Elena Riva - Dal Corpo alla Parola nella Clinica dei Disturbi Alimentari
1. 1
Dal
corpo
alla
parola
nella
clinica
dei
disturbi
alimentari
Elena
Riva
Visi
e
corpi
di
bambine
invecchiate,
pelle
diafana
e
occhi
larghi
nei
volti
scavati,
fisici
impuberi,
quale
che
sia
l’età
anagrafica.
Nei
disturbi
alimentari
un
involucro
uniforme
ricopre
differenze
profonde:
le
somiglianze
nell’aspetto
e
nei
comportamenti,
il
reiterarsi
di
un
pensiero
appiattito
dal
calcolo
ossessivo
di
grammi
e
calorie,
non
appartengono
a
strutture
di
personalità
uguali,
né
esprimono
un
unico
significato
evolutivo,
psicopatologico
e
relazionale.
Il
clinico
interessato
a
gettare
lo
sguardo
oltre
il
sintomo
riconosce
il
carattere
multiforme
dei
disturbi
alimentari:
corpi
replicanti
e
resoconti
anamnestici
ripetitivi
rimandano
a
organizzazioni
psichiche
e
significati
affettivi
differenti.
La
cultura
e
la
mitologia
affettiva,
più
della
psicopatologia,
conferiscono
significato
psichico,
relazionale
e
comunicativo
alle
condotte
alimentari
impazzite
e
agli
stili
di
vita
e
di
pensiero
che
le
accompagnano.
La
narrazione
che
si
snoda
nella
stanza
delle
parole
lentamente
perfora
l’involucro
seriale
del
controllo
pseudo-‐razionale,
consentendoci
di
entrare
in
contatto
con
un
Sé
ancora
vitale.
Una
quattordicenne
anoressica
descrive
al
test
di
Rorschach
il
proprio
mondo
interno
come
“un
vulcano
dentro
la
lava
e
sopra
la
terra
verde,
più
fredda
…
magari
la
lava
può
salire…
la
parte
sotto,
con
la
lava
che
sale,
é
molto
calda,
mentre
quella
sopra
è
fredda”
(tav.
VIII)
L’intervento
psicologico
rimuove
gli
ostacoli
che
ostruiscono
il
passaggio
alla
colata
lavica,
e
la
vitalità
emotiva
raffreddata
e
quasi
spenta
supera
lo
sbarramento
difensivo,
consentendo
alla
risonanza
emotiva
del
discorso
anoressico
di
raggiungerci.
La
frenetica
esibizione
di
prestazioni
eccellenti
con
cui
l’anoressica
invoca
riconoscimenti
alla
preziosa
soggettività
che
si
nasconde
in
un
corpo
sbagliato
si
placa,
lasciando
emergere
le
fragilità
di
un
soggetto
che
si
rifugia
in
se
stesso
per
non
essere
disprezzato
o
ferito.
Nel
racconto
di
una
giovane
adulta
non
più
anoressica,
il
rapporto
fra
il
Sé
autentico
e
il
suo
involucro
è
personificato
in
due
diverse
figure:
Martina
è
tornata.
Nessun
debutto.
Di
soppiatto
ha
invaso
il
palco,
ha
chiuso
il
sipario,
spento
le
luci.
E’
lì
che
vive.
Lì
Maggie
muore.
Silente
delitto.
2. 2
Martina
piace
a
tutti
ma
non
a
se
stessa.
Li
vede
gli
uomini
come
la
mangiano.
Lei
non
si
fa
più
assaggiare.
Guarda
le
persone
negli
occhi,
di
quelli
golosi
schiva
l’odore
che
lasciano
addosso.
Non
abbassa
più
lo
sguardo,
solo
se
arrossisce,
e
non
per
l’abito,
ma
per
un
incontro.
Quelli
sono
giorni
rari,
speciali,
perché
s’imbatte
in
occhi
che
la
trovano,
raggiante,
sognante,
Maggie.
Non
è
morta.
E’
imprigionata
in
una
donna
che
si
odia,
a
tal
punto
si
distrugge:
la
pelle,
la
superficie,
la
odia.
Maggie
non
è
mai
nata
lì
su,
né
è
emersa
dal
mare
in
superficie,
non
è
lì,
dove
le
unghie
di
Martina
graffiano.
Maggie
ha
aperto
un
occhio
dopo
l’altro
da
dentro,
da
un
taglio
profondo
al
cranio,
al
torace,
nel
cuore
di
un
corpo,
quello
massacrato
di
Martina.
Le
ha
ridato
la
vita
che
da
anni
sognava,
credeva
persa,
i
sogni
che
non
trovava,
non
amava,
la
speranza
che
non
sapeva.
Martina
è
tornata.
Da
dietro
le
quinte,
come
suo
solito.
Io
non
applaudo.
La
scrittura
creativa,
espressione
della
narratività
e
della
competenza
riflessiva
acquisite
nel
lavoro
terapeutico,
approda
alla
prima
persona
singolare:
i
personaggi
scissi
si
reintegrano
in
un
Io
capace
di
osservarsi
e
descriversi,
non
più
artificialmente
compattato
da
esibizioni
narcisistiche
ma
luogo
di
ritrovata
continuità
soggettiva.
L’antica
competenza
femminile
nel
linguaggio
del
corpo
che
convertiva
i
conflitti
psichici
irrisolti
in
manifestazioni
somatiche,
in
epoca
postmoderna
produce
condotte
sintomatiche
ego-‐sintoniche,
espressioni
d’intenzionalità
inconsapevoli
quanto
incoercibili.
Chi
soffre
di
disturbi
alimentari
riempie
illusoriamente
il
vuoto
d’identità
e
di
rapporti
con
l’auto-‐stimolazione
sensoriale,
corporea
e
cenestesica,
con
la
fame,
il
dolore
e
la
fatica,
garantendo
una
via
di
scarico
agli
affetti
attraverso
l’esperienza
somatica.
Il
paradigma
evolutivo
non
banalizza
la
sofferenza
psichica
che
si
esprime
col
linguaggio
del
corpo,
ma
la
interpreta
come
manifestazione
di
una
mancata
integrazione
fra
corpo
e
mente,
fra
modelli
identificatori
e
sistemi
di
valore
femminili
e
maschili,
fra
fusione
e
individuazione.
Dove
l’assenza
di
contatto
ed
elaborazione
simbolica
degli
affetti
costringe
a
dar
voce
nel
corpo
alla
sofferenza
psichica,
l’adozione
di
un
modello
terapeutico
integrato
ricostruisce
il
legame
somatopsichico
interrotto
grazie
a
un
contenimento
protettivo
che
reintegra
la
scissione
e
ripara
dall’onnipotenza,
anche
da
quella
salvifica
del
terapeuta,
che
non
potrebbe
da
solo
fronteggiare
il
dolore
del
corpo
e
della
mente,
l’oscillazione
fra
bisogni
inesaudibili
e
ostinati
rifiuti
di
cure,
la
trappola
invischiante
e
distruttiva
delle
interazioni
familiari.
3. 3
L’intervento
integrato
fra
chi
si
prende
cura
del
corpo
violato
da
abbuffate
e
digiuni
e
chi
promuove
l’elaborazione
simbolica
degli
affetti,
fornisce
il
modello
di
un
contenitore
differenziante
e
articolato,
alternativo
all’
invischiamento
e
alla
scissione.
La
precocità
dell’intervento
consente
di
differenziare
i
segni
di
un
esordio
patologico
che
s’innesta
su
un
funzionamento
psichico
perfezionista
e
compiacente,
spasmodicamente
dedito
alla
ricerca
di
eccellenze
scolastiche,
sportive
e
sociali,
dai
disordini
alimentari
che
esprimono
il
rifiuto
di
un
corpo
pubere
troppo
brutto
e
grasso
per
essere
tollerato
dal
fragile
narcisismo
di
un
adolescente.
Ciò
permette
di
interpretare
il
significato
simbolico
e
la
funzione
comunicativa
del
sintomo
prima
che
comportamenti
e
relazioni
si
sclerotizzino
in
dinamiche
patologiche.
Anoressiche
e
bulimiche
strenuamente
si
oppongono
all’attribuzione
di
significato
psichico
ai
comportamenti
sintomatici,
che
banalizzano
e
minimizzano
svuotandoli
d’intenzionalità.
Le
prime
li
attribuiscono
a
malesseri
del
corpo
o
a
libere
scelte
della
mente
incomprensibilmente
osteggiate
da
medici
e
familiari,
le
altre
li
imputano
a
un’impulsività
incoercibile
che
le
mortifica,
ma
che
non
sanno
evitare.
Il
tentativo
di
aprire
una
breccia
nella
corazza
difensiva
è
legittimato
dalla
promessa
di
una
restituzione
del
ritratto
psichico
che
emergerà
dai
colloqui
e
dai
test
proiettivi.
Una
consultazione
limitata
nel
tempo
e
definita
negli
obiettivi
supera
la
paura
di
affidarsi
e
allenta
il
controllo
difensivo,
consentendo
di
rimandare
la
scelta
di
impegnarsi
in
un
percorso
terapeutico
a
quando
l’esperienza
della
restituzione
ne
avrà
reso
meno
riluttante
o
compiacente,
più
contrattuale,
l’adesione.
Per
chi
soffre
di
un
disturbo
alimentare
la
restituzione
del
bilancio
evolutivo
è
un’esperienza
intensa
che
permette
di
guardarsi
e
di
essere
guardati
oltre
l’involucro
del
corpo
nemico
che
nasconde
il
vero
Sé.
L’elaborazione
simbolica
trasforma
i
pensieri
non
pensati
in
narrazioni
attribuendo
significato
psichico
alla
crisi
all’interno
del
quadro
evolutivo,
intrapsichico
e
relazionale
in
cui
si
sviluppa.
La
possibilità
di
riflettersi
in
uno
specchio
non
deformato
da
desideri
e
attese
altrui
supera
la
riluttanza
ad
attribuire
significato
a
comportamenti
ed
emozioni,
e
attenua
le
angosce
d’intrusione
e
di
giudizio
evocate
dalla
valutazione
diagnostica.
Il
ritratto
psicologico
tratteggiato
in
un
linguaggio
evocativo
che
utilizza
lo
stile
comunicativo
dell’adolescente
per
favorire
il
riconoscimento
nell’immagine
di
sé
ricomposta
dallo
specchio
diagnostico,
permette
a
soggetti
dal
pensiero
concreto,
vuoto
di
risonanze
simboliche
e
metaforiche,
di
assistere
per
la
prima
volta
–
non
4. 4
ancora
di
produrla
in
proprio
-‐
all’attribuzione
di
significato
psichico
ai
prodotti
della
propria
mente.
Lo
stile
narrativo
della
restituzione
favorisce
l’integrazione
e
promuove
la
capacità
riflessiva,
mentre
la
commozione
di
sentirsi
riconosciuti
ristabilisce
il
contatto
fra
pensiero
e
affetti.
Quest’esperienza
accende
una
curiosità
nuova
per
la
realtà
psichica,
intaccando
la
svalutazione
e
favorendo
un’apertura
di
credito
che
è
il
primo
segno
dell’idealizzazione
che
il
rapporto
terapeutico
dovrà
attraversare
prima
di
trasformarsi
in
alleanza
di
lavoro.
Lo
stupore
e
il
piacere
di
sentirsi
compresa,
che
nel
corso
della
terapia
saranno
di
nuovo
sopraffatti
da
angosce
d’intrusione
e
inglobamento,
lasciano
una
traccia
preconscia
che
sarà
preziosa
a
superare
fasi
di
stallo
e
minacce
d’interruzione.
Il
bilancio
evolutivo
non
equivale
a
un
assessment
psicodiagnostico,
ma
svolge
funzioni
preliminari
necessarie:
ottenere
un’adesione
di
minima
al
contratto
terapeutico
e
frapporre
una
fase
di
riflessione
e
attribuzione
di
senso
all’urgenza
di
far
qualcosa
subito,
che
collude
con
il
carattere
agito
della
domanda.
Nei
disturbi
alimentari
la
traduzione
corporea
della
sofferenza
psichica
interrompe
il
lavoro
del
pubertario:
il
bilancio
evolutivo
riavvia
il
processo
di
soggettivazione,
armonizzando
vecchi
e
nuovi
ruoli
affettivi
nella
continuità
di
un
Sé
dotato
di
competenze
riflessive,
in
cui
i
nuovi
valori
di
genere
s’integrano
con
i
ruoli
e
le
relazioni
del
passato
infantile.
L’adolescente
anoressica
non
sa
nominare
gli
affetti:
il
suo
linguaggio
è
povero
e
ripetitivo,
le
sue
risposte
emotive
non
modulate,
generiche
e
superficiali,
incapaci
di
tradurre
le
sensazioni
corporee
in
esperienze
emotive
di
dolore
e
di
rabbia,
di
paura
e
d’angoscia:
“Non
so
perché
…
mi
urta,
mi
dà
fastidio…”
La
verbalizzazione
degli
affetti
favorisce
una
percezione
più
definita
del
Sé
corporeo,
corregge
un’immagine
corporea
distorta
e
svalutata
e
riattiva
il
contatto
con
un
Sé
psichico
disconnesso
dagli
affetti.
Nei
disturbi
alimentari
l’afasia
emotiva
zittisce
la
realtà
psichica
sovrainvestendo
la
concretezza
del
reale;
gli
affetti
perdono
la
funzione
d’informare
della
realtà
interna
e
di
quella
esterna,
e
sono
sperimentati
come
indici
di
fragilità
e
debolezza,
elementi
di
disturbo
in
un
sistema
prestazionale
iper-‐funzionante.
La
psicoterapia
sostiene
l’elaborazione
simbolica
e
consente
di
produrre
e
integrare
significati,
liberando
un
pensiero
imbrigliato
dalla
repressione
fantasmatica
e
incapace
di
produrre
rappresentazioni
simboliche
e
metaforiche.
Jeammet
definisce
il
lavoro
clinico
con
anoressiche
e
bulimiche
“una
riappropriazione
attraverso
il
lavoro
psichico
5. 5
della
propria
storia
e
della
propria
capacità
di
pensarla,
di
pensare
le
proprie
emozioni
e
gli
avvenimenti
che
l’hanno
segnata”
(Jeammet,
2006
pag.20).
La
psicoterapia
addestra
a
prestare
ascolto
agli
stati
emotivi,
trasformandoli
da
segni
di
vulnerabilità
e
dipendenza
in
utili
indicatori
di
processi
decisionali.
Il
rispecchiamento
dello
sguardo
e
delle
parole
del
terapeuta
attribuisce
nuovi
significati
affettivi
agli
stati
della
mente,
consentendo
d’interiorizzare
la
relazione
con
un
oggetto
nuovo,
capace
di
dar
nome
agli
affetti
e
alle
emozioni
scisse
e
collocate
nel
corpo.
Dar
voce
agli
affetti
incistati
nel
corpo
li
legittima.
Il
linguaggio
di
chi
soffre
di
un
disturbo
alimentare
cela
un
pensiero
utilizzato
non
per
comprendere
se
stessi
e
il
mondo,
ma
per
controllare
le
emozioni.
L’anoressica
satura
le
sedute
di
ossessive
descrizioni
di
riti
alimentari
e
dettagliati
resoconti
di
successi
scolastici
o
professionali,
mentre
la
bulimica
vomita
sull’interlocutore
disperazione,
rabbia
e
vergogna,
senza
concedere
a
se
stessa
e
all’altro
spazi
di
rielaborazione.
Il
linguaggio
anoressico,
concreto
e
fattuale,
è
lo
specchio
di
una
realtà
emotiva
scissa
e
bloccata.
Quello
bulimico
è,
invece,
sfogo
ed
evacuazione,
vomito
di
parole
che
satura
il
terrore
del
vuoto
con
un
pieno
inarrestabile.
Nella
stanza
delle
parole
s’imparano
a
sopportare
i
silenzi,
le
sospensioni,
le
discontinuità,
e
si
può
cominciare
a
pensare.
Nominare
e
discriminare
gli
affetti
li
legittima:
l’elaborazione
simbolica
libera
un
pensiero
imbrigliato
dalla
repressione
fantasmatica
e
lo
dota
di
competenze
riflessive,
costruendo
un
ponte
fra
Sé
psichico
e
corporeo.
La
soggettivazione,
interrotta
dall’incistamento
nel
corpo
della
sofferenza
psichica,
si
riavvia
grazie
all’immedesimazione
con
un
oggetto
nuovo
capace
di
dare
nome
agli
affetti
e
significato
alle
azioni;
diventa
così
possibile
tollerare
silenzi
e
sospensioni,
e
si
può
cominciare
a
pensare.
Nell’intervento
terapeutico
integrato
la
discontinuità
è
rappresentata
anche
da
relazioni
terapeutiche
parziali,
differenziate
e
complementari,
da
un
lavoro
di
rete
che
introduce
la
triangolazione,
ed
evita
di
riproporre
una
relazione
totalizzante
con
un
oggetto
onnipotente,
che
ingloba
e
divora.
La
costruzione
narrativa
traghetta
dal
vuoto
rappresentativo
di
una
realtà
psichica
a-‐
simbolica,
che
utilizza
il
cibo
per
controllare
emozioni
insopportabili,
o
dal
linguaggio
descrittivo
dello
sfogo,
ingabbiato
nel
controllo
anoressico
o
reso
straripante
dall’evacuazione
bulimica,
al
pensiero
riflessivo.
Le
scansioni
spazio-‐temporali
introducono
il
limite,
mitigando
scissioni
e
idealizzazioni
-‐
tutto
o
niente,
bianco
o
nero,
pieno
o
vuoto
–
e
rendendo
affrontabili
le
difficoltà
maturative.
6. 6
Nella
storia
di
chi
soffre
di
disturbi
alimentari
l’introiezione
di
limiti
e
legami
é
inibita
nel
suo
spontaneo
sviluppo:
la
fragilità
delle
basi
narcisistiche
impedisce
di
ricevere
conferme
mantenendosi
separati,
perché
dall’Altro
dipendono
autostima
e
legittimazione
dei
desideri.
Nello
specchio
vuoto
della
tavola
bianca
del
TAT
una
quattordicenne
anoressica
vede
riflesso
il
difetto
identitario,
esito
del
mancato
rispecchiamento
alle
origini
della
vita
psichica
che
produce
scissione
e
rifiuto
del
Sé
corporeo.
“Magari
è
l’immagine
di
una
persona
che
si
sente
buona
a
nulla,
e
quando
si
guarda
allo
specchio
si
sente
così,
si
sente
invisibile”
(tav.16)
Una
relazione
terapeutica
affidabile
e
non
invasiva
rinforza
le
basi
narcisistiche
e
riavvia
lo
sviluppo
di
un
Sé
bloccato
e
distorto
da
intrusioni
proiettive.
Per
nutrirsi
di
questa
relazione
occorre
rinunciare
però
alla
protezione
dal
dolore
psichico
fornita
dall’identità
patologica:
essere
anoressica
assicura
visibilità,
protegge
dall’annichilimento
identitario,
definisce
e
illusoriamente
rinforza
i
confini
del
Sé
attraverso
il
potere
di
resistere
alle
sollecitazioni
a
nutrirsi
e
a
prendersi
cura
di
sé.
Perché
rinunciare
ai
vantaggi
che
derivano
da
tale
soluzione?
Alcune
strategie
terapeutiche
ricorrono
a
prescrizioni
per
superare
questo
precario
ma
gratificante
equilibrio.
Noi
tentiamo
di
far
leva
sulla
fragile
alleanza
e
sulla
limitata
contrattualità
costruita
nella
fase
di
consultazione,
accettando
il
carattere
fittizio
e
forse
addirittura
anti-‐terapeutico
delle
motivazioni
fin
qui
dichiarate:
una
soddisfazione
intellettuale
di
stampo
marcatamente
narcisistico;
il
bisogno
di
consolidare
un
patologico
equilibrio
di
stallo
evitando
sia
le
conseguenze
fisiche
di
un’eccessiva
perdita
di
peso,
sia
di
precipitare
nel
temutissimo
vortice
di
avidità
e
di
ciccia;
il
desiderio
di
placare
le
ansie
di
genitori
esausti
e
colpevolizzanti
con
qualche
colloquio,
meno
traumatico
e
impegnativo
di
un’alimentazione
forzata
o
di
un
ricovero
che
obbligherebbe
a
interrompere
la
frequenza
scolastica
Accettiamo
queste
motivazioni
di
copertura
contando
che
nascondano
la
speranza
di
un
incontro
significativo,
che
scalfisce
le
certezze
della
patologia
e
apre
una
breccia
d’interesse
per
l’altro
e
per
il
proprio
mondo
emotivo.
Se
è
impossibile
instaurare
una
vera
alleanza
terapeutica
con
chi
apparentemente
non
ha
nulla
da
chiedere
e
trae
importanti
benefici
dalla
malattia,
accettiamo
quanto
per
ora
ci
viene
concesso:
una
distratta
disponibilità
all’ascolto,
una
vaga
curiosità,
una
certa
preoccupazione
per
le
conseguenze
fisiche
del
digiuno:
l’aridità
e
colorito
esangue
della
pelle,
la
perdita
dei
capelli,
lo
sgretolarsi
delle
unghie
e
dei
denti.
7. 7
Ottenuta
questa
presenza
scettica
e
prudente,
occorre
evitare
che
il
rapporto
terapeutico
evochi
la
minaccia
di
ingerire
a
forza
interpretazioni,
come
in
passato
sono
stati
ingeriti
cibo
e
desideri
materni.
Lo
stile
relazionale
anoressico
e
bulimico
replica
le
rispettive
condotte
alimentari:
le
anoressiche
rifiutano
di
nutrirsi
di
parole
come
di
cibo,
le
bulimiche
le
ingoiano
voracemente
per
poi
vomitarle
interrompendo
il
trattamento;
le
une
e
le
altre
alternano
avidità
e
rifiuto,
e
vivono
le
interpretazioni
come
un
nutrimento
forzato
e
indigesto.
Il
percorso
terapeutico
procede
controcorrente,
aprendo
delle
brecce,
cogliendo
dei
segnali
di
sofferenza
mascherati,
alludendo
ai
vantaggi
affettivi
e
relazionali
della
rinuncia
al
sintomo;
soprattutto
tenta
di
incrinare
la
certezza
che
sottomettersi
ai
dettami
sadici
di
un
ideale
malato
sia
una
scelta
di
libertà,
anzi
l’unica
vera
garanzia
di
autonomia.
Nella
fase
d’avvio
il
tentativo
di
dar
senso
alle
azioni
e
di
ripristinare
le
relazioni
si
oppone
al
lavoro
di
scissione
e
oggettivazione
del
pensiero
concreto,
sollecitando
interesse
per
la
realtà
psichica.
Talvolta
si
ricorre
a
sollecitazioni
narcisistiche
e
a
interventi
che
colludono
con
le
difese
intellettualizzanti,
per
suggerire
strade
alternative
alla
sottomissione
alle
regole
autoimposte:
l’obiettivo
di
scalfire
la
corazza
no
entry
legittima
il
ricorso
a
tali
interventi;
non
si
può
chiedere
di
abbandonare
il
salvagente
della
soluzione
anoressica
prima
di
aver
imparato,
se
non
a
nuotare,
almeno
a
stare
a
galla
e
a
fidarsi
di
chi
ci
nuota
accanto.
Per
sostare
in
questa
zona
franca
che
collude
con
le
difese
narcisistiche,
devono
essere
pretese
alcune
garanzie:
regolari
controlli
medici,
stabilità
del
peso
e,
peri
soggetti
adolescenti
che
vivono
in
famiglia,
l’avvio
di
un
percorso
parallelo
con
i
genitori.
La
qualità
e
la
continuità
della
relazione
terapeutica
è
garanzia
della
continuità
soggettiva,
ma
anche
fonte
di
angosce
d’intrusione
e
inglobamento,
tanto
più
intense
quanto
maggiore
è
l’idealizzazione
del
terapeuta.
Il
timore
di
dipendere
che
ostacola
l’avvio
del
trattamento,
a
lavori
in
corso
attiva
minacce
d’interruzione
sempre
latentì,
soprattutto
quando
l’intensificarsi
del
rapporto
fa
vacillare
l’instabile
equilibrio
fra
solitudine
e
fusione.
Un
setting
stabile
ma
flessibile,
che
accetta
di
modificare
la
frequenza
delle
sedute
per
adattarsi
alla
distanza
relazionale
di
volta
in
volta
tollerabile,
tutela
la
continuità
della
relazione.
Occorre
riconoscere
e
rispettare
il
bisogno
di
aggrapparsi
e
il
timore
di
essere
intrusa,
ma
anche
la
tensione
a
sperimentarsi
separata
che
è
fisiologica
non
solo
8. 8
in
adolescenza,
ma
in
tutti
i
processi
d’emancipazione
promossi
dalla
psicoterapia,
a
qualunque
fascia
d’età.
Nel
trattamento
dei
disturbi
alimentari
anche
il
timing
della
conclusione
è
complesso
e
la
scissione
fra
corpo
e
mente
contribuisce
a
fornire
indicazioni
ambigue
al
riguardo:
a
volte
netti
miglioramenti
nella
qualità
della
vita
e
delle
relazioni
contrastano
con
l’ostinato
permanere
della
malnutrizione;
a
volte
l’aumento
di
peso
e
il
miglioramento
delle
condizioni
di
salute
lasciano
inalterata
la
rigidità
del
funzionamento
psichico.
Rapide
risoluzioni
del
sintomo
possono
esprimere
fughe
nella
guarigione
di
un
falso
Sé
compiacente
che
non
ha,
affatto,
abbandonato
le
sue
rigidità,
mentre
aperture
emotive
e
relazionali
possono
indurci
a
proporre
una
chiusura
del
trattamento
quando
la
presenza
del
terapeuta
è
ancora
necessaria
a
garantire
la
stabilità
dei
progressi.
Quando
la
psicoterapia
sembra
procedere
in
modo
soddisfacente,
il
calo
ponderale
può
esprimere
un
transfert
negativo
scisso
e
negato.
Lo
sguardo
multifocale
dell’équipe,
attento
al
corpo,
alla
mente
e
alle
dinamiche
familiari
grazie
alla
presenza
di
più
ruoli
professionali,
supera
l’ostacolo
del
silenzio
verbale
che
rende
impotente
l’analista,
rimediando
alla
cecità
selettiva
di
una
relazione
transferale
idealizzata.
È
noto
che
nelle
psicoterapie
psicoanalitiche
la
guarigione
non
coincide
con
la
risoluzione
del
sintomo;
il
paradigma
evolutivo
organizza
la
strategia
terapeutica
stabilendo
un
nesso
fra
sintomo
e
blocco
evolutivo
e
considerando
come
criterio
guida
il
superamento
della
situazione
di
stallo.
Sperimentazioni
d’autonomia
possono
essere
accettate
sapendo
di
poter
riprendere
le
sedute
al
ripresentarsi
di
nuovi
compiti
e
ostacoli.
In
un’ottica
evolutiva
il
criterio
terapeutico
non
è
un
ipotetico
parametro
di
normalità
e
guarigione,
ma
la
capacità
di
sviluppare
le
risorse
e
valorizzarle
in
funzione
del
proprio
potenziale
e
della
natura
dei
compiti
da
affrontare.
Anche
quando
permangono
compiti
irrisolti
e
comportamenti
anti-‐evolutivi,
o
quando
l’immaturità
e
la
rigidità
difensiva
sopravvivono
alla
remissione
del
sintomo,
è
necessario
talvolta
accettare
di
sospendere
il
trattamento
per
aderire
alla
richiesta
di
sperimentarsi
da
sola.
Non
è
raro
che
conclusioni
così
concordate
si
rivelino
a
posteriori
sospensioni
finalizzate
a
modulare
la
distanza
relazionale
per
fronteggiare
l’angoscia
di
dipendere.
Quando
a
distanza
di
qualche
anno
l’ex-‐paziente
propone
di
riprendere
a
incontrarsi,
il
rapido
e
spontaneo
riattivarsi
della
trama
narrativa
conferma
che
la
relazione
non
è
stata
interrotta
ma
interiorizzata.
9. 9
L’interiorizzazione
del
terapeuta
come
funzione
integrativa
organizzatrice
della
soggettività
consente
di
nutrirsi
del
rapporto
anche
durante
le
sospensioni:
la
consapevolezza
che
una
rappresentazione
sufficientemente
integrata
di
sé
e
della
propria
storia
resti
depositata
nella
mente
del
terapeuta,
permette
di
proseguire
il
percorso
di
soggettivazione
anche
in
sua
assenza.
L’autonomia
soggettiva
è
promossa
dalla
continuità,
affidabilità
e
capacità
di
contenimento
del
setting,
ma
anche
dalla
possibilità
di
decidere
se
e
quando
usufruirne.
Claudia
sta
per
partire
per
la
sua
prima
esperienza
di
lavoro
all’estero
dopo
aver
conseguito
un
master,
tappa
finale
del
suo
tortuoso
percorso
di
studi,
una
sorta
di
slalom
fra
scelte
compiacenti
e
oppositive
nei
confronti
del
padre
e
dei
suoi
valori,
attraverso
cui
ha
infine
individuato
autentiche
aree
d’interesse.
Dopo
una
lunga
psicoterapia
più
volte
interrotta
per
motivi
di
salute
e
soggiorni
studio
all’estero,
entrambe
pensiamo
di
essere
giunte
alla
fine
del
nostro
lavoro.
All’ultima
seduta
Claudia
porta
un
sogno:
ha
sognato
il
prof.
X,
un
docente
universitario
che
l’ha
affascinata
in
passato
coinvolgendola
in
una
relazione
ad
alto
tasso
d’idealizzazione.
All’epoca
in
cui
il
professore
era
al
centro
dei
suoi
pensieri,
i
miei
tentativi
d’interpretare
questa
relazione
alla
luce
di
precedenti
esperienze
d’innamoramento
narcisistico
per
sostituti
paterni
offendevano
Claudia,
facendola
sentire
ingiustamente
accusata
di
volerlo
sedurre;
anche
la
decisione
del
professore
di
rendersi
irreperibile
fuori
dagli
orari
di
ricevimento
l’aveva
ferita,
inducendola,
non
senza
sofferenza,
a
interrompere
il
rapporto
e
a
cambiare
relatore
e
argomento
di
tesi.
“Nel
sogno
incontro
il
prof.
per
caso
e
gli
dico
che
sto
per
partire.
Sono
orgogliosa
del
mio
progetto
e
lui
mi
ascolta
con
interesse.
Parliamo
a
lungo,
come
facevamo
una
volta;
improvvisamente,
però,
lui
mi
chiede
di
non
partire:
dice
di
aver
lasciato
la
moglie
e
di
essere
innamorato
di
me.
Sono
stupita
e
turbata,
ma
mi
sento
anche
molto
bene,
come
avvolta
in
una
nuvola
di
protezione
e
calore,
una
sensazione
che
non
provavo
da
tempo.”
Anch’io
sono
turbata
dalla
ricomparsa
all’ultima
seduta
di
quest’oggetto
interno
e
di
questo
clima
relazionale.
“Al
risveglio
mi
sono
agitata,
ho
pensato
che
Luca
(l’attuale
fidanzato,
un
compagno
di
studi)
non
mi
fa
sentire
così
protetta.
Poi
mi
è
venuto
in
mente
come
stiamo
bene
quando
discutiamo
o
andiamo
a
sciare
insieme;
come
sto
bene
quando
chiacchiero
con
le
mie
amiche
o
gioco
col
mio
nipotino,
quando
vado
a
un
concerto
con
mia
sorella
e
perfino
quando
guardo
un
film
sdraiata
da
sola
sul
mio
letto.
Sto
bene
quando
scrivo
o
lavoro,
e
quando
insegno
italiano
ai
ragazzi
stranieri.
Sono
molte
le
10. 10
persone
e
le
situazioni
che
mi
fanno
star
bene,
mentre
in
passato
quando
Lui
mancava,
chiunque
Lui
fosse,
il
mondo
mi
crollava
addosso
e
non
riuscivo
più
a
respirare
…”
Al
termine
della
psicoterapia
Claudia
evoca
con
nostalgia
quel
magico
sguardo
rispecchiante
da
cui
dipendeva
in
passato
la
sua
sopravvivenza
psichica,
che
rivissuto
e
rielaborato
attraverso
il
transfert
narcisistico
le
ha
consentito
di
recuperare
il
senso
del
proprio
valore.
Oggi
sono
altre,
meno
totalizzanti
ed
esclusive,
le
fonti
del
suo
benessere,
saldamente
collegate
a
una
molteplicità
di
compiti
e
ruoli
affettivi
e
di
relazioni
complementari.
In
procinto
di
partire
per
un
paese
lontano,
Claudia
evoca
nostalgicamente
nel
sogno
la
funzione
rispecchiante
e
contenitiva
di
quella
relazione,
ma
sa
anche
di
poterne
fare
a
meno
grazie
alla
ricchezza
e
alla
molteplicità
di
legami
presenti
oggi
nel
suo
mondo
interno.