Antonio Piotti - La Tentazione Suicidale (relazione)
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La tentazione suicidale
Antonio Piotti
La ricerca più recente ha stabilito alcuni punti fermi nella ricostruzione in termini dinamici
dei vissuti suicidali in soggetti non psicotici. Il primo punto riguarda la scissione del Sé: una
parte del soggetto combatte contro l’altra. Una vuole vivere, l’altra vuole farla finita. Entrambe
accampano le loro ragioni e si manifestano in lunghe catene di pensieri che dominano la vita
psichica dei soggetti suicidali producendo uno stato costante di tensione e di ambivalenza. Nel
caso di adolescenti la scissione si manifesta principalmente in termini narcisistici: da un lato
un Sé grandioso immaginario, dall’altro un meschino piccolo Sé che coincide spesso con la
percezione, anch’essa immaginaria, dell’inadeguatezza della propria identità corporea. Da un
lato un soggetto che s’illude di rispondere perfettamente alle richieste di successo sociale e
relazionale, dall’altro una sensazione intima di sconfitta e di inadeguatezza insanabile. Il
momento di massimo rischio si verifica quando un elemento appartenente al contesto esterno
mette il soggetto di fronte alla prospettiva di una bruciante sconfitta. In situazioni come
queste, i due Sé non possono più resistere nelle loro dimensioni parallele ma sono costretti ad
incrociarsi in modo tale che il primo Sé, quello grandioso ed immaginario, deflagra sotto i
colpi dello smascheramento. Ne scaturisce una sensazione bruciante e rabbiosa di sconfitta
ed un sentimento incontenibile di vergogna. La funzione dinamica del suicidio consiste
proprio nello sfuggire alla vergogna dello smascheramento. Dandosi la morte il soggetto
suicida ottiene anche due importanti vantaggi secondari: mantiene intatta l’immagine
grandiosa di Sé perché, a posteriori, dopo la morte, tutti dimenticheranno le sue
inadeguatezze e loderanno l’eccezionalità della sua persona ed esercita una vendetta rabbiosa
nei confronti di quel mondo che non è riuscito a capirlo. La dinamica che abbiamo descritto è
frequentemente riscontrabile nel lavoro con gli adolescenti ma compare anche in soggetti
adulti quando circostanze esterne portano ad un fallimento che coinvolge fortemente
l’immagine sociale dei soggetti stessi.
Rimanendo però su questioni che riguardano l’adolescenza, il rifiuto del corpo e della sua
dimensione di inadeguatezza rispetto all’immaginario costituisce un punto di contatto tra i
comportamenti suicidali ed altre costruzioni sintomatiche tipiche della post modernità quali i
disturbi delle condotte alimentari ed il ritiro sociale acuto: In tutti questi casi si ripresenta la
dinamica tra immaginario sontuoso e meschinità (sempre immaginaria) del corpo. Le
condotte suicidali possono essere viste come la versione estremizzata e più drammatica di
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questa scelta, il corpo non può essere nascosto o dimagrito, deve assolutamente essere
negato.
Ora. Cosa accade quando un giovane entra nei nostri studi e ci manifesta l’intenzione,
meditata per lunghi periodi, di darsi volontariamente la morte?
La maggior parte degli psicoterapeuti farebbe volentieri a meno di porsi questa domanda
perché essa suscita, a vari livelli, sensazioni profonde di paura e di inadeguatezza: di fronte al
rischio suicidale ci sentiamo sempre tutti impreparati. Si teme che la nostra capacità di parola
sia inadeguata nel convincere il soggetto a cambiare opinione e ci si preoccupa terribilmente
di ciò che potrà accadere quando questi avrà lasciato lo studio e sarà solo in preda alle sue
fantasie.
Se non c’è una riflessione approfondita e se non si è sviluppata un’adeguata capacità di
controllo rispetto a questi sentimenti, la paura prende il sopravvento ed è facile che si
manifestino, più o meno consapevolmente, comportamenti di rifiuto.
In primo luogo allora si cercherà di evitare la presa in carico di un adolescente quando si sa
che è reduce da un tentativo di suicidio, si suggerirà l’ospedalizzazione e lo si affiderà a
trattamenti farmacologici immaginando che interventi di questo tipo possano considerarsi
risolutivi.
Un’altra strategia consiste nel cercare di formulare patti e di stabilire accordi chiedendo al
soggetto di garantire che per tutta la durata del trattamento si impegni a non commettere
gesti inconsulti ed a rimanere vivo. Puntando cioè, sulle risorse dell’io. Ma accordi di questo
tipo sembrano piuttosto inefficaci, in primo luogo perché il soggetto in questione è
profondamente scisso e la parte che accetta il contratto non è mai quella che vuol morire: in
secondo luogo rischiamo di pretendere l’impossibile, cioè di chiedere ad un paziente il cui
sintomo è il suo desiderio di morire, di non avere quel sintomo. La realtà è che noi possiamo
proporre un contratto di questo genere alla fine del trattamento e non all’inizio.
Occorre quindi accettare l’idea di lavorare sotto la minaccia del rischio di morte per tutto il
tempo che sarà necessario e non c’è nulla che possa sollevarci da questa responsabilità
Sul piano della pratica clinica questo significa che bisogna parlare della morte: normalmente
quando un paziente viene da noi lasciamo che sia lui a scegliere i contenuti del dialogo, gli
suggeriamo anzi di lasciar fluire il suo discorso liberamente senza imporre alle sue parole una
vigilanza critica. Questa volta invece dobbiamo essere noi ad introdurre l’argomento e
chiedere esplicitamente se si sono presentate recentemente nella sua mente fantasie suicidali
e se, insomma, ha pensato di uccidersi. Perché lo facciamo? Lo facciamo perché siamo
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consapevoli che la lunga catena dei pensieri e dei progetti e dei preparativi per il proprio
suicidio è qualcosa che il soggetto è abituato a non comunicare quasi a nessuno. Esistono
pertanto dei contenuti nella sua mente, che, senza affatto essere rimossi, sono tuttavia
costantemente sottaciuti. Quando un soggetto suicidale si sente rivolgere direttamente una
domanda di questo tipo, riceve una comunicazione estremamente importante ai fini del
successo terapeutico: egli realizza che c’è qualcuno che lo ha compreso e che è disposto ad
attraversare insieme al lui tutte le sue fantasie, senza negare mai il loro valore drammatico,
ma senza esserne impaurito al punto da cambiare discorso.
Il colloquio clinico con soggetti a rischio si caratterizza allora in base a questa specificità: si
centra, almeno inizialmente, in modo del tutto diretto sulla questione della morte. Viene così
meno , in questo contesto, la leggenda secondo cui, quando si parla del suicidio lo si evoca,
mentre, se si tace, la fantasia suicidale passa da sola. Sappiamo bene che le cose non stanno
così: il suicidio viene evocato quando se ne parla male, con toni romantici ed esaltati, quando
invece si affronta la questione del morire, succede che un terribile progetto può finalmente
essere vissuto anche nella mente di un terapeuta e le sue ragioni possono essere ascoltate.
Ma il colloquio con i soggetti a rischio non ci obbliga solamente ad occuparci delle parole ma
anche a farci carico delle nostre azioni. Esiste una situazione ricorrente nella quale la condotta
del clinico è messa duramente alla prova. Accade spesso infatti che chi lavora con soggetti
suicidali si trovi di fronte ad una richiesta impossibile. In particolare gli si richiederà
un’azione: il terapeuta dovrebbe parlare con gli insegnanti a scuola, telefonare alla fidanzata,
rendersi disponibile ad una seduta straordinaria ed urgente, comunicare ai genitori un
segreto terribile, etc. Richieste di questo genere sono frequenti anche nei colloqui con
adolescenti che non presentino un preciso rischio suicidale, quel che qui cambia, ovviamente,
è la posta in palio. Dobbiamo chiederci cosa succede quando rifiutiamo di aderire alla
richieste, così come d’altra parte, non possiamo fare a meno di chiederci cosa succede se
aderiamo. In altri termini il terapeuta è posto in una situazione impossibile: sa che se agisce
aderendo alle richieste del paziente commette un errore ma sa anche che se si rifiuta, allo
stesso modo, rischia di provocare una reazione pericolosa.
Purtroppo non esiste una soluzione univoca per risolvere tutte queste situazioni e siamo
costretti a decidere sulla base degli elementi di cui disponiamo ed a seconda del senso che
attribuiamo alla nostra azione: un punto tuttavia va chiarito con precisione. Non ce la caviamo
se pensiamo che l’alternativa sia tra agire (aderendo alle richieste) o non agire (rifiutando le
richieste). In realtà invece in questo contesto più che in ogni altro, non agire è una forma di
azione. Rispondere no ad una richieste significa attribuire ad essa un significato preciso,
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Rispondere sì significa leggerla in una maniera differente. Ancora una volta, Il nostro compito
consiste (come sempre) nell’interpretare correttamente la domanda. A volte il nostro paziente
ha bisogno di sapere che quella che a lui sembra una strada senza uscita offre invece diverse
alternative possibili ed è necessario dimostrarglielo concretamente, altre volte occorre invece
aiutarlo a maturare l’idea che lui stesso è in grado di gestire una situazione difficile da solo.
Per quanto riguarda noi, l’importante è non credere che esista una soluzione valida sempre ed
accettare di adattare il modello di intervento psicoanalitico che abbiamo in mente alle
drammatiche circostanze che la clinica suicidale ci propone.
In questo senso, occorre nuovamente sottolineare l’importanza del coinvolgimento del
contesto nel trattamento. Ormai sono rimasti in pochi quelli che pensano di effettuare una
terapia sugli adolescenti senza coinvolger ei loro genitori. Ma se questa è una questione
tecnica condivisa, nel caso specifico del rischio suicidale diviene un punto imprescindibile.
Molto spesso abbiamo potuto sperimentare che l’elemento che permette di superare, almeno
nell’immediato, la crisi, consiste proprio nell’intervenire nella relazione fra madri padri e figli
in modo da trasformare lo scontro in una possibilità di incontro. Questo lavoro è difficilissimo
se si incontrano solo i ragazzi, mentre è fondamentale che i padri e le madri si alleino al
progetto terapeutico.
Allo stesso modo, non devono essere trascurati a priori contatti con tutti coloro, educatori,
insegnanti, persone significative, che appartengono al contesto di vita del soggetto. A volte la
questione prioritaria è quella di riuscire a trovare delle vie d’uscita o, perlomeno, di mostrare
come esse siano concretamente pensabili. Qualsiasi cosa può essere di aiuto.
Come appare evidente, il trattamento di soggetti a rischio suicidale richiede competenze
specifiche senza le quali può succedere che uno psicoterapeuta si senta solo davanti ad un
problema insormontabile.
In questo senso proponiamo una giornata di approfondimento che affronti il tema del rischio
suicidale, delle sue dinamiche, delle modalità di trattamento dei soggetti a rischio e della
relazione del terapeuta col contesto.