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Business School
Creatività ed esperienza: Matteo Conti, Head of Trade & Shopper
Marketing Chocolate / Sugar Confectionery - Ferrero
RETAIL - AZIENDE FOOD
Siamo in attesa dell’orario concordato col dottor Conti per l’intervista telefonica centrata sul suo ruolo
di Trade Marketing Manager in Ferrero. Anche se la frenetica attività in azienda non ci ha reso possibile
incontrare di persona il nostro interlocutore, siamo emozionate e incuriosite di ascoltare quello che ci
potrà raccontare sulla sua posizione che ogni giorno ha al centro prodotti così appetitosi.
Quando chiamiamo il dottor Conti è appena uscito dall’ultima riunione della giornata e si avvia verso
l’automobile, permettendoci di accompagnarlo nel tragitto verso casa.
Partiamo dalla sua formazione. Ha scritto
la tesi con Professori del calibro di Andrea
Semprini e Giampaolo Fabris: come applica,
se affettivamente lo applica, il loro contributo
formativo nel suo lavoro?
Sicuramenteapplicol’insegnamentodiGiampaolo
Fabris, che purtroppo è venuto a mancare, sia
per quanto riguarda gli argomenti della mia
tesi (“Interactive Brand marketing: websites and
concept stores (Diesel Industry case study)” n.d.r.),
che i contenuti dei corsi che entrambi tenevano.
Lo utilizzo certamente nella gestione, innanzitutto
come “abitudine” al brand nelle sue dimensioni
di significato e di costruzione di senso. Ho notato
che in molte aziende, compresa la mia nonostante
sia un big spender in comunicazione, ma anche
in tanti Manager e Brand Manager, manca la
cultura della comunicazione. La maggior parte
dei ragazzi esce dall’università con grandissime
impostazioni tecniche ed economiche, ma con
poca attenzione verso ciò che la marca deve
significare per i consumatori. La sensibilità per
la costruzione, il posizionamento e i significati
del brand, evidentemente in un’ottica di
posizionamento competitivo, me li porto dietro
ogni giorno, in tutte le cose che faccio, anche
avendo cambiato funzione all’interno del grande
ambito del marketing, passando dal marketing di
brand al marketing retail.
Continuando a parlare di formazione, che
significato ha avuto per lei la formazione
all’interno dell’azienda e durante tutta la sua
carriera?
La formazione è continua, sembra una banalità
ma è fondamentale. Per quanto sia basilare
che una persona possa essere portata, curiosa,
sensibile e appassionata del proprio lavoro, la
formazione è indispensabile per aumentare la
consapevolezza nei confronti dei cambiamenti nel
comportamento di consumo, nei comportamenti
d’acquisto, nei mutamenti dei media, nelle
evoluzioni del retail. Purtroppo, o per fortuna,
è un mondo turbolento e di conseguenza una
formazione ad alto livello di contenuti, che sia
sensibile e fattibile da parte di un manager, con
il passare del tempo è necessaria per aumentare
la consapevolezza. Vale a dire che la formazione
può essere sia tecnica, ad esempio un master in
Innovation Management o in Retail Management,
ma anche passare per la partecipazione a
convegni internazionali su materie specifiche. Ad
esempio pochi in Italia hanno consapevolezza di
cosa significhi shopper marketing, nonostante sia
un argomento di cui si parla molto.
Per quanto riguarda il suo percorso, poco fa
accennava ai diversi ruoli che ha ricoperto
all’interno dell’azienda: come descriverebbe
la sua carriera anche a livello di impatto con
la struttura organizzativa?
Il mio è stato un percorso abbastanza lineare, nel
senso che è iniziato come Junior Product Manager,
per poi evolvere a Brand Manager. In occasione
del lancio di un nuovo prodotto all’interno di
Kinder Bakery ho avuto l’opportunità, e la fortuna,
di essere io ad assegnargli un nome, che non fosse
dato dal “Signor Michele”. Kinder “Pan e Cioc” è
un brand name che io ho studiato e sviluppato,
prevalentemente con l’agenzia di brand identity.
Dietro alla semplicità sconcertante del nome, così
descrittivo e poco specifico se vogliamo, c’era la
precisa volontà di posizionarsi in un segmento
che aveva nel gusto, ma allo stesso tempo
nella semplicità, un vuoto d’offerta da parte di
Ferrero. Abbiamo, quindi, orientato il brief all’R&D
(Research & Development, n.d.r.) in modo tale che
fossero evidenti le caratteristiche che il prodotto
doveva avere rispetto a dose, calorie e quant’altro
per ottenere un posizionamento unico e distintivo
in termini di semplicità. Da lì poi il concetto di pane
con il cioccolato, trattandosi di pan di spagna
farcito con gocce di cioccolato fondente, e quindi
l’esigenza di tecnologie specifiche. Dopo un anno,
in seguito a questo contatto diretto con l’R&D, ho
avuto l’opportunità di occuparmi di innovazione
di prodotto, trascorrendo un anno ad Alba ad
occuparmi dello sviluppo di nuovi prodotti per
la divisione Kinder, in particolare per Kinder Kids,
quindi uova con sorpresa ed assortimenti da
ricorrenza. In questo ruolo mi sono occupato,
per quanto riguarda il mondo delle sorprese di
Kinder, di strategie globali relative all’assortimento
e di strategie differenziate per diversi cluster di
bisogno o di “mondi”, per cui c’erano mondi
fantastici per i bambini, dai giochi di ruolo a quelli
a tema strettamente natura e così via. Per quanto
riguarda le ricorrenze Kinder, mi occupavo poi
della definizione delle strategie assortimentali
a livello europeo e della determinazione di
assortimenti più idonei ai vari Paesi.
Da lì, dopo un anno da Sorematec, società
di sviluppo tecnico e di prodotto, sono stato
richiamato dalla direzione tecnica italiana
in quanto Nutella, dopo 40 anni di crescita
costante, nel 2005 aveva interrotto il trend
positivo. Interruzione dovuta a diverse questioni
certamente legate al posizionamento strategico,
in un momento in cui la crescente sensibilità
verso tematiche alimentari e nutrizionali aveva
portato Nutella ad essere boicottata e attaccata
anche da alcuni competitor indiretti.
E come si è mossa l’azienda?
Sono stato chiamato con l’incarico di riposizionare
il brand molto rapidamente. In tre-quattro mesi di
analisiabbiamodefinitoilriposizionamentoditutta
la marca, con lo scopo di riqualificarne l’immagine
come alimento e, quindi, come prodotto che
potesse essere consumato regolarmente in un
pasto primario come è la colazione. L’obiettivo
era, da un lato, essere credibili in termini di
proposizionedivenditaalconsumatore,lavorando
sulla reason why, difficilmente contestabile anche
dal punto di vista scientifico; dall’altro lato non
dovevamo perdere tutta la dimensione d’identità
di marca che ha reso Nutella la marca italiana
più importante al mondo. Si è trattato, quindi, di
un lavoro di equilibrio tra aspetti non tangibili
ed emozionali e altri, più tipicamente “shopper”,
legati a vantaggi concreti come ad esempio il
giusto apporto calorico, il giusto rapporto tra i
nutrienti oppure l’economicità di un prodotto
per la colazione quotidiana rispetto ad altri.
Questo lavoro è stato fatto anche con l’obiettivo
di ritornare a crescere aumentando le occasioni
di acquisto e di consumo, riducendo l’intervallo
d’acquisto e riducendo anche l’autostock in casa.
Da qui, il riposizionamento di Nutella Breackfast:
abbiamo ridefinito l’arena competitiva che al mio
arrivo era sulle creme spalmabili al cioccolato e
l’abbiamo estesa a tutto il mondo spalmabile,
addirittura integrando nei nostri obiettivi di
marketing il nuovo mercato della colazione che
vale quasi 6 mld di euro. Da questo punto in
poi, dunque, la ridefinizione di tutte le leve del
marketing mix, delle strategie di comunicazione,
della pubblicità nazionale e quant’altro, fino poi
a cercare di lavorare sugli aspetti più razionali,
quelli nutrizionali, e cercare di incrementare la
penetrazione sui cosiddetti light users. Favorire,
dunque, il loro metodo di acquisto e consumo
tipicamente razionale e legato ad aspetti calorici-
nutrizionali, ma senza abusare delle reason why
razionali onde evitare di allontanare gli heavy
users.
Ho sviluppato la social media strategy di
Nutella, anzitutto individuando due pagine fake,
assolutamente non di proprietà Ferrero ma aperte
spontaneamente dai fan, che poi purtroppo sono
diventate pagine per praticare fishing e attrarre
con l’inganno persone con l’obiettivo di fare
business. A questo punto ci siamo accordati con
la sede centrale di Facebook per diventare noi
amministratori di queste due pagine e siamo
partiti con la gestione diretta, avendo già una
base di 6-700 mila fan. Abbiamo poi iniziato
tutta la parte di gestione del social pubblicando
contenuti quasi quotidianamente, fino a diventare
rapidamente la prima social community.
Vista appunto la sua carriera, come mette in
pratica la sua esperienza nel campo del retail?
Questa è una domanda intelligente, interessante
e di non banale risposta, nel senso che la vendita
nel retail segue una logica di canale e quindi è
“casa d’altri”, come diciamo in Ferrero. Al di là
della forza delle marche che abbiamo la fortuna
di avere e di vendere ad intermediari, quello che
dobbiamo e vogliamo fare è presidiare i canali e
i clienti del retail nel modo più rilevante possibile.
Rilevante intendo in termini di visibilità: quantità
di spazi, i migliori e più corretti posizionamenti
nel punto vendita, la possibilità di comunicare,
evocare e rimandare i messaggi del brand a
chi usa le nostre marche. Per chi come me ha
un’estrazione umanistica e focalizzata sulle
strategie di comunicazione, la difficoltà è riuscire
a spiegare al retailer l’importanza del placement,
del positioning e del materiale di comunicazione
all’interno della superficie di vendita. Inoltre,
si seguono logiche legate ai packaging che
comunicano sia messaggi promozionali, quindi
più tattici, push e di breve periodo, sia messaggi
più pull e strategici atti a consolidare la brand
equity e il brand positioning. Molto spesso, tuttavia,
alcuni packaging vengono ritenuti un intralcio,
finendo nei compattatori dei supermercati.
Ci sono, dunque, delle differenze tra i vostri
obiettivi e quelli dei retailer nel canale di
vendita?
La cosa interessante, rispetto alla domanda che
mi ha fatto, è che il Brand Manager è abituato
a considerare la “sua” marca come se fosse la
sua vita o la sua impresa ma si scontra con la
realtà e, soprattutto nel largo consumo, il margine
del retail è assolutamente fondamentale. In
mercati maturi, come quello italiano, dove non
c’è grande possibilità di crescita dal punto di
vista di penetrazione, perché sono presenti brand
estremamente conosciuti e ben posizionati, la
differenza che le aziende consolidate possono
fare a livello marketing consiste nel presidiare la
distribuzione in modo capillare e con le strategie
migliori, non solo in termini di presenza numerica
al 100%, ma anche e soprattutto in termini di
qualità distributiva e di presenza nel canale di
vendita.
Ha avuto difficoltà ad inserirsi in queste
logiche del retailer?
La mia esperienza pregressa molto spesso mi ha
messo nelle condizioni di avere dei gap rilevanti,
soprattuttoall’inizio,dalpuntodivistacommerciale.
Mi sono dovuto sedere al tavolo sia all’interno
dell’azienda, con il Direttore Commerciale, sia
all’esterno con il Buyer della distribuzione e il
Direttore Commerciale del retail. La loro lingua
è fatta di margini, condizioni, contratti, poste
contrattuali, prestazioni, controprestazioni e così
via, quindi molto spesso tutte le strategie si vanno
a ricondurre a discussioni infinite molto critiche
su uno 0,1 di proposta contrattuale. Da una
parte ho faticato non poco ad inserirmi in questo
ambiente ma dall’altra parte, benché continui ad
essere il settore retail molto più orientato al medio
termine, alla strategia, all’innovazione di prodotto,
di marketing e commerciale, mi sono serviti la
sensibilità ed il background di comunicazione
per migliorare l’esecuzione sul punto vendita e
rendere molto più precise ed efficaci le attivazioni
che facciamo nei canali e nei clienti.
Che logica segue la comunicazione del punto
vendita?
La comunicazione è integrata a 360°: riportiamo
all’interno del punto vendita quello che la marca
comunica e l’advertising, ma dobbiamo riuscire a
convertire lo shopper che tipicamente va di fretta,
è svogliato, certamente non aperto alla relazione,
all’impatto emotivo e dobbiamo fare in modo di
comunicare messaggi che siano il più possibile di
valore, senza trascendere quelli puramente tattici
di convenienza di prezzo. Ciò significa lavorare
molto sui cosiddetti shopper insight, ovvero la call
to purchase, il “perché comprarmi”. Nutella è il
prodotto più buono del mondo ma può accadere
che il consumatore non abbia alcuna intenzione
di acquistarla perché non l’ha pianificato. In realtà
quasi mai si pianifica di comprare i nostri prodotti
perché sono acquisti d’impulso e si ritiene che
non facciano bene né a se stessi né ai propri
figli. Anche rispetto a costoro io devo costruire
un’esperienza di punto vendita attraverso il
posizionamento e l’utilizzo dei materiali di
comunicazione. Un insight può essere: “Lo sapevi
che con un barattolo di Nutella da 750 g puoi
far fare 25 colazioni?”. A quel punto lo shopper
professionista è già capace di capire, da un punto
di vista strettamente razionale, quale può essere la
convenienza di comprare un barattolo di Nutella
e magari del pane fresco o confezionato, rispetto
a biscotti, merendine, cereali e quant’altro. Questo
per fare, naturalmente, un esempio molto grezzo.
Si tratta di marketing a tutti gli effetti solo che,
invece di focalizzare l’analisi e la riflessione
strategica sui cambiamenti dei comportamenti di
consumo, io devo concentrare la mia attenzione
sui comportamenti d’acquisto, trasmettendo
il messaggio che sia proprio giusto comprare
Nutella. Il consumatore mangia, consuma e usa,
lo shopper compra. Noi dobbiamo, quindi, fare in
modo - e sembra molto facile ma proprio facile
non è - che i nostri shopper si tramutino in buyer
perché siamo rilevanti per i driver d’acquisto,
che spesso non sono gli stessi del consumo.
Basti pensare all’esempio più banale del pet
food: evidentemente tutto il marketing di Purina,
piuttosto che un’altra marca, è basato sullo
shopper perché chi acquista non è chi consuma.
La stessa cosa possiamo fare per Nutella e Kinder:
sappiamo perfettamente che molto spesso
chi acquista Kinder non è chi lo consuma, così
come Nutella che viene mangiata a colazione o
merenda perlopiù dai bambini. Di conseguenza i
messaggi di marketing e la responsabilità anche
informativa sono delicati.
Invece, entrando nel quotidiano del suo
lavoro, ritiene che sia possibile pianificare la
propria agenda?
È difficile nel nostro lavoro avere delle giornate
standardizzate, molto difficile, soprattutto in
termini di pianificazione d’ufficio: ho delle riunioni
e dei lavori da portare a termine ma, molto
spesso, alla fine della giornata ho fatto tutt’altro.
E il dubbio che mi viene è se sia o meno capace
di pianificare il mio tempo, può darsi che in parte
sia vero, ma è più probabile che dall’altra parte,
soprattutto negli ultimi periodi, le urgenze rispetto
ai target di vendita facciano sì che l’agenda cambi
repentinamente di ora in ora; questa è una
costante e, di conseguenza, la flessibilità viene
richiesta a tutti in modo estremo. Flessibilità anche
in termini di carico di lavoro e orari ma anche
flessibilità intellettuale nel momento in cui da una
parte bisogna non fare quello che ci si era prefissi,
e dall’altra è necessario switchare, ad esempio, tra
un tema tipicamente qualitativo e uno quantitativo
di estrema urgenza come recuperare il fatturato
perso la settimana precedente. In sostanza, una
giornata tipo è tipicamente difficile da gestire.
Riuscirebbe comunque a descrivere una
giornata tipo?
Provando a definire una giornata tipo sebbene
sia difficile, una volta entrato in ufficio si
dovrebbe guardare l’andamento del fatturato,
poi normalmente ci sono dei messaggi di posta
elettronica che aumentano in modo spropositato;
io sono arrivato a contarne una media di 180 al
giorno tenendo presente che, evidentemente,
se si fanno riunioni o si cerca di lavorare con un
minimo di attenzione, non si può fisicamente
rispondere a 30 messaggi all’ora o poco meno.
Dunque, una parte consiste nella gestione della
comunicazione interna ed esterna rispetto agli
argomenti principali del lavoro. E poi, almeno
nella mia azienda, molte ore si passano in
riunione: meeting interbase, interfunzionali, di
pianificazione del business, di marketing del
brand, questi ultimi fatti con anticipo rispetto ai
piani operativi di almeno sei mesi. Poi riunioni
di medio termine con la parte commerciale e
l’accounting, con anticipi di circa quattro mesi
che stiamo cercando di anticipare sempre di più.
Inoltre, riunioni molto operative con la parte di
field, quindi più di vendite, in cui noi con circa
due/tre mesi di anticipo, non di più, andiamo a
raccontare la storia di vendita, cosa succederà
nel mese di settembre sui canali, sui clienti, che
tipo di attività di marketing farà la categoria x, la
marca x, la categoria y, la marca y, in quali periodi
e con quali obiettivi, ecc…
Quindi molto del mio lavoro quotidiano è
controllo e gestione del business, comunicazioni
e interazione interfunzionale, poi riunioni fisiche
o video conferenze. In più, a queste si sommano
molte altre funzioni che possono essere di
coordinamento internazionale oppure riunioni
con legali rispetto ad altre tematiche. L’interazione
interfunzionale è molto forte in un contesto
aziendale dove però c’è ancora una cultura
molto funzionale, a silos, quindi con dei difetti di
comunicazione anche importanti che rendono
meno fluide le decisioni e meno fluido l’operativo.
Di conseguenza anche il lavoro di coordinamento
e di gestione delle riunioni è più lungo proprio
perché tipicamente nelle aziende italiane c’è
un’identificazione totale nella funzione che si
rappresenta e non una vera cultura di project
management, la quale farebbe sì che tutti siano al
servizio dello stesso obiettivo e tutti abbiano ruoli
chiari e decisioni specifiche da prendere.
In parte è già emerso parlando di flessibilità
e capacità di relazionarsi, ma quali
caratteristiche personali ritiene che si debba
possedere per fare il suo lavoro e ricoprire il
suo ruolo attuale?
Sicuramente il mio ruolo non è di un neo-
laureato. Bisogna avere delle solide competenze
di marketing, di brand management, di marketing
strategy, quindi banalmente è necessario sapere
identificare, definire, interpretare e correggere
strategie di mercato basate su obiettivi di
allargamento di parco clienti, di incremento di
frequenza, di incremento dell’acquisto medio,
di sourcing competitivo da segmenti di mercati
obiettivo, delle leve più idonee a ottenere
quegli obiettivi. Si deve avere certamente
competenza, almeno minima, di quello che è
il media planning, il media strategy e il media
budgeting, sebbene nel trade marketing non
si gestiscano budget media intesi come media
classici in senso proprio. Occorre conoscere le
dinamiche economiche, quindi saper leggere e
interpretare un PNL di azienda, di categoria, di
marca e, quindi, anche concentrarsi su quelle che
sono le performance economiche di categoria, di
marca ma anche le performance economiche di
canali e clienti. Riuscire, dunque, a lavorare nella
definizione degli obiettivi e nello stanziamento
del budget avendo sempre ben presenti gli
obiettivi di profittabilità dell’azienda, di categoria
e di marca e, di conseguenza, gestire le variabili
che compongono tutto questo. Significa saper
definire i livelli più appropriati dei
prezzi, sia di listino che quelli scaricabili in termini
di consumer price. Bisogna conoscere il mix di
marginalità, quindi gli assortimenti della categoria
che si vende in termini di differenziale e di gross
margin tra una confezione e un’altra, ad esempio,
per riuscire a canalizzarla nel modo corretto. È
necessario anche conoscere la profittabilità dei
diversi canali e dei diversi clienti in modo tale da
poter investire, sovra-investire o sotto-investire
rispetto a quelli che sono gli obiettivi di vendita.
Per esempio l’insegna X ha una profittabilità o un
conto economico ben diverso rispetto a quello
che può avere l’insegna Y e, di conseguenza,
la redditività degli investimenti sull’azienda
X è diversa rispetto a quella che può esserci
nell’azienda Y. Lo stesso discorso vale per un
discount rispetto a un distributore della GDO
proprio perché ha dei profili di conto economico
diversi, dati da un modello di business diverso fatto
di assortimenti differenti, politiche promozionali
differenti e anche politiche legate sì ai prezzi ma
soprattutto a modelli logistici diversi. Noi abbiamo
un modello di business che è ancora molto
focalizzato sul presidio e, quindi, sulla gestione
diretta del punto vendita e sulle vendite dirette
fatte dai nostri agenti, dai nostri uomini. Altre
aziende o altri clienti che abbiamo in portafoglio
lavorano invece con modelli logistici centralizzati,
quindi noi non consegnamo più direttamente al
negozio ma alle sedi, con conseguente difficoltà
a eseguire le nostre operative commerciali sui
loro punti vendita, avendo impatti di costi logistici
diversi. È chiaro, per esempio, che è molto più
oneroso andare a servire un punto vendita in
modo diretto che consegnare a un centro di
distribuzione. Dall’altra parte la consegna diretta
mi consente di poter lavorare sugli obiettivi
di fatturato a livello di singolo punto vendita e
presidiare anche la qualità dell’esecuzione in
termini espositivi o di posizionamento.
Eperquantoriguardaglistrumentieconomici?
Per quanto concerne il tema economico di
corretta lettura dei fenomeni di conto economico,
di categoria, di marca, del canale cliente, ci sono
poi le logiche che compongono la parte alta del
conto economico, ovvero quella che porta dal
fatturato al fatturato netto, vuol dire al netto degli
sconti, delle condizioni commerciali, delle politiche
promozionali legate a un’offerta di prezzo. Quindi
più tattiche legate alle politiche contrattuali e
alle condizioni commerciali che si leggono in un
PNL che contiene i cosiddetti contratti e le poste
che l’azienda negozia con i distributori affinché,
almeno nel caso di Ferrero, vengano eseguite le
attività espositive, commerciali, assortimentali, di
volantino, di quantità e qualità espositive. Sono
regolate da poste contrattuali anche le modalità
logistiche. Il contratto Ferrero certamente è
forse tra i più articolati nel panorama del largo
consumo perché è quello che condiziona di più
le prestazioni dei distributori, che ci amano per
la forza che abbiamo, però, allo stesso tempo,
le condizioni che noi chiediamo per avere e
distribuire le nostre marche sono importanti: il
distributore deve effettivamente fare quello che
noi chiediamo.
Invece, per tornare proprio a lei, c’è stato un
momento della sua carriera che definirebbe
un punto di svolta o una persona in particolare
che ha influito in maniera significativa e che
sente di dover ringraziare?
È difficile dirlo perché non ho una persona nello
specifico. Sicuramente un momento è stato
quando senza pensarlo, senza averlo pianificato
e senza neanche sperarlo mi sono trovato in
modo repentino a essere responsabile di Nutella,
averne di colpo la responsabilità di budget e
di PNL quindi anche la gestione delle persone.
Quello è stato un momento esaltante ma,
soprattutto all’inizio, di grande stress dovuto a una
sensazione di inadeguatezza. Ho vissuto male per
un po’ e ho dovuto gradualmente trovare la forza
per riorganizzare la mente e riprendere in mano
la mia vita privata e professionale. Sono riuscito
a vivere un po’ più facilmente le pressioni e lo
stress derivanti dall’avere, così giovane, la grande
responsabilità di persone dirette e indirette.
Pensiamo, inoltre, al business che pesa il 15%
abbondante del fatturato di Ferrero Italia; ho
dovuto capire che potevo fare il mio lavoro senza
impazzire. Questo è stato un episodio molto
personale che però credo capiti molto spesso a
tante persone più o meno esperte. Certamente
più uno è giovane, sensibile e appassionato di
quello che fa e non ha unicamente la carriera
come obiettivo, maggiore è il coinvolgimento
e, di conseguenza, il rischio di andare in corto
circuito. Questo mi ha rafforzato molto perché mi
ha reso molto più consapevole, molto più attento
a gestire, a dosare le mie forze e a farmi aiutare
dalle persone nei momenti di difficoltà, anticipare
i problemi e non dover agire d’implulso ma
pianificare un po’ di più.
Le facciamo l’ultima domanda, poi la lasciamo
libero. In seguito alla recente scomparsa del
Dottor Ferrero, ci sono stati dei cambiamenti
che lei ha avvertito, sia nell’azienda in
generale che nella sua carriera in particolare?
Concretamente, cambiamenti significativi che
hanno modificato il nostro modo di lavorare non
si sono ancora verificati, ma non so quello che
succederà in futuro. Sicuramente, da un punto di
vista mio e di tutte le persone che lavorano in
Ferrero, la sensazione è di essere rimasti orfani
perché noi ci identificavamo, da un lato, nel mito
di un genio assoluto; dall’altro di un padre, di
un nonno buono ma anche temuto. Quindi, con
uno sguardo al futuro, sicuramente ci sentiamo
un po’ più preoccupati perché la generatività del
“Sig. Michele” è irreplicabile. Sicuramente il lutto
ha intristito tutti, perché è stato come perdere
per alcuni un padre, per altri un nonno. Dall’altra
parte, quello che si è visto nell’aziendagià da
diversi anni è certamente un rafforzamento della
componente manageriale con conseguenze sia
nello sviluppo delle persone che nell’acquisizione
di professionalità anche dall’esterno. Il figlio del
“Sig. Michele”, che consideriamo nostro zio, ha
assunto una persona che lo aiuti nelle decisioni
strategiche e nello sviluppo del business a livello
mondiale. Queste però non sono cose di cui si
sente l’impatto nella quotidianità. Probabilmente
per alcuni colleghi che vivevano Alba o i luoghi
dove il “Sig. Michele” era più presente, il senso di
smarrimento sarà ancora più forte.
Abbiamo tenuto impegnato il dottor Conti molto
più dei 20 minuti che speravamo di riuscire a
rubargli, ma è stato un viaggio molto piacevole
nelle concrete dinamiche di un’azienda della
portata di Ferrero. Riconoscenti per il tempo speso
a renderci partecipi del suo lavoro lo lasciamo
libero di godersi il weekend.
Siamo molto sorprese di scoprire quanto uno
stesso ruolo come quello del Trade Marketing
Manager possa presentare sfumature diverse a
seconda del tipo di azienda o su come la carriera
delle persone possa variare in base al tipo di
formazione avuta o delle influenze che si ricevono
lungo il cammino.
Retail Your Talent. Programma di formazione post laurea - 2015
II Project Work
Intervista a cura di Flavia Nicolosi, Elisa Cellizza e Laura Liguori
-> www.istud.it
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Intervista a Matteo Conti di Ferrero

  • 1. Business School Creatività ed esperienza: Matteo Conti, Head of Trade & Shopper Marketing Chocolate / Sugar Confectionery - Ferrero RETAIL - AZIENDE FOOD Siamo in attesa dell’orario concordato col dottor Conti per l’intervista telefonica centrata sul suo ruolo di Trade Marketing Manager in Ferrero. Anche se la frenetica attività in azienda non ci ha reso possibile incontrare di persona il nostro interlocutore, siamo emozionate e incuriosite di ascoltare quello che ci potrà raccontare sulla sua posizione che ogni giorno ha al centro prodotti così appetitosi. Quando chiamiamo il dottor Conti è appena uscito dall’ultima riunione della giornata e si avvia verso l’automobile, permettendoci di accompagnarlo nel tragitto verso casa. Partiamo dalla sua formazione. Ha scritto la tesi con Professori del calibro di Andrea Semprini e Giampaolo Fabris: come applica, se affettivamente lo applica, il loro contributo formativo nel suo lavoro? Sicuramenteapplicol’insegnamentodiGiampaolo Fabris, che purtroppo è venuto a mancare, sia per quanto riguarda gli argomenti della mia tesi (“Interactive Brand marketing: websites and concept stores (Diesel Industry case study)” n.d.r.), che i contenuti dei corsi che entrambi tenevano. Lo utilizzo certamente nella gestione, innanzitutto come “abitudine” al brand nelle sue dimensioni di significato e di costruzione di senso. Ho notato che in molte aziende, compresa la mia nonostante sia un big spender in comunicazione, ma anche in tanti Manager e Brand Manager, manca la cultura della comunicazione. La maggior parte dei ragazzi esce dall’università con grandissime impostazioni tecniche ed economiche, ma con poca attenzione verso ciò che la marca deve significare per i consumatori. La sensibilità per la costruzione, il posizionamento e i significati del brand, evidentemente in un’ottica di posizionamento competitivo, me li porto dietro ogni giorno, in tutte le cose che faccio, anche avendo cambiato funzione all’interno del grande ambito del marketing, passando dal marketing di brand al marketing retail. Continuando a parlare di formazione, che significato ha avuto per lei la formazione all’interno dell’azienda e durante tutta la sua carriera? La formazione è continua, sembra una banalità ma è fondamentale. Per quanto sia basilare che una persona possa essere portata, curiosa, sensibile e appassionata del proprio lavoro, la formazione è indispensabile per aumentare la consapevolezza nei confronti dei cambiamenti nel
  • 2. comportamento di consumo, nei comportamenti d’acquisto, nei mutamenti dei media, nelle evoluzioni del retail. Purtroppo, o per fortuna, è un mondo turbolento e di conseguenza una formazione ad alto livello di contenuti, che sia sensibile e fattibile da parte di un manager, con il passare del tempo è necessaria per aumentare la consapevolezza. Vale a dire che la formazione può essere sia tecnica, ad esempio un master in Innovation Management o in Retail Management, ma anche passare per la partecipazione a convegni internazionali su materie specifiche. Ad esempio pochi in Italia hanno consapevolezza di cosa significhi shopper marketing, nonostante sia un argomento di cui si parla molto. Per quanto riguarda il suo percorso, poco fa accennava ai diversi ruoli che ha ricoperto all’interno dell’azienda: come descriverebbe la sua carriera anche a livello di impatto con la struttura organizzativa? Il mio è stato un percorso abbastanza lineare, nel senso che è iniziato come Junior Product Manager, per poi evolvere a Brand Manager. In occasione del lancio di un nuovo prodotto all’interno di Kinder Bakery ho avuto l’opportunità, e la fortuna, di essere io ad assegnargli un nome, che non fosse dato dal “Signor Michele”. Kinder “Pan e Cioc” è un brand name che io ho studiato e sviluppato, prevalentemente con l’agenzia di brand identity. Dietro alla semplicità sconcertante del nome, così descrittivo e poco specifico se vogliamo, c’era la precisa volontà di posizionarsi in un segmento che aveva nel gusto, ma allo stesso tempo nella semplicità, un vuoto d’offerta da parte di Ferrero. Abbiamo, quindi, orientato il brief all’R&D (Research & Development, n.d.r.) in modo tale che fossero evidenti le caratteristiche che il prodotto doveva avere rispetto a dose, calorie e quant’altro per ottenere un posizionamento unico e distintivo in termini di semplicità. Da lì poi il concetto di pane con il cioccolato, trattandosi di pan di spagna farcito con gocce di cioccolato fondente, e quindi l’esigenza di tecnologie specifiche. Dopo un anno, in seguito a questo contatto diretto con l’R&D, ho avuto l’opportunità di occuparmi di innovazione di prodotto, trascorrendo un anno ad Alba ad occuparmi dello sviluppo di nuovi prodotti per la divisione Kinder, in particolare per Kinder Kids, quindi uova con sorpresa ed assortimenti da ricorrenza. In questo ruolo mi sono occupato, per quanto riguarda il mondo delle sorprese di Kinder, di strategie globali relative all’assortimento e di strategie differenziate per diversi cluster di bisogno o di “mondi”, per cui c’erano mondi fantastici per i bambini, dai giochi di ruolo a quelli a tema strettamente natura e così via. Per quanto riguarda le ricorrenze Kinder, mi occupavo poi della definizione delle strategie assortimentali a livello europeo e della determinazione di assortimenti più idonei ai vari Paesi. Da lì, dopo un anno da Sorematec, società di sviluppo tecnico e di prodotto, sono stato richiamato dalla direzione tecnica italiana in quanto Nutella, dopo 40 anni di crescita costante, nel 2005 aveva interrotto il trend positivo. Interruzione dovuta a diverse questioni certamente legate al posizionamento strategico, in un momento in cui la crescente sensibilità verso tematiche alimentari e nutrizionali aveva portato Nutella ad essere boicottata e attaccata anche da alcuni competitor indiretti. E come si è mossa l’azienda? Sono stato chiamato con l’incarico di riposizionare il brand molto rapidamente. In tre-quattro mesi di analisiabbiamodefinitoilriposizionamentoditutta la marca, con lo scopo di riqualificarne l’immagine come alimento e, quindi, come prodotto che potesse essere consumato regolarmente in un pasto primario come è la colazione. L’obiettivo era, da un lato, essere credibili in termini di proposizionedivenditaalconsumatore,lavorando sulla reason why, difficilmente contestabile anche dal punto di vista scientifico; dall’altro lato non dovevamo perdere tutta la dimensione d’identità di marca che ha reso Nutella la marca italiana più importante al mondo. Si è trattato, quindi, di un lavoro di equilibrio tra aspetti non tangibili ed emozionali e altri, più tipicamente “shopper”, legati a vantaggi concreti come ad esempio il giusto apporto calorico, il giusto rapporto tra i nutrienti oppure l’economicità di un prodotto per la colazione quotidiana rispetto ad altri. Questo lavoro è stato fatto anche con l’obiettivo di ritornare a crescere aumentando le occasioni di acquisto e di consumo, riducendo l’intervallo d’acquisto e riducendo anche l’autostock in casa. Da qui, il riposizionamento di Nutella Breackfast: abbiamo ridefinito l’arena competitiva che al mio arrivo era sulle creme spalmabili al cioccolato e l’abbiamo estesa a tutto il mondo spalmabile, addirittura integrando nei nostri obiettivi di marketing il nuovo mercato della colazione che vale quasi 6 mld di euro. Da questo punto in poi, dunque, la ridefinizione di tutte le leve del
  • 3. marketing mix, delle strategie di comunicazione, della pubblicità nazionale e quant’altro, fino poi a cercare di lavorare sugli aspetti più razionali, quelli nutrizionali, e cercare di incrementare la penetrazione sui cosiddetti light users. Favorire, dunque, il loro metodo di acquisto e consumo tipicamente razionale e legato ad aspetti calorici- nutrizionali, ma senza abusare delle reason why razionali onde evitare di allontanare gli heavy users. Ho sviluppato la social media strategy di Nutella, anzitutto individuando due pagine fake, assolutamente non di proprietà Ferrero ma aperte spontaneamente dai fan, che poi purtroppo sono diventate pagine per praticare fishing e attrarre con l’inganno persone con l’obiettivo di fare business. A questo punto ci siamo accordati con la sede centrale di Facebook per diventare noi amministratori di queste due pagine e siamo partiti con la gestione diretta, avendo già una base di 6-700 mila fan. Abbiamo poi iniziato tutta la parte di gestione del social pubblicando contenuti quasi quotidianamente, fino a diventare rapidamente la prima social community. Vista appunto la sua carriera, come mette in pratica la sua esperienza nel campo del retail? Questa è una domanda intelligente, interessante e di non banale risposta, nel senso che la vendita nel retail segue una logica di canale e quindi è “casa d’altri”, come diciamo in Ferrero. Al di là della forza delle marche che abbiamo la fortuna di avere e di vendere ad intermediari, quello che dobbiamo e vogliamo fare è presidiare i canali e i clienti del retail nel modo più rilevante possibile. Rilevante intendo in termini di visibilità: quantità di spazi, i migliori e più corretti posizionamenti nel punto vendita, la possibilità di comunicare, evocare e rimandare i messaggi del brand a chi usa le nostre marche. Per chi come me ha un’estrazione umanistica e focalizzata sulle strategie di comunicazione, la difficoltà è riuscire a spiegare al retailer l’importanza del placement, del positioning e del materiale di comunicazione all’interno della superficie di vendita. Inoltre, si seguono logiche legate ai packaging che comunicano sia messaggi promozionali, quindi più tattici, push e di breve periodo, sia messaggi più pull e strategici atti a consolidare la brand equity e il brand positioning. Molto spesso, tuttavia, alcuni packaging vengono ritenuti un intralcio, finendo nei compattatori dei supermercati. Ci sono, dunque, delle differenze tra i vostri obiettivi e quelli dei retailer nel canale di vendita? La cosa interessante, rispetto alla domanda che mi ha fatto, è che il Brand Manager è abituato a considerare la “sua” marca come se fosse la sua vita o la sua impresa ma si scontra con la realtà e, soprattutto nel largo consumo, il margine del retail è assolutamente fondamentale. In mercati maturi, come quello italiano, dove non c’è grande possibilità di crescita dal punto di vista di penetrazione, perché sono presenti brand estremamente conosciuti e ben posizionati, la differenza che le aziende consolidate possono fare a livello marketing consiste nel presidiare la distribuzione in modo capillare e con le strategie migliori, non solo in termini di presenza numerica al 100%, ma anche e soprattutto in termini di qualità distributiva e di presenza nel canale di vendita. Ha avuto difficoltà ad inserirsi in queste logiche del retailer? La mia esperienza pregressa molto spesso mi ha messo nelle condizioni di avere dei gap rilevanti, soprattuttoall’inizio,dalpuntodivistacommerciale. Mi sono dovuto sedere al tavolo sia all’interno dell’azienda, con il Direttore Commerciale, sia all’esterno con il Buyer della distribuzione e il Direttore Commerciale del retail. La loro lingua è fatta di margini, condizioni, contratti, poste contrattuali, prestazioni, controprestazioni e così via, quindi molto spesso tutte le strategie si vanno a ricondurre a discussioni infinite molto critiche su uno 0,1 di proposta contrattuale. Da una parte ho faticato non poco ad inserirmi in questo ambiente ma dall’altra parte, benché continui ad essere il settore retail molto più orientato al medio termine, alla strategia, all’innovazione di prodotto, di marketing e commerciale, mi sono serviti la sensibilità ed il background di comunicazione per migliorare l’esecuzione sul punto vendita e rendere molto più precise ed efficaci le attivazioni che facciamo nei canali e nei clienti. Che logica segue la comunicazione del punto vendita? La comunicazione è integrata a 360°: riportiamo all’interno del punto vendita quello che la marca comunica e l’advertising, ma dobbiamo riuscire a convertire lo shopper che tipicamente va di fretta, è svogliato, certamente non aperto alla relazione, all’impatto emotivo e dobbiamo fare in modo di
  • 4. comunicare messaggi che siano il più possibile di valore, senza trascendere quelli puramente tattici di convenienza di prezzo. Ciò significa lavorare molto sui cosiddetti shopper insight, ovvero la call to purchase, il “perché comprarmi”. Nutella è il prodotto più buono del mondo ma può accadere che il consumatore non abbia alcuna intenzione di acquistarla perché non l’ha pianificato. In realtà quasi mai si pianifica di comprare i nostri prodotti perché sono acquisti d’impulso e si ritiene che non facciano bene né a se stessi né ai propri figli. Anche rispetto a costoro io devo costruire un’esperienza di punto vendita attraverso il posizionamento e l’utilizzo dei materiali di comunicazione. Un insight può essere: “Lo sapevi che con un barattolo di Nutella da 750 g puoi far fare 25 colazioni?”. A quel punto lo shopper professionista è già capace di capire, da un punto di vista strettamente razionale, quale può essere la convenienza di comprare un barattolo di Nutella e magari del pane fresco o confezionato, rispetto a biscotti, merendine, cereali e quant’altro. Questo per fare, naturalmente, un esempio molto grezzo. Si tratta di marketing a tutti gli effetti solo che, invece di focalizzare l’analisi e la riflessione strategica sui cambiamenti dei comportamenti di consumo, io devo concentrare la mia attenzione sui comportamenti d’acquisto, trasmettendo il messaggio che sia proprio giusto comprare Nutella. Il consumatore mangia, consuma e usa, lo shopper compra. Noi dobbiamo, quindi, fare in modo - e sembra molto facile ma proprio facile non è - che i nostri shopper si tramutino in buyer perché siamo rilevanti per i driver d’acquisto, che spesso non sono gli stessi del consumo. Basti pensare all’esempio più banale del pet food: evidentemente tutto il marketing di Purina, piuttosto che un’altra marca, è basato sullo shopper perché chi acquista non è chi consuma. La stessa cosa possiamo fare per Nutella e Kinder: sappiamo perfettamente che molto spesso chi acquista Kinder non è chi lo consuma, così come Nutella che viene mangiata a colazione o merenda perlopiù dai bambini. Di conseguenza i messaggi di marketing e la responsabilità anche informativa sono delicati. Invece, entrando nel quotidiano del suo lavoro, ritiene che sia possibile pianificare la propria agenda? È difficile nel nostro lavoro avere delle giornate standardizzate, molto difficile, soprattutto in termini di pianificazione d’ufficio: ho delle riunioni e dei lavori da portare a termine ma, molto spesso, alla fine della giornata ho fatto tutt’altro. E il dubbio che mi viene è se sia o meno capace di pianificare il mio tempo, può darsi che in parte sia vero, ma è più probabile che dall’altra parte, soprattutto negli ultimi periodi, le urgenze rispetto ai target di vendita facciano sì che l’agenda cambi repentinamente di ora in ora; questa è una costante e, di conseguenza, la flessibilità viene richiesta a tutti in modo estremo. Flessibilità anche in termini di carico di lavoro e orari ma anche flessibilità intellettuale nel momento in cui da una parte bisogna non fare quello che ci si era prefissi, e dall’altra è necessario switchare, ad esempio, tra un tema tipicamente qualitativo e uno quantitativo di estrema urgenza come recuperare il fatturato perso la settimana precedente. In sostanza, una giornata tipo è tipicamente difficile da gestire. Riuscirebbe comunque a descrivere una giornata tipo? Provando a definire una giornata tipo sebbene sia difficile, una volta entrato in ufficio si dovrebbe guardare l’andamento del fatturato, poi normalmente ci sono dei messaggi di posta elettronica che aumentano in modo spropositato; io sono arrivato a contarne una media di 180 al giorno tenendo presente che, evidentemente, se si fanno riunioni o si cerca di lavorare con un minimo di attenzione, non si può fisicamente rispondere a 30 messaggi all’ora o poco meno. Dunque, una parte consiste nella gestione della comunicazione interna ed esterna rispetto agli argomenti principali del lavoro. E poi, almeno nella mia azienda, molte ore si passano in riunione: meeting interbase, interfunzionali, di pianificazione del business, di marketing del brand, questi ultimi fatti con anticipo rispetto ai piani operativi di almeno sei mesi. Poi riunioni di medio termine con la parte commerciale e l’accounting, con anticipi di circa quattro mesi che stiamo cercando di anticipare sempre di più. Inoltre, riunioni molto operative con la parte di field, quindi più di vendite, in cui noi con circa due/tre mesi di anticipo, non di più, andiamo a raccontare la storia di vendita, cosa succederà nel mese di settembre sui canali, sui clienti, che tipo di attività di marketing farà la categoria x, la marca x, la categoria y, la marca y, in quali periodi e con quali obiettivi, ecc… Quindi molto del mio lavoro quotidiano è controllo e gestione del business, comunicazioni e interazione interfunzionale, poi riunioni fisiche
  • 5. o video conferenze. In più, a queste si sommano molte altre funzioni che possono essere di coordinamento internazionale oppure riunioni con legali rispetto ad altre tematiche. L’interazione interfunzionale è molto forte in un contesto aziendale dove però c’è ancora una cultura molto funzionale, a silos, quindi con dei difetti di comunicazione anche importanti che rendono meno fluide le decisioni e meno fluido l’operativo. Di conseguenza anche il lavoro di coordinamento e di gestione delle riunioni è più lungo proprio perché tipicamente nelle aziende italiane c’è un’identificazione totale nella funzione che si rappresenta e non una vera cultura di project management, la quale farebbe sì che tutti siano al servizio dello stesso obiettivo e tutti abbiano ruoli chiari e decisioni specifiche da prendere. In parte è già emerso parlando di flessibilità e capacità di relazionarsi, ma quali caratteristiche personali ritiene che si debba possedere per fare il suo lavoro e ricoprire il suo ruolo attuale? Sicuramente il mio ruolo non è di un neo- laureato. Bisogna avere delle solide competenze di marketing, di brand management, di marketing strategy, quindi banalmente è necessario sapere identificare, definire, interpretare e correggere strategie di mercato basate su obiettivi di allargamento di parco clienti, di incremento di frequenza, di incremento dell’acquisto medio, di sourcing competitivo da segmenti di mercati obiettivo, delle leve più idonee a ottenere quegli obiettivi. Si deve avere certamente competenza, almeno minima, di quello che è il media planning, il media strategy e il media budgeting, sebbene nel trade marketing non si gestiscano budget media intesi come media classici in senso proprio. Occorre conoscere le dinamiche economiche, quindi saper leggere e interpretare un PNL di azienda, di categoria, di marca e, quindi, anche concentrarsi su quelle che sono le performance economiche di categoria, di marca ma anche le performance economiche di canali e clienti. Riuscire, dunque, a lavorare nella definizione degli obiettivi e nello stanziamento del budget avendo sempre ben presenti gli obiettivi di profittabilità dell’azienda, di categoria e di marca e, di conseguenza, gestire le variabili che compongono tutto questo. Significa saper definire i livelli più appropriati dei prezzi, sia di listino che quelli scaricabili in termini di consumer price. Bisogna conoscere il mix di marginalità, quindi gli assortimenti della categoria che si vende in termini di differenziale e di gross margin tra una confezione e un’altra, ad esempio, per riuscire a canalizzarla nel modo corretto. È necessario anche conoscere la profittabilità dei diversi canali e dei diversi clienti in modo tale da poter investire, sovra-investire o sotto-investire rispetto a quelli che sono gli obiettivi di vendita. Per esempio l’insegna X ha una profittabilità o un conto economico ben diverso rispetto a quello che può avere l’insegna Y e, di conseguenza, la redditività degli investimenti sull’azienda X è diversa rispetto a quella che può esserci nell’azienda Y. Lo stesso discorso vale per un discount rispetto a un distributore della GDO proprio perché ha dei profili di conto economico diversi, dati da un modello di business diverso fatto di assortimenti differenti, politiche promozionali differenti e anche politiche legate sì ai prezzi ma soprattutto a modelli logistici diversi. Noi abbiamo un modello di business che è ancora molto focalizzato sul presidio e, quindi, sulla gestione diretta del punto vendita e sulle vendite dirette fatte dai nostri agenti, dai nostri uomini. Altre aziende o altri clienti che abbiamo in portafoglio lavorano invece con modelli logistici centralizzati, quindi noi non consegnamo più direttamente al negozio ma alle sedi, con conseguente difficoltà a eseguire le nostre operative commerciali sui loro punti vendita, avendo impatti di costi logistici diversi. È chiaro, per esempio, che è molto più oneroso andare a servire un punto vendita in modo diretto che consegnare a un centro di distribuzione. Dall’altra parte la consegna diretta mi consente di poter lavorare sugli obiettivi di fatturato a livello di singolo punto vendita e presidiare anche la qualità dell’esecuzione in termini espositivi o di posizionamento. Eperquantoriguardaglistrumentieconomici? Per quanto concerne il tema economico di corretta lettura dei fenomeni di conto economico, di categoria, di marca, del canale cliente, ci sono poi le logiche che compongono la parte alta del conto economico, ovvero quella che porta dal fatturato al fatturato netto, vuol dire al netto degli sconti, delle condizioni commerciali, delle politiche promozionali legate a un’offerta di prezzo. Quindi più tattiche legate alle politiche contrattuali e alle condizioni commerciali che si leggono in un PNL che contiene i cosiddetti contratti e le poste che l’azienda negozia con i distributori affinché, almeno nel caso di Ferrero, vengano eseguite le
  • 6. attività espositive, commerciali, assortimentali, di volantino, di quantità e qualità espositive. Sono regolate da poste contrattuali anche le modalità logistiche. Il contratto Ferrero certamente è forse tra i più articolati nel panorama del largo consumo perché è quello che condiziona di più le prestazioni dei distributori, che ci amano per la forza che abbiamo, però, allo stesso tempo, le condizioni che noi chiediamo per avere e distribuire le nostre marche sono importanti: il distributore deve effettivamente fare quello che noi chiediamo. Invece, per tornare proprio a lei, c’è stato un momento della sua carriera che definirebbe un punto di svolta o una persona in particolare che ha influito in maniera significativa e che sente di dover ringraziare? È difficile dirlo perché non ho una persona nello specifico. Sicuramente un momento è stato quando senza pensarlo, senza averlo pianificato e senza neanche sperarlo mi sono trovato in modo repentino a essere responsabile di Nutella, averne di colpo la responsabilità di budget e di PNL quindi anche la gestione delle persone. Quello è stato un momento esaltante ma, soprattutto all’inizio, di grande stress dovuto a una sensazione di inadeguatezza. Ho vissuto male per un po’ e ho dovuto gradualmente trovare la forza per riorganizzare la mente e riprendere in mano la mia vita privata e professionale. Sono riuscito a vivere un po’ più facilmente le pressioni e lo stress derivanti dall’avere, così giovane, la grande responsabilità di persone dirette e indirette. Pensiamo, inoltre, al business che pesa il 15% abbondante del fatturato di Ferrero Italia; ho dovuto capire che potevo fare il mio lavoro senza impazzire. Questo è stato un episodio molto personale che però credo capiti molto spesso a tante persone più o meno esperte. Certamente più uno è giovane, sensibile e appassionato di quello che fa e non ha unicamente la carriera come obiettivo, maggiore è il coinvolgimento e, di conseguenza, il rischio di andare in corto circuito. Questo mi ha rafforzato molto perché mi ha reso molto più consapevole, molto più attento a gestire, a dosare le mie forze e a farmi aiutare dalle persone nei momenti di difficoltà, anticipare i problemi e non dover agire d’implulso ma pianificare un po’ di più. Le facciamo l’ultima domanda, poi la lasciamo libero. In seguito alla recente scomparsa del Dottor Ferrero, ci sono stati dei cambiamenti che lei ha avvertito, sia nell’azienda in generale che nella sua carriera in particolare? Concretamente, cambiamenti significativi che hanno modificato il nostro modo di lavorare non si sono ancora verificati, ma non so quello che succederà in futuro. Sicuramente, da un punto di vista mio e di tutte le persone che lavorano in Ferrero, la sensazione è di essere rimasti orfani perché noi ci identificavamo, da un lato, nel mito di un genio assoluto; dall’altro di un padre, di un nonno buono ma anche temuto. Quindi, con uno sguardo al futuro, sicuramente ci sentiamo un po’ più preoccupati perché la generatività del “Sig. Michele” è irreplicabile. Sicuramente il lutto ha intristito tutti, perché è stato come perdere per alcuni un padre, per altri un nonno. Dall’altra parte, quello che si è visto nell’aziendagià da diversi anni è certamente un rafforzamento della componente manageriale con conseguenze sia nello sviluppo delle persone che nell’acquisizione di professionalità anche dall’esterno. Il figlio del “Sig. Michele”, che consideriamo nostro zio, ha assunto una persona che lo aiuti nelle decisioni strategiche e nello sviluppo del business a livello mondiale. Queste però non sono cose di cui si sente l’impatto nella quotidianità. Probabilmente per alcuni colleghi che vivevano Alba o i luoghi dove il “Sig. Michele” era più presente, il senso di smarrimento sarà ancora più forte. Abbiamo tenuto impegnato il dottor Conti molto più dei 20 minuti che speravamo di riuscire a rubargli, ma è stato un viaggio molto piacevole nelle concrete dinamiche di un’azienda della portata di Ferrero. Riconoscenti per il tempo speso a renderci partecipi del suo lavoro lo lasciamo libero di godersi il weekend. Siamo molto sorprese di scoprire quanto uno stesso ruolo come quello del Trade Marketing Manager possa presentare sfumature diverse a seconda del tipo di azienda o su come la carriera delle persone possa variare in base al tipo di formazione avuta o delle influenze che si ricevono lungo il cammino.
  • 7. Retail Your Talent. Programma di formazione post laurea - 2015 II Project Work Intervista a cura di Flavia Nicolosi, Elisa Cellizza e Laura Liguori -> www.istud.it Business School