




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La strada corre lungo una rete di filo spinato posta alla base di alcune alture, presumo sia la
delimitazione con la terra di nessuno cinese, ed infine arriviamo al confine tra Tagikistan e
Kirghizistan, un paio di container spersi a 4200 metri d’altitudine...




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Alti cappelli e lunghe discese
17/08 – 21/08
Kirghizistan




Una discesa lunghissima in una terra di nessuno di 20km: il bordo strada a tratti e’ franato e
dobbiamo proseguire anche in fuoripista... Poi, la dogana kirghisa, chiusa! Ci arriviamo senza benzina
e mentre un temporale in quoto tuona minaccioso. Quando ci fanno entrare come sempre ci
prendono per francesi (ci sono davvero molti turisti francesi in Asia Centrale) e barattiamo un
pallone con 5 litri di benzina: un graduato vuole regalare il pallone al figlio che e’ li’ con lui. La prima
cittadina che incontriamo e’ Sari-Tash, un postaccio posto tra Tagikistan e Cina, vero crocevia di
traffici non propriamente legali. Ma, proprio mentre stiamo per entrare nella guest-house di una
ragazza dai tratti cinesi, che sottolinea vivamente che il suo e’ un albergo, il semiasse si rompe di
nuovo... Con la ragazza andiamo alla ricerca di un vicino semimeccanico ma niente, se ne riparlera’
domani... Al mattino carichiamo la Panda sul cassone del camion del semimeccanico che si rivela un
energumeno camionista e partiamo verso Osh, il centro della regione, per trovare un vero
meccanico.
La strada e’ un immenso cantiere con operai cinesi al lavoro per allargarla, mentre ai lati si vedono
enormi branchi di capre e asini. Il camionista durante il viaggio ci dice cosa pensa degli uzbeki,
semplicemente li vorrebbe tutti sgozzati (dicasi amicizia tra i popoli), fa sorpassi da testamento in
salita e in curva (un particolare modo di guidare centroasiatico per risparmiare benzina) nonostante
la velocita’ di crociera sia di circa 20km orari. Nei modi di fare i kirghisi ricordano i cinesi, soprattutto
nel rapporto con il denaro: chiedono sempre il massimo e non fanno sconti, a costo di rimetterci; per
non trattare, il “nostro" camionista rifiuta un passaggio a due italiani incontrati a Sari-Tash. In
Kirghizistan ho visto i primi segni di un certo “laicismo” nei saluti, che variano oltre all’onnipresente
“salam”. Inoltre c’e’ un largo uso del russo che altrove viene invece sostuito dalla lingua locale: a
Dushanbe un passante mi aveva corretto dicendomi “qui siamo in Tagikistan”! Da notare che,
insieme al Kazakistan, il Kirghizistan anche dopo l’indipendenza ha mantenuto il russo come lingua
ufficiale, seppur assieme al kirghiso.
Superato un valico dopo Sari-Tash il paesaggio umano cambia radicalmente: tornano a vedersi i
benzinai, a bordo strada i ragazzini vendono pomodori ed i campi sono affollati di mucche. Vedo
anche la prima scritta di tifo calcistico dall’inizio del viaggio, mentre nelle strade ricompaiono anche i
camion, perlopiu’ cinesi, ed i paesini sono ornati di monumenti sovietici ricchi di retorica e celebranti
soldati ed operai.

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Arrivati ad Osh ci dedichiamo alle riparazioni della macchina. Il camionista ci porta in un immenso
autoparco che sembra essere una sorta di centro del fai da te automobilistico, disseminato di spazi
dove riparare la propria macchina e di negozi di ricambistica; ovunque ci sono inoltre vecchi
pullmann usati tedeschi. Grazie a due meccanici (o presunti tali) ripariamo la macchina, non senza
difficolta’, e poi andiamo dal gommista per sistemare anche le ruote. Alla fine ce la caviamo con una
spesa sicuramente non piccola ma non eccessiva viste le riparazioni fatte.
Finiamo poi in un albergo consigliato da un kazako che ci sciorina un tot di luoghi comuni sui popoli
confinanti compreso quello dei kirghisi stupidi e cattivi, di certo la tolleranza non e’ di queste parti...
Bisogna ricordare che Osh e’ stata epicentro nel 2010 di gravissimi scontri interetnici tra kirghisi e
uzbeki, costati la vita a piu’ di cento persone, come testimoniano alcune case a tutt’oggi dalle
facciate riportanti i segni di incendi e devastazioni. In ogni caso le varie etnie sono facilmente
distinguibili per la notevole differenza nel modo di vestire, con i kirghisi indossanti i tipici alti
cappelli. A Osh si rivede anche la moschea e si ascolta il richiamo del muezzin. In particolare i segni
dell’islam come i minareti e le donne velate sono numerosi lungo il confine uzbeko, in special modo
nella zona di Jalal-Abad, dove sono anche molto frequenti i posti di blocco della polizia, non per via
dell’ordine pubblico ma bensi’ per rilevare la velocita’ delle auto... Le strade sono infatti tornate ed
essere decisamente belle e la voglia di correre e’ forte. Veniamo fermati due volte in cinque minuti
con il vecchio trucco dell’eccesso di velocita’. La modalita’ e’ sempre la stessa: si viene fermati per un
limite di velocita’ superato, che in realta’ non e’ stato oltrepassato, e la polizia richiede il pagamento
di una multa esorbitante, in contanti e possibilmente in dollari. Fingendo di non capire ce la caviamo
in entrambi i casi e ce ne andiamo.
I paesaggi sono incredibili: dopo un enorme lago di un blu cristallino passiamo per una delle
numerose aree protette dove ai lati della strada vendono miele di ogni tipo. A farci compagnia una
visita ufficiale cinese, scortata dalla polizia, che ritroveremo diverse volte lungo il tragitto. Arrivati ad
un passo di 3586 metri circondato da yurte e mandrie di cavalli inizia una discesa infinta che porta a
Bishkek, con la macchina che continua ad avere qualche problema, compresa una perdita di benzina
ed una gomma bucata riparata da un sorridente meccanico con attrezzature che in Europa e’ ormai
difficile anche solo vedere.
Avvicinandosi alla capitale iniziano a vedersi sempre piu’ macchinoni, numerose le marche
tedesche, e tantissime auto riportano il contrassegno della Germania; probabilmente il paese risente
degli accordi commerciali fatti a suo tempo dalla UE. Il Kirghizistan e’ infatti uno dei paesi
centroasitici dove piu’ forte e’ stata la penetrazione occidentale nel tentativo di allontarlo da Mosca,
nonostante il governo kirghiso abbia poi ritirato la concessione dell’importante base militare di
Manas all’esercito statunitense, che la usava come punto d’appoggio per la guerra in Afghanistan.
La meta di giornata e’ Kara-Balta, nei pressi della capitale, alla quale arriviamo dopo la discesa che
sembrava non volesse finire mai piu’. La citta’ appare subito molto buia e non troppo
raccomandabile, non si vedono alberghi e veniamo subito fermati ad un posto di blocco misto di
polizia e militari. A differenza delle precedenti la situazione sembra piu’ seria e ci stiamo
rassegnando a dover elargire qualche “mazzetta” quando il gruppo in uniforme parte (goffamente)
all’inseguimento di due macchine sfrecciate nei pressi, cogliamo l’occasione per allontanarci e
puntare su Bishkek.
La piu’ importante citta’ del Kirghizistan appare subito brutta (ci sono anche delle ciminiere),
circondata da un incendio enorme, e strapiena di casino’ e locali notturni, al punto da sembrare
abbastanza surreale. Il paesaggio urbano sembra decisamente “occidentale” e per la prima volta in
tutto il viaggio si vede chiaramente un accenno di prostituzione, come nell’albergo dove alloggiamo
dato che nell’atrio incontro due ragazze che sembrano abbastanza evidentemente essere escort.
Intorno tra la popolazione tantissime persone di chiara etnia russa, mentre il taxista che ci ha
accompagnato all’albergo sembra tedesco.
Nuova meta il lago Issyk Kul, detto il piccolo mare kirghiso, che ci apprestiamo a raggiungere in
compagnia di un team di ragazzi delle isole Shetland. Fuori dalla capitale si vedono ovunque murales
di stampo sovietico ricchi di falci, martelli e stelle rosse; uno addirittura incitante all’amicizia con


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l’Iran!!! A bordostrada i bambini vendono pesche ed ogni casa ha un piccolo banchetto che propone
bevande; da segnalare poi le fermate dei pullmann tutte belle e decorate con mosaici, una
addirittura a forma di cappello.
La prima citta’ sul lago e’ tremenda: palazzi fatiscenti, Lenin ovunque ed un cementificio
semidistrutto, quest’ultimo rivelatore del fatto che i sovietici impiantassero industrie ovunque ci
fosse un corso o una distesa d’acqua. Come se non bastasse la citta’ e’ disseminata di cartelli
pubblicitari dell’Unicredit... Mi rivolgo quindi all’ufficio del turismo, aperto tre giorni prima e
firmando il libro degli ospiti come primo cliente!!!. La citta’ turistica e’ circa 100km piu’ avanti, si
continua quindi per la strada che costeggia il lago dove numerosi sono i venditori di pesce. Passiamo
vari cimiteri islamici e moschee che sembrano prefabbricate (la cupola sembra fatta di un materiale
che pare alluminio) ed arriviamo in una vera e propria Rimini kirghisa. A Cholpon-Ata (questo il nome
della citta’) sembra davvero di stare al mare, compresi bagnanti armati di ceste da pic nic e discoteca
di infimo livello popolata di ragazzini vestiti in maniera improponibile, giusto a 20 metri dalla casa
dove dormiamo e trovata grazie ad un ragazzo che si e’ creato una sua attivita’ di guida turistica fai
da te... Osservando i tentativi di approccio e l’attivita’ dei pusher sembra davvero di stare in una
qualunque discoteca di un nostro centro balneare minore.
Colazione con carne fritta e cipolle e si torna a Bishkek, dato che il confine con il Kazakistan prossimo
al lago si raggiunge attraverso strade davvero impercorribili. Noto nuovamente ovunque statue di
lavoratori e lavoratrici che guardano il sole dell’avvenire, viene davvero da chiedersi se qui ci sia mai
stata una desovietizzazione. Il paese sembra in fallimento, tutti chiedono soldi, anche per dare
semplici informazioni, e mentre rifletto osservo un cartellone del governo kirghiso dove compare la
bandiera del Giappone, riferentesi a qualche accordo commerciale raggiunto.
Penso di avere capito perche’ dopo l’indipendenza la politica kirghisa sia stata quella di “mettersi”
all’asta per il miglior offerente tra USA e Russia. Oltre a vecchi modelli di auto tedesche vediamo
anche numerose auto di produzione sovietica; il Kirghizistan sembra davvero vivere dell’usato altrui
ed in un’altra epoca...
Il tempo di vedere un pullmann d giornalisti spagnoli scortato dalla polizia ed il Kirghizistan ci saluta
con l’ennesimo posto di blocco a caccia di multe, giusto prima della frontiera, e stavolta vogliono
addirittura 50 dollari; la solita tecnica del “finto tonto” ci permette di avviarci, dopo qualche tempo,
verso il Kazakistan, e senza pagare dazio!




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“La tua polizia quanto chiede?”
21/08 – 25/08
Kazakistan




Questa la domanda che mi sono sentito rivolgere dall’autista kazako di un carroattezzi, e questa
domanda racchiude molto di un viaggio in Kazakistan. La polizia del paese e’ infatti rinomata per la
sua corruzione e per il suo usare gli automoblisti, specie se stranieri e occidentali, come bancomat!
La frontiera kazaka appare come le porte dell’inferno: caotica come quella iraniana ma molto piu’
cupa. I militari hanno facce minacciose e spintonano la massa di gente che preme per entrare, donne
comprese, minacciando di gettare le loro mercanzie nel fiumiciattolo che scorre nei pressi.
Addirittura una guardia di confine con il volto coperto dal passamontagna estrae un coltello da
guerra minacciando un gruppetto di donne, che di rimando gli semi-ridono in faccia; il solito pallone
salvavita e passiamo... Certo che desta impressione vedere queste scene all’ingresso di quello che
risulta come il colosso economico centroasiatico e, teoricamente, il paese piu’ “evoluto e
occidentale” dell’area,
Il Kazakistan appare dapprima come una distesa di colline brulle per poi diventare un’immensa
pianura dal cielo nuvoloso e dal clima un po’ freddo. Lungo le strade, che corrono dritte, una marea
di Mercedes e Toyota, nonche’ i soliti pullmann tedeschi usati, che hanno qualcuna il volante a
destra e qualcuna a sinistra. I primi campi coltivati ci portano ad Almaty che ci accoglie con un gran
traffico e con la prima chiesa, ortodossa, incontrata da quando abbiamo lasciato l’Europa.
Con sopresa scopriamo che gli alberghi costano un sacco di soldi, finiamo cosi’ in un hotel
chiaramente del periodo sovietico: centiania di camere, intonaco che cade a pezzi e ascensore che
va solo al terzo piano dove c’e’ l’addetta alla distribuzione chiavi!!! In serata insieme agli scozzesi
andiamo nell’albergo piu’ lussuoso della citta’ a trovare un loro amico americano (decisamente
benestante per via dei vari locali che gestisce in patria) e constatiamo che anche dove alloggiano i
ricchi kazaki il lusso e’ apparente, dato che qualche pezzo di intonaco e’ decisamente da rifare.
Qui apprendiamo una notizia che fa riflettere: un ragazzo inglese del Mongolrally sta rischiando la
vita dopo essere caduto da 10 metri d’altezza; era in un pub ubriaco di whisky, e questo fa pensare...
Ha senso questa corsa folla popolata da decine e decine di ragazzotti che sfrecciano lungo l’Eurasia
solo per poi vantarsi di averlo fatto? Io personalmente ho preso la cosa come un modo di vedere
(anche solo di sfuggita) posti che altrimenti avrei difficilmente visitato, e il mio prendere appunti e’
un tentativo di andare, anche solo minimamente, oltre la superficie di cio’ che vedo. Ma gli episodi in
cui ho visto team ubriachi, ripartire da un posto lasciando cumuli di immondizie e fare un gran casino

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mi hanno lasciato davvero perplesso, non mi stupisce che in Mongolia il Mongolrally non sia amato,
come dice Alfredo, il mio amico che da anni vive ad Ulaan Bataar. In ogni caso la serata prosegue con
un ristorante cinese, la cui cucina e’ nettamente differente da quella che conosciamo in Europa
come cinese; attraversando la citta’ si puo’ vedere come il centro sia una distesa di negozi dalle
firme euopee destinati a shopping di lusso: si va dalle italiane Scavolini e Zegna alle gioiellerie
francesi e svizzere, ma a me che colpisce di piu’ e’ un insegna che appare profetica, stiamo parlando
della Kazinvestbank!!!
Prima di ripartire visita al centro commerciale, l’americano spende, e qui scopro che sembra di
essere in Europa dato che l’edificio pullula di negozi occidentali, anche i prodotti sono occidentali, e
pure le ragazze vestono all’occidentale. Unica differenza il bancone della vodka decisamente oltre gli
standard occidentali, compresa una bottiglia regalo a forma di Kalashnikov!
Decisamente questo americano, che fa il Mongolrally da solo, conferma i miei pregiudizi anti-USA:
spocchioso, arrogante, ed una tendenza a fare il leader che non mi piace. Ma adesso basta, la
tendenza alla generalizzazione centroasiatica mi sta contagiando...
Lungo la strada il sole tramonta su un’enorme distesa piatta, che ricorda la savana. Siamo una
minicomitiva di tre macchine che si ferma a bordostrada per lavare i vetri improvvisando un
autolavaggio, taglia bottiglie di plastica per bere vino rosso presso un benzinaio e si accampa in
un’area di sosta (spiazzo di terra battuta circondato da immondizie) per cenare e dormire...
Procedendo verso Qaraganda sembra di essere in una tabula rasa elettrificata: il paesaggio non
cambia, sempre piatto, mentre a bordo strada continuano le statue di animali e persone immerse
nel nulla. Unica nota di rilevo l’incontro con un team di ragazze canadesi, amiche dell’americano, che
arrivano dopo essere entrate in Kazakistan, se non sbaglio, dalla parte occidentale del paese invece
che da sud come noi. Come gia’ detto i russi ovunque ci fosse acqua hanno posto industrie, e
risalendo verso nord il Kazakistan e’ pieno di fiumi e laghi, da qui un paesaggio dove i fili elettrici la
fanno da padrone e dove l’inquinamento e’ un problema serio; non e’ nemmeno un caso che piu’ ci
si inoltre verso nord piu’ aumentano le macchine dalla targa russa. Infatti le regioni settentrionali del
paese vedono una forte minoranza russa il che per il governo kazako potrebbe diventare un
problema dato che le aree di insediamento russo sono anche le aree piu’ ricche e produttive.
Superata Balkash si vedono delle alture e sullo sfondo addirittura montagne, mentre ai lati della
strada sono numerose le mandrie di cavalli. Ma... La Panda si rompe di nuovo, stavolta un problema
elettrico: non parte piu’ ed esce del fumo. Uno dei ragazzi scozzesi, che di lavoro e’ meccanico, prova
a darci una mano ma un fusibile si e’ bruciato. Lascio quindi Matteo e vado con gli altri in citta’ a
cercare un meccanico. Mentre aspetto il carroattrezzi due kirghisi si intrattengono mettendomi a
conoscenza del fatto che i kirghizi sono brutta gente, evidentemente un’opinione diffusa in
Kazakistan, ed altre simpatiche perle di “internazionalismo” post-sovietico.
Il conducente del carro attrezzi invece mi istruisce sulla corruzione della polizia kazaka facendomi la
famosa domanda e chiamando un sacco di persone per vantarsi del fatto che stesse andando a
prendere un macchina italiana del Mongolrally. Recuperata la macchina si ritorna in citta’ per finire
in un albergo con sala scommesse annessa. Io sono decisamente stanco e mi dedico a mangiare
panini e bere birra, con la commessa che ha un 10% su tutto, guardando Villareal-Odense in
compagnia di due kazaki che hanno ediventemente scommesso sul Villareal... Come se non bastasse,
lo scambio di mail con l’organizzazione del Mongolrally continua a non chiarire le procedure per far
entrare la Panda in Mongolia: dato che la nostra macchina e’ piu’ vecchia del limite consentito dalla
corsa importeremo la macchina come privati e non tramite Mongolrally, pur con il loro appoggio, ma
fino ad oggi su questo punto non si e’ fatta chiarezza e la Mongolia si avvicina sempre piu’...
Il giorno seguente lo si passa in un’officina di ragazzi gentilissimi, e la macchina sembra non avere
nulla. Io scambio la mia email con un ragazzo dai tratti russi che mi dice la sua ragazza parlare
italiano, e con il quale sono in contatto ancora adesso, peccato non aver potuto partecipare al suo
recente matrimonio. Osservando i tratti somatici noto che russi e kazaki sono molto mescolati, i russi
sono davvero tanti, anche se un ragazzo (dai tratti kazaki) mi dice chiaramente che la lingua kazaka
e’ piu’ bella del russo... Chiaccheriamo per un po’ e anche qui la chiaccherata finisce sulla corruzione


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della polizia che in Kazakistan sembra davvero essere uno dei principali argomenti di conversazione.
I ragazzi infatti si premurano di chiedere se abbiamo avuti problemi con i poliziotti, ma
fortunatamente finora non ne abbiamo avuti. Tutti hanno il mito di Almaty, come in tutto il
Kazakistan, anche se le ragazze di Qaraganda non sono da meno per look non certo castigato e arie
da “vamp”...
Il nord del paese ha strade pessime, per via dei numerosi fiumi e laghi, e sono piene di camion
europei usati. Superiamo Pavlodar dalla moschea affiancata alla chiesa ortodossa (ed entrambe
costruite in uno stile disneylaniano) e ci fermiano nell’ultimo paesino kazako, chiedendo ad un
benzinaio dove poter trovare un posto dove dormire; il benzinaio mi disegna una mappa che sembra
un quadro, mancano solo le case per essere degna di Google Maps e tutte le persone presenti ci
vogliono aiutare. Finiamo cosi’ in casa di una simpatica affittacamere dal figlio ciccione, simpatico
pure lui e aspirante albergatore. Mieto successi con il mio dizionario italiano-russo ma una ragazza
non prende troppo bene la mia non conoscenza delle differenze tra lingua kazaka e lingua russa.
La piovosa mattina seguente la strada verso la frontiera e’ pessima, come quasi tutte le strade verso
le frontiere, e per chiudere in bellezza un poliziotto ci accoglie al posto di confine sfoggiando il suo
italiano: “Mafia? Good!”




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L’arte di sapersi arrangiare
25/08 – 26/08
Russia




In Russia e’ stato davvero un passaggio molto veloce, per vari motivi. Innanzitutto per motivi
geografici, dato che non esistono vie dirette tra Kazakistan e Mongolia. I due paesi infatti
non confinano per soli 38km di montagne, divisi da Cina e Russia. Per la Cina non e’ stato
richiesto il visto in quanto la possibilita’ di guidare un autovettura in territorio cinese e’
fortemente limitata da una rigida regolamentazione, quindi Russia. A proposito della Cina
dico solo brevemente che, una volta arrivati al traguardo, ho lasciato la macchina ad Alfredo
e me ne sono partito per questo affascinante paese innamorandomene. Ho scoperto una
terra ricca di fascino e contraddizioni, della quale magari scriveremo in altra occasione.
La “terribile” frontiera russa, il temibile ingresso nel paese di quello che fu il socialismo reale
si rivela... il confine piu’ facile da attraversare di tutto il viaggio!!! Giusto mezzo controllo ed
una dichiarazione da firmare, ed anche qui siamo riconosciuti come team del Mongolrally; la
gara ha ormai i suoi percorsi fissi e le guardie di confine ormai sono abituate a strane
macchine con a bordo strane persone. E dal Kazakistan sono principalmente due i posti di
confine attraversati dai team del Mongolrally: quello vicino Pavlodar (ossia quello di cui
stiamo parlando) e quello vicino Semey (tristemente famosa per le radiazioni dovute
all’essere stata poligono nuclerare sovietico). Scegliere una strada invece che un’altra puo’
fare grandi differenze in paesi dove la manutenzione del manto stradale non e’ all’ordine del
giorno. E per questo uno dei lati piu’ interessanti del Mongolrally e’ lo scambio di
informazioni tra equipaggi ed il nascere di leggende dovute al passaparola, come e’ stato
per noi il caso delle voci di chiusura delle frontiere tagike con il Kirghizistan.
La russia si presenta subito verde, ricca di foreste e campi coltivati, nonche’ corvi in ogni
dove. I primi paesi sembrano poveri ma anche qui le ragazze “si tirano a lucido” il piu’
possibile... Nei bar vedo i primi tatuati (e anche molto) che non sono ex-detenuti. In
Kirghizistan addirittura un poliziotto mi aveva mostrato con orgoglio i suoi tatuaggi
chiaramente fatti in cella, e spesso mi chiedevano, visto i miei abbastanza evidenti, se avevo
conosciuto le patrie galere italiche...


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Mi colpisce che i benzinai per la prima volta dall’inizio del viaggio rifiutano euro e dollari,
sembra che qui non ci sia la fame di valuta forte che abbiamo incontrato lungo tutto il
percorso...
Il tempo di acclimatarci in questo angolo sperduto di Russia che un nuovo guaio ci assale: su
di una buca presa a 10km orari si rompe una balestra!!! Cerchiamo un meccanico, e lo
troviamo anche... Il pomeriggio lo passiamo quindi ad assistere un vero e proprio artista che,
tentando di adeguare una diversa balestra a quella rotta, crea un nuovo assetto per la
macchina decisamente piu’ aggressivo. Infatti per poter agganciare un nuovo pezzo al
vecchio il Leonardo degli Altai rialza tutta la parte posteriore della macchina con un gioco di
saldature e bilanciamenti!!! Il risultato finale e’ visibile nella foto di copertina... In Russia la
capacita’ di arrangiarsi da soli e’ evidente dal fatto che ogni area di sosta ha buche e
rudimentali ponti affinche’ ognuno possa farsi da se’ controlli e riparazioni del caso.
La notte ci coglie lungo la strada per Barnaul e la stanchezza si fa sentire, il viaggio e’
davvero massacrante e manca ancora la parte forse piu’ dura: la Mongolia con la sua totale
assenza di strade (se non intorno alla capitale). Dormiamo quindi parcheggiati in un
benzinaio e sfortuna vuole che quando mi decido a visitare il bar presente nell’area di sosta
questo chiuda... Barnaul appare come una cittadona, un vero centro di snodo con i suoi
numerosi svincoli che portano ovunque. Infatti per trovare la direzione giusta dobbiamo
fermarci in un autogrill e chiedere indicazioni a due metronotte, e facendo la mia seconda
colazione. La prima era stata in un supermercato che aveva appena aperto e dove mi sono
caricato di dolci e torte salate appena sfornate, ignorando in maniera sacrilega il reparto di
birra piu’ grande che abbia mai visto in vita mia...
La pioggia ci segue anche sugli Altai. Il paesaggio e’ bellissimo, la strada sale per i boschi e
sembra di essere in qualche valle alpina. Il posto e’ chiaramente turistico come denotano i
numerosi campeggi lungo il fiume e le altrettanto numerose pensioni a bordo strada.
Procedendo verso il confine mongolo dopo un bivio finisce la zona turistica e la strada
diventa sempre piu’ una tipica strada di montagna, stretta e ripida.
Durante una sosta da un gommista una scena divertente: un cucciolo apprendista cane
pastore si affanna a rincorrere una mucca mostratasi molto interessata alla nostra
macchina, in questo angolo di Russia le mucche sono tantissime dando ancora di piu’
l’impressione di essere sulle Alpi.
Tra un tornante e l’altro incontriamo un team la cui ambulanza ha la targa tedesca, come
scopriremo poi si tratta invece di un gruppo di ragazzi romeni, che rappresentano i primi
partecipanti di questo paese al Mongolrally. Con questi ragazzi faremo gran parte del
tragitto in terra mongola.
Inizia a salire un po’ di preoccupazione dato che sappiamo la frontiera mongola avere degli
orari di chiusura e sapendo anche che tra Russia e Mongolia la terra di nessuno e’ lunga ben
45km, forse qualcuno meno, e si sta facendo tardi...
Arriviamo al confine e veniamo controllati piu’ lasciando il paese di quando vi siamo entrati.
Siamo sempre in compagnia dei ragazzi romeni e con loro scopriamo che una volta passato il
cancello di uscita dalla Russia, esattamente in quel punto finisce l’asfalto; la terra di nessuno
si presenta come una pista di terra battuta che si inoltra nel nulla, un inizio che lascia
presagire quello che troveremo una volta in Mongolia.
Il tempo di riabituarsi alla guida sullo sterrato ed arriviamo al posto di confine mongolo, che
ovviamente troviamo chiuso. Ma il Mongolrally non e’ ormai piu’ una novita’ per le guardie
di confine dei vari paesi, ed infatti quelle mongole ci stanno aspettando per aprirci il
cancello e farci entrare. Siamo in Mongolia! Ma per stanotte si dorme sul piazzale, in

                                                32
compagnia di un’altra decina di team, perlopiu’ inglesi e canadesi. Una grossa parte del
viaggio e’ fatta, resta ora forse quella piu’ difficile. Non e’ un caso che la maggior parte degli
equipaggi abbandoni la corsa dopo essere entrati in Mongolia: il paese infatti e’ cosparso di
piste, mentre strade asfaltate esistono solo per circa 300 chilometri attorno Ulaan Bataar. Ci
attendono giorni faticosi, ma finora la stanchezza e’ stata premiata dai paesaggi e dalle
esperienze fatte. Tornando alla Russia e’ stato davvero un passaggio fugace, ma la
disponibilita’ delle persone incontrate ed i panorami visti invitano a pensare ad un ritorno
con piu’ calma in un futuro prossimo.




                                               33
Il fascino indiscreto del vuoto
25/08 – 01/09
Mongolia




Ci svegliamo in Mongolia!!! Sembra quasi impossibile a credersi, ma non siamo ancora arrivati a
destinazione e la parte forse piu’ dura inizia adesso: saranno pochi giorni ma di fatica!
Colazione nel parcheggio della dogana e via, ma ci dimentichiamo un piccolo particolare... le pratiche
relative all’autovettura! Sono un po’ teso per tutte le difficili comunicazioni con l’organizzazione in
merito a questo punto, ed il mio vedere spesso nero non aiuta. Tuttavia i funzionari mongoli sono
gentili, ci chiedono solo un documento che provi il valore della macchina essendo piu’ vecchia del
consentito. Matteo ha la ricevuta di acquisto e dato che la macchina e’ stata regalata da un suo
cliente il valore delle tasse di importazione viene calcolato in termini decisamente favorevoli. Tutti i
computer degli uffici doganali sono dotati di internet e siti di quotazione auto ma fortunatamente
non e’ nota la differenza tra Panda e Panda 4X4, sta di fatto che non dobbiamo pagare nulla al
momento ed una volta arrivati le tasse per svincolare l’auto dal Mongolrally non saranno
elevatissime. L’ultimo controllo e’ fatto da una doganiera carinissima che sembra arcigna ma si
scioglie alle parole magiche: Toto Cutugno, un vero lasciapassare!
Si parte davvero, in compagnia dei ragazzi romeni verso Ulaan Bataar, decidendo di passare da sud.
La via nord infatti e’ troppo rischiosa per i numerosi laghi e le frequenti inondazioni.
Il primo impatto con la Mongolia consiste in un vento fortissimo, al punto da rendere difficile l’uscire
dalla macchina ed un cielo che minaccia pioggia; il famoso cielo blu della Mongolia, non terso come il
cielo di Giugno visto da me l’anno precedente, ma sempre di ineguagliabile bellezza. Le strade
semplicemente non esistono, lo spazio e’ infinito e le piste corrono numerose e parallele, con la
principale al centro che spesso e’ anche quella dal fondo peggiore; per orientarsi non serviranno
cartine ma vere e proprie mappe topografiche, dato che i punti di riferimento sono i fiumi e le
montagne in lontananza. Ogni altura diventa cosi’ un elemento fondamentale per capire la propria
posizione tenendo conto che in un paese grande 5 volte l’italia e con tre milioni di abitanti (di cui
piu’ della meta’ nella capitale) le persone alle quali chiedere informazioni lungo la strada non sono
molte...
Nel primo villaggio, dove passeremo la notte, gli spunti di riflessione non mancano: infatti veniamo
assaltati da una miriade di bambini che sembrano molto poveri. Ma oltre al mendicare qualcosa
hanno un atteggiamento abbastanza aggressivo, al punto da arrivare a tirare sassi alle macchine.



                                                  34
In ogni caso ci fermiamo nella gher di una signora che scopriamo essere insegnante d’inglese con tre
figli che studiano all’universita’ in tre continenti diversi. La gher e’ grande, piu’ spaziosa delle
consuete tende di feltro mongole; come ci fa notare la signora, e lo sottolinea per qualche decina di
volte, ne’ lei ne’ la gher sono mongole ma bensi’ kazake. C i troviamo infatti nella regione autonoma
di Bayan-Olgii dove l’etnia e’ kazaka e la religione seguita e’ l’islam, mentre nel resto della Mongolia
la popolazione e’ buddista. Come ci dice la nostra “padrona di gher” costumi e tradizioni kazaki sono
assolutamente differenti da quelli mongoli, e da come ne parla la cosa sembra non dispiacerle.
Osservando meglio la tenda che ci ospita in effetti le differenze da quella classica mongola sono
diverse: innanzitutto e’ piu’ grande e sembra essere piu’ curata nei dettagli decorativi, non vi e’ lo
spazio dedicato agli antenati (di solito un piccolo altare) e non vi sono strumenti di lavoro all’interno.
Sembra inoltre mancare degli aspetti piu’ simbolici che tanta importanza hanno nella cutura
mongola.
La sveglia ci riserva un cielo limpido e privo di nuvole, inizio a riconoscere il cielo mongolo, anche se
l’estate volge ormai al termine e di notte fa freddo, tanto che trovo ghiacciato il fiume dove vado a
lavarmi i denti. La zona del lago Tolbo non e’ decisamente tra le piu’ turistiche del paese ed i
paesaggi sono tendenzialmente sempre uguali, cambia solo il fondo delle pessime piste.
Mentre procediamo iniziano le prime forature ed affrontiamo il primo guado, per fortuna piccolo, e
lungo la strada compaiono i primi cammelli, che aumentano sempre di piu’. Attraversiamo qualche
villaggio, dove i bambini che sembrano poverissimi letteralmente si gettano sotto la macchina,
affrontiamo un guado piu’ grosso, con l’aiuto di alcuni fuoristada, e arriviamo a Khvod, la citta’ piu’
grande della regione.
Qui vediamo una moschea e incontriamo numerosi team, approfittiamo della sosta per comprare
viveri per il proseguio del viaggio, ben sapendo che il menu’ mongolo, come sperimentato in un
ristorante di Olgii e’ composto quasi esclusivamente da carne di yak o montone.
Nuove forature: giunge il momento di mettere le gomme tassellate, mentre rumoracci della Panda
sono colonna sonora mentre continuiamo a percorrere una distesa infinita di nulla, finche’ al calare
del sole, decidiamo con i nostri compagni di viaggio che e’ giunta l’ora del riposo. Per evitare di
venire investiti, siamo infatti nel mezzo di un’immensa distesa di piste, montiamo un telone che
rifletta i fari degli altri veicoli. Il tempo di vedere un branco di cammelli che viene a farci visita ed il
sonno prende il sopravvento...
La notte e’ fantastica, nel cielo miliardi di stelle e tantissime sono cadenti, un senso di pace
incredibile; la Mongolia ha davvero il cielo piu’ bello che io abbia mai visto in vita mia.
Stiamo andando verso Altay, dove c’e’ un meccanico che fa da punto raccolta per il Mongolrally, e ne
abbiamo bisogno. I guadi diventano sempre piu’ grossi ed impegnativi ed intorno a noi continua la
distesa di nulla. Fa davvero strano incontrare altri team in queste condizioni, le macchine spuntano
da ogni parte, ognuna con il suo percorso: non essendoci strade ovunque ci sia suolo e’ un percorso!
Dopo il rituale scambio di saluti ormai la domanda classica che ci si fa tra equipaggi e’: “e tu cosa hai
rotto?” il che dice molto delle condizioni nelle quali ci stiamo avvicinando ad Ulaan Bataar...
Ci accampiamo in un mini villaggio di qualche gher dove assistiamo sia a scene spiacevoli, ossia
bambini che bloccano la macchina mettendosi davanti e adulti che ridono e incoraggiano, sia a scene
stupende, ossia un tramonto talmente bello che non avrei pensato potesse esistere. Piazziamo le
tende nel recinto degli anmali e al mattino con grande stupore scopriamo di essere vicino alla
fermata di un pullmann, che nella notte e’ effettivamente passato!!!
Dopo una notte ventosissima, quasi le tende se ne volavano via, si punta verso Altay con il suo
meccanico. In effetti il car service e’ una sorta di ritrovo per equipaggi, tanto che ad un certo punto
ce ne saranno stati una decina contemporaneamente. I meccanici sono incredibili, aggiustano tutto,
sono allo stesso tempo meccanici, gommisti, saldatori e chi piu’ ne ha piu’ ne metta. Quando
arriviamo stanno saldando un’ambulanza spezzatasi in due!
La citta’ e’ minuscola ma per gli standard mongoli enorme. Ci dedichiamo a recuperare le forze con
ristorante, ed una volta di piu’ constatiamo come il menu’ mongolo sia davvero ridotto, internet e
spesa, anche se stranamente molti negozi alimentari non hanno pane e acqua. Fuori citta’ si sfata il


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Una panda per l'eurasia

  • 1. Una Panda per l’Eurasia Di Pietro Acquistapace 1
  • 2. “Fletto i muscoli e sono nel vuoto” (Rat Man) 2
  • 3. Premessa necessaria Questo non vuole essere un classico diario di viaggio, innanzitutto perche’ i diari di viaggio sono viziati da un’ottica “turisticoentrica”; ossia dal vedere solo la superficie delle cose, senza pensare che il magnifico paesaggio che si sta vedendo non e’ una cartolina, e le genti che quel paesaggio lo vivono non sono dei “buoni selvaggi” messi li’ per il nostro piacere o peggio ancora per permettere confronti tra chi sta meglio e chi sta peggio. Non e’ un diario di viaggio anche per il tipo di viaggio stesso, ossia circa 16000 e piu’chilometri su di una Fiat Panda, il che ne fa un potenziale resoconto mortalmente noioso, con mattine tutte uguali di sveglia (che fosse in un sacco a pelo o in una stanza d’albergo), controllo del mezzo e partenza, dopodiche’ ore ore ed ore di guida. Va da se che non sara’ la dinamica delle giornate al centro di questo racconto. Vorrei anche far notare che il resoconto segue di un anno l’esperienza, diciamo che ho fatto sedimentare per bene le emozioni... Quello che vorrei propormi in queste pagine e’ mettere al centro della narrazione i paesi visitati, quasi sparendo, cosa impossibile, come spettatore soggetivo, evitando inoltre di atteggiarmi a macho man di turno bullandomi della mia “impresa”. Vorrei invece tentare di dare al lettore un’idea di cosa ci sia dietro la facciata dei luoghi che ho attraversato, fornire qualche spunto per chi, nell’augurato caso lo volesse, fosse interessato ad approfondire il tema per conto suo. Ma di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando di un viaggio in Panda, come gia’ detto, che ha portato me ed il mio socio, Matteo, dall’Italia alla Mongolia attraversando buona parte dell’Europa orientale, la Turchia, l’Iran, tutti gli -stan Ex-sovietici, la Russia per poi approdare ad Ulaan Bataar, in Mongolia. Il tutto nel contesto di un rally, per quanto disorganizzato fosse, finalizzato alla raccolta fondi per dei progetti che gli organizzatori, un’associazione inglese, portano avanti in Mongolia con varie realta’ non governative. L’idea mi frullava in testa da un paio d’annetti, voglia di evadere dalla routine, di cambiare qualcosa, insomma voglia di fare qualcosa di non ordinario. E la scoperta dell’esistenza del Mongolrally fu una vera e propria conversione sulla via di Damasco, ops... Ulaan Bataar. Detto fatto, alla prima occasione di pesante crisi personale mollo il mio lavoro ultasicuro e 3
  • 4. relativi benefit (una follia? Assolutamente si!) e mi metto alla ricerca di un compagno di viaggio in rete, dopo che amici e conoscenti si erano tutti defilati repentinamente. Nel giro di qualche mese conosco Matteo su un forum di viaggi, ci sentiamo al telefono e decidiamo che si fa. Si parte!!! Ed inizia l’organizzazione: di fronte alla quantita’ incredibile di fattori da tenere presente ho avuto la certezza di essermi lanciato, come mio solito, all’avventura senza capire troppo cosa stessi facendo. Le cose a cui badare erano infinite: visti, mappe, calcolo delle tempistiche, rapporti con l’organizzazione, raccolta fondi, campagna informativa e non ultimo la macchina. Ma la fortuna mi e’ sta benigna dato che grazie al suo lavoro Matteo ha risolto tutta la componente tecnico-meccanica, reperimento del mezzo compreso; senza parlare del suo incontro, per il quale renderemo sempre grazie ad un dio a scelta, con Sergio, meccanico di rally e persona squisita. Il primo impatto con i paesi che “affronteremo” e’ quello burocratico: la richiesta di visti mostra come ogni Stato sia un mondo a se’; il visto kirghizo si rivela estremamente semplice da ottenere (da notare l’iconografia consolare dal sapore statunitense), quello kazako ricalca le procedure russe e come quest’ultimo chiede citta’ e alberghi previsti (che ovviamente tutti mettono a caso, me compreso con il mitico Kazzol Hotel), il visto iraniano mostra una certa tendenza al paradosso dato che se fatto per via classica consolare necessita anche di due mesi per il rilascio (con richiesta di impronte digitali per cittadini britannici e statunitensi) mentre se fatto on line diventa una procedura molto piu’ veloce, ma senza la sicurezza del rilascio. Discorso a parte merita la richiesta del visto turkmeno: il primo contatto con il paese dice moltissimo su quello che troveremo. Per entrare in Turkmenistan esistono due tipi di visti: turistico e di transito (valido 5 giorni e con tassativa richiesta di indicare il percorso); il visto turistico prevede una guida che dovra’ essere sempre presente dall’ingresso nel paese fino alla fine del viaggio. Per motivi di costi (il visto turistico e’ nettamente piu’ costoso) e di logistica (la maggior parte dei turisti attraversa il paese andando in Iran o Uzbekistan) il piu’ richiesto e’ il visto di transito ed e’ prassi comune dei consolati turkmeni annullare all’ultimo momento l’emissione di tale visto, proponendo l’acquisto di quello turistico. Nel nostro caso il governo turkmeno ha predisposto un visto unico per tutti i partecipanti al Mongolrally, con risultati che vedremo in seguito. Altro grande ostacolo, perlopiu’ comunicativo, con il quale ci trovammo a fare i conti fu la assoluta non conoscenza da parte della maggior parte delle persone dei paesi che stavamo per attraversare; fu quasi buffo vedere le facce confuse degli interlocutori di fronte al rosario di –stan dopo la fatidica domanda: “che percorso farete?”. La totale mancanza di informazione relativamente all’Asia Centrale risulta quindi lampante, il che fa abbastanza riflettere visto che stiamo parlando di una zona, per quanto remota, strategicamente fondamentale per il futuro dell’Europa. Ma tant’e’... In quel momento non c’era spazio per la geopolitica ma solo per quintali di carta recante gli emblemi piu’ bizzarri, ricerca spasmodica di informazioni su assicurazioni varie e tante tante tante mail. Sta di fatto che dopo ennesime peripezie, il magistrale lavoro di Sergio nel preparare la macchina, comprese prove techiche di massacro meccanico sulle alpi piemontesi, e un visto mongolo rifatto all’ultimo minuto (due giorni prima della partenza) il momento tanto atteso e’ arrivato: si parte alla scoperta di una parte di mondo; Eurasia a noi! 4
  • 5. Europe 24/07 - 28/07 Italia-Svizzera-Austria-Germania-Rep.Ceca-Rep. Slovacca-Ungheria-Romania-Bulgaria Partiamo da casa mia, sul confine italo-svizzero e dopo due chilometri la prima disavventura. Alla dogana, che faccio quasi quotidianamente, un finanziere dal lato italiano ferma la Panda carica (comprese taniche e pezzi di ricambio sul tetto). Per la prima volta in vita mia sono respinto ad una frontiera, anzi a dire la verita’ per la prima volta l’Italia si dimostra cosi’ legata a me da non volermi farmi uscire dai suoi confini... Il finanziere inizia a parlare di bolle, dogane commerciali e altra fantascienza, col risultato che ci spedisce alla dogana vicina, dove nessuno bada a noi tranne un finanziere elvetico che dopo avere saputo dove andiamo commenta: “con l’aereo e’ piu’ comodo”, sicuramente avra’ anche pensato: “quezti ‘taliani...”! Riflettendo sul finanziere emblema dell’italico attaccamento al lavoro tramite Svizzera, Austria e Germania arriviamo in Rep. Ceca dove e’ prevista la partenza comune. Che sensazione di liberta’ attraversare frontiere senza dogane, un pensiero a Altiero Spinelli, Gaetano Bresci ed anche Gengis Khan; a modo loro tutti artefici di questo risultato. La prima casa che vediamo in Rep. Ceca, dopo essere entrati nel paese da un parco nazionale, e’ il Bar Campionato!!! O gaudio... L’aria che tira al “campo base” e’ quella di un raduno di folli ma tant’e’. Conosciamo qualche team italiano e mangiamo insieme in una trattoria della zona. L’impressione e’ quella di un paese povero, dove per pochi euro mangia un reggimento, la popolazione locale sembra guardarci abbastanza male e nessuno parla inglese, tranne un poco la barista che il suo tatuaggio rivela essere l”alternativa” del paese. La non conoscenza dell’inglese si rivelera’ una costante in tutto il tragitto ceco e anche solo comprare la “vignetta” autostradale si rivelera’ non essere cosi’ semplice, nemmeno le strade sono il massimo. La Rep. Ceca, anche per via del tempo, sembra grigia ed ha l’incredibile effetto di rivalutare immensamente la Rep. Slovacca, dove le strade sono ottime e dove compare anche il sole ad illuminare i palazzoni tristi ma colorati di Bratislava. 5
  • 6. In Ungheria le prime prove di mediazione culturale: incerti se arrivare in Bulgaria tramite la Serbia o la Romania chiediamo a dei romeni; questi partono in una tirata antiserba e ci dicono assolutamente di passare per il loro paese ma di non fermarsi ad Arad (lasciando sottendere che la citta’ non brilla per sicurezza). Facciamo la prova poco dopo con un bulgaro che ripete i commenti sulle guardie di frontiera serbe aggiungendo: “voi siete italiani quindi meglio la Romania...”!!! La Romania rivela a colpo d’occhio una poverta’ immensa (la tangenziale di Bucarest e’ in parte sterrata e tutti vendono qualcosa alle auto in coda: dalle bottiglie d’acqua ai telefonini), tutti o quasi parlano italiano (tutti i romeni con i quali abbiamo parlato dicono di aver lavorato in Italia), la guardie di frontiera sono gentilissime e Arad ha mantenuto le sue promesse con una quantita’ innumerevole di camion che corrono come pazzi (tutti in direzione dell’Ungheria) e le strade davvero dissestate. I posti di blocco della polizia sono ovunque, ci sono un’infinita’ di cani per le strade e per la prima volta facciamo una coda di ore per via di un ponte dissestato, ma l’aspetto piu’ interessante sono i rom (o gitani?) che troviamo ovunque, alcune citta’ sembrano addirittura popolate solo da “zingari”. La Romania e’ davvero bella. La buona impressione delle persone e’ confermata anche dalla signora che ci ospita (a pagamento ovviamente) per la notte, anche se lei tende a sottolineare di essere di origine ungherese. Uscendo dal paese ci scontriamo con le prime forme di “non amicizia” interetnica: tra romeni e bulgari sembra non correre buon sangue dato che per trovare la frontiera a Giurgiu ci impieghiamo ore. Nessun cartello indicatore e quando provo a chiedere indicazioni ad’un impiegata in un’agenzia di viaggi mi risponde qualcosa del tipo: “e a me cosa interessa se vuoi andare in Bulgaria?”, ma poi sorride e mi dice la strada da prendere. Il posto di frontiera e’ immerso nel nulla in mezzo ai campi, ma attraversare il Danubio su un antico ponte rende il tutto migliore (compresa la tassa d’uscita dal paese presumo finalizzata alla manutenzione del ponte). Questa ricerca delle frontiere ci accompagnera’ fino in Mongolia e come scopriro’ poi le indicazioni per arrivarvici sono un chiaro indicatore dello stato delle relazioni diplomatiche tra i paesi confinanti. Una volta in Bulgaria ci ritroviamo immersi nei boschi, chilometri e chilometri di vegetazione senza vedere una casa. Unici segni di vita sono statue dalla spiccatissima retorica sovietica che spuntano dal nulla della foresta in una stranissima unione di natura selvaggia ed atea mistica meccanica. Cio’ nonostante la prima citta’ che incontriamo sembra Gardaland (ed il fatto che si tratti di Veliko Tarnovo fa capire quanti chilometri senza nulla intorno abbiamo percorso): fantasmagoriche luci colorate illuminano un castello posto sopra la cittadina, un immenso casino’ da’ sfoggio di se’ e nelle strade una folla che nemmeno nella Saint Tropez dei tempi d’oro... Saltiamo la cittadina non trovando alberghi e una volta immersi nuovamente nei boschi ci accoglie un bed and breakfast gestito da un simpaticissimo vecchietto; anche qui essere italiani apre molte porte (e sara’ una costante del viaggio). La Bulgaria vive dell’asse est-ovest, infatti fino al raggiungimento della strada che collega Burgas-Plovdiv-Sofia non abbiamo incontrato nessuno camion e quasi nessuna macchina, per contro abbiamo affrontato le prime difficolta’ dato che le strade tra Veliko Tarnovo e Stara Zagora sono tremende, una buca unica dove davvero una velocita’ maggiore di 10km orari puo’ distruggere la macchina. Troveremo lungo l’intero percorso pochi paesi con strade cosi’ terribili. 6
  • 7. Una riflessione su cosa significhi Europa viene spontanea ma di certo si deve saper apprezzare le diversita’, nonostante le difficolta’ che ne derivano. 7
  • 8. Il Bosforo come eccezione 28/07 - 31/07 Turchia Turchia: il paese che forse mi fara’ piu’ riflettere. Subito le prime difficolta’ culturali: capire come funziona l’autostrada esige una sosta al casello e cinque minuti di spiegazioni del casellante. Sembra assurdo trovare difficile qualcosa che per qualcuno fa parte del quotidiano, sicuramente sono esperienze che insegnano qualcosa. Come la prima cosa che si impara attraversando i confini: attenzione al cambio nero! E anche quello ufficiale meglio se lontano dalla frontiera; sta di fatto che ci perdiamo una cinquantina di euro, non per colpa mia, e per il futuro saremo piu’ organizzati. Istanbul sembra la porta dell’inferno: nelle strade il caos piu’ assoluto, con i prezzi della benzina alle stelle (in tutto il viaggio solo la Turchia ci porra’ di fronte a questo problema) e gli alberghi carissimi. Facciamo veloci due conti e considerando la lunghezza della Turchia, nonche’ del viaggio, decidiamo di risparmiare andando oltre. Sono abbastanza spiaciuto per la mancata sosta a Istanbul ma in effetti il viaggio e’ lungo e impegnativo ed impone delle scelte, alla fine ne saro’ ripagato. In realta’ avrei voluto vedere Santa Sofia per affetto “musicale” ma mi accontentero’di una fuggitiva capatina in piazza Sultanhamet, e mi riprometto di tornarci. La delusione aumenta col fatto che il ponte che ci troviamo a fare e’ il ponte nuovo e non quello vecchio e famoso, vabbe’... A mitigare il malumore la straba visione nel traffico di un vecchio camion scoperto a fare le veci di un carro funebre islamico verde come la bandiera che ricopre la bara, la prima di una lunghissima serie di situazioni inusuali. Altro elemento che colpisce una volta in Turchia e’ la curiosita’ che suscitiamo nella popolazione, tutti ci guardano e moltissimi ci salutano dalle macchine che ci superano, sinceramente non me l’aspettavo; come non mi aspettavo la quantita’ di donne velate, la Turchia si mostra subito per quello che si rivelera’ essere: un paese islamico e decisamente osservante. Nel mio immaginario personale non avevo mai associato il paese anatolico e l’islam in maniera cosi’ netta. L’islam sara’ l’elemento caratterizzante di tutto il tragitto turco, gia’ nella periferia di Istanbul moschee svettano nel mezzo di quartieri fatiscenti, al 8
  • 9. centro di spiazzi circondati da case popolari delle piu’ povere. Anche lungo la strada le moschee sono innumerevoli. Ogni area di sosta ha una propria sala di preghiera, con entrate differenti per uomini e donne, mentre, per contro, nel market non si vede una birra. Queste “moschee-autogrill” fanno riflettere anche solo per l’uso sconsiderato di tubi al neon fosforescenti, qualcosa che sta tra La Mecca e Las vegas... Il Bosforo e’ una colata di cemento immensa, solcata da innumerevoli tir diretti agli altrettanto innumerevoli capannoni industriali, decisamente un’area di commerci in pieno fermento. E tornando al lato umano non posso dimenticare un kebabbaro di Gebze ed il piccolo aiutante (penso il figlio) che si industriano per prepararci un panino con le poche cose che hanno in negozio cercando di presentarlo il meglio possibile, decisamente non un posto turistico. La tenerezza di tanti atteggiamenti umani mi accompagnera’ fino all’arrivo a Ulaan Bataar. Passato il Bosforo e’ un’altro pianeta. La strada, che nel giro di pochi chilometri passa dall’essere quasi un’autostrada allo sterrato con lavori in corso pressoche’ ovunque, e’ deserta e corre nel nulla. La stessa Ankara e’ un ammasso di palazzoni che si elevano nel vuoto, intorno niente: i turchi costruiscono in verticale nonostante lo spazio a disposizione con effetti sorprendenti, quasi un set da film post-atomico. E a rendere il tutto piu’ surreale continua anche l’impossibilita’ di trovare una birra. Passata Ankara e’ la Cappadocia, paesaggi bellissimi ed incantevoli, con la strada che si alza nel nulla verso altipiani fino a 2000 metri. I paesaggi sono mozzafiato, interrotti solo dai numerosi cantieri stradali. Incontriamo solo pochi camion improbabili (la Turchia asiatica ha decisamente un parco mezzi antiquato) e ci stupiamo dall’attraversare pochissimi paesi ma tutti popolatissimi, come riportato regolarmente dal cartello di ingresso, vere e proprie oasi di condomini popolari che si ergono nel deserto degli altipiani. Incontriamo anche il primo, e non sara’ putroppo l’ultimo, incidente serio; qui le strade si prestano davvero a correre come pazzi, e questo sara’ monito dato che e’ si’ un viaggio di piacere ma non e’ certo facile. Sosta a Sivas dove la notte ci ricordera’ che siamo in un paese islamico, e per giunta all’inizio del ramadan. Infatti il meritato riposto e’ interrotto dal muezzin che con un impianto stereo degno di un concerto metal chiama i fedeli alla preghiera (questo lo presumo visto che con la mia conoscenza della lingua locale potrebbe anche avere annunciato i saldi al centro commerciale). Inoltre nella reception da’ sfoggio di se’ un calendario del ramadan alle spalle del computer aperto su facebook. Questa sara’ l’unica volta che il muezzin ci svegliera’ e la Turchia davvero sara’ il paese dove il fattore religioso risultera’ piu’ “presente”e, come vedremo, lo sara’ anche piu’ che in Iran. Dopo Sivas la foschia rende il viaggio piu’ monotono e l’unico fatto degno di nota e’ la sosta ad un benzinaio nei dintorni di Erzurum che ci offre’ il the, lo sorseggiamo in compagnia di numerosi camionisti che approfittano del rifornimento per fare una sosta rigenerante. L’ultimo giorno in Turchia sara’ il gran finale: arriviamo in una citta’ di frontiera decisamente brutta da dove si vede l’Ararat svettare, e su consiglio di un poliziotto arriviamo in un campeggio altamente improbabile gestito da un olandese altrettanto improbabile, che ci dice vivere in Turchia da decenni. Piazziamo la tenda tra pulcini e tacchini e ci accorgiamo che tutti, ma davvero tutti, stanno grigliando! L’olandese ci informa trattarsi di zona kurda, ci dice anche che i kurdi sono molto conservatori e ci vende birra avvolta in carta di giornale e sovraprezzata. Sara’ un vecchio hyppie ma di certo ha senso degli affari. In serata scopriremo che l’alcool non e’ cosi’ malvisto, perlomeno dall’olandese e dal socio turco, e che anche diversi kurdi mimetizzano vodka in bottiglie d’acqua. 9
  • 10. Abbiamo la fortuna di assistere ad un matrimonio kurdo, che si rivela spettacolare: canti tradizionali rifatti su base techno e danze con movimenti lentissimi nonostante la musica degna della miglior discoteca tra Rimini e Brescia, aggiungiamo che il look medio e’ alquanto imbarazzante... Ma finisce che ci offrono la torta degli sposi! Nel frattempo l’olandese e’ completamente sbronzo e ci dice circa 500 volte di salire al castello da dove si vede l’Ararat mentre il suo socio turco, anche piu’ sbronzo, sfoggia il suo inglese con un “how are you” ripetuto circa un migliaio di volte ad ogni incontro, e calcolando le dimensioni lillipuziane del campeggio significa ogni quaranta secondi... Al mattino saliamo al castello ma la foschia non rende merito al panorama, si punta verso il temutissimo (da me no, ma dall’opinione pubblica mondiale si) Iran. Ripenso alla serata appena trascorsa nonche’ ai primi giorni di viaggio, e mi sento un po’ disorientato, e va bene cosi’! 10
  • 11. Sorridi, sei in Iran! 31/07 – 05/08 Iran Siamo in Iran! Quello che viene presentato come il terribile Iran! Spauracchio della geopolitica internazionale; ed e’ davvero il paese che non ti aspetti. Probabilmente l’Iran e’ stata la sorpresa piu’ positiva dell’intero viaggio, ma andiamo con ordine... Lasciamo la Turchia da un posto di frontiera sperso nel nulla, intruppati in una coda interminabile di camion che attendono di entrare in Iran. In uscita mi fermano, sale un po’ di panico poi, una volta negli uffici della polizia turca scopro che i loro sistemi non leggono il mio passaporto poiche’, essendo nuovo, presenta una diversa numerazione; questo mi fa riflettere sul fatto che anche per le carte d’identita’ i cittadini italiani possono avere problemi: negli scorsi anni in Italia i rinnovi sono spesso stati fatti con un semplice timbro, il che rende il possessore a rischio di possibili respingimenti, essendo la procedura non riconosciuta all’estero. D’ora in poi ogni dogana esigera’ il fare molta attenzione dato che ovunque troveremo cambiavalute decisamente poco onesti che vendono moneta per meta’ del valore. Il consiglio e’ quello di cambiare piccole cifre se non si e’ sicuri del tasso di cambio e tenere gli occhi aperti per vedere il comportamento delle altre persone per capire quanto la situazione sia normale e quanto sia invece una “trappola per turisti”. Al controllo di frontiera iraniana l”omino che ti aiuta” e’ di importanza notevole, in cambio di cifre da concordare, e soprattutto trattare, questi personaggi aiutano con lo svolgimento delle pratiche, indirizzando verso uffici e funzionari, velocizzando cosi’ l’ingresso nell”asse del male”... La dogana si presenta abbbastanza caotica con file di bus in attesa di ingresso e con i doganieri che pesano tutti i bagagli, da qui dispute infinite tra i militari ed i possessori di borsoni sequestrati, fino a sfiorare vere e proprie risse; presumo ci siano per i cittadini iraniani rigide leggi sull’importazione di merci. Per noi occidentali l’incubo si chiama “carnet de douane”, un documento relativo all’autovettura, decisamente complicato da ottenere in Italia e discretamente costoso, ma in ogni caso il tutto si conclude con il solo controllo del numero di telaio da parte del funzionario. E in ultimo la tessera del carburante: l’Iran riesce ad essere un importante paese produttore che raziona la benzina!!! Il paese manca infatti, abbastanza incredibilmente, di impianti di raffinazione e di fatto esporta, per poi reimportarlo, il petrolio che produce... Noi riusciamo a saltare la tessera, o meglio nessuno ci chiede di farla, il che ci permettera’ di fare alcune interessanti constatazioni sul quotidiano iraniano. In ogni caso la tessera per gli stanieri costa circa 5 volte il prezzo pagato dagli 11
  • 12. iraniani al quale va aggiunto il costo della benzina che, ovviamente, per gli stranieri e’ maggiorato; per l’islam il tasso di interesse e’ considerato usura, non ho notizie in merito al furto legalizzato... L’impatto con l’Iran e’ incredibile: per le strade ci sono ovunque ritratti di Khomeini e di quelli che presumo essere martiri, non so se della rivoluzione o della guerra con l’Iraq. Solo il fastidio di dossi dello stesso colore del manto stradale, e quindi invisibili, rovinano l’attenzione con la quale osservo cio’ che mi circonda. L’architettura islamica e’ bellissima, ma quello che colpisce e’ il fatto che ovunque posi lo sguardo veda iraniani sorridenti che salutano, e questa sara’ una costante. Il popolo iraniano si rivelera’ di una squisitezza commovente, con una voglia di contatto con lo “straniero” che fa riflettere. L’Iran e’ l’unico paese attraversato in tutto il viaggio dove comunicare in inglese non e’ stato un problema ed anche lo stile di vita, per quanto visto, e’ decisamente sopra la media dei paesi centroasiatici e della stessa Turchia. Basti sapere che tutte, ma davvero tutte, le macchine che abbiamo incrociato in Iran ci hanno salutato, e con una vera e propria tecnica: colpo di clacson da dietro, sorpasso, tutti gli occupanti compreso l’autista che si lanciano fuori dal finestrino per salutarci in fase di sorpasso, una volta sorpassato noi fase di rallentamento per farsi superare a loro volta, bis della scena del saluto ma dall’altro lato della vettura! Preciso che so di avere visto pochissimo e molto in fretta quindi sottolineo che sono tutte mie impressioni personali e magari completamente lontane dal vero, ma tant’e’... Un capitolo a parte le donne iraniane: semplicemente bellissime. In frontiera ho avuto un paio di innamoramenti ma quello che stupisce e’ il non trovarsi di fronte a neri lenzuoli tanto amati dai mezzi di (dis)informazione ma ragazze, e donne, vestite all’occidentale con soltanto lo Hijab a coprirne i capelli. Ad “aggravare” la situazione il loro rivelarsi estremamente civette e sorridenti; non sono mai stato tanto guardato da una donna in vita mia... Prima di essere sepolto da una valanga di critiche qualche ulteriore precisazione: come vedremo non sara’ ovunque cosi’ e la zona al confine turco ha una notevole appartenenza etnica azera. In ogni caso sento che per l’Iran sto avendo un vero e proprio colpo di fulmine. Si lo so, viverci e’ tutta un’altra cosa, che noiosi i professorini... Una parola anche sugli uomini: le fattezze persiane sono incredibili, volti e pizzetti che sembrano usciti direttamente dai manuali di storia! Torniamo a noi: arrivati a Tabriz due ragazzi conosciuti nel traffico danno prova della gentilezza iraniana e ci scortano per la citta’ alla ricerca di un albergo, episodio divertente il fraintedimento sulla parola camping, come scopriamo quando vi ci portano. Infatti tale prola per i due ragazzi significa semplicemente mettere una tenda in un prato, anche se trattasi del piu’ grande parco di Tabriz. Finiamo in ogni caso in un albergo niente male che ci permette anche di mettere la macchina nei sotterranei, il primo giorno in Iran e’ decisamente positivo. Ci addentriamo nel paese mentre inizia il ramadan e l’unione di questi due fattori fanno si che le donne siano sempre bellissime ma meno civettuole e piu’ velate, ed allo stesso tempo gli uomini siano piu’ “seri” e meno propensi al saluto ma la stragrande maggioranza delle persone incontrate si comporta ancora come descritto in precedenza. Mi aspettavo con il ramadan di trovare negozi o luoghi dove mangiare chiusi, invece tutte le attivita’ commerciali sono aperte. L’unica differenza dal resto dell’anno sta nel fatto che fino al tramonto gli unici clienti di ristoranti e negozi sono stranieri. Lungo la strada per Qazvin incontriamo un team di italiani con i quali abbiamo fatto amicizia alla partenza: sono senza gasolio per la loro ambulanza e li aiuto facendo da intermediario con un camionista iraniano che vende loro qualche litro di carburante. I ragazzi ci raccontano delle loro disavventure all’ ingresso in Iran: sono stati obbligati a fare la tessera del carburante (pagata 300 euro) ed hanno avuto diversi problemi per sdoganare l’ambulanza. Probabilmente il diverso trattamento e’ dovuto al fatto che il diesel in Iran e’ usato solo dai camion, quindi da mezzi commerciali, da qui presumo diverse tassazioni in cui ritrovare l’origine dei problemi che si sono trovati ad affrontare. Il team amico si trova anche di fronte allo strano modo di dire i prezzi proprio degli iraniani: in Iran infatti viene comunemente omessa l’ultima cifra, in pratica spostano la virgola, creando, in chi non ne fosse a conoscenza, vera e propria confusione. 12
  • 13. Tocca anche a noi fare benzina, e senza tessera. Scopriamo presto la cosa non essere assolutamente un problema visto che tutti i benzinai vendono benzina in nero registrandola con prezzo iraniano, ma facendola pagare con il prezzo per stranieri, su altre tessere o non registrandola affatto. Ultima annotazione in tema di carburanti sono le code infinite di auto alle stazioni di servizio del gas, sembra che l’uso di macchine a GPL sia molto diffuso nel paese. Andando verso Teheran la polizia aumenta visibilmente, cosi’ come le immagini dei martiri, di Khomeini, di Khamenei e del Presidente; praticamente su ogni muro. Fuori dalle citta’ ci sono file di tralicci dell’alta tensione ovunque e le persone sono meno espansive, anche se tutti salutano sempre. Teheran appare come una citta’ di palazzoni tristi e dalle tangenziali infinite e complicatissime, infatti ci perdiamo. Sempre a Teheran possiamo constatare la fama della guida iraniana, tutti infatti guidano in maniera spericolata infilandosi ovunque per sorpassare e facendo le manovre piu’ bizzarre nello spazio di pochi centimetri. Nel giro di qualche minuto assistiamo a due retromarce da fantascienza: una su una rampa di accesso alla tangenziale (aveva sbagliato uscita) ed una in una rotonda trafficatissima (le retro alla rotonda e’ da standing ovation), il bello e’ che nessuno suona e che non fanno incidenti... Stiamo andando a sud verso Isfahan, che sara’ meta di un paio di giorni di sosta. Andando verso sud ci imbattiamo nella tomba di Khomeini, appena fuori Teheran. In realta’ non si vede molto ma si notano le guardie armate all’ingresso e la quantita’ di pullman nel parcheggio, un po’ come a Gardaland... Si nota molto di piu’ la scuola coranica di fronte al mausoleo, nonche’ i cartelli che annunciano i lavori di ammodernamento ed allargamento dell’edificio gia’ imponente. Continuando verso meridione il caldo aumenta, siamo sui 45 gradi, e la strada corre dritta in una zona arida e quasi desertica. Arriviamo a Qom, la citta’ santa sede di un’importantissima scuola coranica, che ci accoglie con un cartello che la indica come “capitale della Jihad”. Qui le donne sono tutte velate e tendono a distogliere lo sguardo mentre gli uomini continuano a salutarci ed ad affiancarci con i motorini. Isfahan e’ bellissima: la Naghshe Jahan, ossia la “piazza grande” toglie il fiato, qui si affacciano la moschea dello Sciah ed il palazzo dei Savafidi; fantastico anche il bazar coperto, enorme, dove l’odore delle spezie stordisce e trasporta in un’altra dimensione. Vediamo anche il ponte Khaju con i suoi portici, ma il fiume in secca, e da molti anni (come ci dice un negoziante che parla itaiano e si presenta come sosia di Fernandel, in effetti e’ identico!). A contornare il tutto un’inflazione economica che rende la moneta (il rial) talmente instabile che cambiare valuta quotidianamente si rivela notevolmente vantaggioso. Due giorni in una citta’ da paradiso ma il viaggio e’ ancora lungo, prossima tappa il Turkmenistan. Risalendo verso Teheran noto come verso il Mar Caspio corra una catena di monti alla cui base ci sono campi coltivati ed un accenno di zona industrale, e da qualche parte noto pure un edificio che mi ricorda una centrale nuclerare, e probabilmente lo e’! La strada corre calda e monotona, e purtroppo assistiamo a qualche incidente serio, il caldo e l’assenza di curve favoriscono i colpi di sonno. Notiamo che il parco camion iraniano e’ vecchissimo mentre nel frattempo la strada sale lungo altipiani desertici. L’ultima notte iraniana la passiamo in un albergo dall’aspetto estremamente lussuoso nei pressi di Sabzevar. Entro fantozzianamente da una scalinata imponente, ed il ragazzo alla reception mi accoglie con un inglese oxfordiano che presto ci sommerge di domande su come il suo paese e’ visto nel nostro, forse meglio non dire tutta la verita’... Per la prima volta siamo registrati con tanto di modulistica, sembra davvero un albergo di “regime” (compresi i ritratti di ordinanza appesi al muro) ma come ogni istituzione di regime si rivela molto fumo e poco arrosto dato che le camere non corrispondono affatto allo sfarzo della facciata e della hall. Ultima citta’ che attraversiamo e’ Mashad, dovei oltre alla polizia nelle strade compare l’esercito, io trascorro due ore alla ricerca di una buca delle lettere per spedire una cartolina... Su di noi incombe lo spettro della chiusura del confine turkmeno ed io scambio continuamente le cassette delle offerte che sono ovunque, essendo la carita’ un dovere per l’islam, per buche delle lettere; ma ne trovo una ed un vecchio islamico seduto nei pressi con bastone e barba bianca mi guarda, io lo guardo e 13
  • 14. mostro la cartolina, lui annuisce, io imbuco, grazie vecchio islamico!!! Prima di lasciare la citta’ ancora una prova della gentilezza iraniana quando chiedo a unl passante dove abbia comperato il pane che ha in mano (il pane iraniano e’ buonissimo) e lui mi ci accompagna, facendo pure un prestito al negoziante, perche’ questo possa darmi il resto, alla faccia dell’”asse del male”! Fuori da Mashad il deserto e quella che sembra una vera tempesta di sabbia con mulinelli che si alzano in una zona decisamente povera, dove lungo la strada sono sparsi pochi negozi vuoti. Ci inerpichiamo sui monti del Panoramiso, i paesaggi sono incredibili ed intorno solo vuoto, vediamo solo un paio di villaggi che mi chiedo ancora come possano sopravvivere cosi’ remoti su quei monti; dopo qualche ora di nulla e salite arriviamo al confine con il Turkmenistan, da dove si gode il paesaggio delle vallate sottostanti, ed i gentilissimi, anche loro, funzionari iraniani ci aprono le porte verso il paese piu’ “misterioso” del nostro viaggio: il Turkmenistan. 14
  • 15. Il deserto dei pirati 05/08 – 07/08 Turkmenistan Il primo impatto con il Turkmenistan e’ significativo: nemmeno siamo entrati che un militare si avvicina per chiedere se abbiamo un “regalino” per lui... D’ora in poi, in tutto lo spazio ex-sovietico, questo sara’ il leit-motiv di ogni frontiera. Il posto di confine turkmeno e’ un luogo paradossale, se non altro per il fare orario di ufficio con chiusura nel fine settimana, come ha ben capito un team spagnolo che attende nel piazzale da 24 ore che qualcuno si degni di dar loro il “benvenuto” in Turkmenistan! L’eta’ media di poliziotti e soldati (in divisa da rangers) e’ davvero bassa, una frontiera presidiata da adolescenti... Una volta entrati scopriamo che fanno solo visti per tre persone alla volta dato che, come ci spiega il funzionario, si sono stancati di fare visti individuali dato che dal mattino sono arrivate troppe persone!!! Troviamo uno svedese che sembra disperato, scopriremo essere una sua caratteristica, e siamo pronti per il visto. Veniamo subito dirottati alla banca (la porta di fianco) dove una matrona incinta e dai modi spicci riceve i pagamenti e rilascia una ricevuta da riconsegnare al funzionario. Tutta la dogana turkmena sembra popolata da queste imponenti matrone che danno ordini a tutti, siano essi civili o militari. Altra caratterisica che si impone e’ la burocrazia imperante negli uffici, tutti pieni di personale dove uno legge, uno firma, uno timbra e gli altri non fanno niente, si prospetta davvero un paese interessante... Per fortuna conoscendo in anticipo le usanze locali sono munito di numerosi cd della peggior musica italiana, da Pupo a Toto Cutugno passando per i Ricchi e Poveri. Restando in tema la popolarita’ di Toto Cutugno nel mondo ex-sovietico e’ qualcosa di geopoliticamente preoccupante, tutte le frontiere ci hanno accolto con la stessa frase: “Italiano? Toto Cutugno!” Qualcosa su cui riflettere... Al rilascio del visto, che nel nostro caso e’ di transito, viene richiesto il percorso che faremo e, come spiegato nella premessa, su questo le procedure sono rigide. Per attraversare il Turkmenistan in direzione dell’Uzbekistan esistono due strade: la prima piu’ trafficata che, tramite la strada principale del paese, attravero l’oasi di Mary arriva al confine nei pressi di Bukhara e la seconda che taglia il deserto del Karakum da sud a nord per arrivare in Uzbekistan nella regione autonoma del Karakalpakstan. Scegliamo la via del deserto in quanto interessati a vedere il cratere di gas di Darvaza che brucia incessantemenre da decenni. Usciti dal posto di frontiera scendiamo verso la capitale Ashgabat che ci accoglie con un arco di marmo riportante le effigie presidenziali, decisamente il minimalismo non e’ di casa qui. 15
  • 16. La citta’ sembra uscita da un fumetto e certe zone ricordano davvero Gotham City; il marmo bianco e’ ovunque, anche nei condomini, ci sono fontane che cambiano colore ed edifici che mi sembrano la replica della Casa Bianca. La polizia e’ ovunque, e diventa isterica quando scendo dalla macchina per filmare il palazzo presidenziale urlandomi di tutto ma in lingue a me fortunatamente sconosciute. Il Turkmenistan e’ uno stato che vive di rendita grazie ai suoi giacimenti di gas, inoltre e’ in gran parte desertico quindi non densamente abitato. Ne consegue una certa ricchezza, nonostante le contraddizioni come gli slum dietro al palazzo presidenziale, che si accompagna ad una leadership autoritaria e con il vizio di autocelebrarsi attraverso imponenti opere pubbliche e monumenti, come la statua del precedente presidente costruita per ruotare con il sole, ma che non troviamo. Uno strano personaggio dalle fattezze occidentali ci dice che il nuovo presidente ha fatto smontare il monumento e l’ha trasferito fuori citta’, aggiungendo (in Italiano) che “e’ finita la commedia!”, se lo dice lui... Tentiamo poi di trovare un albergo ma i prezzi sono folli. Come scopriro’ poi in rete il governo Turkmeno ha costruito nella capitale alberghi di super lusso per dare un’immagine di ricchezza, peccato che questi alberghi siano sempre vuoti. Mentre continuiamo nella ricerca sale la tensione per via della leggenda mai chiarita, dato che forse e’ realta’, che nella capitale turkmena viga il coprifuoco e gli stranieri trovati in strada dopo una certa ora possano essere arrestati. Decidiamo quindi di lasciare la citta’ per puntare verso il deserto ma sbagliamo strada e finiamo per imboccare la via che porta al palazzo presidenziale; inutile dire che siamo fermati da un nugolo di poliziotti che dopo brevi spiegazioni ci aiutano disegnandoci la mappa per raggiungere la via verso il cratere. Da notare che tutti i poliziotti turkmeni ai quali abbiamo chiesto qualcosa sono finiti per fare dei disegnini... La ricerca del cratere si rivelera’ una delle imprese piu’ massacranti di tutto il viaggio. Abbiamo poblemi con la benzina ma siamo in pieno deserto e non ci sono benzinai, e’ il primo problema serio che incontriamo. Passiamo la notte vicino ad un bivacco di camionisti sotto un cielo stellato che piu’ stellato non si puo’, mentre vediamo che dove ci sono camion ci sono venditori di acqua e carne alla griglia. Le strade sono piene di topini che attraversano e anche qualche specie di volpe bianca fa la sua comparsa. Stavolta siamo davvero stremati. Al mattino grazie alla benzina di un turkmeno riusciamo a proseguire per scoprire poi di essere quasi arrivati al confine uzbeko, avendo abbondantemente superato la zona del cratere. Tutta la giornata sara’ una rincorsa a questa meta con un continuo avanti e indietro nel deserto ogni volta sbagliando di circa 100 chilometri. Per fortuna le nuvole attenuano il caldo che altrimenti non sarebbe stato sopportabile. Come vedremo poi questa giornata trascorsa su strade ricoperte di stranissimi dossi (come bolle createsi per il calore) non sara’ positiva per la salute della macchina, considerato che riusciamo anche ad insabbiarci e solo l’aiuto di un camionista del luogo ci permettera’ di proseguire. Alla fine troviamo in una specie di area di servizio un ragazzo gia’ conosciuto in precedenza (e che ha piu’ volte sottolineato di non essere turkmeno ma kazako) che ci porta al cratere con la sua jeep dietro modico compenso. Il posto non e’ segnalato, nessun cartello indicatore e ci si arriva attraverso un minuscolo sentiero tra la sabbia, ma una volta davanti al cratere si e’ ripagati dalla fatica fatta per trovarlo: e’ enorme, le fiamme sono altissime e di notte si vedono a decine di chilometri, sembra davvero meritato il nome di “porta del diavolo” con il quale viene solitamente chiamato. Nella stessa area di servizio dove abbiamo trovato la nostra “guida” ritroviamo anche lo svedese del giorno prima in compagnia di un team svizzero con problemi di benzina, e dopo un the tutti assieme rigorosamente su tappeto ed in compagnia di svariate persone del luogo, ci aiutiamo a vicenda. Ora possiamo puntare verso l’Uzbekistan lungo la strada cosparsa di dromedari e, in prossimita’ del confine, di posti di blocco. Come vedremo nei giorni successivi la presenza di polizia all’ingresso di citta’ e villaggi sara’ elemento ricorrente. L’ultimo centinaio di chilometri si rivelano quasi impossibili, con strade ricoperte di “bolle” e crateri, al punto che per guidare si deve continuamente sterzare in uno stile di guida assurdo al punto di diventare quasi divertente, soprattutto se lo fai con in mano un bottiglione da due litri di birra turkmena!!! 16
  • 17. L’ultima notte turkmena si rivela degna dalla fama del paese, ci fermiamo in un albergo di Köneürgenç che ci chiede un prezzo folle in dollari, dando il resto in manat considerando la valuta locale pari al dollaro, siamo troppo stanchi per discutere e d’altronde siamo una cittadina di frontiera tra Turkmenistan ed Uzbekistan... 17
  • 18. A misura di turista, ma senza macchina... 7/08 – 11/08 Uzbekistan La frontiera uzbeka, che ovviamente era debitamente nascosta, si presenta come un cumulo di immondizie in una strada sterrata. Un buon inizio... Va comunque detto che in realta’ non siamo propriamente in Uzbekistan, ma nella regione autonoma del Karakalpakstan, il che come vedremo ha una certa rilevanza. Passiamo i controlli in compagnia del solito svedese il quale inizia a prendere a martellate la sua vecchia Mercedes per “aggiustare” non so cosa, una scena buffissima. Sono stupito che non lo arrestino per il rumore che fa, in Italia penso sarebbero intervenuti i reparti d’assalto! Ma lo stupore prosegue allorche’ le guardie di confine passano al setaccio la sua auto (un vero e proprio caos su quattro ruote) trovandoci addirittura un motorino!!! A me sembra incredibile che quel motorino sprovvisto di qualunque tipo di documento sia arrivato fino a li’, penso che ogni poliziotto incontrato abbia diplomaticamente adottato la tattica dello “sparisci e non farti piu’ vedere”. I poliziotti, uno dei quali perlustra ogni centimetro della Panda, sono incuriositi dalla macchina ed oltre a fare domande su domande vogliono salirci, e scherzando uno di loro dice che vuole fare anche lui il Mongolrally ma, dato da sottolineare, non come primo team uzbeko ma come primo team karakalpako. In frontiera riceviamo poi la notizia dataci da un militare, che e’ lo stereotipo della fisionomia russa, dela chiusura del confine con il Tagikistan nei pressi di Samarcanda, dovremo quindi fare una lunga deviazione verso nord-est. L’Uzbekistan ci accoglie con un caldo umido, e la poverta’ della regione autonoma e’ evidente nelle strade dove ritroviamo semafori, stop e gente che ci si ferma... Troviamo anche una marea di posti di blocco, ci fermano due volte in dieci minuti, ed un fiorente cambio nero. Intorno a noi ci sono ovunque donne dai vestiti coloratissimi e una sensazione di miseria. Gli uzbeki si rivelano insistenti nel chiedere soldi, siamo davvero lontani dal pianeta turkmeno, e le possibilita’ di truffa sono concrete: i benzinai non espongono il prezzo della benzina e bisogna chiedere prima di pagare il numero di litri richiesto, ovviamente tempo dieci minuti e si impara: prima chiedere il prezzo, poi fare benzina! La strada per Buchara e’ terribile, totalmente distrutta dai lavori in corso. La percorriamo in compagnia dello svedese e di una coppia scozzese alla velocita’ di 10 chilometri orari, evitando buche e camion che procedono in carovana, per contro il tramonto e’ di uno splendido colore viola. 18
  • 19. Stremati ci accampiamo da qualche parte lungo la strada che corre parallela al confine turkmeno, siamo ancora nel Karakum e, visto quello che ci circonda, probabilmente la regione autonoma non gode del favore del governo centrale per quanto riguarda le politiche di investimento pubblico. Nella notte mi faccio portare, da due ragazzini venuti a curiosare, a comprare dell’acqua, ovviamente in nero da quello penso essere un meccanico o un fabbro, e scopro che i prezzi uzbeki sono “a caso” dato che, il giorno dopo, in un vicino negozio dal quale presumo essere venuta l’acqua della notte prima, i prezzi sono piu’ alti. Ai ragazzini ho anche dato uno dei palloni portati da Matteo, che con i miei cd saranno la nostra salvezza alle frontiere ex-sovietiche. Procedendo verso Buchara inziano le prime noie meccaniche: la Panda ha perso molta acqua, inizia quindi anche la preoccupazione. Lungo la strada, che migliora sensibilmente, ci sono molti camion bulgari ed ucraini, nonche’ posti di blocco all’entrata di ogni paese, cosi’ come era stato in Turkmenistan; ma alla fine arriviamo a Buchara. Troviamo un albergo nel quartiere ebraico in pieno centro e ci dedichiamo al turismo, sempre in compagnia degli scozzesi e dello svedese. Meritato riposo: birra e shashlik nella piazza principale, la Lyabi-Hauz, davanti alla bellissima fontana. La sensazione girando per Buchara e’ che tutto sia a misura di turista e poco autentico, tutto e’ infatti troppo “pulito”, compreso l’Ark, la cittadella, dove nei sotterranei ci sono anche i manichini che raffigurano Storddart e Connolly, due delle vittime del “Grande gioco” ottocentesco. Sistemato, a pagamento, il problema della registrazione (che in Uzbekistan e’ obbligatoria) per la notte passata in macchina e senza Gustav, lo svedese, che resta a Buchara con una Mercedes da demolire ed un visto afghano, si parte per Samarcanda, siamo sulla via della seta e dopo Buchara ci sono distese di prati e campi coltivati. A Samarcanda saranno due giorni di turismo, albergo di lusso con piscina (e con ufficio postale) e ristoranti da Lonely Planet (che gli scozzesi hanno sempre in mano); le spese stanno decisamente lievitando. Come Buchara anche Samarcanda si presenta “ricostruita” per i turisti con le mosche dalle facciate bellissime e gli interni cadenti; e che sia una citta’ abituata ai turisti si percepisce anche dal numero di bambini che mendica cibo al ristorante per poi farsi trovare fuori dall’albergo... Bambini che sono tantissimi e che si tuffano ovunque ci sia acqua, una fontana nei quartieri popolari,la citta’ vecchia, vicino alla sinagoga, era stata letteralmente trasformata in una piscina. I bambini tentano di parlare inglese e salutano in tutte le lingue, uno addirittura in giapponese! In ogni caso il fascino di Samarcanda e’ fortissimo e la citta’ racchiude dei gioelli come la moschea di Bibi Khanum, la piu’ grande dell’Asia Centrale. Tuttavia l’Uzbekistan non mi ha colpito, e gli uzbeki sembrano confermare la cattiva fama della quale godono presso gli altri popoli centroasiatici, personalmente non vedo l’ora di arrivare sulle montagne tagike. Lasciata Samarcanda e’ un’odissea: tutti i benzinai sono chiusi, arriviamo addirittura a pensare possa trattarsi di uno sciopero, il che mi lascia perplesso, e solo grazie alla generosita’ di un benzinaio (ed alla sua onesta’ visto il mancato rincaro) riusciamo ad uscire dalla zona di chiusura delle stazioni di servizio. Infatti come ci dicono dei ragazzi la serrata riguarda solo la regione di Samarcanda e come scopriro’ poi si tratterebbe in realta’ di uno dei mezzi che la “mafia” locale usa per fare pressioni sul governo centrale e per gestire i prezzi della benzina. Uscire dall’Uzbekistan si rivelera’ impresa ardua, dato che, come impareremo durante il viaggio, e come gia’ detto, uno dei principali indici rivelatori dello stato delle relazioni internazionali tra paesi confinanti e’ la chiarezza nelle indicazioni per trovare i posti di confine. Uzbekistan e Tagikistan non sono mai stati ottimi vicini e quindi noi impieghiamo un pomeriggio per riuscire a trovare la frontiera, dopo aver chiesto a circa 100 persone ognuna delle quali con una propria teoria, compresi dei militari che ci dicono essere la frontiera addirittura chiusa, ma noi sappiamo che in realta’ e’ soltanto quella di Samarcanda a non essere percorribile. Probabilmente lungo quel tratto di confine e’ in corso una qualche “operazione di polizia” contro alcuni movimenti islamici uzbeki che dalle loro basi in Tagikistan compiono azioni contro il governo uzbeko. L’Uzbekistan e’ infatti il paese centro- 19
  • 20. asiatico dove e’ piu’ forte la presenza islamica, anche radicale, soprattutto in aree come la valle di Ferghana. Fatto sta che impieghiamo davvero ore e ore per raggiungere la frontiera con il Tagikistan, che corre lungo il Syr Daria ed e’ circondata da tralicci dell’alta tensione; con noi sono in attesa i soliti camionisti ucraini e bulgari, piu’ un polacco. Per rendere l’idea di quanto sia stato difficile trovare il posto di confine dico solo che ad un certo punto stavamo per incodarci alla frontiera sbagliata ed ancora oggi non ho capito se era qulla con il Kirghizistan o con il Kazakistan... L’avventura uzbeka si chiude in bellezza: la macchina viene passata al setaccio con tanto di controllo tramite cani antidroga e ce la caviamo con la “perdita” di un paio di guanti da meccanico ed il solito pallone (in tutti i paesi attraversati le guardie di confine sembrano essere bambini troppo cresciuti con una forte propensione al calcio ed alla peggiore musica italiana). L’ultimo poliziotto ci chiede bellamente dei dollari: quando e’ troppo e’ troppo! 20
  • 21. Rotture d’alta quota 11/08 – 17/08 Tagikistan Dopo avere rischiato di sbagliare frontiera siamo arrivati alla frontiera Tagika che appare alquanto improbabile, con un cancello di ferro chiuso che viene prontamente, piu’ o meno, aperto quando e’ il nostro turno di entrare nel paese. Le guardie di confine ci accolgono con un preoccupantissimo “welcome” ed infatti di li’ a pochi minuti si entra nel magico mondo dell’inventiva centroasiatica. Fatti 5 metri in suolo tagiko da una roulotte esce un grasso baffone con una divisa ineccepibile (sembra un cadetto di marina in un telefilm da seconda serata) che, come da legge tagika, ci disinfetta le ruote della macchina!!! Poi entro con lui nella roulotte e chiede compenso. Facendo il finto tonto e gli lascio solo i pochi sum uzbeki rimasti, venendo poi cacciato come “pezzente”. Altri 5 metri, letteralmente, ed un militare mi chiama nel suo ufficio, non guarda nemmeno i documenti andando dritto al sodo: vuole soldi. Niet! Seconda figura da pezzente... Ormai disperiamo di riuscire ad usicre dal posto di frontiera di Ali’ Baba’ e i quaranta tagiki quando arriviamo all’ultimo ufficio dove il funzionario ci accoglie cantando Toto Cutugno! Ci fa pagare la tassa sulla macchina ma non ci deruba, dando pure il resto... Si merita un cd! Appena il tempo di notare come i tratti somatici tagiki siano molto diversi da quelli uzbeki e turkmeni e siamo in viaggio. Attraverso strade senza luci, percorse da macchine senza luci, arrivamo a Kojand che invece e’ piena di luci e di gente, tra cui moltissimi di etnia russa, tanto da sembrare una piccola Las Vegas... Fuori dalla citta’ campi coltivati, pecore e mucche e commerci di bordo strada con la vendita “al dettaglio” di angurie e meloni, come in Uzbekistan; a differenza del paese vicino pero’ in Tagikistan si vendono pomodori e non mele. La strada inizia a salire (il Tagikistan ha un’altezza media di circa 3000 metri) e a tratti buoni si alternano tratti di lavori in corso dove le buche sono enormi e le dimensioni fanno sembrare la strada una mulattiera. Facciamo un passo a quota 3378 metri ma in prossimita’ di un secondo passo ci troviamo in una situazione davvero poco piacevole: stanno scavando la galleria per evitare di risalire la montagna e le condizioni sono tremende. Nel tunnel non ci sono luci, le buche sono veri e propri crateri e come se non bastasse a tratti la galleria e’ allagata; sale un po’ di panico. Ci accodiamo ad un camion che procede a 10 km orari ma almeno riusciamo a vedere le buche nascoste dall’acqua. Una volta usciti la sopresa: c’e’ il casello autostradale!!! Il 21
  • 22. Tagikistan e’ pieno di caselli autostradali, nemmeno troppo economici come non lo e’ la benzina, piu’ cara che nei paesi precedenti (escludendo la Turchia). Di fatto l’asse che collega nord e sud del paese, Kojand a Dushanbe, e’ a tratti impraticabile, il che si somma al fatto che tra le due parti del Tagikistan non corrano buoni rapporti tanto che il nord ha volonta’ separatiste, ma in compenso le strade sono ricoperte di manifesti celebranti l’anniversario dell’indipendenza. Dushanbe e’ davvero brutta, ma in compenso troviamo un team italiano conosciuto alla partenza. Sono un gruppo di ragazzi in preda a crisi isteriche e nervosismi vari: hanno rotto il loro furgone (un vero ferrovecchio) e sono bloccati nella capitale da giorni, con in piu’ problemi di dissenteria in via di risoluzione. In ogni caso ci portano al loro albergo, che si rivela l’ennesima struttura del vecchio regime sovietico con moltissime camere tutte vuote. Giusto per fare un po’ di multiculturalismo la cena e’ in un ristorante messicano con il team milanese, un italiano che lavora per qualche organizzazione internazionale (che ci racconta come la corruzione sia diffusa e la polizia sia usa a chiedere soldi) ed un inglese che e’ arrivato in moto dal Kenia... Nella capitale ci sono ovunque merci russe, come il kvas e la birra Baltika, mentre in Uzbekistan erano molto diffuse quelle tedesche. Il giorno dopo lasciamo i ragazzi alle decisioni sul loro futuro, dopo che il loro furgone stava pure per prendere fuoco, e partiamo verso il Pamir. Uscire da Dushanbe non e’ per niente facile, e c’e’ polizia ovunque: fuori citta’ ci fermano continuamente ai posti di blocco per “registrarci”. La Panda torna ad arrampicarsi verso passi di 3000 metri lungo una strada costeggiante un fiume e aiutiamo anche tre tagiki rimasti senza benzina; l’aiuto reciproco per il carburante e’ una costante per gli automobilisti centroasiatici, decisamente non si tratta di andare in ufficio in macchina... In questa occasione scopriamo la totale incapacita’ tagika di valutare le distanze, tutti hanno sempre dato risposte diverse ad ogni richiesta di informazioni! Per contro i paesaggi tagiki sono splendidi, un vero paradiso per chi ama la montagna ed infatti, come vedremo, non sono pochi gli amanti del trekking o del cicloturismo, abbastanza estremo, che visitano questo paese. Fatto un piccolo guado al buio, aiutati da tre camionisti, arriviamo al confine della regione autonoma del Gorno-Badakhshan dove uno dei militari addirittura vuole la mia macchina fotografica, mi salvo dicendo che le foto sono per la mamma!!! La lunga giornata finisce a Khalaikum, lungo il confine afghano, in una casa privata dove la scelta e’ dormire sui tappeti dentro casa o nel cortile in riva al fiume, un sogno... La strada verso Khorog costeggia il fiume, che funge da confine con l’Afghanistan, e sull’altra riva si possono vedere i villaghi afghani. Tutto procede tranquillamente, compreso l’incontro con una formazione di carri armati tagiki. Khorog e’ una cittadina, e l’ufficio del turismo del Pamir e’ composto da ragazzi giovanissimi e gentili, sembra decisamente una zona piacevole ed a riprova di cio’ il numero di turisti incontrati, molti in bici. I primi guai pero’ iniziano presto, giusto all’inizio dell’M-41, l’autostrada del Pamir che taglia tutta la regione ed arriva a Murgab. Tali guai si materializzano sotto forma, ovviamente, di poliziotti, che all’ennesimo posto di blocco vogliono sia pagata una cifra nemmeno troppo bassa per poter proseguire. Sotengono infatti che secondo il visto dovremmo passare da sud lungo le strade del Pamir vero e proprio, cosa che a ripensarci avrei fatto volentieri ma, col senno di poi, sono contento di non avere fatto visto che la Panda iniziava a dare segni di cedimento. Fatto sta che quelle strade sono una delle maggiori attrazioni del paese passando per ghiacciai e passi d’alta quota, ma inutile rivangare, abbiamo pagato (togliendomi la soddisfazione di spaventarli) e ci siamo avviati verso Murgab sostando per la cena in un posto che diverra’, purtroppo per noi, conosciuto: il sanatorio di Jelondi. Ufficialmente, come detto, un sanatorio, ma viste le facce sarei piu’ propenso per qualche centro legato a tossicodipendenza o altre problematiche sociali. Ed ecco che accade cio’ che non doveva: appena dopo Jelondi la macchina si rompe!!! Un semiasse e’ andato, ci penseremo domani. Dormiamo in macchina su un altipiano che credo essere a circa 3500 metri nel nulla piu’ assoluto davanti a delle catene montuose mozzafiato, tra le quali penso di riconoscere l’Hindu Kush, fa freddissimo. 22
  • 23. Ci svegliamo ed e’ ferragosto, un freddo ferragosto. Rompere la macchina in un posto piu’ bello era difficile, il panorama e’ stupendo e ci sono pure le marmotte. Fermo una macchina, di marca cinese come molte auto in Tagikistan (in Uzbekistan erano coreane) e torno al sanatorio. In realta’ l’autista mi voleva portare a Khorog in cambio di soldi, breve discussione e mi faccio lasciare a Jelondi. Qui trovo un ragazzo conosciuto la sera prima che parla inglese. Mi dice che andra’ a studiare in Polonia, con la quale ci sono scambi di studenti e insegnanti, e mi dice che le “genti del Pamir” sono portate per le lingue, ecco perche’ a Khorog molti parlavano inglese. Insieme al “giro del sanatorio” cerchiamo una soluzione: concordiamo di caricare la macchina su un camion e portarla a Khorog, prendo un taxi (che si rompe tre volte in cinque minuti) annuncio la cosa a Matteo e torno al sanatorio, dove mi attendono cattive notizie. Mi dicono infatti che il meccanico “quello bravo” e’ in ferie (andare da altri viene sconsigliato vista la cattiva fama della citta’), e che le strade sono chiuse per una visita presidenziale, ma che possiamo andare comuque a prendere la macchina. Parto con un gruppo decisamente improbabile, tra cui un ragazzo dalla faccia inquietante in mimetica e denti d’oro, e, con un camion sovietico del ’73, un vero bisonte che necessita riparazioni praticamente ogni chilometro ci avviamo, sulle note di musica russa sparata a tutto volume dal mangiacassette del mezzo. La Panda arriva al sanatorio, dopo che una ruota ha sfondato il pianale marcio del camion, paghiamo il trasporto in benzina e concludiamo la giornata cenando con altri stranieri, tedeschi e francesi, che mi stupisco di trovare li’; in realta’ il sanatorio e’ la sola struttura nell’arco di moltissimi chilometri, da qui il suo fungere anche da pensione. Al mattino tutto il paese assiste il camionista che ripara la macchina, senza ne’ ponte ne’ buca, e ripartiamo. I Tagiki sono incredibili, una poverta’ assoluta e tanta arte di arrangiarsi, non stupisce che il governo sia alle prese con il problema dei traffici legati all’essere il paese rotta di passaggio per l’eroina proveniente dall’Afghanistan. La strada continua a salire e guardando la cartina mi viene il dubbio che la macchina si sia rotta in prossimita’ di un passo ad oltre 4000 metri. Vediamo le prime yurta (che sono piu’ tipicamente kirghize) ed i primi yak, siamo stupiti da come per delimitare i confini amministrativi si usino statue di stambecchi e veneri varie... In giro ci sono molti turisti in bici, tra i quali tanti francesi, e le strade non sono per niente belle; meno male che cumuli di pietre indicano i punti dove il bordo ha ceduto o ci sono buche particolarmente pericolose. Ci sono anche una marea di camion cinesi ma i camionisti dalle fisionomie sembrano uighuri, ed infatti uno di loro si rivolge a noi con un “salam”. Verso Murgab rimaniamo piu’ volte senza benzina, e colgo l’occasione per chiaccherare con le “genti del Pamir” che mi spiegano quello tagiko essere il piccolo Pamir mentre quello grande sta in Afghanistan. Con qualche difficolta’ arrivamo a Murgab ed all’usuale posto di blocco. I militari sembrano poverissimi ma ci regalano della benzina senza nemmeno volere dei soldi, quando l’abito non fa il monaco... Finiamo la lunga giornata in una guest house alquanto bizzarra, senza nessuna insegna, trovata per caso e retta da una donna originaria della capitale trasferitasi a Murgab per sfuggire al traffico. La signora, parlando un russo velocissimo, ci accoglie con the, pane e patate con cipolle, mentre l’elettricita’ va e viene. Oltre a noi solo una coppia di ragazzi polacchi. Al mattino da un meccanico dai tratti cinesi compro della benzina sfusa fatta in casa (il Pamir e’ praticamente sprovvisto di carburante) e noto che nella piazza principale c’e’ una statua di Lenin. Gli abitanti hanno fisionomie cinesi come il meccanico e ovunque si vedono gli alti cappelli kirghizi. Dopo murgab il nulla: gruppi di case e stalle abbandonate, quello che presumo essere un vecchio posto di frontiera abbandonato anche’esso e tutte le (poche) insegne fanno pensare che siamo ormai in “territorio kirghizo”. La strada arriva al passo piu’ alto dell’M-41 ad oltre 4600 metri e la vegetazione si fa rada, davvero un paesaggio desolante, non auguro a nessuno di rimanere in panne qui. Infatti in giro non c’e’ nessuno e i cumuli di pietre continuano a segnare i punti in cui il disgelo ha eroso la strada, mentre intorno ci sono laghi e fiumi. 23
  • 24. La strada corre lungo una rete di filo spinato posta alla base di alcune alture, presumo sia la delimitazione con la terra di nessuno cinese, ed infine arriviamo al confine tra Tagikistan e Kirghizistan, un paio di container spersi a 4200 metri d’altitudine... 24
  • 25. Alti cappelli e lunghe discese 17/08 – 21/08 Kirghizistan Una discesa lunghissima in una terra di nessuno di 20km: il bordo strada a tratti e’ franato e dobbiamo proseguire anche in fuoripista... Poi, la dogana kirghisa, chiusa! Ci arriviamo senza benzina e mentre un temporale in quoto tuona minaccioso. Quando ci fanno entrare come sempre ci prendono per francesi (ci sono davvero molti turisti francesi in Asia Centrale) e barattiamo un pallone con 5 litri di benzina: un graduato vuole regalare il pallone al figlio che e’ li’ con lui. La prima cittadina che incontriamo e’ Sari-Tash, un postaccio posto tra Tagikistan e Cina, vero crocevia di traffici non propriamente legali. Ma, proprio mentre stiamo per entrare nella guest-house di una ragazza dai tratti cinesi, che sottolinea vivamente che il suo e’ un albergo, il semiasse si rompe di nuovo... Con la ragazza andiamo alla ricerca di un vicino semimeccanico ma niente, se ne riparlera’ domani... Al mattino carichiamo la Panda sul cassone del camion del semimeccanico che si rivela un energumeno camionista e partiamo verso Osh, il centro della regione, per trovare un vero meccanico. La strada e’ un immenso cantiere con operai cinesi al lavoro per allargarla, mentre ai lati si vedono enormi branchi di capre e asini. Il camionista durante il viaggio ci dice cosa pensa degli uzbeki, semplicemente li vorrebbe tutti sgozzati (dicasi amicizia tra i popoli), fa sorpassi da testamento in salita e in curva (un particolare modo di guidare centroasiatico per risparmiare benzina) nonostante la velocita’ di crociera sia di circa 20km orari. Nei modi di fare i kirghisi ricordano i cinesi, soprattutto nel rapporto con il denaro: chiedono sempre il massimo e non fanno sconti, a costo di rimetterci; per non trattare, il “nostro" camionista rifiuta un passaggio a due italiani incontrati a Sari-Tash. In Kirghizistan ho visto i primi segni di un certo “laicismo” nei saluti, che variano oltre all’onnipresente “salam”. Inoltre c’e’ un largo uso del russo che altrove viene invece sostuito dalla lingua locale: a Dushanbe un passante mi aveva corretto dicendomi “qui siamo in Tagikistan”! Da notare che, insieme al Kazakistan, il Kirghizistan anche dopo l’indipendenza ha mantenuto il russo come lingua ufficiale, seppur assieme al kirghiso. Superato un valico dopo Sari-Tash il paesaggio umano cambia radicalmente: tornano a vedersi i benzinai, a bordo strada i ragazzini vendono pomodori ed i campi sono affollati di mucche. Vedo anche la prima scritta di tifo calcistico dall’inizio del viaggio, mentre nelle strade ricompaiono anche i camion, perlopiu’ cinesi, ed i paesini sono ornati di monumenti sovietici ricchi di retorica e celebranti soldati ed operai. 25
  • 26. Arrivati ad Osh ci dedichiamo alle riparazioni della macchina. Il camionista ci porta in un immenso autoparco che sembra essere una sorta di centro del fai da te automobilistico, disseminato di spazi dove riparare la propria macchina e di negozi di ricambistica; ovunque ci sono inoltre vecchi pullmann usati tedeschi. Grazie a due meccanici (o presunti tali) ripariamo la macchina, non senza difficolta’, e poi andiamo dal gommista per sistemare anche le ruote. Alla fine ce la caviamo con una spesa sicuramente non piccola ma non eccessiva viste le riparazioni fatte. Finiamo poi in un albergo consigliato da un kazako che ci sciorina un tot di luoghi comuni sui popoli confinanti compreso quello dei kirghisi stupidi e cattivi, di certo la tolleranza non e’ di queste parti... Bisogna ricordare che Osh e’ stata epicentro nel 2010 di gravissimi scontri interetnici tra kirghisi e uzbeki, costati la vita a piu’ di cento persone, come testimoniano alcune case a tutt’oggi dalle facciate riportanti i segni di incendi e devastazioni. In ogni caso le varie etnie sono facilmente distinguibili per la notevole differenza nel modo di vestire, con i kirghisi indossanti i tipici alti cappelli. A Osh si rivede anche la moschea e si ascolta il richiamo del muezzin. In particolare i segni dell’islam come i minareti e le donne velate sono numerosi lungo il confine uzbeko, in special modo nella zona di Jalal-Abad, dove sono anche molto frequenti i posti di blocco della polizia, non per via dell’ordine pubblico ma bensi’ per rilevare la velocita’ delle auto... Le strade sono infatti tornate ed essere decisamente belle e la voglia di correre e’ forte. Veniamo fermati due volte in cinque minuti con il vecchio trucco dell’eccesso di velocita’. La modalita’ e’ sempre la stessa: si viene fermati per un limite di velocita’ superato, che in realta’ non e’ stato oltrepassato, e la polizia richiede il pagamento di una multa esorbitante, in contanti e possibilmente in dollari. Fingendo di non capire ce la caviamo in entrambi i casi e ce ne andiamo. I paesaggi sono incredibili: dopo un enorme lago di un blu cristallino passiamo per una delle numerose aree protette dove ai lati della strada vendono miele di ogni tipo. A farci compagnia una visita ufficiale cinese, scortata dalla polizia, che ritroveremo diverse volte lungo il tragitto. Arrivati ad un passo di 3586 metri circondato da yurte e mandrie di cavalli inizia una discesa infinta che porta a Bishkek, con la macchina che continua ad avere qualche problema, compresa una perdita di benzina ed una gomma bucata riparata da un sorridente meccanico con attrezzature che in Europa e’ ormai difficile anche solo vedere. Avvicinandosi alla capitale iniziano a vedersi sempre piu’ macchinoni, numerose le marche tedesche, e tantissime auto riportano il contrassegno della Germania; probabilmente il paese risente degli accordi commerciali fatti a suo tempo dalla UE. Il Kirghizistan e’ infatti uno dei paesi centroasitici dove piu’ forte e’ stata la penetrazione occidentale nel tentativo di allontarlo da Mosca, nonostante il governo kirghiso abbia poi ritirato la concessione dell’importante base militare di Manas all’esercito statunitense, che la usava come punto d’appoggio per la guerra in Afghanistan. La meta di giornata e’ Kara-Balta, nei pressi della capitale, alla quale arriviamo dopo la discesa che sembrava non volesse finire mai piu’. La citta’ appare subito molto buia e non troppo raccomandabile, non si vedono alberghi e veniamo subito fermati ad un posto di blocco misto di polizia e militari. A differenza delle precedenti la situazione sembra piu’ seria e ci stiamo rassegnando a dover elargire qualche “mazzetta” quando il gruppo in uniforme parte (goffamente) all’inseguimento di due macchine sfrecciate nei pressi, cogliamo l’occasione per allontanarci e puntare su Bishkek. La piu’ importante citta’ del Kirghizistan appare subito brutta (ci sono anche delle ciminiere), circondata da un incendio enorme, e strapiena di casino’ e locali notturni, al punto da sembrare abbastanza surreale. Il paesaggio urbano sembra decisamente “occidentale” e per la prima volta in tutto il viaggio si vede chiaramente un accenno di prostituzione, come nell’albergo dove alloggiamo dato che nell’atrio incontro due ragazze che sembrano abbastanza evidentemente essere escort. Intorno tra la popolazione tantissime persone di chiara etnia russa, mentre il taxista che ci ha accompagnato all’albergo sembra tedesco. Nuova meta il lago Issyk Kul, detto il piccolo mare kirghiso, che ci apprestiamo a raggiungere in compagnia di un team di ragazzi delle isole Shetland. Fuori dalla capitale si vedono ovunque murales di stampo sovietico ricchi di falci, martelli e stelle rosse; uno addirittura incitante all’amicizia con 26
  • 27. l’Iran!!! A bordostrada i bambini vendono pesche ed ogni casa ha un piccolo banchetto che propone bevande; da segnalare poi le fermate dei pullmann tutte belle e decorate con mosaici, una addirittura a forma di cappello. La prima citta’ sul lago e’ tremenda: palazzi fatiscenti, Lenin ovunque ed un cementificio semidistrutto, quest’ultimo rivelatore del fatto che i sovietici impiantassero industrie ovunque ci fosse un corso o una distesa d’acqua. Come se non bastasse la citta’ e’ disseminata di cartelli pubblicitari dell’Unicredit... Mi rivolgo quindi all’ufficio del turismo, aperto tre giorni prima e firmando il libro degli ospiti come primo cliente!!!. La citta’ turistica e’ circa 100km piu’ avanti, si continua quindi per la strada che costeggia il lago dove numerosi sono i venditori di pesce. Passiamo vari cimiteri islamici e moschee che sembrano prefabbricate (la cupola sembra fatta di un materiale che pare alluminio) ed arriviamo in una vera e propria Rimini kirghisa. A Cholpon-Ata (questo il nome della citta’) sembra davvero di stare al mare, compresi bagnanti armati di ceste da pic nic e discoteca di infimo livello popolata di ragazzini vestiti in maniera improponibile, giusto a 20 metri dalla casa dove dormiamo e trovata grazie ad un ragazzo che si e’ creato una sua attivita’ di guida turistica fai da te... Osservando i tentativi di approccio e l’attivita’ dei pusher sembra davvero di stare in una qualunque discoteca di un nostro centro balneare minore. Colazione con carne fritta e cipolle e si torna a Bishkek, dato che il confine con il Kazakistan prossimo al lago si raggiunge attraverso strade davvero impercorribili. Noto nuovamente ovunque statue di lavoratori e lavoratrici che guardano il sole dell’avvenire, viene davvero da chiedersi se qui ci sia mai stata una desovietizzazione. Il paese sembra in fallimento, tutti chiedono soldi, anche per dare semplici informazioni, e mentre rifletto osservo un cartellone del governo kirghiso dove compare la bandiera del Giappone, riferentesi a qualche accordo commerciale raggiunto. Penso di avere capito perche’ dopo l’indipendenza la politica kirghisa sia stata quella di “mettersi” all’asta per il miglior offerente tra USA e Russia. Oltre a vecchi modelli di auto tedesche vediamo anche numerose auto di produzione sovietica; il Kirghizistan sembra davvero vivere dell’usato altrui ed in un’altra epoca... Il tempo di vedere un pullmann d giornalisti spagnoli scortato dalla polizia ed il Kirghizistan ci saluta con l’ennesimo posto di blocco a caccia di multe, giusto prima della frontiera, e stavolta vogliono addirittura 50 dollari; la solita tecnica del “finto tonto” ci permette di avviarci, dopo qualche tempo, verso il Kazakistan, e senza pagare dazio! 27
  • 28. “La tua polizia quanto chiede?” 21/08 – 25/08 Kazakistan Questa la domanda che mi sono sentito rivolgere dall’autista kazako di un carroattezzi, e questa domanda racchiude molto di un viaggio in Kazakistan. La polizia del paese e’ infatti rinomata per la sua corruzione e per il suo usare gli automoblisti, specie se stranieri e occidentali, come bancomat! La frontiera kazaka appare come le porte dell’inferno: caotica come quella iraniana ma molto piu’ cupa. I militari hanno facce minacciose e spintonano la massa di gente che preme per entrare, donne comprese, minacciando di gettare le loro mercanzie nel fiumiciattolo che scorre nei pressi. Addirittura una guardia di confine con il volto coperto dal passamontagna estrae un coltello da guerra minacciando un gruppetto di donne, che di rimando gli semi-ridono in faccia; il solito pallone salvavita e passiamo... Certo che desta impressione vedere queste scene all’ingresso di quello che risulta come il colosso economico centroasiatico e, teoricamente, il paese piu’ “evoluto e occidentale” dell’area, Il Kazakistan appare dapprima come una distesa di colline brulle per poi diventare un’immensa pianura dal cielo nuvoloso e dal clima un po’ freddo. Lungo le strade, che corrono dritte, una marea di Mercedes e Toyota, nonche’ i soliti pullmann tedeschi usati, che hanno qualcuna il volante a destra e qualcuna a sinistra. I primi campi coltivati ci portano ad Almaty che ci accoglie con un gran traffico e con la prima chiesa, ortodossa, incontrata da quando abbiamo lasciato l’Europa. Con sopresa scopriamo che gli alberghi costano un sacco di soldi, finiamo cosi’ in un hotel chiaramente del periodo sovietico: centiania di camere, intonaco che cade a pezzi e ascensore che va solo al terzo piano dove c’e’ l’addetta alla distribuzione chiavi!!! In serata insieme agli scozzesi andiamo nell’albergo piu’ lussuoso della citta’ a trovare un loro amico americano (decisamente benestante per via dei vari locali che gestisce in patria) e constatiamo che anche dove alloggiano i ricchi kazaki il lusso e’ apparente, dato che qualche pezzo di intonaco e’ decisamente da rifare. Qui apprendiamo una notizia che fa riflettere: un ragazzo inglese del Mongolrally sta rischiando la vita dopo essere caduto da 10 metri d’altezza; era in un pub ubriaco di whisky, e questo fa pensare... Ha senso questa corsa folla popolata da decine e decine di ragazzotti che sfrecciano lungo l’Eurasia solo per poi vantarsi di averlo fatto? Io personalmente ho preso la cosa come un modo di vedere (anche solo di sfuggita) posti che altrimenti avrei difficilmente visitato, e il mio prendere appunti e’ un tentativo di andare, anche solo minimamente, oltre la superficie di cio’ che vedo. Ma gli episodi in cui ho visto team ubriachi, ripartire da un posto lasciando cumuli di immondizie e fare un gran casino 28
  • 29. mi hanno lasciato davvero perplesso, non mi stupisce che in Mongolia il Mongolrally non sia amato, come dice Alfredo, il mio amico che da anni vive ad Ulaan Bataar. In ogni caso la serata prosegue con un ristorante cinese, la cui cucina e’ nettamente differente da quella che conosciamo in Europa come cinese; attraversando la citta’ si puo’ vedere come il centro sia una distesa di negozi dalle firme euopee destinati a shopping di lusso: si va dalle italiane Scavolini e Zegna alle gioiellerie francesi e svizzere, ma a me che colpisce di piu’ e’ un insegna che appare profetica, stiamo parlando della Kazinvestbank!!! Prima di ripartire visita al centro commerciale, l’americano spende, e qui scopro che sembra di essere in Europa dato che l’edificio pullula di negozi occidentali, anche i prodotti sono occidentali, e pure le ragazze vestono all’occidentale. Unica differenza il bancone della vodka decisamente oltre gli standard occidentali, compresa una bottiglia regalo a forma di Kalashnikov! Decisamente questo americano, che fa il Mongolrally da solo, conferma i miei pregiudizi anti-USA: spocchioso, arrogante, ed una tendenza a fare il leader che non mi piace. Ma adesso basta, la tendenza alla generalizzazione centroasiatica mi sta contagiando... Lungo la strada il sole tramonta su un’enorme distesa piatta, che ricorda la savana. Siamo una minicomitiva di tre macchine che si ferma a bordostrada per lavare i vetri improvvisando un autolavaggio, taglia bottiglie di plastica per bere vino rosso presso un benzinaio e si accampa in un’area di sosta (spiazzo di terra battuta circondato da immondizie) per cenare e dormire... Procedendo verso Qaraganda sembra di essere in una tabula rasa elettrificata: il paesaggio non cambia, sempre piatto, mentre a bordo strada continuano le statue di animali e persone immerse nel nulla. Unica nota di rilevo l’incontro con un team di ragazze canadesi, amiche dell’americano, che arrivano dopo essere entrate in Kazakistan, se non sbaglio, dalla parte occidentale del paese invece che da sud come noi. Come gia’ detto i russi ovunque ci fosse acqua hanno posto industrie, e risalendo verso nord il Kazakistan e’ pieno di fiumi e laghi, da qui un paesaggio dove i fili elettrici la fanno da padrone e dove l’inquinamento e’ un problema serio; non e’ nemmeno un caso che piu’ ci si inoltre verso nord piu’ aumentano le macchine dalla targa russa. Infatti le regioni settentrionali del paese vedono una forte minoranza russa il che per il governo kazako potrebbe diventare un problema dato che le aree di insediamento russo sono anche le aree piu’ ricche e produttive. Superata Balkash si vedono delle alture e sullo sfondo addirittura montagne, mentre ai lati della strada sono numerose le mandrie di cavalli. Ma... La Panda si rompe di nuovo, stavolta un problema elettrico: non parte piu’ ed esce del fumo. Uno dei ragazzi scozzesi, che di lavoro e’ meccanico, prova a darci una mano ma un fusibile si e’ bruciato. Lascio quindi Matteo e vado con gli altri in citta’ a cercare un meccanico. Mentre aspetto il carroattrezzi due kirghisi si intrattengono mettendomi a conoscenza del fatto che i kirghizi sono brutta gente, evidentemente un’opinione diffusa in Kazakistan, ed altre simpatiche perle di “internazionalismo” post-sovietico. Il conducente del carro attrezzi invece mi istruisce sulla corruzione della polizia kazaka facendomi la famosa domanda e chiamando un sacco di persone per vantarsi del fatto che stesse andando a prendere un macchina italiana del Mongolrally. Recuperata la macchina si ritorna in citta’ per finire in un albergo con sala scommesse annessa. Io sono decisamente stanco e mi dedico a mangiare panini e bere birra, con la commessa che ha un 10% su tutto, guardando Villareal-Odense in compagnia di due kazaki che hanno ediventemente scommesso sul Villareal... Come se non bastasse, lo scambio di mail con l’organizzazione del Mongolrally continua a non chiarire le procedure per far entrare la Panda in Mongolia: dato che la nostra macchina e’ piu’ vecchia del limite consentito dalla corsa importeremo la macchina come privati e non tramite Mongolrally, pur con il loro appoggio, ma fino ad oggi su questo punto non si e’ fatta chiarezza e la Mongolia si avvicina sempre piu’... Il giorno seguente lo si passa in un’officina di ragazzi gentilissimi, e la macchina sembra non avere nulla. Io scambio la mia email con un ragazzo dai tratti russi che mi dice la sua ragazza parlare italiano, e con il quale sono in contatto ancora adesso, peccato non aver potuto partecipare al suo recente matrimonio. Osservando i tratti somatici noto che russi e kazaki sono molto mescolati, i russi sono davvero tanti, anche se un ragazzo (dai tratti kazaki) mi dice chiaramente che la lingua kazaka e’ piu’ bella del russo... Chiaccheriamo per un po’ e anche qui la chiaccherata finisce sulla corruzione 29
  • 30. della polizia che in Kazakistan sembra davvero essere uno dei principali argomenti di conversazione. I ragazzi infatti si premurano di chiedere se abbiamo avuti problemi con i poliziotti, ma fortunatamente finora non ne abbiamo avuti. Tutti hanno il mito di Almaty, come in tutto il Kazakistan, anche se le ragazze di Qaraganda non sono da meno per look non certo castigato e arie da “vamp”... Il nord del paese ha strade pessime, per via dei numerosi fiumi e laghi, e sono piene di camion europei usati. Superiamo Pavlodar dalla moschea affiancata alla chiesa ortodossa (ed entrambe costruite in uno stile disneylaniano) e ci fermiano nell’ultimo paesino kazako, chiedendo ad un benzinaio dove poter trovare un posto dove dormire; il benzinaio mi disegna una mappa che sembra un quadro, mancano solo le case per essere degna di Google Maps e tutte le persone presenti ci vogliono aiutare. Finiamo cosi’ in casa di una simpatica affittacamere dal figlio ciccione, simpatico pure lui e aspirante albergatore. Mieto successi con il mio dizionario italiano-russo ma una ragazza non prende troppo bene la mia non conoscenza delle differenze tra lingua kazaka e lingua russa. La piovosa mattina seguente la strada verso la frontiera e’ pessima, come quasi tutte le strade verso le frontiere, e per chiudere in bellezza un poliziotto ci accoglie al posto di confine sfoggiando il suo italiano: “Mafia? Good!” 30
  • 31. L’arte di sapersi arrangiare 25/08 – 26/08 Russia In Russia e’ stato davvero un passaggio molto veloce, per vari motivi. Innanzitutto per motivi geografici, dato che non esistono vie dirette tra Kazakistan e Mongolia. I due paesi infatti non confinano per soli 38km di montagne, divisi da Cina e Russia. Per la Cina non e’ stato richiesto il visto in quanto la possibilita’ di guidare un autovettura in territorio cinese e’ fortemente limitata da una rigida regolamentazione, quindi Russia. A proposito della Cina dico solo brevemente che, una volta arrivati al traguardo, ho lasciato la macchina ad Alfredo e me ne sono partito per questo affascinante paese innamorandomene. Ho scoperto una terra ricca di fascino e contraddizioni, della quale magari scriveremo in altra occasione. La “terribile” frontiera russa, il temibile ingresso nel paese di quello che fu il socialismo reale si rivela... il confine piu’ facile da attraversare di tutto il viaggio!!! Giusto mezzo controllo ed una dichiarazione da firmare, ed anche qui siamo riconosciuti come team del Mongolrally; la gara ha ormai i suoi percorsi fissi e le guardie di confine ormai sono abituate a strane macchine con a bordo strane persone. E dal Kazakistan sono principalmente due i posti di confine attraversati dai team del Mongolrally: quello vicino Pavlodar (ossia quello di cui stiamo parlando) e quello vicino Semey (tristemente famosa per le radiazioni dovute all’essere stata poligono nuclerare sovietico). Scegliere una strada invece che un’altra puo’ fare grandi differenze in paesi dove la manutenzione del manto stradale non e’ all’ordine del giorno. E per questo uno dei lati piu’ interessanti del Mongolrally e’ lo scambio di informazioni tra equipaggi ed il nascere di leggende dovute al passaparola, come e’ stato per noi il caso delle voci di chiusura delle frontiere tagike con il Kirghizistan. La russia si presenta subito verde, ricca di foreste e campi coltivati, nonche’ corvi in ogni dove. I primi paesi sembrano poveri ma anche qui le ragazze “si tirano a lucido” il piu’ possibile... Nei bar vedo i primi tatuati (e anche molto) che non sono ex-detenuti. In Kirghizistan addirittura un poliziotto mi aveva mostrato con orgoglio i suoi tatuaggi chiaramente fatti in cella, e spesso mi chiedevano, visto i miei abbastanza evidenti, se avevo conosciuto le patrie galere italiche... 31
  • 32. Mi colpisce che i benzinai per la prima volta dall’inizio del viaggio rifiutano euro e dollari, sembra che qui non ci sia la fame di valuta forte che abbiamo incontrato lungo tutto il percorso... Il tempo di acclimatarci in questo angolo sperduto di Russia che un nuovo guaio ci assale: su di una buca presa a 10km orari si rompe una balestra!!! Cerchiamo un meccanico, e lo troviamo anche... Il pomeriggio lo passiamo quindi ad assistere un vero e proprio artista che, tentando di adeguare una diversa balestra a quella rotta, crea un nuovo assetto per la macchina decisamente piu’ aggressivo. Infatti per poter agganciare un nuovo pezzo al vecchio il Leonardo degli Altai rialza tutta la parte posteriore della macchina con un gioco di saldature e bilanciamenti!!! Il risultato finale e’ visibile nella foto di copertina... In Russia la capacita’ di arrangiarsi da soli e’ evidente dal fatto che ogni area di sosta ha buche e rudimentali ponti affinche’ ognuno possa farsi da se’ controlli e riparazioni del caso. La notte ci coglie lungo la strada per Barnaul e la stanchezza si fa sentire, il viaggio e’ davvero massacrante e manca ancora la parte forse piu’ dura: la Mongolia con la sua totale assenza di strade (se non intorno alla capitale). Dormiamo quindi parcheggiati in un benzinaio e sfortuna vuole che quando mi decido a visitare il bar presente nell’area di sosta questo chiuda... Barnaul appare come una cittadona, un vero centro di snodo con i suoi numerosi svincoli che portano ovunque. Infatti per trovare la direzione giusta dobbiamo fermarci in un autogrill e chiedere indicazioni a due metronotte, e facendo la mia seconda colazione. La prima era stata in un supermercato che aveva appena aperto e dove mi sono caricato di dolci e torte salate appena sfornate, ignorando in maniera sacrilega il reparto di birra piu’ grande che abbia mai visto in vita mia... La pioggia ci segue anche sugli Altai. Il paesaggio e’ bellissimo, la strada sale per i boschi e sembra di essere in qualche valle alpina. Il posto e’ chiaramente turistico come denotano i numerosi campeggi lungo il fiume e le altrettanto numerose pensioni a bordo strada. Procedendo verso il confine mongolo dopo un bivio finisce la zona turistica e la strada diventa sempre piu’ una tipica strada di montagna, stretta e ripida. Durante una sosta da un gommista una scena divertente: un cucciolo apprendista cane pastore si affanna a rincorrere una mucca mostratasi molto interessata alla nostra macchina, in questo angolo di Russia le mucche sono tantissime dando ancora di piu’ l’impressione di essere sulle Alpi. Tra un tornante e l’altro incontriamo un team la cui ambulanza ha la targa tedesca, come scopriremo poi si tratta invece di un gruppo di ragazzi romeni, che rappresentano i primi partecipanti di questo paese al Mongolrally. Con questi ragazzi faremo gran parte del tragitto in terra mongola. Inizia a salire un po’ di preoccupazione dato che sappiamo la frontiera mongola avere degli orari di chiusura e sapendo anche che tra Russia e Mongolia la terra di nessuno e’ lunga ben 45km, forse qualcuno meno, e si sta facendo tardi... Arriviamo al confine e veniamo controllati piu’ lasciando il paese di quando vi siamo entrati. Siamo sempre in compagnia dei ragazzi romeni e con loro scopriamo che una volta passato il cancello di uscita dalla Russia, esattamente in quel punto finisce l’asfalto; la terra di nessuno si presenta come una pista di terra battuta che si inoltra nel nulla, un inizio che lascia presagire quello che troveremo una volta in Mongolia. Il tempo di riabituarsi alla guida sullo sterrato ed arriviamo al posto di confine mongolo, che ovviamente troviamo chiuso. Ma il Mongolrally non e’ ormai piu’ una novita’ per le guardie di confine dei vari paesi, ed infatti quelle mongole ci stanno aspettando per aprirci il cancello e farci entrare. Siamo in Mongolia! Ma per stanotte si dorme sul piazzale, in 32
  • 33. compagnia di un’altra decina di team, perlopiu’ inglesi e canadesi. Una grossa parte del viaggio e’ fatta, resta ora forse quella piu’ difficile. Non e’ un caso che la maggior parte degli equipaggi abbandoni la corsa dopo essere entrati in Mongolia: il paese infatti e’ cosparso di piste, mentre strade asfaltate esistono solo per circa 300 chilometri attorno Ulaan Bataar. Ci attendono giorni faticosi, ma finora la stanchezza e’ stata premiata dai paesaggi e dalle esperienze fatte. Tornando alla Russia e’ stato davvero un passaggio fugace, ma la disponibilita’ delle persone incontrate ed i panorami visti invitano a pensare ad un ritorno con piu’ calma in un futuro prossimo. 33
  • 34. Il fascino indiscreto del vuoto 25/08 – 01/09 Mongolia Ci svegliamo in Mongolia!!! Sembra quasi impossibile a credersi, ma non siamo ancora arrivati a destinazione e la parte forse piu’ dura inizia adesso: saranno pochi giorni ma di fatica! Colazione nel parcheggio della dogana e via, ma ci dimentichiamo un piccolo particolare... le pratiche relative all’autovettura! Sono un po’ teso per tutte le difficili comunicazioni con l’organizzazione in merito a questo punto, ed il mio vedere spesso nero non aiuta. Tuttavia i funzionari mongoli sono gentili, ci chiedono solo un documento che provi il valore della macchina essendo piu’ vecchia del consentito. Matteo ha la ricevuta di acquisto e dato che la macchina e’ stata regalata da un suo cliente il valore delle tasse di importazione viene calcolato in termini decisamente favorevoli. Tutti i computer degli uffici doganali sono dotati di internet e siti di quotazione auto ma fortunatamente non e’ nota la differenza tra Panda e Panda 4X4, sta di fatto che non dobbiamo pagare nulla al momento ed una volta arrivati le tasse per svincolare l’auto dal Mongolrally non saranno elevatissime. L’ultimo controllo e’ fatto da una doganiera carinissima che sembra arcigna ma si scioglie alle parole magiche: Toto Cutugno, un vero lasciapassare! Si parte davvero, in compagnia dei ragazzi romeni verso Ulaan Bataar, decidendo di passare da sud. La via nord infatti e’ troppo rischiosa per i numerosi laghi e le frequenti inondazioni. Il primo impatto con la Mongolia consiste in un vento fortissimo, al punto da rendere difficile l’uscire dalla macchina ed un cielo che minaccia pioggia; il famoso cielo blu della Mongolia, non terso come il cielo di Giugno visto da me l’anno precedente, ma sempre di ineguagliabile bellezza. Le strade semplicemente non esistono, lo spazio e’ infinito e le piste corrono numerose e parallele, con la principale al centro che spesso e’ anche quella dal fondo peggiore; per orientarsi non serviranno cartine ma vere e proprie mappe topografiche, dato che i punti di riferimento sono i fiumi e le montagne in lontananza. Ogni altura diventa cosi’ un elemento fondamentale per capire la propria posizione tenendo conto che in un paese grande 5 volte l’italia e con tre milioni di abitanti (di cui piu’ della meta’ nella capitale) le persone alle quali chiedere informazioni lungo la strada non sono molte... Nel primo villaggio, dove passeremo la notte, gli spunti di riflessione non mancano: infatti veniamo assaltati da una miriade di bambini che sembrano molto poveri. Ma oltre al mendicare qualcosa hanno un atteggiamento abbastanza aggressivo, al punto da arrivare a tirare sassi alle macchine. 34
  • 35. In ogni caso ci fermiamo nella gher di una signora che scopriamo essere insegnante d’inglese con tre figli che studiano all’universita’ in tre continenti diversi. La gher e’ grande, piu’ spaziosa delle consuete tende di feltro mongole; come ci fa notare la signora, e lo sottolinea per qualche decina di volte, ne’ lei ne’ la gher sono mongole ma bensi’ kazake. C i troviamo infatti nella regione autonoma di Bayan-Olgii dove l’etnia e’ kazaka e la religione seguita e’ l’islam, mentre nel resto della Mongolia la popolazione e’ buddista. Come ci dice la nostra “padrona di gher” costumi e tradizioni kazaki sono assolutamente differenti da quelli mongoli, e da come ne parla la cosa sembra non dispiacerle. Osservando meglio la tenda che ci ospita in effetti le differenze da quella classica mongola sono diverse: innanzitutto e’ piu’ grande e sembra essere piu’ curata nei dettagli decorativi, non vi e’ lo spazio dedicato agli antenati (di solito un piccolo altare) e non vi sono strumenti di lavoro all’interno. Sembra inoltre mancare degli aspetti piu’ simbolici che tanta importanza hanno nella cutura mongola. La sveglia ci riserva un cielo limpido e privo di nuvole, inizio a riconoscere il cielo mongolo, anche se l’estate volge ormai al termine e di notte fa freddo, tanto che trovo ghiacciato il fiume dove vado a lavarmi i denti. La zona del lago Tolbo non e’ decisamente tra le piu’ turistiche del paese ed i paesaggi sono tendenzialmente sempre uguali, cambia solo il fondo delle pessime piste. Mentre procediamo iniziano le prime forature ed affrontiamo il primo guado, per fortuna piccolo, e lungo la strada compaiono i primi cammelli, che aumentano sempre di piu’. Attraversiamo qualche villaggio, dove i bambini che sembrano poverissimi letteralmente si gettano sotto la macchina, affrontiamo un guado piu’ grosso, con l’aiuto di alcuni fuoristada, e arriviamo a Khvod, la citta’ piu’ grande della regione. Qui vediamo una moschea e incontriamo numerosi team, approfittiamo della sosta per comprare viveri per il proseguio del viaggio, ben sapendo che il menu’ mongolo, come sperimentato in un ristorante di Olgii e’ composto quasi esclusivamente da carne di yak o montone. Nuove forature: giunge il momento di mettere le gomme tassellate, mentre rumoracci della Panda sono colonna sonora mentre continuiamo a percorrere una distesa infinita di nulla, finche’ al calare del sole, decidiamo con i nostri compagni di viaggio che e’ giunta l’ora del riposo. Per evitare di venire investiti, siamo infatti nel mezzo di un’immensa distesa di piste, montiamo un telone che rifletta i fari degli altri veicoli. Il tempo di vedere un branco di cammelli che viene a farci visita ed il sonno prende il sopravvento... La notte e’ fantastica, nel cielo miliardi di stelle e tantissime sono cadenti, un senso di pace incredibile; la Mongolia ha davvero il cielo piu’ bello che io abbia mai visto in vita mia. Stiamo andando verso Altay, dove c’e’ un meccanico che fa da punto raccolta per il Mongolrally, e ne abbiamo bisogno. I guadi diventano sempre piu’ grossi ed impegnativi ed intorno a noi continua la distesa di nulla. Fa davvero strano incontrare altri team in queste condizioni, le macchine spuntano da ogni parte, ognuna con il suo percorso: non essendoci strade ovunque ci sia suolo e’ un percorso! Dopo il rituale scambio di saluti ormai la domanda classica che ci si fa tra equipaggi e’: “e tu cosa hai rotto?” il che dice molto delle condizioni nelle quali ci stiamo avvicinando ad Ulaan Bataar... Ci accampiamo in un mini villaggio di qualche gher dove assistiamo sia a scene spiacevoli, ossia bambini che bloccano la macchina mettendosi davanti e adulti che ridono e incoraggiano, sia a scene stupende, ossia un tramonto talmente bello che non avrei pensato potesse esistere. Piazziamo le tende nel recinto degli anmali e al mattino con grande stupore scopriamo di essere vicino alla fermata di un pullmann, che nella notte e’ effettivamente passato!!! Dopo una notte ventosissima, quasi le tende se ne volavano via, si punta verso Altay con il suo meccanico. In effetti il car service e’ una sorta di ritrovo per equipaggi, tanto che ad un certo punto ce ne saranno stati una decina contemporaneamente. I meccanici sono incredibili, aggiustano tutto, sono allo stesso tempo meccanici, gommisti, saldatori e chi piu’ ne ha piu’ ne metta. Quando arriviamo stanno saldando un’ambulanza spezzatasi in due! La citta’ e’ minuscola ma per gli standard mongoli enorme. Ci dedichiamo a recuperare le forze con ristorante, ed una volta di piu’ constatiamo come il menu’ mongolo sia davvero ridotto, internet e spesa, anche se stranamente molti negozi alimentari non hanno pane e acqua. Fuori citta’ si sfata il 35