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HAYEZ
Milano, Gallerie d’Italia - Piazza Scala
7 novembre 2015 – 21 febbraio 2016
Mostra a cura di Fernando Mazzocca
“Il genio democratico” di Hayez
Un grande pittore italiano interprete delle speranze e delle delusioni del Romanticismo
Estratti dal saggio in catalogo di Fernando Mazzocca
E l’opera sua è la Consacrazione della Vita…
(Giuseppe Mazzini, 1841)
Nello straordinario saggio poi tradotto e raccolto nell’edizione nazionale degli Scritti con il titolo La pittura
moderna italiana, apparso negli anni dell’esilio londinese sul prestigioso foglio del liberalismo radicale
inglese, il “London and Westminster Review”, tra il gennaio e l’aprile del 1841, Giuseppe Mazzini pensava
che nell’Italia contemporanea, diventata per gli osservatori stranieri la “terra dei morti”, soffocata da un
passato troppo grande e irraggiungibile, la pittura, dopo un periodo di profonda decadenza che aveva
coinciso con l’età neoclassica, fosse risorta grazie a quello che si accingeva a consacrare come il “genio
democratico” di Hayez, “un grande pittore idealista italiano del secolo XIX”, il “capo della scuola di Pittura
Storica che il pensiero Nazionale reclamava in Italia”, “l’ artista più inoltrato che noi conosciamo nel
sentimento dell’Ideale che è chiamato a governare tutti i lavori dell’epoca”. Ne riconosceva senza riserve
l’originalità, quando affermava che la “sua ispirazione emana direttamente dal proprio Genio”, e la capacità
di aver saputo interpretare, come Byron e come i maggiori letterati e musicisti italiani del tempo, Foscolo,
Manzoni, Rossini, Donizetti, le aspirazioni e le angosce dell’età romantica1
.
Mazzini rivendicava il respiro europeo della pittura di Hayez e ne ribadiva il primato, del resto come vedremo
già affermati da Stendhal quando, in una lettera inviata dall’Isola Bella il 17 gennaio 1828 all’amico Alphonse
Gonsollin, l’aveva ritenuto “le premier peintre vivant”, citando uno dei dipinti fondamentali, quella prima
Medaglia
del Presidente
della Repubblica
Con il patrocinio di In collaborazione con
Accademia di Brera, Milano
Gallerie dell’Accademia, Venezia
Pinacoteca di Brera, Milano
1
Il contributo più aggiornato sull’argomento si deve alla rassegna Romantici e Macchiaioli. Giuseppe Mazzini e la grande pittura europea, catalogo della
mostra di Genova (Palazzo Ducale) a cura di F. Mazzocca con la collaborazione di F. Leone, L. Lombardi, A. Villari, Milano 2005.
versione di Pietro l’Eremita del 1827-1829, poi interpretato in maniera magistrale dal grande esule che
ne fece, insieme a Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria del 1826-1831, l’opera chiave per
capire l’ideologia e la poetica dell’
artista completo per quel tanto che i tempi lo permettono: che si assimila, per riprodurlo in simboli, il
pensiero dell’epoca, quale esso s’agita compresso nel seno della nazione; che armonizza il concetto
e la forma: idealizza le sue figure senza falsarle; crea protagonisti, non tiranni: fa molto sentire e molto
pensare.
Per Mazzini Hayez è interprete davvero universale e vicino al popolo, quasi un vate
perché il posto che gli spetta è fuori di quelle sfere; è quello della Storia. Trattata dal punto di vista
dell’avvenire. Là, è grande e solo: lo storico della razza umana, e non di qualcuna delle sue individualità
preminenti. Nessuno fin qui, tra i pittori, ha sentito come lui la dignità della creatura umana, non quale
brilla agli occhi di tutti sotto la forma del potere, del grado, della ricchezza o del Genio, ma quale
si rivela agli uomini di fede o di amore, originale, primitiva, inerente a tutti gli esseri che sentono,
amano, soffrono e aspirano, secondo le loro forze, con la loro anima immortale. In mezzo alle mille
forme umane, che la storia evoca, variate, ineguali, attorno a lui, egli domina, sacerdote del Dio che
penetra, riabilita e santifica tutte le cose. E l’opera sua è la Consacrazione della Vita.
Con questa appassionata lettura, destinata a rimanere ineguagliata, Mazzini si inseriva nel percorso di
una fortuna, quella di Hayez, tenacemente costruita e consolidata dalle battaglie, come vedremo, che la
critica milanese ed in particolare Defendente Sacchi, insuperabile interprete del genere storico, avevano
combattuto e vinto, sulle pagine dei vivaci periodici popolari, in suo favore2
. Forse alcune opere deve averle
solo conosciute indirettamente attraverso questi articoli che si faceva inviare dalla madre, ma di altre, come
quelle comparse alle esposizioni di Brera degli anni venti e come appunto Pietro l’Eremita, che si trovava
insieme ad altri quadri di Hayez nella prestigiosa collezione genovese di Francesco Peloso, Mazzini deve
invece avere avuto probabilmente esperienza diretta. E convinto che “in pittura, bisogna vedere”, mostra
di aver compreso non solo il messaggio ma anche lo stile, l’originale tecnica e l’indole stessa dell’artista
che, ricorda
dipinge rapido e sicuro qualche schizzo, che non si cura neanche di conservare, gli basta per mettersi
all’opera: non ha l’abitudine di preparare un impasto generale di colori, per ripassare su di esso con
altri sfumati diversamente; cambia, ad ogni colpo di pennello, le sue tinte sulla tavolozza. L’Hayez è
lavoratore assiduo; trascorre le intere giornate, solo, nel suo studio, di cui apre egli stesso la porta,
e non ha nulla di quella affettata apparenza che è prediletta da tanti pittori. Le sue maniere sono
semplici, franche, talvolta rudi e burbere, ma che tradiscono sempre bontà. Il suo viso bruno è aperto
e pieno d’espressione: la sua fronte serena, i suoi occhi brillanti.
Mazzini, che non aveva sicuramente avuto occasione di visitare lo studio di Hayez a Milano, deve però aver
letto, quasi sicuramente, un magnifico articolo di Sacchi, comparso su diversi giornali e poi pubblicato in
una sua raccolta di scritti dove veniva evocato quell’ambiente
assai semplice; una stanza non troppo grande ingombra di vari leggii sui quali posavano i quadri che
stava lavorando, ignude le pareti senza la solita impannata di disegni, di carte, d’abbozzi, senza che
v’abbia attelata la consueta schiera di automi, di gessi, con cui sogliono i pittori a Roma popolare
la casa. Hayez dopo qualche schizzo, senza moltiplicare gli studi, le prove, pinge alla prima i suoi
quadri, indi li invia a chi glieli allogò, senza tenerne disegni o ricordanze: è il genio che crea, né mai
si volge addietro3
.
2
Sulla critica militante di Defendente Sacchi: R. Bossaglia, Defendente Sacchi: il pensiero sull’arte e S. Zatti, Cronache di Belle Arti a Brera nelle
recensioni di Defendente Sacchi, in AA.VV., Defendente Sacchi, filosofo, critico e narratore, Fonti e Studi per la storia dell’Università di Pavia, n. 18, Milano
1992, pp. 259-283; Scritti d’arte del primo Ottocento, a cura di F. Mazzocca, Milano-Napoli 1998, pp. 135-141, 426-430.
3
D. Sacchi, Un provinciale a Milano. Visita allo studio di Hayez, in Miscellanea di lettere ed arti, Pavia 1830, pp. 150-151 (in Scritti d’arte cit., p. 427).
Quindi l’identità e l’originalità del pittore romantico, diverso dagli ultimi fedeli interpreti della grande
tradizione classica che dominavano ancora la scena romana, stava non solo nei temi prescelti, ispirati
alla storia nazionale e alla letteratura moderna sostituite alla storia antica e alla mitologia, ma anche nei
procedimenti tecnici, nello stile, nel modo stesso di comportarsi e proporre di sé un’immagine in cui
compare il compiacimento di sé. Questa emerge dai numerosi autoritratti – è tra gli artisti che hanno
affrontato di più questo genere – tra cui vanno considerati anche quelli inseriti, così come Hitchcock che
entra come comparsa in ogni suo film, nei dipinti storici. Di solito dobbiamo identificarlo tra i personaggi
secondari. In alcuni casi invece darà addirittura le proprie sembianze al protagonista, come nella serie de I
due Foscari o in quel dipinto testamentario che è il Marin Faliero del 1867.
La fortuna del Bacio, con cui l’artista è stato e continua ad essere identificato in maniera forse troppo
esclusiva, ha determinato l’eclisse della grande pittura storica, a cui l’artista credeva invece che sarebbe
stata affidata la sua fama, e concentrato l’attenzione sui ritratti e i superbi nudi femminili, la cui bellezza non
è stata mai messa in discussione. Così tra le due guerre, soprattutto nella prestigiosa ribalta internazionale
delle Biennali di Venezia, Hayez poteva essere considerato a livello di Ingres.
Bisognerà però aspettare il dopoguerra e la riabilitazione della cultura accademica, transitata nelle grandi
mostre allestite nel corso degli anni settanta tra l’America e l’Europa, perché si potesse riprendere in
considerazione anche il pittore storico, riscoperto proprio attraverso le testimonianze critiche dell’epoca e
il confronto con il melodramma4
. È stata del resto la chiave di lettura della grande mostra allestita nel 1983,
tra il Palazzo Reale, la Pinacoteca e l’Accademia di Brera, la Biblioteca Nazionale Braidense, nell’occasione
del centenario della morte5
. Qui i riscoperti dipinti storici dialogavano nuovamente, come era avvenuto nelle
esposizioni dell’epoca in cui erano stati presentati e si erano ritrovati al centro di un vivace dibattito critico,
con il resto della produzione di un artista versatile ed egualmente straordinario in altri generi, dalla pittura
religiosa ai temi biblici e orientalisti, al ritratto e al nudo, dove risalta soprattutto la qualità di una stesura in
cui aveva un peso decisivo l’ispirazione e l’estro del momento, come documentano ancora i pentimenti
visibili ad occhio nudo.
Diversamente da quella del 19836
, questa rassegna, che presenta diverse opere fondamentali allora non
note o non disponibili, fa emergere i generi e i motivi con cui l’artista si è misurato nella sua lunga carriera,
all’interno di un percorso cronologico che, scandito dalla presenza dei numerosi autoritratti, diventa anche
la narrazione di una vita spesa sempre in prima linea per l’affermazione di quegli ideali del Romanticismo di
cui in pittura è stato il maggiore interprete proprio negli anni, decisivi per la nostra storia, del Risorgimento
e della realizzazione dell’Italia unita. Del resto ha finito, anche se con qualche riserva7
, con l’esser affiancato
a Manzoni e Verdi, insieme a questi grandi che hanno saputo meglio esprimere con le loro opere l’identità
nazionale8
.
4
Si tratta della pista aperta in particolare dalla grande rassegna De David à Delacroix. La peinture française de 1774 à 1830, transitata tra il 1974 e il
1975 dal Grand Palais di Parigi al Detroit Institute of Arts al Metropolitan Museum di New York e in Italia dal Romanticismo Storico, realizzata tra il 1973 e
il 1974 da Sandra Pinto, coadiuvata da Paola Barocchi e Fiamma Nicolodi che si erano occupate rispettivamente della letteratura artistica e dei rapporti
con il melodramma, presso La Meridiana di Palazzo Pitti a Firenze.
5
Hayez, catalogo della mostra di Milano (Palazzo Reale e Palazzo di Brera) a cura di M.C. Gozzoli, F. Mazzocca, Milano 1983, preparata dalla
monografia di F. Mazzocca, Invito a Francesco Hayez, Milano 1982 e seguita dall’ancora fondamentale F. Mazzocca, Francesco Hayez. Catalogo
ragionato, Milano 1994.
6
Bisogna poi considerare la meno ricca rassegna allestita tra il 1998 e il 1999 a Palazzo Zabarella a Padova (Hayez dal mito al bacio, catalogo della
mostra a cura di F. Mazzocca, Venezia 1998), un edificio che nel 1818-1819 era stato decorato dall’artista. In quell’occasione avevo voluto tenere conto
di alcune novità emerse dal citato Catalogo ragionato.
7
Particolarmente significative quelle espresse dallo storico Pasquale Villari, secondo il quale “non ebbe l’audace coraggio del Manzoni” (P. Villari,
La pittura moderna in Italia e in Francia, in “Nuova Antologia”, X, 1869, pp. 108-109) e da Luca Beltrami, secondo il quale sarebbe “un grave errore
presentarlo, oggi ancora, come un riformatore, un ribelle” (L. Beltrami, Hayez, 1791-1882, in “Penombre”, 30 settembre e 7 ottobre 1883).
8
Le tangenze tra questi tre protagonisti sono stati oggetto della rassegna più recente, anche se della meno completa, a lui dedicata: Hayez nella Milano
di Manzoni e Verdi, catalogo della mostra di Milano (Pinacoteca di Brera) a cura di F. Mazzocca, I. Marelli, S. Bandera, Milano 2011.
1807-1819. Nel segno di Tiziano, di Raffaello e di Canova.
La formazione e i primi successi tra Venezia e Roma
Le possibilità e il destino del giovane “nato dal popolo”9
, “nato da parenti poveri” che l’avevano lasciato
ancora bambino nelle mani dello zio, il disinvolto mercante d’arte Giovanni Binasco, dovevano essere
molto chiari a Leopoldo Cicognara, l’autore della insuperata Storia della scultura in Italia e allora Presidente
dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, quando aveva inviato l’allievo Francesco Hayez a Roma, affidandolo
all’amico Canova. Erano ormai trascorsi tre anni e il 28 aprile del 1812 poteva scrivere al grande scultore,
esprimendo uno straordinario augurio: “Oh per Dio che avremo anche noi un pittore; ma bisogna tenerlo a
Roma ancora qualche tempo, e io farò di tutto perché vi rimanga”. Alla sensibilità di Cicognara non sfuggiva
il fatto che solo nella magnifica officina internazionale della Roma neoclassica10
, e negli studi dell’Accademia
Nazionale insediata dal governo del napoleonico Regno d’Italia a Palazzo Venezia, potesse finalmente
realizzarsi l’ambizioso progetto che Hayez potesse diventare l’artista, come Canova aveva fatto con la
scultura, in grado di risollevare alla dignità e alla fama perduta la pittura italiana. Se, come riconosceranno
i suoi futuri sostenitori, da Stendhal ai critici militanti milanesi, che nella battaglia tra classici e romantici si
schiereranno dalla sua parte, a Mazzini, Hayez è diventato davvero l’interprete delle aspirazioni nazionali, il
creatore di un linguaggio pittorico in cui l’Italia potesse riconoscersi, gli anni della formazione a Roma tra il
1809 e il 1817 sono stati decisivi.
Andando nella città eterna, per divenirvi un grande pittore “italiano”, doveva realizzare una delle istanze
dell’ambizioso progetto istituzionale di Cicognara che, allestendo la Pinacoteca dell’Accademia di Venezia
con i capolavori recuperati dalle chiese e da altre sedi pubbliche, aveva inteso consacrare il livello europeo,
in polemica con la tradizione storiografica da Vasari a Lanzi, della scuola pittorica veneta. Così aveva
indicato nell’accostamento tra Tiziano e Canova, affiancando i gessi dello scultore alla monumentale pala
dell’Assunta trasferita dai Frari, quell’equilibrio tra Tradizione e Modernità, Ideale e Natura, che avrebbe
dovuto ispirare il “risorgimento” pittorico italiano. Giunto a Roma, Hayez doveva accorgersi che lì si preferiva
naturalmente collocare Canova accanto all’antico e a Raffaello. Ed infatti, dopo aver ammirato i celebri
marmi capitolini e vaticani, o i grandi mosaici che nella Basilica di San Pietro riproducevano i capolavori
seicenteschi di Domenichino, Subleyras, Valentin, Poussin, Reni, Guercino, si immerse totalmente nella
contemplazione e nello studio delle Stanze dove, come ricorderà nelle proprie Memorie, aveva trovato che
“considerando poi la parte del colorito”, in particolare “nella disputa del Sacramento, nell’Attila e più di tutto
nel Miracolo di Bolsena è al livello di Tiziano (beninteso parlo solo del colore), quantunque Tiziano abbia alle
volte disegnato come Raffaello”.
Il confronto tra questi due grandi, che trovava risolto nel plastico pittoricismo delle sculture canoviane11
, è
stato la base di una ricerca pittorica che lo ha portato in breve a grandi risultati, tali da distinguerlo nettamente
nella schiera degli altri allievi delle tre Accademie nazionali di Milano, Venezia e Bologna, inviati come lui,
dopo aver vinto il relativo concorso, a formarsi a Roma. La continua emulazione, sollecitata anche dal più
anziano Pelagio Palagi12
scelto come loro guida, all’interno dell’Accademia di Palazzo Venezia, gli consentirà
di bruciare le tappe e raggiungere molto presto, incanalate finalmente le sue doti naturali, quei traguardi
legati alla strategia di Cicognara. Egli era dunque riuscito ad imporre il nome di Hayez facendolo partecipare,
9
Secondo l’espressione coniata da Mazzini nel saggio sopra citato e che accomuna come “nati dal popolo” i protagonisti, tra cui fa emergere Hayez,
della rinascita della pittura italiana contemporanea.
10
Questa vocazione e tale ambito sono stati perfettamente restituiti dalla grande rassegna Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia. Universale ed
Eterna Capitale delle Arti, catalogo della mostra di Roma (Scuderie del Quirinale e Galleria Nazionale d’Arte Moderna), progetto di S. Susinno realizzato
da S. Pinto con L. Barroero e F. Mazzocca, Milano 2003.
11
Sul fondamentale rapporto con Canova, anche come fonte di ispirazione, si rimanda a Canova. L’ideale classico tra scultura e pittura, catalogo della
mostra di Forlì (Musei San Domenico) a cura di S. Androsov, F. Mazzocca, A. Paolucci con S. Grandesso, F. Leone, Cinisello Balsamo 2009, pp.142-144,
246-248, 262-263, 271-273, 313-314, 334-335.
12
Il proficuo rapporto e l’amicizia con Palagi, iniziata a Roma, saranno destinati a proseguire e diventare ancora più decisivi negli anni milanesi, su cui si
veda Pelagio Palagi artista e collezionista, catalogo della mostra di Bologna (Archiginnasio) a cura di R. Grandi, A. M. Matteucci e AA.VV., Bologna 1976.
sempre d’accordo con Canova che continuerà a nutrire una incondizionata fiducia e affetto nei riguardi del
giovane protetto, ai più prestigiosi concorsi accademici e alle maggiori commissioni pubbliche e private.
Risale al 1812 il clamoroso successo con il Laocoonte al grande Concorso di Pittura di quella che stava
diventando la maggiore Accademia italiana, Brera a Milano. Nel 1813 inviava il solare e sensuale Rinaldo
e Armida, straordinaria reinterpretazione di Tiziano e Canova, all’Accademia di Venezia, per confermare i
risultati raggiunti. Nello stesso anno lo ritroviamo impegnato, a fianco di Palagi, nella decorazione di una
delle gallerie del fastoso Palazzo Torlonia dedicata alle Storie di Teseo. Era stata la grande opportunità per
confrontarsi, per la prima volta, con la decorazione murale e la recuperata tecnica “nazionale” dell’affresco,
in cui si cimenterà, come vedremo, anche in seguito, dopo il suo ritorno a Venezia e ancora addirittura a
Milano. È stato documentato anche il suo coinvolgimento nel grande cantiere internazionale del Quirinale,
dove le occasioni di incontro con Camuccini, Landi, Palagi, Giani, Ingres, Thorvaldsen, Minardi, Pinelli,
Madrazo, furono decisive13
. Risale sempre al 1813 l’impresa più ambiziosa, la commissione procuratagli
ancora per l’intervento di Cicognara da parte della corte di Napoli, quella di Gioacchino Murat, di un
monumentale dipinto con un soggetto omerico, già trattato da Canova nei suoi bassorilievi, Ulisse alla
corte di Alcinoo, destinato a confrontarsi, come ancora oggi, nella splendida reggia di Capodimonte con i
capolavori di Camuccini e Benvenuti, i maggiori protagonisti del Neoclassicismo eroico di cui si mostrava
assolutamente all’altezza.
L’opera, realizzata tra il 1814 e il 1816, è certamente il maggior risultato raggiunto da Hayez negli anni
della sua formazione romana, che sarà chiusa dal concorso vinto nel 1814 all’Accademia di San Luca con
l’Atleta trionfante e l’intervento, tra il 1816 e il 1817, nella decorazione ad affresco del cosiddetto corridoio
Chiaramonti nel braccio nuovo dei Musei Vaticani. Si trattava di un’impresa che, contemporaneamente
al ciclo degli affreschi a soggetto biblico realizzato dai Nazareni su commissione del console prussiano
Bartholdy a Palazzo Zuccari, intendeva rilanciare la grande pittura murale, considerata da Canova,
promotore dell’impresa, la più idonea a celebrare i risultati della moderna politica di sostegno e tutela delle
arti realizzata dal restaurato pontefice Pio VII. Tra le tre lunette affrescate da Hayez spicca, anche per il
suo significato, quella che rappresenta il ritorno a Roma, in cui fu decisivo il ruolo del grande scultore, dei
capolavori vaticani requisiti dai Francesi14
.
Anche se il risultato delle decorazioni vaticane non doveva soddisfare né Canova, né Hayez, che infatti
non porterà a termine il suo incarico, l’occasione fu importante per confrontarsi con i Nazareni, come
Overbeck, Cornelius, Veit, Eggers, presenti gli ultimi due anche a Palazzo Zuccari ed impegnati nel 1817-
1818 dallo scultore nel ciclo del corridoio Chiaramonti. La riscoperta da parte dei giovani pittori tedeschi
della pittura dei cosiddetti Primitivi, tra cui anche Mantegna e Giovanni Bellini, reinterpretati attraverso
Dürer e Raffaello, dovrà suggestionare una svolta decisiva nel percorso artistico di Hayez, iniziata quando,
dopo il ritorno nel 1817 a Venezia, venne incaricato da Cicognara, sempre più convinto delle sue capacità,
di eseguire un dipinto su tavola con l’impegnativo soggetto biblico della Pietà di Ezechia re d’ Israele, da
inserire tra le opere, quadri, sculture e splendidi oggetti d’arte che dovevano comporre l’Omaggio destinato
all’imperatore d’Austria Francesco I in occasione delle sue quarte nozze con Carolina Augusta di Baviera15
.
Intanto il dibattito sulla riscoperta bellezza della pittura del Quattrocento era stato aperto e veniva alimentato
da alcune prestigiose iniziative, sempre sotto l’egida di Cicognara, come l’apertura della nuova Pinacoteca
dell’Accademia16
, i numerosi interventi di restauro o di sostituzione con copie dei dipinti più importanti
13
S. Susinno, Hayez in Palazzo Torlonia e al Vaticano: il recupero dell’affresco. L’intervento al Quirinale, in Hayez cit., pp. 32-36.
14
H. Hiesinger, Canova and the frescoes of the Galleria Chiaramonti, in “The Burlington Magazine”, 9, 1978, pp. 656-659.
15
Il dipinto, non ancora rintracciato, è riprodotto in un’incisione eseguita dallo stesso Hayez nell’album illustrato dedicato a questa impresa: Omaggio
delle Provincie Venete alla Maestà di Carolina Augusta Imperatrice d’Austria, Venezia 1818, tav. 3. Sulla vicenda si rimanda a R. De Feo, Giuseppe
Borsato 1770-1849, Verona (in corso di stampa).
16
G. Moschini Marconi, Gallerie dell’Accademia di Venezia. Opere d’arte dei secoli XIV e XV, Roma 1955.
conservati nelle chiese eseguiti sotto la direzione di Pietro Edwards e una vasta riconsiderazione storiografica
di cui sono eco gli elogi pronunciati in Accademia di Giorgione, celebrato nel 1811 dallo stesso Cicognara,
di Giovanni Bellini nel 1812 da Francesco Aglietti, il medico erudito che assisterà Canova nel momento
della morte, dei Vivarini, ricordati nel 1816 da Antonio Neumann Rizzi e di Mantegna commemorato nel
1818 dal padovano Daniele Francesconi17
.
Hayez doveva approfondire la sua conoscenza e la riflessione sui Primitivi, quando tra il 1812 e il 1817
venne impegnato da Cicognara nell’esecuzione dei disegni, destinati a essere tradotti in incisione, delle
opere da riprodurre nella sua Storia della scultura, per cui venne inviato nelle grotte Vaticane, a Orvieto e
Napoli, seguendo dunque un itinerario quattrocentesco molto coerente18
.
Gli ultimi anni trascorsi da Hayez a Roma erano stati difficili per tutti. A Canova nel 1816 non era piaciuta
affatto la prima prova del suo protetto nel ciclo vaticano dedicato al pontefice, per cui Hayez fu costretto
a rifare la lunetta, anche se con esiti che ancora una volta non soddisfacevano entrambi. Cicognara,
giunto a Roma per offrire a Pio VII, e fargliene accettare la dedica, il secondo volume della Storia della
scultura, veniva accolto con tale freddezza da anticipare la sua partenza e tornarsene a Venezia, dopo aver
commissionato ad Hayez un polemico ritratto dove veniva rappresentato insieme alla seconda moglie e
al figlio di primo letto, accanto ad un busto colossale dell’amico Canova e con in mano una stampa che
ricordava il fallito progetto, tanto idoleggiato dallo scultore, di realizzare una colossale statua della Religione
cattolica da collocare in San Pietro o al Pantheon.
Queste delusioni e la crisi delle committenze pubbliche nella Roma restituita al potere temporale
determinavano il ritorno definitivo di Hayez nella sua città d’origine dove, sempre appoggiato e
consigliato da Cicognara, si trovò impegnato nell’esecuzione della Pietà d’Ezechia e soprattutto
assorbito quasi esclusivamente in una febbrile e assai lucrosa attività di decoratore destinata a durare
almeno tre anni, dal 1818 al 1821, tra Venezia e Padova. Questa vicenda, ricostruita puntualmente in
più occasioni da Giuseppe Pavanello19, piuttosto che nella tecnica dell’affresco sperimentata a Roma,
lo vide cimentarsi nella decorazione a secco, a tempera, secondo moduli riferibili al repertorio della
grottesca, al gusto pompeiano, ma anche a Giani. I risultati più interessanti sono quelli raggiunti in
occasioni più prestigiose, come a Palazzo Reale, dove traduceva in pittura le più seducenti invenzioni
canoviane, come nel caso delle Danzatrici e delle Grazie. Questa fitta produzione, rivelatrice di una
tecnica veloce e prodigiosa come di una grande capacità professionale, appare improntata ad una
gusto “sostanzialmente conservatore, che finisce con l’esaurirsi in un’eleganza fine a se stessa”20,
anche se si riscatta come abbiamo visto negli interventi a Palazzo Reale, nel ciclo dei sofisticati
temi platonici suggeritegli dal letterato Andrea Mustoxidi per il palazzo del facoltoso mercante greco
Giovanni Papadopoli e soprattutto nell’impresa più impegnativa realizzata tra l’autunno del 1818
e la primavera del 1819 in due sale a pianterreno di Palazzo Ducale che allora ospitavano gli uffici
della Borsa della Camera di Commercio di Venezia. Le quattordici lunette, molto deteriorate e in gran
parte miracolosamente recuperate in questa occasione, rivelano un attento studio delle decorazioni
di Raffaello, Giulio Romano e Sebastiano del Piombo alla Farnesina. Vi domina il tema delle divinità
marine rappresentate tra le onde ed il loro modello inequivocabile è il famoso affresco raffaellesco con
17
F. Mazzocca, Arte e politica nel Veneto asburgico, in Il Veneto e l’Austria. Vita e cultura artistica nelle città venete 1814-1866, catalogo della mostra di
Verona (Palazzo della Gran Guardia) a cura di S. Marinelli, G. Mazzariol, F. Mazzocca, Milano 1989, pp. 42-44.
18
F. Mazzocca, in Hayez cit., pp. 58-59.
19
G. Pavanello, La decorazione del Palazzo Reale di Venezia, in “Bollettino dei Musei Civici Veneziani”, 1-2, 1976, pp. 3-34; Id., Hayez frescante
neoclassico, in “Arte Veneta”, XXXI, 1977, pp. 273-283; Id., La decorazione neoclassica nei palazzi veneziani, in Venezia nell’età di Canova, catalogo
della mostra di Venezia (Ala Napoleonica e Museo Correr) a cura di G. Pavanello e AA.VV., Venezia 1978, pp. 281-300; Id., La decorazione neoclassica
a Padova, in “Antologia di Belle Arti”, 13-14, 1980, pp. 55-73; Id., Hayez decoratore a Venezia e a Padova, in Hayez cit., pp. 45-52; Id., La decorazione
dei palazzi veneziani negli anni del dominio austriaco (1814-186), in Il Veneto e l’Austria cit., pp. 259-261; Id., Il “Parnaso Veneto” di Francesco Hayez,
in “Neoclassico”, I 1992, pp. 61-69.
20
G. Pavanello, Hayez decoratore cit., p. 46.
il Trionfo di Galatea, anche se poi le tinte molto accese e una certa carica sensuale che caratterizza i
bellissimi nudi rimandano a Tiziano, ma pure alle sculture di Canova. Forse per questo si attireranno
l’ammirazione di Stendhal, menzionate nel Voyage d’Italie de 182821
.
Rispetto alle decorazioni nei palazzi privati, Hayez qui riprendeva slancio cimentandosi nella tecnica del
buon fresco, già sperimentata ma non con esiti così convincenti e originali a Palazzo Torlonia e nei Musei
Vaticani. Del resto questa, che rappresenta se non l’unica certamente la più importante e in qualche misura
l’ultima impresa pittorica realizzata a Palazzo Ducale dopo la caduta della Repubblica, rimane la vicenda
più importante di questi anni veneziani, altrimenti dissipati in un’attività, quella decorativa, poco qualificata
dal punto di vista culturale e che lo distoglieva da perseguire quella missione di cui l’avevano investito
Canova e Cicognara. Come il pittore riferirà nelle Memorie era stato proprio quest’ultimo a metterlo in
guardia, avvisandolo che “ora in Venezia non troverete facilmente commissioni di quadri, ma bensì dipinti
di decorazione che vi faranno guadagnare molti denari, ma con ciò non diventerete quell’artista che io ho
predetto, né raggiungerete quel grado nell’arte cui potete aspirare”.
1820-1837. Milano. Dalla rivoluzione romantica alla dimensione “politica” della pittura “civile”
Per riprendere in mano il proprio destino, ritornando alla dimensione impegnata del dipinto storico da
cavalletto, Hayez capì che doveva lasciare Venezia e imporsi nella scena artistica milanese che, dopo gli
splendori del Regno Italico e le glorie mietute da grandi pittori di talento ormai scomparsi come Andrea
Appiani e Giuseppe Bossi, si andava qualificando per il suo vivace mercato artistico e un collezionismo
collegati alle sempre più promettenti esposizioni organizzate da quell’Accademia di Brera dove era
conservato il suo primo capolavoro, quel magnifico Laocoonte per cui era stato premiato nel 1812.
La fuga a Milano, annunciata nel 1820 con la sensazionale presentazione a Brera del Pietro Rossi, il
quadro divenuto manifesto della rivoluzione romantica in pittura, sarà definitivamente consumata con il
trasferimento avvenuto nel 1823, quando sarà designato supplente di Luigi Sabatelli, sempre più impegnato
nell’imponente ed interminabile cantiere decorativo di Palazzo Pitti a Firenze, sulla più prestigiosa cattedra
di Pittura d’Italia, quella dell’ Accademia milanese.
L’acquisto di questo dipinto, dopo una gara serrata tra i collezionisti milanesi più impegnati anche
politicamente, da parte del giovane marchese carbonaro Giorgio Pallavicino Trivulzio, e la richiesta di altre
opere subito avanzata dagli altri contendenti delusi, che del resto saranno accontentati, indicarono ad
Hayez quali opportunità gli si aprissero nella Milano della battaglia tra classici e romantici. Questa sembrava
dovesse avviarsi alla sua fine senza alcun convincente contributo sul versante figurativo. L’attesa novità
venne, con un tempismo che spiazzava un po’ tutti, Canova e Cicognara compresi, da questo giovane
che, tra il faticoso impegno come decoratore, si era saputo ritagliare il tempo per ricerche ispirate, come
confessava a Canova nell’agosto nel 1818 quando aveva iniziato a realizzare il Pietro Rossi, “ciecamente
alla verità consultando però i capi d’opera del Gio. Bellini, dei Conigliani e dei Carpacci veri imitatori del
vero”22
.
Queste sperimentazioni non erano state comprese a Venezia, al di là di quella esclusiva cerchia di
conoscitori, come Emanuele Cicogna, che, come riferiscono i celebri Diari, era rimasto incantato dai magici
toni “zambelliniani” – il riferimento è allo Zambellino cioè Giovanni Bellini – di quel dipinto e degli altri che lo
avrebbero subito seguito all’inizio degli anni venti prima del trasferimento definitivo nella capitale lombarda,
come L’addio di Ettore e Andromaca, l’ossianesco Catmor e Sulmalla, il Conte di Carmagnola e la prima
versione dei Vespri siciliani.
21
F. Mazzocca, “Le premier peintre vivant” Francesco Hayez protagonista tra neoclassicismo e romanticismo, in Tilo Schulz Francesco Hayez, catalogo
della mostra di Venezia (Espace Luois Vitton) a cura di C. Tonini, Venezia 2015, pp. 12-19.
22
Lettera di Hayez ad Antonio Canova datata Venezia 10 agosto 1818 (Bassano del Grappa, Biblioteca e Museo Civico, Epistolario Scelto Canova,
V.500.3498).
Il Pietro Rossi e il Carmagnola, così vicini nel soggetto e nella resa formale, proponevano per la prima
volta la novità della storia “nazionale”, relativa alle vicende dell’Italia moderna, e non più dell’antichità.
Questo secondo dipinto, ispirato alla storia di Venezia però amplificata dall’omonima tragedia di Manzoni,
Cicognara avrebbe voluto che Hayez lo esponesse a Venezia. Ma, come ricorda ancora Cicogna, fu
proprio il suo autore che “non volle e il quadro partì per Milano”, dove venne presentato con grande
successo a Brera nel 1821. Così nella sua prolusione pronunciata all’Accademia quell’anno Cicognara
non esitò a rimproverare “il Sig, Francesco Hayez Veneziano” che non aveva saputo “resistere al desiderio
di quei nobili Committenti che vollero arricchire l’Accademia milanese delle sue produzioni, e ne defraudò
in tal modo la Veneta, la quale rimase con desiderio di applaudire il proprio Concittadino, ed inviarlo al suo
luminoso destino”.
A questo punto l’artista si sentì in dovere di spiegare le ragioni di questa scelta decisiva, facendo appello
all’autorità al di sopra delle parti di Canova, cui scriveva il 31 luglio 1821:
Amerei anche poter io stesso raccontargli la necessità ch’io ebbi di spedire prima della esposizione
i miei quadri a Milano. Quattro anni ch’io sono in Venezia, e l’ordinazione di una sola testa non l’ho
ancora avuta per sostentarmi dove fare il pittore di decorazione, intanto sentivo decantare e i Agricola
e i Bezzuoli, ed io ero nell’avvilimento. Credei che fosse necessario di fare a qualunque sacrificio un
Quadro (quantunque avessi fatto quello per Vienna23
) per vedere se con un’opera studiata potessi
procurarmi una qualche ordinazione. Videro i Veneziani questa mia fatica reggere la ragione, ma
non si mossero, lo vide Lei stesso in Casa Cicognara ella mi fece coraggio e mi parve non restasse
scontento, mi lusingò di farlo vedere a quella Sig. Inglese che si trovava in Venezia. Lo vide questa per
mezzo del Cav. Presidente, e dopo aver date delle commissioni in Roma si contentò solamente nel
mio quadro di domandarne il prezzo, che quantunque umile, pure non ebbe esito felice, io disperato
faccio con un maggior sacrificio il viaggio a Milano. In Milano sa che un numero di compratori
volevano acquistare il mio Pietro Rossi, e quelli che non l’hanno potuto acquistarlo mi hanno dato
delle commissioni, dunque i Milanesi e non i Veneziani mi hanno incoraggiato quest’anno a riprodurre
nuove fatiche pittoriche, e a Milano dunque ho voluto che siano esposte queste mie produzioni dove
il genio di quella popolazione mi fa ancora più sperare della patria mia24
.
Hayez aveva capito che solo la competitività e la disponibilità anche culturale del collezionismo e del
mercato dell’arte a Milano, dove Bezzuoli aveva già potuto sfondare all’esposizione di Brera del 1817 con
il tema romantico di Paolo e Francesca seguito nel 1819 dal pendant Angelica e Medoro, riuscivano ad
offrire all’artista le opportunità e le garanzie per riaffermare la propria libertà e originalità. Là le sue opere,
tramite anche i giudizi espressi dai giornali popolari, susciteranno un vivace dibattito e verranno offerte alle
considerazioni del pubblico, certamente più generose di quelle di certi mecenati arroganti. E proprio da
Milano, all’indomani del suo trasferimento definitivo nel 1823, poteva orgogliosamente ribadire al mediatore
veneziano Giovanni Guerci della Rovere:
Arrivato il Sig. Conte Sommariva25
ed interpellato se voleva acquistare il disegno suddetto, ebbi
un’assoluta negativa, né io volli poiché non è il mio costume seccare alcuno ma solo mi piace che
volontariamente dagli altri dipenda il comprare od il commettere; sono stato sempre onesto così e
piuttosto che chiedere e domandar ai Veneziani me ne sono partito; realmente l’artista dopo tanta
fatica di studi fatti, ad aver qualche merito, sdegna di fare il ciarlatano per sé e per gli altri26
.
23
Il riferimento è alla Pieta di Ezechia eseguita nel 1817 per l’Omaggio delle Provincie Venete.
24
Lettera di Hayez ad Antonio Canova datata Venezia 31 luglio 1821 (Bassano del Grappa, Biblioteca e Museo Civico, Epistolario Scelto Canova,
II.83.1571).
25
Proprio nel 1823 il celebre collezionista Giovanni Battista Sommariva aveva acquistato da Hayez il fondamentale L’ultimo bacio dato a Giulietta da
Romeo (qui esposto).
26
Lettera di Hayez a Giovanni Guerci della Rovere datata Milano 12 settembre 1823 (Bologna, Civica Biblioteca dell’Archiginnasio).
Le rapide e inattese novità portate dal dibattito artistico intorno al 1820, anno della comparsa del Pietro
Rossi, erano destinate a rimanere a lungo impresse nella mente dei milanesi, se ancora nella seconda parte
dei Cent’anni, il grande romanzo ciclico redatto da Giuseppe Rovani tra il 1859 e il 1864, il protagonista
Giulio Baroggi rivolge questa considerazione allo scultore Pompeo Marchesi:
Canova è morto; e tutte le arti si rinnovano. È il momento questo di tirare alla fortuna che passa
veloce. Quel diavolo che ha fatto questa musica, ha sfidato il passato che pareva insuperabile, e
ha vinto. Tutta Milano è sottosopra; e le ragazze singhiozzano e si tormentano se han le guance
rubiconde, perché Ildegonda doveva averle pallidissime; Hayez quest’anno ha trionfato nelle sale di
Brera, e lasciando l’antichità, ha fatto il suo ingresso nel medio evo. Non si parla più d’Appiani, meno
di Bossi. Camuccini è un pedante; Benvenuti è convenzionale, Landi e Serangeli fanno pietà; Palagi
s’arrabatta nel circo per atterrar l’avversario di Venezia; ma non ci riuscirà […].
Questa avvincente rievocazione della svolta romantica a Milano negli anni del “Conciliatore” e delle
improvvise fortune di Rossini e Tommaso Grossi, l’autore della popolarissima novella in versi di soggetto
moderno l’Ildegonda pubblicata nel 1820, l’anno stesso dell’esposizione del Pietro Rossi, risulta, nonostante
l’anticipazione dell’emblematica morte di Canova scomparso solo nel 1822, molto plausibile e trova una
straordinaria rispondenza nelle considerazioni di Stendhal che, dopo aver ammirato la seconda versione,
oggi scomparsa, del Carmagnola, esposta a Brera nel 1824 e destinata ad un collezionista di Francoforte,
osservava nel Salon de 1824 che
Il n’est bruit en Italie que du tableau de ce jeune Vénitien, exposé à Milan, et qui représente le Comte
de Carmagnola allant à la mort, et recevant les derniers adieux de sa femme et de ses filles. Il faut
convenir que ce sujet intéresse plus que la Mort d’ un brigand, ou qu’ une Halte de pèlerines dans la
campagne de Rome. Toutes les lettres s’accordent à porter aux nues le tableau du peintre vénitien,
et à placer ce jeune artiste bien au-dessus de Camuccini et de Benvenuti, peintres en grand renom,
qui, chargés d’ honneur à Florence et à Rome, voient les suffrages du public se retirer de leurs
ouvrages, comme certains grande peintres de Paris. La couleur et le clair-obscur sont le parties
brillantes de l’ ouvrage de M. Hayez, qui est déparé par quelques fautes de dessin choquantes.
L’expression des personnages est vive et profonde: on sent que ce peintre a de l’ âme27
.
Con uno stile che aveva abbandonato deliberatamente il bel disegno, a favore di una sprezzatura espressiva
che faceva diventare pregi quelli che dal punto di vista accademico potevano apparire degli errori, Hayez si
era distaccato dalla dimensione ideale del Neoclassicismo e dai soggetti ispirati alla mitologia e dalla storia
antica, proponendo una pittura romantica e “nazionale” dove si catalizzeranno anche le tensioni politiche di
quegli anni, di quei moti carbonari che hanno avuto un commosso interprete nel Manzoni del Marzo 1821.
È l’anno della presentazione a Brera della prima versione del Carmagnola, il grande tema che Stendhal
doveva trovare tanto più incisivo e attuale, nella sua allusione alle difficoltà di quei tempi, rispetto alla
visione folcloristica dell’Italia proposta dai dipinti ispirati alle vicende dei briganti e alla devozione popolare
di Léopold Robert o Jean-Victor Schnetz. Appropriatosi della storia moderna, Hayez veniva riconosciuto
dalla critica e dal pubblico delle esposizioni milanesi, che erano seguite anche da prestigiosi osservatori
stranieri28
, come il protagonista del movimento romantico.
Questa consacrazione fu per molto tempo contrastata, come confermano le vivaci polemiche, se non
lo scandalo, suscitati dalla esposizione delle sue opere successive, dipinti provocatori e dimostrativi,
l’Ajace del 1822, la Maddalena penitente del 1825, la Venere che scherza con due colombe del 1830,
dove la trasposizione di moduli classici e canoviani nella dimensione romantica del confronto sul vero del
modello reale o di Tiziano, interpretato come anticipatore del naturalismo romantico, raggiunge risultati
di straordinaria bellezza. A quella classica veniva contrapposta una mitologia romantica che aveva i suoi
27
Stendhal, Salon de 1824, in Mélanges d’art, Parigi 1867, p. 216.
28
Oltre a quello di Stendhal un altro caso significativo è quello di Ludwig Schörn che sul prestigioso periodico di Stoccarda il “Kunst-Blatt” pubblicò
regolarmente a partire dal 1822 le sue recensioni sulle esposizioni di Brera.
eroi e le sue eroine nei protagonisti della grande letteratura moderna come Romeo e Giulietta, Imelda e
Bonifacio, Maria Stuarda, Valenza Gradenigo, Bice del Balzo, Caterina Cornaro, temi più volte replicati e
mantenuti in repertorio per molti anni sino a quando l’avvento del realismo non ne rivelerà la stanchezza e
li metterà in liquidazione.
Le ripetizioni successive non eguaglieranno più la quasi imbarazzante, ma splendida, carnalità della Giulietta
del 1823, delle sensualissime Maddalene, delle Veneri, delle Betsabee realizzate tra gli anni venti e trenta.
Il dibattito critico che accompagnò, soprattutto all’inizio, la comparsa di questi scandalosi capolavori, si
fece particolarmente aspro nei toni d’accusa degli ancora numerosi sostenitori del bello ideale, come
il segretario dell’ Accademia di Brera Ignazio Fumagalli, recensore ufficiale delle esposizioni sulla rivista
che compattava l’ancora influente schieramento classicista la “Biblioteca Italiana”. La condanna divenne
piuttosto violenta quando Hayez osò dissacrare la mitologia nell’Ettore che rimprovera Paride seduto nel
Gineceo e nella Venere che scherza con due colombe, entrambi esposti nel 1830, rappresentando questi
soggetti senza tener conto dei canoni tradizionali e dando ai personaggi omerici una “fisionomia” non più
idealizzata, che “direbbesi lombarda, anzi che frigia o trojana”.
Invece per i sostenitori, sempre più agguerriti, del movimento romantico, come Giuseppe Sacchi, giovane
allievo pavese di Gian Domenico Romagnosi, il grande teorico che era divenuto il punto di riferimento degli
intellettuali più impegnati e politicamente orientati, la sconvolgente conclusione era che
Hayez ebbe invece l’intrepidezza di abbandonare ai bamboli l’ardua cura di copiare alla meglio un
vero già copiato per fare della pittura un erudito mosaico: egli tolse dal vero contemporaneo tutto
quanto di trascelto gli si offerse alla fantasia, ritrasse la vita stessa, e lasciato il buono stile accademico
agli amatori degli sbadigli, continuò nello stile che egli da solo creossi e che perfezionò studiando il
vero vivo e il vero de’ suoi tempi29
.
Negli anni successivi al trasferimento a Milano nel 1823, la rapida affermazione professionale schiudeva alla
sua pittura, che si confrontava con diversi generi e si avviava verso soluzioni formali sempre più complesse
ed ardite, nuovi orizzonti. Questa lunga e straordinaria stagione, destinata a chiudersi nella seconda metà
degli anni trenta, sarà segnata da tre esperienze parallele: una sperimentazione sulla figura concentrata
sull’esaltazione del nudo, prevalentemente quello femminile, il grande genere storico (che ha compreso
anche significative incursioni sul versante della pittura sacra) e il ritratto.
Come protagonista riconosciuto del movimento romantico, cui conservatori e benpensanti continuavano
a contestare effrazioni ai canoni della bellezza ideale, egli volle dar prova delle sue straordinarie doti di
pittore, dimostrando la sua forza e la sua originalità nell’affrontare i soggetti più richiesti dai collezionisti
che intendevano evitare l’impegno della pittura storica. Si concentrò, anche perché era congeniale alla
sua indole di libertino, sulle figure femminili nude, puntando su tipologie consuete come quelle di Venere,
Maddalena, Betsabea, Lot e le figlie, Bagni di Ninfe, da cui discenderà negli anni quaranta la superba
serie delle Odalische e delle Bagnanti, per ribaltarne le tradizionali associazioni formali in provocazioni
naturalistiche, che a volte, come nel caso della celebre Venere che scherza con due colombe, giudicata la
“più schifosa donna del volgo”, erano sembrate ai limiti della decenza, comunque sempre sotto il segno
dell’amatissimo Tiziano o di Giulio Romano o di Guido Reni.
La sua pittura storica, nel momento in cui si candiderà a linguaggio figurativo della nazione cui le speranze
del Risorgimento aspirava, cercherà di regolarizzare i soggetti attraverso un maggior impegno sulle fonti,
sia quelle documentarie che letterarie e figurative, per superare le suggestioni eroiche e troppo libertarie
degli inizi. Defendente Sacchi è stato il primo a tracciare con sicurezza il discrimine concettuale, ma anche
figurativo, tra i “manifesti” romantici come il Pietro Rossi, il Carmagnola, la Congiura dei Lampugnani, il
Fiesco, incentrati come le tragedie manzoniane su un singolo eroe sconfitto, e la dimensione corale di
quella che definì felicemente “pittura civile”. Sono i capolavori della maturità, come Pietro l’Eremita del
29
G. Sacchi, Le Belle Arti in Milano nell’anno 1830, in “Il Nuovo Ricoglitore”, VI, 1830, p. 573.
1827-1829 o i Profughi di Parga del 1826-1831, dove le dimensioni del quadro si dilatano per consentire
di rappresentare una moltitudine di eroi anonimi, inseriti nel respiro di ampi spazi naturali attraverso una più
complessa orchestrazione compositiva.
Sul versante stilistico abbiamo il recupero delle sontuosità narrative e cromatiche della tradizione veneta
tra Bassano e Veronese. Questo nuovo linguaggio interpretava la forza coesiva dei grandi ideali quale
strumento di riscatto politico e morale, ricordando quanto nella storia sia stata decisiva l’azione popolare,
individuata come l’“alto sentire dei popoli, in cui possentemente può lo spirito religioso e l’entusiasmo
dell’età è la fiaccola che accende il volto al guerriero cinto di tutte le armi, alla donna, al forese”30
.
Se nel genere storico Hayez era riuscito a superare presto i suoi rivali per dominarvi incontrastato, questo non
avvenne nei ritratti, che costituirono un settore importante nel mercato artistico di quegli anni. Qui il suo successo
fu contrastato da quello dei due rivali storici, Pelagio Palagi e Giuseppe Molteni. Lo scontro con il primo risale al
1822-1823, quando oltre che sul terreno della pittura storica ebbero l’opportunità di confrontarsi su quello della
ritrattistica ufficiale, a destinazione civile, rappresentato dalle immagini dei benefattori realizzate per la Quadreria
dell’Ospedale Maggiore di Milano, annualmente esposte sotto i portici del Filarete nella solennità ambrosiana
della Festa del Perdono31
. In Hayez al rinnovamento del genere storico corrisponde anche quello del ritratto,
dove riesce a superare l’idealizzazione neoclassica che, nonostante l’insorgere di suggestioni naturalistiche
e motivazioni civili, è quella che percorre ancora con successo Palagi, per perseguire invece in un registro di
pacato realismo una caratterizzazione individuale, drammatica, “domestica” dei personaggi raffigurati.
Secondo Defendente Sacchi era riuscito a dare nuova vita alla grande tradizione del ritratto veneziano
cinquecentesco, per il quale se
uno di Raffaello sarà così ben condotto, così finito che ti farà esclamare: divina pittura; uno di Tiziano,
di Paolo ti farà dire: questo è un uomo. Così fu spesso ripetuto dell’Hayez quando produsse ritratti
a Brera, nelle logge dell’Ospedale di Milano per coloro che legarono parte dei loro averi a questo
stabilimento. Tale è quello del Presidente Taverna: vedi l’uomo probo, il savio magistrato, e vi leggi sulla
fronte i pensamenti dell’animo: questa testa si muove, sotto quella pelle scorre il sangue, quel capo
pone rispetto per la vicina calvizie: nulla accade di aggiungere degli accessorj, poiché le tele, le sete
e fino i merletti li giudichi non pinti ma veri. Avventurata famiglia che tiene effigiato si maestrevolmente
in tele o in marmo il proprio padre, li può bene alzarsi un’ara, e ottenere da tutti ossequio32
.
Queste immagini intensamente interiorizzate e decantate da un mestiere sorretto da una naturale sicurezza
e da una estrema misura finiranno con il contrapporsi, dopo che sarà tramontato l’astro di Palagi, alle
eleganti icone alla moda del cosiddetto “ritratto istoriato” di Molteni, il grande restauratore che, dopo avere
esordito nel 1828 alle esposizioni di Brera, lanciava l’anno seguente, presentando per diciannove ritratti, la
sua sfida ad Hayez, abbagliando il pubblico con il “lusso degli accessorj, l’imitazione dei panni, dei velluti,
dei rasi, degli ori, dei talchi, la tavolozza che fa specchietto e abbarbaglia, e soprattutto l’arte adulatrice”
che, come rievocherà un po’ disgustato Giuseppe Rovani, aveva lusingato “il bel mondo patrizio” che “si
fece imbiondire da questo re della moda”33
.
Il confronto tra i ritratti di Hayez e quelli di Molteni, riproposto puntualmente ad ogni esposizione, diveniva
un motivo ricorrente nella critica contemporanea fino alla metà del secolo, anche se Carlo Tenca, già nel
30
D. Sacchi, Esposizione delle Belle Arti al Palazzo di Brera a Milano nel 1829, in “La Minerva Ticinese”, XXXIX, 1829, p.668.
31
La Ca’ Granda. Cinque secoli di storia e d’arte dell’Ospedale Maggiore di Milano, catalogo della mostra di Milano (Palazzo Reale) a cura di G.A.
Dell’Acqua e G. Testori, Milano 1981; Ospedale Maggiore Ca’ Granda. Ritratti moderni, a cura di M.T. Fiorio, Milano 1987.
32
D. Sacchi, Un provinciale a Milano. Visita allo studio di Hayez cit., pp. 152-153.
33
G. Rovani, Le tre arti considerate in alcuni illustrai contemporanei, Milano 1874, pp. 163-164. Sulla sua figura e la sua produzione, recuperata e presa
in considerazione, si rimanda a Giuseppe Molteni (1800-1867) e il ritratto nella Milano romantica. Pittura, collezionismo, restauro, tutela, catalogo della
mostra di Milano (Museo Poldi Pezzoli e Museo di Storia Contemporanea) a cura di F. Mazzocca, L.M. Galli Michero, P. Segramora Rivolta, Milano 2001.
1845, aveva liquidato la superficialità e le convenzioni del pittore di Affori, mentre il veneziano raggiungerà
nella serie dei capolavori degli anni cinquanta, come Matilde Juva Branca, Selene Taccioli Ruga e Mariquita
d’Adda Falcò, un tale raffinato equilibrio tra la interpretazione dei sentimenti, lo scavo psicologico e la
valorizzazione pittorica degli abiti, da destinare queste immagini a simbolo dell’animo più segreto ed
inquieto del Romanticismo lombardo. Il confronto più significativo tra i due resta quello relativo a due dei
ritratti più famosi del secolo, quelli del Manzoni. Molteni, nel dipinto ora conservato nella sala della Biblioteca
Nazionale Braidense a lui dedicata, offriva nel 1835 l’icona seducente dello scrittore romantico che posa
ispirato, con il suo romanzo in mano, sullo sfondo di “quel ramo del lago di Como” da lui reso immortale.
Hayez nel quadro, il suo più celebre dopo il Bacio, conservato a Brera, restituiva nel 1841 tutta l’interiorità
e le inquietudini dell’uomo rappresentato seduto mentre stringe in primo piano la sua tabacchiera.
In Hayez l’impegno nella ritrattistica risulta complementare a quello nel prediletto genere storico. Questa
stringente relazione trova conferma nella consuetudine, con cui si ricollegava alla grande tradizione
rinascimentale ed in particolare veneta, di prestare ai protagonisti dei suoi dipinti storici le sembianze degli
amici, di personaggi noti e spesso dei committenti stessi. Non mancava poi, come abbiamo già notato,
di inserire anche il proprio autoritratto. Era un modo per attualizzare le vicende rappresentate e favorire il
coinvolgimento del pubblico, abituato a vedere le stesse scene rievocate sui palcoscenici contemporanei.
Sappiamo come la pittura storica e il melodramma abbiano trattato spesso gli stessi soggetti34
.
La intensa e sempre prestigiosa produzione di ritratti servì anche a rendere più stretto il rapporto con una
committenza e un collezionismo che, negli anni dell’esordio milanese, restarono circoscritti all’aristocrazia
illuminata e alla grande burocrazia già coinvolte con il regime napoleonico, come nel caso di Francesco
Arese, Giorgio Pallavicino Trivulzio, Giacomo Ciani, Giovanni Battista Sommariva, Carlo Cicogna, il
bresciano Paolo Tosio, il veneziano Giacomo Treves, per poi estendersi alla nuova imprenditoria dove
spiccano i grandi banchieri come Ambrogio Uboldo e il genovese Francesco Peloso; ai funzionari pubblici
come Antonio Patrizio e Luigi Taccioli. Mentre la classe emergente e civilmente impegnata legata alle
nuove attività industriali vi risulta ben rappresentata da personaggi di spicco come Enrico Mylius, titolare
delle famose filande immortalate dal pennello di Migliara, o da Francesco Cavezzali, arricchitosi grazie
alle forniture di chinino e all’attività delle sue fornaci nel Lodigiano. Mentre con Filippo Ala Ponzoni, Luigi
Crivelli, Tommaso Gallarati Scotti, Antonio e Giulio Litta Modignani, Rosa Poldi Pezzoli, la famiglia amica
dei Negroni Prati Morosini e il fedele consulente, il letterato Andrea Maffei, entrava in gioco una seconda
generazione dell’aristocrazia progressista divenuta protagonista del nostro Risorgimento.
La sua disponibilità e la grande capacità professionale gli consentirono un certo successo anche fuori d’Italia,
presso importanti collezionisti tedeschi, come Maurizio Bethmman di Francoforte, il conte di Schönborn, il
re di Wüttemberg, ed austriaci, in particolare i funzionari dell’amministrazione asburgica come il consigliere
Karis, il ministro degli Interni Kolowrat, l’ambasciatore Lützow, ma anche lo stesso imperatore Ferdinando
I per cui realizzò uno dei suoi dipinti storici più importanti, L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari con
la propria famiglia del 1838-1840. Hanno avuto un ruolo di grande rilievo anche quegli aristocratici stranieri
che, come la contessa russa Giulia Samoyloff, l’ungherese Casimiro Batthyany, il tedesco Ludwing von
Seufferheld, si erano trasferiti a Milano svolgendovi una intensa attività culturale e mondana, non escluso
un notevole impegno anche come collezionisti d’arte, volta ad attirare la poco affidabile nobiltà locale e
a favorire il consenso nei confronti del regime, soprattutto quando al poco popolare Francesco I, troppo
legato ai rigori della Restaurazione, subentrò il più mite Ferdinando I. La sua ascesa nel 1835 al soglio
imperiale e il soggiorno a Milano nel 1838, per farsi incoronare re d’Italia, sembravano dischiudere una fase
di riconciliazione storica destinata ad infrangersi nelle drammatiche vicende del 1848.
30
Si vedano su queste tangenze La tempesta del mio cor. Il gesto del melodramma dalle arti figurative al cinema, catalogo della mostra di Parma (Palazzo
della Pilotta) a cura di G. Godi, C. Sisi, Milano 2001; Dalla scena al dipinto. La magia del teatro nella pittura dell’Ottocento. Da David a Delacroix, da Füssli
a Degas, catalogo della mostra di Rovereto (MART) a cura di G. Cogeval, B. Avanzi, Milano 2010.
1838-1882. Dalla celebrazione asburgica al tramonto della pittura storica.
Il successo dei grandi temi romantici
Le testimonianze dell’epoca concordano nel ritenere i Profughi di Parga il traguardo più alto raggiunto
da Hayez nella “pittura civile”. Nel 1841 Mazzini, sottolineando il limite oggettivo della situazione italiana
che non consentiva, come invece era potuto avvenire altrove ed in particolare in Francia per la rivoluzione
del 1830, di rappresentare gli avvenimenti contemporanei, pensava che in questo dipinto il suo “genio
democratico” si fosse trovato “nel suo centro, come lo sarebbe se la censura austriaca gli permettesse di
dipingere la notte del 29 novembre in Varsavia, o le tre giornate d’ operai e di studenti a Parigi”.
L’ opera ci impressiona ancora per la sua dimensione corale, che ha un respiro tale da poter essere
accostata al Va pensiero verdiano, e, più che in ogni altro suo quadro storico, per la forza del messaggio
politico. Infatti il popolo, che lotta e soffre per la propria libertà, vi è protagonista assoluto. Anche se non vi
è raffigurato un fatto proprio contemporaneo, si tratta di avvenimento comunque recente, relativo alla lotta
combattuta dai Greci per la propria indipendenza dal dominio turco che aveva visto una grande adesione
da parte dell’opinione pubblica in tutta Europa, suggestionata anche dalla partecipazione di personaggi
come Byron, morto, come è noto, a Missolungi nel 1824. Hayez fu certamente, insieme al Delacroix del
Massacro di Scio e della Grecia spirante sulle rovine di Missolungi, l’interprete maggiore di un genere di
pittura, il filone del cosiddetto filellenismo, diffusa a livello europeo, soprattutto tra l’Italia e la Francia35
.
Questo repertorio, di cui Hayez consegnerà poi l’esclusiva al suo vecchio amico ed epigono a Venezia
Lodovico Lipparini, finirà con il perdere il carattere di appassionato coinvolgimento patriottico per lasciarsi
prendere la mano dalle seduzioni dell’orientalismo, che sollecitavano la sperimentazione di nuove formule
espressive legate alla resa di particolari situazioni atmosferiche e luminose, e di altrettanto brillanti effetti
favoriti dalla rappresentazione dei costumi esotici. I molti dipinti dove Hayez nel corso degli anni trenta e
quaranta ha replicato questi soggetti, e soprattutto la lunga serie delle Barche di greci fuggitivi, caratterizzati
da una stesura rapida che a volte poteva indulgere ad una certa facilità illustrativa, dovevano incontrare il
favore dei collezionisti che finirono per ricercarli più per le loro qualità pittoriche che per il loro significato.
In questa direzione, che veniva incontro alle richieste di una clientela più vasta ma anche più eterogenea,
era comunque inevitabile il passaggio dall’impegno della scena storica al repertorio decisamente orientalista
dove trionferà la seduzione, particolarmente congeniale all’indole e alle sempre più sicure capacità
pittoriche di Hayez, delle Odalische e degli Interni di harem. In questi soggetti doveva incontrare una vasta
concorrenza, in particolare ancora quella di Molteni. Il successo riscosso dalle Odalische corrispondeva
alla sua straordinaria congenialità nella resa del nudo femminile, la cui sontuosa carnalità risaltava su sfondi
di paesaggi o ambienti convenzionali, ma scenicamente perfetti per dar assoluto rilievo alle figure. Questa
superba routine dei Bagni di Ninfe, Betsabea, Bagnanti ed appunto Odalische, cui si aggiungeranno le eroine
bibliche come Rebecca, Ruth, Tamar, se da un lato risentiva di un generale scadimento ideale, sopravvenuto
un po’ ovunque con il clima rampante della monarchia di Luglio, e segnava il ritorno ad una pittura piacevole
a sfondo erotico, rispondeva però anche, come conferma la qualità spesso straordinaria dei risultati, al
temperamento dell’artista, che ora ci è più noto grazie alla riscoperta di una sconvolgente serie di disegni
licenziosi cui affidò la cronaca incandescente delle sue prodezze amatorie36
, e alle sue ambizioni di riuscire
a confrontare sul “vero” la grande tradizione della pittura cinque e seicentesca, tra le Veneri tizianesche e le
più levigate nudità emiliane del Reni, del Domenichino e di Cagnacci. Anche se rimaneva un’eco della “vera
carne” che l’aveva sempre impressionato nei nudi marmorei dell’indimenticato Canova.
L’impressionante impresa della decorazione ad affresco dell’immensa volta della Sala delle Cariatidi,
l’ambiente più rappresentativo del Palazzo Reale di Milano, realizzata nel 1838 con grande professionalità,
35
Risorgimento greco e filellenismo italiano, lotte cultura arte, catalogo della mostra di Roma (Palazzo Venezia) a cura di C. Spetsieri Beschi, Roma 1986;
N.M. Athanassoglu-Kallmyer, French Images from the Greeck War of Independance, New Haven e Londra 1989.
36
F. Mazzocca, in Il Veneto e l’Austria cit., pp. 148-152; F. Mazzocca, Hayez privato. Arte e passioni nella Milano romantica, Torino 1997.
seguiva di molti anni un altro intervento nella stessa sede dove era stato impegnato tra il 1822 e il 1823
insieme a Palagi, rinnovando l’antica collaborazione a Palazzo Torlonia negli anni romani, per completare
il ciclo gli affreschi della Sala della Lanterna relativi alle storie dell’antica Roma lasciato incompiuto da
Appiani che, del resto, non era riuscito ad affrescare come aveva progettato la stessa volta della Sala
delle Cariatidi37
. Il senso di sfida con quell’ultimo mito dell’arte lombarda era ormai molto attenuato e
questa impresa, seguita al viaggio nel 1837 a Vienna e Monaco, doveva risentire dell’impressione in lui
suscitata dai grandiosi cantieri decorativi che aveva avuto occasione di ammirare nella capitale bavarese.
Nel gigantesco soffitto ovale, purtroppo polverizzato dai bombardamenti del 1943, rappresentò con un
incredibile numero di figure un soggetto complicato ed un po’ anacronistico come l’Allegoria dell’ordine
politico di Ferdinando I d’Austria.
Questa impresa, destinata a celebrare l’incoronazione dell’imperatore in Duomo con la corona ferrea
di re d’Italia, deve molto alla consulenza iconografica dell’amico poeta Andrea Maffei, responsabile del
soggetto, e a una nuova sfida espressiva che lo portò a confrontarsi con il Tiepolo. Rimaneva poi la
passione per il nudo che doveva mitigare la pur superba retorica di questa complicata macchina allegorica.
Lo doveva notare Massimo d’Azeglio, quando nel settembre del 1837 poté vedere il cartone preparatorio e
sorprendere l’amico ad iniziare la difficile “trasformazione di tante idee metafisiche come sarebbe la gloria,
la memoria, la fedeltà, la clemenza, l’immortalità, in altrettanto belle ragazzotte di bella e buona carne,
che se avessero ancora di giunta il dono di muoversi e d’essere vive, farebbero venir voglia a più d’uno di
studiar le cose metafisiche”38
.
Il rimpianto per la perdita di questo capolavoro, di cui ci resta almeno la documentazione fotografica,
è tanto più forte se pensiamo a quanto questa riconsiderazione di Tiepolo, in largo anticipo sulla sua
rivalutazione ufficiale operata da Pietro Selvatico nelle sue lezioni tenute tra il 1852 e il 1856 all’Accademia
di Venezia39 e molto prima che sui suoi “mantelloni azzurri” potessero scorgersi, come avrà modo di
notare il feroce sarcasmo di Roberto Longhi nel suo celebre Viatico per cinque secoli di pittura veneziana,
“salire in fila indiana le blatte di Barabino, di Bianchi, di Morelli, di Maccari, di Favretto, di Tito”, sia stata
decisiva per aggiornare la pittura di Hayez conferendogli un nuovo slancio e un respiro europei.
Egli riusciva, ancora una volta, a riconsegnare alla modernità la tradizione veneta, innestando in questo
caso Tiepolo sull’esperanto dell’accademismo internazionale con cui aveva avuto modo di confrontarsi a
Monaco di Baviera. La sua grandezza non doveva essere riconosciuta a Parigi dove i suoi dipinti, inviati
all’Exposition Universelle del 185540
, furono accolti dal sarcasmo di Gautier nei confronti dell’italiano
rimasto, secondo lui, un “romantique à la façon de Fragonard fils et autres nouvateurs de 1820”. Invece
nel 1841 il Selvatico, che pure non lo amava e con cui aveva avuto degli scontri, aveva voluto difenderlo
rispondendo ad un articolo pubblicato l’anno precedente sulla popolare “Revue des Deux Mondes”, dove
Hayez e Carlo Arienti erano stati liquidati come sbiaditi imitatori di Scheffer e Delaroche. Lo riconosceva ,
con un giudizio che possiamo in gran parte condividere, come
artista valoroso e veramente originale, e se nel suo pennello (non nel suo concetto mai) vi ha ombra
di imitazione, è talvolta di Paolo e più spesso (purtroppo) di Tiepolo, ma imitazione ingegnosa, libera,
e che nulla nuoce all’indipendenza del suo stile, tutto grazia e varietà, alla freschezza di quel pennello,
multiforme, gaio, brillantissimo41
.
37
F. Mazzocca, Hayez a Palazzo Reale: la Sala delle Cariatidi e la politica asburgica (1820-1830), in Hayez cit., pp. 200-210.
38
Lettera a Paolo Toschi datata Milano 15 settembre 1837, in M. d’Azeglio, Epistolario (1819-1866). I (1819-1840), a cura di G. Virlogeux, Torino 1987,
p. 286.
39
Sul ritorno a Tiepolo nel corso degli anni cinquanta si rimanda a F. Mazzocca, Una raccolta di disegni di Gerolamo Induno, episodi di vita risorgimentale,
Milano 1984.
40
Furono esposti questi dipinti: Bice del Balzo (1838), Strage di Patrasso (1839), Alberico da Romano (1850), Le Veneziane (1853), l’Autoritratto del 1848
e i ritratti di Matilde Juva Branca (1851) e di Giuseppina Negroni Prati Morosini (1853).
41
P. Selvatico, Note a “La Pittura e la Scultura in Italia” (articolo della Revue des Deux Mondes), in “Rivista Europea”, IV, 1841, pp. 321-335.
Mentre cominciava a perdere il consenso della critica ideologicamente più schierata, che privilegiando i
contenuti ne metteva in discussione il disimpegno, Hayez apriva una nuova e formalmente più matura fase
della sua pittura storica dove sul valore del messaggio prevalevano le suggestioni di uno stile che, dopo
la sua positiva verifica nelle due grandi e anche politicamente diverse commissioni pubbliche dell’affresco
asburgico per la Sala delle Cariatidi e della monumentale tela della Sete dei Crociati destinata alla reggia
di Torino dove entrava nel 1850, poteva candidarsi a linguaggio pittorico della nazione italiana che, prima
dell’unità politica, aveva conquistato una sua identità culturale, grazie anche alla letteratura se pensiamo in
particolare a Manzoni e al melodramma.
La stesura, procrastinata per quasi un ventennio, della Sete dei Crociati, il dipinto progettato come il
proprio capolavoro ancora prima che re Carlo Alberto ne rilevasse la commissione, doveva condizionare
la produzione di quegli anni, sempre più orientata a confrontarsi con il Settecento di Tiepolo e Piazzetta
entro composizioni che nei movimenti e nelle gestualità delle figure, nel superbo rapporto tra il nudo e il
panneggio, nella variazione delle atmosfere e dei colori, ci trasmettono una commozione e una suggestione
come musicali che non hanno eguali nella pittura storica sempre più convenzionale del tempo. Pensiamo a
capolavori come l’Esaù e Giacobbe del 1844, dove i sofisticati richiami al Settecento veneto e alla pittura
accademica tedesca, si risolvono nella struggente atmosfera di una cronaca senza tempo, o come i Vespri
siciliani del 1846, dove la vicenda appare come sospesa e fermata nella tensione psicologica dei gesti
e nella recuperata nella ricchezza del colore ora virato su campiture sempre più fredde, o come, infine,
l’Alberico da Romano del 1850, dove queste superbe convenzioni appaiono mitigate dal confronto con un
“vero” determinato dalla concentrazione sui risvolti individuali e familiari di quella tragica vicenda.
LacapacitàdapartediHayezdiconfrontarsi,senzalasciarsenetravolgere,conl’affermazionediquelPurismo
accademico elaborato tra Roma, Firenze e Siena, sotto le cui insegne si andrà in realtà realizzando bene
o male l’unità pittorica italiana42
, trova conferma nell’impegno monumentale della superba e neotiepolesca
pala de Il martirio di San Bartolomeo inviata, quasi come una sfida, dall’artista quasi settantenne alla chiesa
parrocchiale di Castenedolo nel 1856, da dove uscirà undici anni dopo per essere presentata, insieme ad
una nuova versione del Bacio, all’Esposizione Universale di Parigi.
Questa svolta internazionale esigeva anche una rarefazione dei temi, con il conseguente abbandono di
quelli più legati alla storia locale ripresi, con esiti meno convincenti, nell’occasione di particolari commissioni,
come i due dipinti I Consoli Milanesi eseguito per Luigi Crivelli nel 1852 o La riconciliazione dell’imperatore
Ottone II con sua madre Adelaide di Borgogna ambientato nella piazza di San Michele a Pavia e destinato
nel 1858 a Tommaso Gallarati Scotti. Preferì invece legare la propria fama, su una ribalta estesa al di là dei
confini milanesi, ad un più selezionato e appassionante repertorio romantico relativo soprattutto alla storia
di Venezia, sempre più popolare nella cultura e nella pittura europee, e alla elaborazione di nuove figure
allegoriche che, più dell’ormai declinante genere storico, rispondevano al mutato clima ideale di quegli anni
difficili, precedenti e successivi alla crisi politica e sociale del 1848.
Fu una strategia vincente, cui si devono i suoi dipinti destinati a diventare più popolari e amati, anche
perché presentano gli stessi soggetti e trasmettono la stessa commozione del melodramma, in particolare
quello di Verdi. Si tratta in realtà di un confronto anche concreto, se pensiamo al ruolo fondamentale
svolto da Hayez nella commissione dell’Accademia di Brera incaricata di sorvegliare la realizzazione degli
spettacoli, appunto le opere e i grandi balli di carattere storico, realizzati alla Scala43
.
42
Vedi F. Mazzocca, Il modello accademico e la pittura di storia, in AA.VV., La pittura in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1991, II, pp.
626-627; Nel segno di Ingres. Luigi Mussini e l’Accademia in Europa nell’Ottocento, catalogo della mostra di Siena (Complesso Museale di Santa Maria
della Scala) a cura di C. Sisi, E. Spalletti, Cinisello Balsamo (Milano) 2008.
43
F. Mazzocca, Pittura storica e melodramma: il caso di Hayez, in AA.VV., Scritti in onore di Nicola Mangini, Roma 1994, pp. 55-60; G. Agoti, L.
Ciapparelli, Hayez “regista” d’opera. La Commissione Artistica dell’Accademia di Brera e gli allestimenti verdiani alla Scala alla metà dell’Ottocento e E.
Girardi, Hayez e i rapporti con il mondo musicale, in Hayez dal mito al bacio cit., pp. 46-65
La storia di Venezia, ispirata da fonti storiche, come Sabellico, Sanuto, Daru, Sismondi, o letterarie, come
Manzoni, Byron, Niccolini, era riuscita ad assumere nelle opere realizzate tra gli anni venti e quaranta una
sua precisa identità romantica, come nel Pietro Rossi del 1820 e il Carmagnola del 1821, e civile come
nella serie sul tema privilegiato de I due Foscari e Vittor Pisani a partire dal 1840, dove veniva rappresentato
il conflitto tra le ragioni del potere e gli affetti familiari, con uno slancio libertario condiviso, se pensiamo
alla vicenda più amata dal pubblico, quella appunto de I due Foscari, con Byron ed in particolare con
Verdi44
. A questo strenuo impegno ideologico aveva corrisposto sul versante stilistico la riconsiderazione
della tradizione narrativa e epica della grande pittura veneziana del Rinascimento, come una appassionata
esplorazione delle architetture e dei costumi dell’antica Repubblica.
La crisi ideale degli anni quaranta, segnata dalle delusioni e dall’amarezza del disimpegno, farà di Hayez,
in uno dei momenti più intensi della sua vicenda creativa, il popolarissimo interprete del mito internazionale
di Venezia45
, che, come sottolineava nel 1845 Cesare Cantù a proposito di una nuova ed ultima versione
di un’altra vicenda molto rappresentata, quella di Valenza Gradenigo,
mercé d’alcune storie forestiere, della negligenza nostra e delle esagerazioni di romanzieri, di poeti, di
politici, resta nelle fantasie come uno spauracchio; una specie di prigione in grande, ove sulla cervice
di tutti pendeva la terribile spada dei Dieci e dell’inquisizione di stato. Per disporre questi bruni colori
si cercarono le linee da alcuni di quei fatti che abbondano presso tutti i popoli, d’una giustizia che
non rende ragione, di castighi inflitti a innocenti e scoperti tali dopo che era tolto il modo di ripararvi46
.
Con la celebre trilogia, formata da Accusa segreta del 1848, Il consiglio alla vendetta del 1851 e La
vendetta di una rivale (o Le Veneziane) del 1853, ispirata da Andrea Maffei, il popolare motivo della vendetta
si risolveva in splendide, “bieche immagini”, tanto intriganti nella loro estenuata definizione formale, da
segnare, in coincidenza con il rafforzarsi del mito decadente di Venezia nella cultura europea, il brusco
risveglio dal “sogno dorato”, quando
il fondo della scena si ottenebra, e in mezzo ai trionfi guerrieri, alla letizia delle feste, all’ebrezza delle
danze raffiguri tribunali segreti, e giudici inesorabili, ignoti, e cupe gelosie, e orrende vendette, che
ebbero soli testimoni il Ponte dei Sospiri e il Canal Orfano.
Quando diviene emblematico, come nella Vendetta di una rivale, il tema della maschera, mentre “Tu credi che
[…] copra un viso giocondo? t’inganni: là sotto s’ascondono le torve sembianze del sicario e del delatore”47
.
Ma è soprattutto nel particolarissimo, e pure frequentato48
, genere delle mezze figure emblematiche,
accademicamente ispirate alla tradizione emiliana delle Sibille e delle Cleopatre, tra Reni, Guercino,
Domenichino e Cagnacci, che Hayez elaborò una sua originalissima rarefazione di un’iconografia rilanciata
dal Romanticismo, conferendo alla Malinconia nelle due successive versioni del 1840 e del 1842, ma anche
alle meditabonde eroine bibliche, dalla più volte rappresentata Rebecca alle due versioni di Ruth a Tamar
di Giuda, realizzate tra il quarto e in quinto decennio, e soprattutto alla straordinaria Ciociara del 1842, da
identificarsi come una allegoria dell’Italia, una tale icasticità da farne le inquiete muse del contemporaneo
male di vivere.
44
F. Mazzocca, Pittura storica e melodramma. I dipinti di Francesco Hayez su “I due Foscari”, in Festival Verdi. Parma e le terre di Verdi. I due Foscari, a
cura di P. Petrobelli, Parma 2009, pp. 71-91.
45
Venezia nell’Ottocento. Immagini e mito, catalogo della mostra di Venezia (Ala Napoleonica e Museo Correr) a cura di G. Pavanello, G. Romanelli,
Milano 1983.
46
C. Cantù, La Gradenigo davanti agli Inquisitori, quadro di Francesco Hayez, in Album. Esposizione di Belle Arti, IX, Milano 1845, p. 21.
47
M. Gatta, Le Veneziane, quadro di Francesco Hayez, in Album. Esposizione di Belle Arti, XV, 1853, pp. 3-4.
48
Come dimostrano i dipinti sul tema della Malinconia e soggetti analoghi di Natale Schiavoni o le sculture di Luigi Ferrari, su cui B. Cinelli, in L’Ottocento
di Andrea Maffei, catalogo della mostra di Riva del Garda (Museo Civico) a cura di M. Botteti, B. Cinelli, F. Mazzocca, Riva del Garda 1987, pp. 168-174.
Mentre su una più estesa fortuna del tema P.-K. Schuster, Das Bilder Zur Wirkungsgeschichte von Dürers Melancholiekupferstich, in “Idea Jahrbuch der
Hamburger Kunsthalle”, I, 1982, pp. 72-134.
Quando, con le due versioni della Meditazione nel 1850 e 1851, questi motivi s’innestavano con l’amara
riflessione sulla crisi politica e ideale seguita al dramma non solo italiano del 1848-1849, Hayez ritornava
al centro del dibattito artistico, influenzando in maniera decisiva la scultura di Vincenzo Vela, che affronterà
lo stesso tema come con La preghiera del mattino del 1846 si era ispirato alla Malinconia, e offrendoci,
soprattutto nella seconda redazione dove compare sulla croce la data vergata con il rosso sangue dei
martiri delle gloriose e tragiche Cinque Giornate di Milano, una struggente immagine dell’Italia identificata
come la giovane patria “bella e perduta”.
Questo percorso finisce non a caso nell’atmosfera umbratile e sospesa del suo dipinto più popolare, Il bacio,
anch’esso realizzato in diverse versioni, di cui le tre più importanti sono state per la prima volta riunite in
questa occasione. Sia quello, oggi a Brera, presentato all’esposizione del 1859, allestita dopo la liberazione
di Milano da parte delle truppe di Vittorio Emanuele II e di Napoleone III, sia quello inviato all’Esposizione
Universale di Parigi del 1867, dove riscosse un enorme successo, vennero accolti con un entusiasmo
determinato non solo dalla trascinante rappresentazione di un tema così universale e coinvolgente, ma
anche dal fatto che i due amanti che sembrano fondere insieme i loro corpi rappresentano la passione
che aveva accompagnato la nascita dell’Italia finalmente unita. In realtà questo dipinto, così intenso ed
essenziale, nascondeva tra le pieghe della sua allusività, insieme ad uno slancio di ottimismo, anche le
perplessità del vecchio artista, che tanto aveva combattuto con la sua pittura per una causa la quale però
si andava realizzando tra i compromessi, come dimostrava la delusione per l’armistizio di Villafranca che
lasciava l’amata Venezia ancora in mano dell’Austria.
Con questa precoce testimonianza Hayez si inseriva dunque, come altri artisti del tempo, nella schiera di
quanti erano rimasti delusi da come si erano realizzati i sogni del Risorgimento. Questa amarezza, espressa
anche da testimonianze personali, come quando scriveva negli ultimi tempi all’amica Luigia Negroni Prati
Morosni che “leggere Goldoni per staccarsi dai tristi pensieri è un mezzo buonissimo tanto più che ognuno
di noi non possiamo migliorare i tempi né [lo possono] le teste esaltate”, si tradurrà negli anni successivi in
una volontaria diserzione, rimproveratagli dalla critica, di fronte alle istanze di una pittura storica educativa
e celebrativa che la propaganda della nuova nazione chiedeva agli artisti.
Ma nei due monumentali dipinti, la Distruzione del Tempio di Gerusalemme ed il Marin Faliero, lungamente
preparati come dimostrano i moltissimi disegni di studio e presentati a Brera nel 1867, per essere destinati
come proprio testamento artistico alle due Accademie di Venezia e di Milano cui era stata legata nel tempo
la sua vita, smentiva, guadagnandosi il sostegno di Camillo Boito, i suoi detrattori e la morte stessa, troppe
volte annunciata, di quel grande genere storico che gli aveva data fama e ricchezza, consentendogli nella
sua quasi secolare carriera di restare l’ultimo grande “pittore italiano”. Mentre le sue sembianze, ancora
fiere, venivano sovrapposte a quelle del vecchio Doge Marin Faliero che indicava con la mano il patibolo,
ricoperto da un drappo nero, su cui avrebbe lasciato la testa. Fu questo il suo modo di congedarsi, con
un grande senso della scena e prima della sua reale scomparsa avvenuta quindici anni dopo, dal mondo.

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Hayez - Estratto saggio Mazzocca

  • 1. HAYEZ Milano, Gallerie d’Italia - Piazza Scala 7 novembre 2015 – 21 febbraio 2016 Mostra a cura di Fernando Mazzocca “Il genio democratico” di Hayez Un grande pittore italiano interprete delle speranze e delle delusioni del Romanticismo Estratti dal saggio in catalogo di Fernando Mazzocca E l’opera sua è la Consacrazione della Vita… (Giuseppe Mazzini, 1841) Nello straordinario saggio poi tradotto e raccolto nell’edizione nazionale degli Scritti con il titolo La pittura moderna italiana, apparso negli anni dell’esilio londinese sul prestigioso foglio del liberalismo radicale inglese, il “London and Westminster Review”, tra il gennaio e l’aprile del 1841, Giuseppe Mazzini pensava che nell’Italia contemporanea, diventata per gli osservatori stranieri la “terra dei morti”, soffocata da un passato troppo grande e irraggiungibile, la pittura, dopo un periodo di profonda decadenza che aveva coinciso con l’età neoclassica, fosse risorta grazie a quello che si accingeva a consacrare come il “genio democratico” di Hayez, “un grande pittore idealista italiano del secolo XIX”, il “capo della scuola di Pittura Storica che il pensiero Nazionale reclamava in Italia”, “l’ artista più inoltrato che noi conosciamo nel sentimento dell’Ideale che è chiamato a governare tutti i lavori dell’epoca”. Ne riconosceva senza riserve l’originalità, quando affermava che la “sua ispirazione emana direttamente dal proprio Genio”, e la capacità di aver saputo interpretare, come Byron e come i maggiori letterati e musicisti italiani del tempo, Foscolo, Manzoni, Rossini, Donizetti, le aspirazioni e le angosce dell’età romantica1 . Mazzini rivendicava il respiro europeo della pittura di Hayez e ne ribadiva il primato, del resto come vedremo già affermati da Stendhal quando, in una lettera inviata dall’Isola Bella il 17 gennaio 1828 all’amico Alphonse Gonsollin, l’aveva ritenuto “le premier peintre vivant”, citando uno dei dipinti fondamentali, quella prima Medaglia del Presidente della Repubblica Con il patrocinio di In collaborazione con Accademia di Brera, Milano Gallerie dell’Accademia, Venezia Pinacoteca di Brera, Milano 1 Il contributo più aggiornato sull’argomento si deve alla rassegna Romantici e Macchiaioli. Giuseppe Mazzini e la grande pittura europea, catalogo della mostra di Genova (Palazzo Ducale) a cura di F. Mazzocca con la collaborazione di F. Leone, L. Lombardi, A. Villari, Milano 2005.
  • 2. versione di Pietro l’Eremita del 1827-1829, poi interpretato in maniera magistrale dal grande esule che ne fece, insieme a Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria del 1826-1831, l’opera chiave per capire l’ideologia e la poetica dell’ artista completo per quel tanto che i tempi lo permettono: che si assimila, per riprodurlo in simboli, il pensiero dell’epoca, quale esso s’agita compresso nel seno della nazione; che armonizza il concetto e la forma: idealizza le sue figure senza falsarle; crea protagonisti, non tiranni: fa molto sentire e molto pensare. Per Mazzini Hayez è interprete davvero universale e vicino al popolo, quasi un vate perché il posto che gli spetta è fuori di quelle sfere; è quello della Storia. Trattata dal punto di vista dell’avvenire. Là, è grande e solo: lo storico della razza umana, e non di qualcuna delle sue individualità preminenti. Nessuno fin qui, tra i pittori, ha sentito come lui la dignità della creatura umana, non quale brilla agli occhi di tutti sotto la forma del potere, del grado, della ricchezza o del Genio, ma quale si rivela agli uomini di fede o di amore, originale, primitiva, inerente a tutti gli esseri che sentono, amano, soffrono e aspirano, secondo le loro forze, con la loro anima immortale. In mezzo alle mille forme umane, che la storia evoca, variate, ineguali, attorno a lui, egli domina, sacerdote del Dio che penetra, riabilita e santifica tutte le cose. E l’opera sua è la Consacrazione della Vita. Con questa appassionata lettura, destinata a rimanere ineguagliata, Mazzini si inseriva nel percorso di una fortuna, quella di Hayez, tenacemente costruita e consolidata dalle battaglie, come vedremo, che la critica milanese ed in particolare Defendente Sacchi, insuperabile interprete del genere storico, avevano combattuto e vinto, sulle pagine dei vivaci periodici popolari, in suo favore2 . Forse alcune opere deve averle solo conosciute indirettamente attraverso questi articoli che si faceva inviare dalla madre, ma di altre, come quelle comparse alle esposizioni di Brera degli anni venti e come appunto Pietro l’Eremita, che si trovava insieme ad altri quadri di Hayez nella prestigiosa collezione genovese di Francesco Peloso, Mazzini deve invece avere avuto probabilmente esperienza diretta. E convinto che “in pittura, bisogna vedere”, mostra di aver compreso non solo il messaggio ma anche lo stile, l’originale tecnica e l’indole stessa dell’artista che, ricorda dipinge rapido e sicuro qualche schizzo, che non si cura neanche di conservare, gli basta per mettersi all’opera: non ha l’abitudine di preparare un impasto generale di colori, per ripassare su di esso con altri sfumati diversamente; cambia, ad ogni colpo di pennello, le sue tinte sulla tavolozza. L’Hayez è lavoratore assiduo; trascorre le intere giornate, solo, nel suo studio, di cui apre egli stesso la porta, e non ha nulla di quella affettata apparenza che è prediletta da tanti pittori. Le sue maniere sono semplici, franche, talvolta rudi e burbere, ma che tradiscono sempre bontà. Il suo viso bruno è aperto e pieno d’espressione: la sua fronte serena, i suoi occhi brillanti. Mazzini, che non aveva sicuramente avuto occasione di visitare lo studio di Hayez a Milano, deve però aver letto, quasi sicuramente, un magnifico articolo di Sacchi, comparso su diversi giornali e poi pubblicato in una sua raccolta di scritti dove veniva evocato quell’ambiente assai semplice; una stanza non troppo grande ingombra di vari leggii sui quali posavano i quadri che stava lavorando, ignude le pareti senza la solita impannata di disegni, di carte, d’abbozzi, senza che v’abbia attelata la consueta schiera di automi, di gessi, con cui sogliono i pittori a Roma popolare la casa. Hayez dopo qualche schizzo, senza moltiplicare gli studi, le prove, pinge alla prima i suoi quadri, indi li invia a chi glieli allogò, senza tenerne disegni o ricordanze: è il genio che crea, né mai si volge addietro3 . 2 Sulla critica militante di Defendente Sacchi: R. Bossaglia, Defendente Sacchi: il pensiero sull’arte e S. Zatti, Cronache di Belle Arti a Brera nelle recensioni di Defendente Sacchi, in AA.VV., Defendente Sacchi, filosofo, critico e narratore, Fonti e Studi per la storia dell’Università di Pavia, n. 18, Milano 1992, pp. 259-283; Scritti d’arte del primo Ottocento, a cura di F. Mazzocca, Milano-Napoli 1998, pp. 135-141, 426-430. 3 D. Sacchi, Un provinciale a Milano. Visita allo studio di Hayez, in Miscellanea di lettere ed arti, Pavia 1830, pp. 150-151 (in Scritti d’arte cit., p. 427).
  • 3. Quindi l’identità e l’originalità del pittore romantico, diverso dagli ultimi fedeli interpreti della grande tradizione classica che dominavano ancora la scena romana, stava non solo nei temi prescelti, ispirati alla storia nazionale e alla letteratura moderna sostituite alla storia antica e alla mitologia, ma anche nei procedimenti tecnici, nello stile, nel modo stesso di comportarsi e proporre di sé un’immagine in cui compare il compiacimento di sé. Questa emerge dai numerosi autoritratti – è tra gli artisti che hanno affrontato di più questo genere – tra cui vanno considerati anche quelli inseriti, così come Hitchcock che entra come comparsa in ogni suo film, nei dipinti storici. Di solito dobbiamo identificarlo tra i personaggi secondari. In alcuni casi invece darà addirittura le proprie sembianze al protagonista, come nella serie de I due Foscari o in quel dipinto testamentario che è il Marin Faliero del 1867. La fortuna del Bacio, con cui l’artista è stato e continua ad essere identificato in maniera forse troppo esclusiva, ha determinato l’eclisse della grande pittura storica, a cui l’artista credeva invece che sarebbe stata affidata la sua fama, e concentrato l’attenzione sui ritratti e i superbi nudi femminili, la cui bellezza non è stata mai messa in discussione. Così tra le due guerre, soprattutto nella prestigiosa ribalta internazionale delle Biennali di Venezia, Hayez poteva essere considerato a livello di Ingres. Bisognerà però aspettare il dopoguerra e la riabilitazione della cultura accademica, transitata nelle grandi mostre allestite nel corso degli anni settanta tra l’America e l’Europa, perché si potesse riprendere in considerazione anche il pittore storico, riscoperto proprio attraverso le testimonianze critiche dell’epoca e il confronto con il melodramma4 . È stata del resto la chiave di lettura della grande mostra allestita nel 1983, tra il Palazzo Reale, la Pinacoteca e l’Accademia di Brera, la Biblioteca Nazionale Braidense, nell’occasione del centenario della morte5 . Qui i riscoperti dipinti storici dialogavano nuovamente, come era avvenuto nelle esposizioni dell’epoca in cui erano stati presentati e si erano ritrovati al centro di un vivace dibattito critico, con il resto della produzione di un artista versatile ed egualmente straordinario in altri generi, dalla pittura religiosa ai temi biblici e orientalisti, al ritratto e al nudo, dove risalta soprattutto la qualità di una stesura in cui aveva un peso decisivo l’ispirazione e l’estro del momento, come documentano ancora i pentimenti visibili ad occhio nudo. Diversamente da quella del 19836 , questa rassegna, che presenta diverse opere fondamentali allora non note o non disponibili, fa emergere i generi e i motivi con cui l’artista si è misurato nella sua lunga carriera, all’interno di un percorso cronologico che, scandito dalla presenza dei numerosi autoritratti, diventa anche la narrazione di una vita spesa sempre in prima linea per l’affermazione di quegli ideali del Romanticismo di cui in pittura è stato il maggiore interprete proprio negli anni, decisivi per la nostra storia, del Risorgimento e della realizzazione dell’Italia unita. Del resto ha finito, anche se con qualche riserva7 , con l’esser affiancato a Manzoni e Verdi, insieme a questi grandi che hanno saputo meglio esprimere con le loro opere l’identità nazionale8 . 4 Si tratta della pista aperta in particolare dalla grande rassegna De David à Delacroix. La peinture française de 1774 à 1830, transitata tra il 1974 e il 1975 dal Grand Palais di Parigi al Detroit Institute of Arts al Metropolitan Museum di New York e in Italia dal Romanticismo Storico, realizzata tra il 1973 e il 1974 da Sandra Pinto, coadiuvata da Paola Barocchi e Fiamma Nicolodi che si erano occupate rispettivamente della letteratura artistica e dei rapporti con il melodramma, presso La Meridiana di Palazzo Pitti a Firenze. 5 Hayez, catalogo della mostra di Milano (Palazzo Reale e Palazzo di Brera) a cura di M.C. Gozzoli, F. Mazzocca, Milano 1983, preparata dalla monografia di F. Mazzocca, Invito a Francesco Hayez, Milano 1982 e seguita dall’ancora fondamentale F. Mazzocca, Francesco Hayez. Catalogo ragionato, Milano 1994. 6 Bisogna poi considerare la meno ricca rassegna allestita tra il 1998 e il 1999 a Palazzo Zabarella a Padova (Hayez dal mito al bacio, catalogo della mostra a cura di F. Mazzocca, Venezia 1998), un edificio che nel 1818-1819 era stato decorato dall’artista. In quell’occasione avevo voluto tenere conto di alcune novità emerse dal citato Catalogo ragionato. 7 Particolarmente significative quelle espresse dallo storico Pasquale Villari, secondo il quale “non ebbe l’audace coraggio del Manzoni” (P. Villari, La pittura moderna in Italia e in Francia, in “Nuova Antologia”, X, 1869, pp. 108-109) e da Luca Beltrami, secondo il quale sarebbe “un grave errore presentarlo, oggi ancora, come un riformatore, un ribelle” (L. Beltrami, Hayez, 1791-1882, in “Penombre”, 30 settembre e 7 ottobre 1883). 8 Le tangenze tra questi tre protagonisti sono stati oggetto della rassegna più recente, anche se della meno completa, a lui dedicata: Hayez nella Milano di Manzoni e Verdi, catalogo della mostra di Milano (Pinacoteca di Brera) a cura di F. Mazzocca, I. Marelli, S. Bandera, Milano 2011.
  • 4. 1807-1819. Nel segno di Tiziano, di Raffaello e di Canova. La formazione e i primi successi tra Venezia e Roma Le possibilità e il destino del giovane “nato dal popolo”9 , “nato da parenti poveri” che l’avevano lasciato ancora bambino nelle mani dello zio, il disinvolto mercante d’arte Giovanni Binasco, dovevano essere molto chiari a Leopoldo Cicognara, l’autore della insuperata Storia della scultura in Italia e allora Presidente dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, quando aveva inviato l’allievo Francesco Hayez a Roma, affidandolo all’amico Canova. Erano ormai trascorsi tre anni e il 28 aprile del 1812 poteva scrivere al grande scultore, esprimendo uno straordinario augurio: “Oh per Dio che avremo anche noi un pittore; ma bisogna tenerlo a Roma ancora qualche tempo, e io farò di tutto perché vi rimanga”. Alla sensibilità di Cicognara non sfuggiva il fatto che solo nella magnifica officina internazionale della Roma neoclassica10 , e negli studi dell’Accademia Nazionale insediata dal governo del napoleonico Regno d’Italia a Palazzo Venezia, potesse finalmente realizzarsi l’ambizioso progetto che Hayez potesse diventare l’artista, come Canova aveva fatto con la scultura, in grado di risollevare alla dignità e alla fama perduta la pittura italiana. Se, come riconosceranno i suoi futuri sostenitori, da Stendhal ai critici militanti milanesi, che nella battaglia tra classici e romantici si schiereranno dalla sua parte, a Mazzini, Hayez è diventato davvero l’interprete delle aspirazioni nazionali, il creatore di un linguaggio pittorico in cui l’Italia potesse riconoscersi, gli anni della formazione a Roma tra il 1809 e il 1817 sono stati decisivi. Andando nella città eterna, per divenirvi un grande pittore “italiano”, doveva realizzare una delle istanze dell’ambizioso progetto istituzionale di Cicognara che, allestendo la Pinacoteca dell’Accademia di Venezia con i capolavori recuperati dalle chiese e da altre sedi pubbliche, aveva inteso consacrare il livello europeo, in polemica con la tradizione storiografica da Vasari a Lanzi, della scuola pittorica veneta. Così aveva indicato nell’accostamento tra Tiziano e Canova, affiancando i gessi dello scultore alla monumentale pala dell’Assunta trasferita dai Frari, quell’equilibrio tra Tradizione e Modernità, Ideale e Natura, che avrebbe dovuto ispirare il “risorgimento” pittorico italiano. Giunto a Roma, Hayez doveva accorgersi che lì si preferiva naturalmente collocare Canova accanto all’antico e a Raffaello. Ed infatti, dopo aver ammirato i celebri marmi capitolini e vaticani, o i grandi mosaici che nella Basilica di San Pietro riproducevano i capolavori seicenteschi di Domenichino, Subleyras, Valentin, Poussin, Reni, Guercino, si immerse totalmente nella contemplazione e nello studio delle Stanze dove, come ricorderà nelle proprie Memorie, aveva trovato che “considerando poi la parte del colorito”, in particolare “nella disputa del Sacramento, nell’Attila e più di tutto nel Miracolo di Bolsena è al livello di Tiziano (beninteso parlo solo del colore), quantunque Tiziano abbia alle volte disegnato come Raffaello”. Il confronto tra questi due grandi, che trovava risolto nel plastico pittoricismo delle sculture canoviane11 , è stato la base di una ricerca pittorica che lo ha portato in breve a grandi risultati, tali da distinguerlo nettamente nella schiera degli altri allievi delle tre Accademie nazionali di Milano, Venezia e Bologna, inviati come lui, dopo aver vinto il relativo concorso, a formarsi a Roma. La continua emulazione, sollecitata anche dal più anziano Pelagio Palagi12 scelto come loro guida, all’interno dell’Accademia di Palazzo Venezia, gli consentirà di bruciare le tappe e raggiungere molto presto, incanalate finalmente le sue doti naturali, quei traguardi legati alla strategia di Cicognara. Egli era dunque riuscito ad imporre il nome di Hayez facendolo partecipare, 9 Secondo l’espressione coniata da Mazzini nel saggio sopra citato e che accomuna come “nati dal popolo” i protagonisti, tra cui fa emergere Hayez, della rinascita della pittura italiana contemporanea. 10 Questa vocazione e tale ambito sono stati perfettamente restituiti dalla grande rassegna Maestà di Roma. Da Napoleone all’Unità d’Italia. Universale ed Eterna Capitale delle Arti, catalogo della mostra di Roma (Scuderie del Quirinale e Galleria Nazionale d’Arte Moderna), progetto di S. Susinno realizzato da S. Pinto con L. Barroero e F. Mazzocca, Milano 2003. 11 Sul fondamentale rapporto con Canova, anche come fonte di ispirazione, si rimanda a Canova. L’ideale classico tra scultura e pittura, catalogo della mostra di Forlì (Musei San Domenico) a cura di S. Androsov, F. Mazzocca, A. Paolucci con S. Grandesso, F. Leone, Cinisello Balsamo 2009, pp.142-144, 246-248, 262-263, 271-273, 313-314, 334-335. 12 Il proficuo rapporto e l’amicizia con Palagi, iniziata a Roma, saranno destinati a proseguire e diventare ancora più decisivi negli anni milanesi, su cui si veda Pelagio Palagi artista e collezionista, catalogo della mostra di Bologna (Archiginnasio) a cura di R. Grandi, A. M. Matteucci e AA.VV., Bologna 1976.
  • 5. sempre d’accordo con Canova che continuerà a nutrire una incondizionata fiducia e affetto nei riguardi del giovane protetto, ai più prestigiosi concorsi accademici e alle maggiori commissioni pubbliche e private. Risale al 1812 il clamoroso successo con il Laocoonte al grande Concorso di Pittura di quella che stava diventando la maggiore Accademia italiana, Brera a Milano. Nel 1813 inviava il solare e sensuale Rinaldo e Armida, straordinaria reinterpretazione di Tiziano e Canova, all’Accademia di Venezia, per confermare i risultati raggiunti. Nello stesso anno lo ritroviamo impegnato, a fianco di Palagi, nella decorazione di una delle gallerie del fastoso Palazzo Torlonia dedicata alle Storie di Teseo. Era stata la grande opportunità per confrontarsi, per la prima volta, con la decorazione murale e la recuperata tecnica “nazionale” dell’affresco, in cui si cimenterà, come vedremo, anche in seguito, dopo il suo ritorno a Venezia e ancora addirittura a Milano. È stato documentato anche il suo coinvolgimento nel grande cantiere internazionale del Quirinale, dove le occasioni di incontro con Camuccini, Landi, Palagi, Giani, Ingres, Thorvaldsen, Minardi, Pinelli, Madrazo, furono decisive13 . Risale sempre al 1813 l’impresa più ambiziosa, la commissione procuratagli ancora per l’intervento di Cicognara da parte della corte di Napoli, quella di Gioacchino Murat, di un monumentale dipinto con un soggetto omerico, già trattato da Canova nei suoi bassorilievi, Ulisse alla corte di Alcinoo, destinato a confrontarsi, come ancora oggi, nella splendida reggia di Capodimonte con i capolavori di Camuccini e Benvenuti, i maggiori protagonisti del Neoclassicismo eroico di cui si mostrava assolutamente all’altezza. L’opera, realizzata tra il 1814 e il 1816, è certamente il maggior risultato raggiunto da Hayez negli anni della sua formazione romana, che sarà chiusa dal concorso vinto nel 1814 all’Accademia di San Luca con l’Atleta trionfante e l’intervento, tra il 1816 e il 1817, nella decorazione ad affresco del cosiddetto corridoio Chiaramonti nel braccio nuovo dei Musei Vaticani. Si trattava di un’impresa che, contemporaneamente al ciclo degli affreschi a soggetto biblico realizzato dai Nazareni su commissione del console prussiano Bartholdy a Palazzo Zuccari, intendeva rilanciare la grande pittura murale, considerata da Canova, promotore dell’impresa, la più idonea a celebrare i risultati della moderna politica di sostegno e tutela delle arti realizzata dal restaurato pontefice Pio VII. Tra le tre lunette affrescate da Hayez spicca, anche per il suo significato, quella che rappresenta il ritorno a Roma, in cui fu decisivo il ruolo del grande scultore, dei capolavori vaticani requisiti dai Francesi14 . Anche se il risultato delle decorazioni vaticane non doveva soddisfare né Canova, né Hayez, che infatti non porterà a termine il suo incarico, l’occasione fu importante per confrontarsi con i Nazareni, come Overbeck, Cornelius, Veit, Eggers, presenti gli ultimi due anche a Palazzo Zuccari ed impegnati nel 1817- 1818 dallo scultore nel ciclo del corridoio Chiaramonti. La riscoperta da parte dei giovani pittori tedeschi della pittura dei cosiddetti Primitivi, tra cui anche Mantegna e Giovanni Bellini, reinterpretati attraverso Dürer e Raffaello, dovrà suggestionare una svolta decisiva nel percorso artistico di Hayez, iniziata quando, dopo il ritorno nel 1817 a Venezia, venne incaricato da Cicognara, sempre più convinto delle sue capacità, di eseguire un dipinto su tavola con l’impegnativo soggetto biblico della Pietà di Ezechia re d’ Israele, da inserire tra le opere, quadri, sculture e splendidi oggetti d’arte che dovevano comporre l’Omaggio destinato all’imperatore d’Austria Francesco I in occasione delle sue quarte nozze con Carolina Augusta di Baviera15 . Intanto il dibattito sulla riscoperta bellezza della pittura del Quattrocento era stato aperto e veniva alimentato da alcune prestigiose iniziative, sempre sotto l’egida di Cicognara, come l’apertura della nuova Pinacoteca dell’Accademia16 , i numerosi interventi di restauro o di sostituzione con copie dei dipinti più importanti 13 S. Susinno, Hayez in Palazzo Torlonia e al Vaticano: il recupero dell’affresco. L’intervento al Quirinale, in Hayez cit., pp. 32-36. 14 H. Hiesinger, Canova and the frescoes of the Galleria Chiaramonti, in “The Burlington Magazine”, 9, 1978, pp. 656-659. 15 Il dipinto, non ancora rintracciato, è riprodotto in un’incisione eseguita dallo stesso Hayez nell’album illustrato dedicato a questa impresa: Omaggio delle Provincie Venete alla Maestà di Carolina Augusta Imperatrice d’Austria, Venezia 1818, tav. 3. Sulla vicenda si rimanda a R. De Feo, Giuseppe Borsato 1770-1849, Verona (in corso di stampa). 16 G. Moschini Marconi, Gallerie dell’Accademia di Venezia. Opere d’arte dei secoli XIV e XV, Roma 1955.
  • 6. conservati nelle chiese eseguiti sotto la direzione di Pietro Edwards e una vasta riconsiderazione storiografica di cui sono eco gli elogi pronunciati in Accademia di Giorgione, celebrato nel 1811 dallo stesso Cicognara, di Giovanni Bellini nel 1812 da Francesco Aglietti, il medico erudito che assisterà Canova nel momento della morte, dei Vivarini, ricordati nel 1816 da Antonio Neumann Rizzi e di Mantegna commemorato nel 1818 dal padovano Daniele Francesconi17 . Hayez doveva approfondire la sua conoscenza e la riflessione sui Primitivi, quando tra il 1812 e il 1817 venne impegnato da Cicognara nell’esecuzione dei disegni, destinati a essere tradotti in incisione, delle opere da riprodurre nella sua Storia della scultura, per cui venne inviato nelle grotte Vaticane, a Orvieto e Napoli, seguendo dunque un itinerario quattrocentesco molto coerente18 . Gli ultimi anni trascorsi da Hayez a Roma erano stati difficili per tutti. A Canova nel 1816 non era piaciuta affatto la prima prova del suo protetto nel ciclo vaticano dedicato al pontefice, per cui Hayez fu costretto a rifare la lunetta, anche se con esiti che ancora una volta non soddisfacevano entrambi. Cicognara, giunto a Roma per offrire a Pio VII, e fargliene accettare la dedica, il secondo volume della Storia della scultura, veniva accolto con tale freddezza da anticipare la sua partenza e tornarsene a Venezia, dopo aver commissionato ad Hayez un polemico ritratto dove veniva rappresentato insieme alla seconda moglie e al figlio di primo letto, accanto ad un busto colossale dell’amico Canova e con in mano una stampa che ricordava il fallito progetto, tanto idoleggiato dallo scultore, di realizzare una colossale statua della Religione cattolica da collocare in San Pietro o al Pantheon. Queste delusioni e la crisi delle committenze pubbliche nella Roma restituita al potere temporale determinavano il ritorno definitivo di Hayez nella sua città d’origine dove, sempre appoggiato e consigliato da Cicognara, si trovò impegnato nell’esecuzione della Pietà d’Ezechia e soprattutto assorbito quasi esclusivamente in una febbrile e assai lucrosa attività di decoratore destinata a durare almeno tre anni, dal 1818 al 1821, tra Venezia e Padova. Questa vicenda, ricostruita puntualmente in più occasioni da Giuseppe Pavanello19, piuttosto che nella tecnica dell’affresco sperimentata a Roma, lo vide cimentarsi nella decorazione a secco, a tempera, secondo moduli riferibili al repertorio della grottesca, al gusto pompeiano, ma anche a Giani. I risultati più interessanti sono quelli raggiunti in occasioni più prestigiose, come a Palazzo Reale, dove traduceva in pittura le più seducenti invenzioni canoviane, come nel caso delle Danzatrici e delle Grazie. Questa fitta produzione, rivelatrice di una tecnica veloce e prodigiosa come di una grande capacità professionale, appare improntata ad una gusto “sostanzialmente conservatore, che finisce con l’esaurirsi in un’eleganza fine a se stessa”20, anche se si riscatta come abbiamo visto negli interventi a Palazzo Reale, nel ciclo dei sofisticati temi platonici suggeritegli dal letterato Andrea Mustoxidi per il palazzo del facoltoso mercante greco Giovanni Papadopoli e soprattutto nell’impresa più impegnativa realizzata tra l’autunno del 1818 e la primavera del 1819 in due sale a pianterreno di Palazzo Ducale che allora ospitavano gli uffici della Borsa della Camera di Commercio di Venezia. Le quattordici lunette, molto deteriorate e in gran parte miracolosamente recuperate in questa occasione, rivelano un attento studio delle decorazioni di Raffaello, Giulio Romano e Sebastiano del Piombo alla Farnesina. Vi domina il tema delle divinità marine rappresentate tra le onde ed il loro modello inequivocabile è il famoso affresco raffaellesco con 17 F. Mazzocca, Arte e politica nel Veneto asburgico, in Il Veneto e l’Austria. Vita e cultura artistica nelle città venete 1814-1866, catalogo della mostra di Verona (Palazzo della Gran Guardia) a cura di S. Marinelli, G. Mazzariol, F. Mazzocca, Milano 1989, pp. 42-44. 18 F. Mazzocca, in Hayez cit., pp. 58-59. 19 G. Pavanello, La decorazione del Palazzo Reale di Venezia, in “Bollettino dei Musei Civici Veneziani”, 1-2, 1976, pp. 3-34; Id., Hayez frescante neoclassico, in “Arte Veneta”, XXXI, 1977, pp. 273-283; Id., La decorazione neoclassica nei palazzi veneziani, in Venezia nell’età di Canova, catalogo della mostra di Venezia (Ala Napoleonica e Museo Correr) a cura di G. Pavanello e AA.VV., Venezia 1978, pp. 281-300; Id., La decorazione neoclassica a Padova, in “Antologia di Belle Arti”, 13-14, 1980, pp. 55-73; Id., Hayez decoratore a Venezia e a Padova, in Hayez cit., pp. 45-52; Id., La decorazione dei palazzi veneziani negli anni del dominio austriaco (1814-186), in Il Veneto e l’Austria cit., pp. 259-261; Id., Il “Parnaso Veneto” di Francesco Hayez, in “Neoclassico”, I 1992, pp. 61-69. 20 G. Pavanello, Hayez decoratore cit., p. 46.
  • 7. il Trionfo di Galatea, anche se poi le tinte molto accese e una certa carica sensuale che caratterizza i bellissimi nudi rimandano a Tiziano, ma pure alle sculture di Canova. Forse per questo si attireranno l’ammirazione di Stendhal, menzionate nel Voyage d’Italie de 182821 . Rispetto alle decorazioni nei palazzi privati, Hayez qui riprendeva slancio cimentandosi nella tecnica del buon fresco, già sperimentata ma non con esiti così convincenti e originali a Palazzo Torlonia e nei Musei Vaticani. Del resto questa, che rappresenta se non l’unica certamente la più importante e in qualche misura l’ultima impresa pittorica realizzata a Palazzo Ducale dopo la caduta della Repubblica, rimane la vicenda più importante di questi anni veneziani, altrimenti dissipati in un’attività, quella decorativa, poco qualificata dal punto di vista culturale e che lo distoglieva da perseguire quella missione di cui l’avevano investito Canova e Cicognara. Come il pittore riferirà nelle Memorie era stato proprio quest’ultimo a metterlo in guardia, avvisandolo che “ora in Venezia non troverete facilmente commissioni di quadri, ma bensì dipinti di decorazione che vi faranno guadagnare molti denari, ma con ciò non diventerete quell’artista che io ho predetto, né raggiungerete quel grado nell’arte cui potete aspirare”. 1820-1837. Milano. Dalla rivoluzione romantica alla dimensione “politica” della pittura “civile” Per riprendere in mano il proprio destino, ritornando alla dimensione impegnata del dipinto storico da cavalletto, Hayez capì che doveva lasciare Venezia e imporsi nella scena artistica milanese che, dopo gli splendori del Regno Italico e le glorie mietute da grandi pittori di talento ormai scomparsi come Andrea Appiani e Giuseppe Bossi, si andava qualificando per il suo vivace mercato artistico e un collezionismo collegati alle sempre più promettenti esposizioni organizzate da quell’Accademia di Brera dove era conservato il suo primo capolavoro, quel magnifico Laocoonte per cui era stato premiato nel 1812. La fuga a Milano, annunciata nel 1820 con la sensazionale presentazione a Brera del Pietro Rossi, il quadro divenuto manifesto della rivoluzione romantica in pittura, sarà definitivamente consumata con il trasferimento avvenuto nel 1823, quando sarà designato supplente di Luigi Sabatelli, sempre più impegnato nell’imponente ed interminabile cantiere decorativo di Palazzo Pitti a Firenze, sulla più prestigiosa cattedra di Pittura d’Italia, quella dell’ Accademia milanese. L’acquisto di questo dipinto, dopo una gara serrata tra i collezionisti milanesi più impegnati anche politicamente, da parte del giovane marchese carbonaro Giorgio Pallavicino Trivulzio, e la richiesta di altre opere subito avanzata dagli altri contendenti delusi, che del resto saranno accontentati, indicarono ad Hayez quali opportunità gli si aprissero nella Milano della battaglia tra classici e romantici. Questa sembrava dovesse avviarsi alla sua fine senza alcun convincente contributo sul versante figurativo. L’attesa novità venne, con un tempismo che spiazzava un po’ tutti, Canova e Cicognara compresi, da questo giovane che, tra il faticoso impegno come decoratore, si era saputo ritagliare il tempo per ricerche ispirate, come confessava a Canova nell’agosto nel 1818 quando aveva iniziato a realizzare il Pietro Rossi, “ciecamente alla verità consultando però i capi d’opera del Gio. Bellini, dei Conigliani e dei Carpacci veri imitatori del vero”22 . Queste sperimentazioni non erano state comprese a Venezia, al di là di quella esclusiva cerchia di conoscitori, come Emanuele Cicogna, che, come riferiscono i celebri Diari, era rimasto incantato dai magici toni “zambelliniani” – il riferimento è allo Zambellino cioè Giovanni Bellini – di quel dipinto e degli altri che lo avrebbero subito seguito all’inizio degli anni venti prima del trasferimento definitivo nella capitale lombarda, come L’addio di Ettore e Andromaca, l’ossianesco Catmor e Sulmalla, il Conte di Carmagnola e la prima versione dei Vespri siciliani. 21 F. Mazzocca, “Le premier peintre vivant” Francesco Hayez protagonista tra neoclassicismo e romanticismo, in Tilo Schulz Francesco Hayez, catalogo della mostra di Venezia (Espace Luois Vitton) a cura di C. Tonini, Venezia 2015, pp. 12-19. 22 Lettera di Hayez ad Antonio Canova datata Venezia 10 agosto 1818 (Bassano del Grappa, Biblioteca e Museo Civico, Epistolario Scelto Canova, V.500.3498).
  • 8. Il Pietro Rossi e il Carmagnola, così vicini nel soggetto e nella resa formale, proponevano per la prima volta la novità della storia “nazionale”, relativa alle vicende dell’Italia moderna, e non più dell’antichità. Questo secondo dipinto, ispirato alla storia di Venezia però amplificata dall’omonima tragedia di Manzoni, Cicognara avrebbe voluto che Hayez lo esponesse a Venezia. Ma, come ricorda ancora Cicogna, fu proprio il suo autore che “non volle e il quadro partì per Milano”, dove venne presentato con grande successo a Brera nel 1821. Così nella sua prolusione pronunciata all’Accademia quell’anno Cicognara non esitò a rimproverare “il Sig, Francesco Hayez Veneziano” che non aveva saputo “resistere al desiderio di quei nobili Committenti che vollero arricchire l’Accademia milanese delle sue produzioni, e ne defraudò in tal modo la Veneta, la quale rimase con desiderio di applaudire il proprio Concittadino, ed inviarlo al suo luminoso destino”. A questo punto l’artista si sentì in dovere di spiegare le ragioni di questa scelta decisiva, facendo appello all’autorità al di sopra delle parti di Canova, cui scriveva il 31 luglio 1821: Amerei anche poter io stesso raccontargli la necessità ch’io ebbi di spedire prima della esposizione i miei quadri a Milano. Quattro anni ch’io sono in Venezia, e l’ordinazione di una sola testa non l’ho ancora avuta per sostentarmi dove fare il pittore di decorazione, intanto sentivo decantare e i Agricola e i Bezzuoli, ed io ero nell’avvilimento. Credei che fosse necessario di fare a qualunque sacrificio un Quadro (quantunque avessi fatto quello per Vienna23 ) per vedere se con un’opera studiata potessi procurarmi una qualche ordinazione. Videro i Veneziani questa mia fatica reggere la ragione, ma non si mossero, lo vide Lei stesso in Casa Cicognara ella mi fece coraggio e mi parve non restasse scontento, mi lusingò di farlo vedere a quella Sig. Inglese che si trovava in Venezia. Lo vide questa per mezzo del Cav. Presidente, e dopo aver date delle commissioni in Roma si contentò solamente nel mio quadro di domandarne il prezzo, che quantunque umile, pure non ebbe esito felice, io disperato faccio con un maggior sacrificio il viaggio a Milano. In Milano sa che un numero di compratori volevano acquistare il mio Pietro Rossi, e quelli che non l’hanno potuto acquistarlo mi hanno dato delle commissioni, dunque i Milanesi e non i Veneziani mi hanno incoraggiato quest’anno a riprodurre nuove fatiche pittoriche, e a Milano dunque ho voluto che siano esposte queste mie produzioni dove il genio di quella popolazione mi fa ancora più sperare della patria mia24 . Hayez aveva capito che solo la competitività e la disponibilità anche culturale del collezionismo e del mercato dell’arte a Milano, dove Bezzuoli aveva già potuto sfondare all’esposizione di Brera del 1817 con il tema romantico di Paolo e Francesca seguito nel 1819 dal pendant Angelica e Medoro, riuscivano ad offrire all’artista le opportunità e le garanzie per riaffermare la propria libertà e originalità. Là le sue opere, tramite anche i giudizi espressi dai giornali popolari, susciteranno un vivace dibattito e verranno offerte alle considerazioni del pubblico, certamente più generose di quelle di certi mecenati arroganti. E proprio da Milano, all’indomani del suo trasferimento definitivo nel 1823, poteva orgogliosamente ribadire al mediatore veneziano Giovanni Guerci della Rovere: Arrivato il Sig. Conte Sommariva25 ed interpellato se voleva acquistare il disegno suddetto, ebbi un’assoluta negativa, né io volli poiché non è il mio costume seccare alcuno ma solo mi piace che volontariamente dagli altri dipenda il comprare od il commettere; sono stato sempre onesto così e piuttosto che chiedere e domandar ai Veneziani me ne sono partito; realmente l’artista dopo tanta fatica di studi fatti, ad aver qualche merito, sdegna di fare il ciarlatano per sé e per gli altri26 . 23 Il riferimento è alla Pieta di Ezechia eseguita nel 1817 per l’Omaggio delle Provincie Venete. 24 Lettera di Hayez ad Antonio Canova datata Venezia 31 luglio 1821 (Bassano del Grappa, Biblioteca e Museo Civico, Epistolario Scelto Canova, II.83.1571). 25 Proprio nel 1823 il celebre collezionista Giovanni Battista Sommariva aveva acquistato da Hayez il fondamentale L’ultimo bacio dato a Giulietta da Romeo (qui esposto). 26 Lettera di Hayez a Giovanni Guerci della Rovere datata Milano 12 settembre 1823 (Bologna, Civica Biblioteca dell’Archiginnasio).
  • 9. Le rapide e inattese novità portate dal dibattito artistico intorno al 1820, anno della comparsa del Pietro Rossi, erano destinate a rimanere a lungo impresse nella mente dei milanesi, se ancora nella seconda parte dei Cent’anni, il grande romanzo ciclico redatto da Giuseppe Rovani tra il 1859 e il 1864, il protagonista Giulio Baroggi rivolge questa considerazione allo scultore Pompeo Marchesi: Canova è morto; e tutte le arti si rinnovano. È il momento questo di tirare alla fortuna che passa veloce. Quel diavolo che ha fatto questa musica, ha sfidato il passato che pareva insuperabile, e ha vinto. Tutta Milano è sottosopra; e le ragazze singhiozzano e si tormentano se han le guance rubiconde, perché Ildegonda doveva averle pallidissime; Hayez quest’anno ha trionfato nelle sale di Brera, e lasciando l’antichità, ha fatto il suo ingresso nel medio evo. Non si parla più d’Appiani, meno di Bossi. Camuccini è un pedante; Benvenuti è convenzionale, Landi e Serangeli fanno pietà; Palagi s’arrabatta nel circo per atterrar l’avversario di Venezia; ma non ci riuscirà […]. Questa avvincente rievocazione della svolta romantica a Milano negli anni del “Conciliatore” e delle improvvise fortune di Rossini e Tommaso Grossi, l’autore della popolarissima novella in versi di soggetto moderno l’Ildegonda pubblicata nel 1820, l’anno stesso dell’esposizione del Pietro Rossi, risulta, nonostante l’anticipazione dell’emblematica morte di Canova scomparso solo nel 1822, molto plausibile e trova una straordinaria rispondenza nelle considerazioni di Stendhal che, dopo aver ammirato la seconda versione, oggi scomparsa, del Carmagnola, esposta a Brera nel 1824 e destinata ad un collezionista di Francoforte, osservava nel Salon de 1824 che Il n’est bruit en Italie que du tableau de ce jeune Vénitien, exposé à Milan, et qui représente le Comte de Carmagnola allant à la mort, et recevant les derniers adieux de sa femme et de ses filles. Il faut convenir que ce sujet intéresse plus que la Mort d’ un brigand, ou qu’ une Halte de pèlerines dans la campagne de Rome. Toutes les lettres s’accordent à porter aux nues le tableau du peintre vénitien, et à placer ce jeune artiste bien au-dessus de Camuccini et de Benvenuti, peintres en grand renom, qui, chargés d’ honneur à Florence et à Rome, voient les suffrages du public se retirer de leurs ouvrages, comme certains grande peintres de Paris. La couleur et le clair-obscur sont le parties brillantes de l’ ouvrage de M. Hayez, qui est déparé par quelques fautes de dessin choquantes. L’expression des personnages est vive et profonde: on sent que ce peintre a de l’ âme27 . Con uno stile che aveva abbandonato deliberatamente il bel disegno, a favore di una sprezzatura espressiva che faceva diventare pregi quelli che dal punto di vista accademico potevano apparire degli errori, Hayez si era distaccato dalla dimensione ideale del Neoclassicismo e dai soggetti ispirati alla mitologia e dalla storia antica, proponendo una pittura romantica e “nazionale” dove si catalizzeranno anche le tensioni politiche di quegli anni, di quei moti carbonari che hanno avuto un commosso interprete nel Manzoni del Marzo 1821. È l’anno della presentazione a Brera della prima versione del Carmagnola, il grande tema che Stendhal doveva trovare tanto più incisivo e attuale, nella sua allusione alle difficoltà di quei tempi, rispetto alla visione folcloristica dell’Italia proposta dai dipinti ispirati alle vicende dei briganti e alla devozione popolare di Léopold Robert o Jean-Victor Schnetz. Appropriatosi della storia moderna, Hayez veniva riconosciuto dalla critica e dal pubblico delle esposizioni milanesi, che erano seguite anche da prestigiosi osservatori stranieri28 , come il protagonista del movimento romantico. Questa consacrazione fu per molto tempo contrastata, come confermano le vivaci polemiche, se non lo scandalo, suscitati dalla esposizione delle sue opere successive, dipinti provocatori e dimostrativi, l’Ajace del 1822, la Maddalena penitente del 1825, la Venere che scherza con due colombe del 1830, dove la trasposizione di moduli classici e canoviani nella dimensione romantica del confronto sul vero del modello reale o di Tiziano, interpretato come anticipatore del naturalismo romantico, raggiunge risultati di straordinaria bellezza. A quella classica veniva contrapposta una mitologia romantica che aveva i suoi 27 Stendhal, Salon de 1824, in Mélanges d’art, Parigi 1867, p. 216. 28 Oltre a quello di Stendhal un altro caso significativo è quello di Ludwig Schörn che sul prestigioso periodico di Stoccarda il “Kunst-Blatt” pubblicò regolarmente a partire dal 1822 le sue recensioni sulle esposizioni di Brera.
  • 10. eroi e le sue eroine nei protagonisti della grande letteratura moderna come Romeo e Giulietta, Imelda e Bonifacio, Maria Stuarda, Valenza Gradenigo, Bice del Balzo, Caterina Cornaro, temi più volte replicati e mantenuti in repertorio per molti anni sino a quando l’avvento del realismo non ne rivelerà la stanchezza e li metterà in liquidazione. Le ripetizioni successive non eguaglieranno più la quasi imbarazzante, ma splendida, carnalità della Giulietta del 1823, delle sensualissime Maddalene, delle Veneri, delle Betsabee realizzate tra gli anni venti e trenta. Il dibattito critico che accompagnò, soprattutto all’inizio, la comparsa di questi scandalosi capolavori, si fece particolarmente aspro nei toni d’accusa degli ancora numerosi sostenitori del bello ideale, come il segretario dell’ Accademia di Brera Ignazio Fumagalli, recensore ufficiale delle esposizioni sulla rivista che compattava l’ancora influente schieramento classicista la “Biblioteca Italiana”. La condanna divenne piuttosto violenta quando Hayez osò dissacrare la mitologia nell’Ettore che rimprovera Paride seduto nel Gineceo e nella Venere che scherza con due colombe, entrambi esposti nel 1830, rappresentando questi soggetti senza tener conto dei canoni tradizionali e dando ai personaggi omerici una “fisionomia” non più idealizzata, che “direbbesi lombarda, anzi che frigia o trojana”. Invece per i sostenitori, sempre più agguerriti, del movimento romantico, come Giuseppe Sacchi, giovane allievo pavese di Gian Domenico Romagnosi, il grande teorico che era divenuto il punto di riferimento degli intellettuali più impegnati e politicamente orientati, la sconvolgente conclusione era che Hayez ebbe invece l’intrepidezza di abbandonare ai bamboli l’ardua cura di copiare alla meglio un vero già copiato per fare della pittura un erudito mosaico: egli tolse dal vero contemporaneo tutto quanto di trascelto gli si offerse alla fantasia, ritrasse la vita stessa, e lasciato il buono stile accademico agli amatori degli sbadigli, continuò nello stile che egli da solo creossi e che perfezionò studiando il vero vivo e il vero de’ suoi tempi29 . Negli anni successivi al trasferimento a Milano nel 1823, la rapida affermazione professionale schiudeva alla sua pittura, che si confrontava con diversi generi e si avviava verso soluzioni formali sempre più complesse ed ardite, nuovi orizzonti. Questa lunga e straordinaria stagione, destinata a chiudersi nella seconda metà degli anni trenta, sarà segnata da tre esperienze parallele: una sperimentazione sulla figura concentrata sull’esaltazione del nudo, prevalentemente quello femminile, il grande genere storico (che ha compreso anche significative incursioni sul versante della pittura sacra) e il ritratto. Come protagonista riconosciuto del movimento romantico, cui conservatori e benpensanti continuavano a contestare effrazioni ai canoni della bellezza ideale, egli volle dar prova delle sue straordinarie doti di pittore, dimostrando la sua forza e la sua originalità nell’affrontare i soggetti più richiesti dai collezionisti che intendevano evitare l’impegno della pittura storica. Si concentrò, anche perché era congeniale alla sua indole di libertino, sulle figure femminili nude, puntando su tipologie consuete come quelle di Venere, Maddalena, Betsabea, Lot e le figlie, Bagni di Ninfe, da cui discenderà negli anni quaranta la superba serie delle Odalische e delle Bagnanti, per ribaltarne le tradizionali associazioni formali in provocazioni naturalistiche, che a volte, come nel caso della celebre Venere che scherza con due colombe, giudicata la “più schifosa donna del volgo”, erano sembrate ai limiti della decenza, comunque sempre sotto il segno dell’amatissimo Tiziano o di Giulio Romano o di Guido Reni. La sua pittura storica, nel momento in cui si candiderà a linguaggio figurativo della nazione cui le speranze del Risorgimento aspirava, cercherà di regolarizzare i soggetti attraverso un maggior impegno sulle fonti, sia quelle documentarie che letterarie e figurative, per superare le suggestioni eroiche e troppo libertarie degli inizi. Defendente Sacchi è stato il primo a tracciare con sicurezza il discrimine concettuale, ma anche figurativo, tra i “manifesti” romantici come il Pietro Rossi, il Carmagnola, la Congiura dei Lampugnani, il Fiesco, incentrati come le tragedie manzoniane su un singolo eroe sconfitto, e la dimensione corale di quella che definì felicemente “pittura civile”. Sono i capolavori della maturità, come Pietro l’Eremita del 29 G. Sacchi, Le Belle Arti in Milano nell’anno 1830, in “Il Nuovo Ricoglitore”, VI, 1830, p. 573.
  • 11. 1827-1829 o i Profughi di Parga del 1826-1831, dove le dimensioni del quadro si dilatano per consentire di rappresentare una moltitudine di eroi anonimi, inseriti nel respiro di ampi spazi naturali attraverso una più complessa orchestrazione compositiva. Sul versante stilistico abbiamo il recupero delle sontuosità narrative e cromatiche della tradizione veneta tra Bassano e Veronese. Questo nuovo linguaggio interpretava la forza coesiva dei grandi ideali quale strumento di riscatto politico e morale, ricordando quanto nella storia sia stata decisiva l’azione popolare, individuata come l’“alto sentire dei popoli, in cui possentemente può lo spirito religioso e l’entusiasmo dell’età è la fiaccola che accende il volto al guerriero cinto di tutte le armi, alla donna, al forese”30 . Se nel genere storico Hayez era riuscito a superare presto i suoi rivali per dominarvi incontrastato, questo non avvenne nei ritratti, che costituirono un settore importante nel mercato artistico di quegli anni. Qui il suo successo fu contrastato da quello dei due rivali storici, Pelagio Palagi e Giuseppe Molteni. Lo scontro con il primo risale al 1822-1823, quando oltre che sul terreno della pittura storica ebbero l’opportunità di confrontarsi su quello della ritrattistica ufficiale, a destinazione civile, rappresentato dalle immagini dei benefattori realizzate per la Quadreria dell’Ospedale Maggiore di Milano, annualmente esposte sotto i portici del Filarete nella solennità ambrosiana della Festa del Perdono31 . In Hayez al rinnovamento del genere storico corrisponde anche quello del ritratto, dove riesce a superare l’idealizzazione neoclassica che, nonostante l’insorgere di suggestioni naturalistiche e motivazioni civili, è quella che percorre ancora con successo Palagi, per perseguire invece in un registro di pacato realismo una caratterizzazione individuale, drammatica, “domestica” dei personaggi raffigurati. Secondo Defendente Sacchi era riuscito a dare nuova vita alla grande tradizione del ritratto veneziano cinquecentesco, per il quale se uno di Raffaello sarà così ben condotto, così finito che ti farà esclamare: divina pittura; uno di Tiziano, di Paolo ti farà dire: questo è un uomo. Così fu spesso ripetuto dell’Hayez quando produsse ritratti a Brera, nelle logge dell’Ospedale di Milano per coloro che legarono parte dei loro averi a questo stabilimento. Tale è quello del Presidente Taverna: vedi l’uomo probo, il savio magistrato, e vi leggi sulla fronte i pensamenti dell’animo: questa testa si muove, sotto quella pelle scorre il sangue, quel capo pone rispetto per la vicina calvizie: nulla accade di aggiungere degli accessorj, poiché le tele, le sete e fino i merletti li giudichi non pinti ma veri. Avventurata famiglia che tiene effigiato si maestrevolmente in tele o in marmo il proprio padre, li può bene alzarsi un’ara, e ottenere da tutti ossequio32 . Queste immagini intensamente interiorizzate e decantate da un mestiere sorretto da una naturale sicurezza e da una estrema misura finiranno con il contrapporsi, dopo che sarà tramontato l’astro di Palagi, alle eleganti icone alla moda del cosiddetto “ritratto istoriato” di Molteni, il grande restauratore che, dopo avere esordito nel 1828 alle esposizioni di Brera, lanciava l’anno seguente, presentando per diciannove ritratti, la sua sfida ad Hayez, abbagliando il pubblico con il “lusso degli accessorj, l’imitazione dei panni, dei velluti, dei rasi, degli ori, dei talchi, la tavolozza che fa specchietto e abbarbaglia, e soprattutto l’arte adulatrice” che, come rievocherà un po’ disgustato Giuseppe Rovani, aveva lusingato “il bel mondo patrizio” che “si fece imbiondire da questo re della moda”33 . Il confronto tra i ritratti di Hayez e quelli di Molteni, riproposto puntualmente ad ogni esposizione, diveniva un motivo ricorrente nella critica contemporanea fino alla metà del secolo, anche se Carlo Tenca, già nel 30 D. Sacchi, Esposizione delle Belle Arti al Palazzo di Brera a Milano nel 1829, in “La Minerva Ticinese”, XXXIX, 1829, p.668. 31 La Ca’ Granda. Cinque secoli di storia e d’arte dell’Ospedale Maggiore di Milano, catalogo della mostra di Milano (Palazzo Reale) a cura di G.A. Dell’Acqua e G. Testori, Milano 1981; Ospedale Maggiore Ca’ Granda. Ritratti moderni, a cura di M.T. Fiorio, Milano 1987. 32 D. Sacchi, Un provinciale a Milano. Visita allo studio di Hayez cit., pp. 152-153. 33 G. Rovani, Le tre arti considerate in alcuni illustrai contemporanei, Milano 1874, pp. 163-164. Sulla sua figura e la sua produzione, recuperata e presa in considerazione, si rimanda a Giuseppe Molteni (1800-1867) e il ritratto nella Milano romantica. Pittura, collezionismo, restauro, tutela, catalogo della mostra di Milano (Museo Poldi Pezzoli e Museo di Storia Contemporanea) a cura di F. Mazzocca, L.M. Galli Michero, P. Segramora Rivolta, Milano 2001.
  • 12. 1845, aveva liquidato la superficialità e le convenzioni del pittore di Affori, mentre il veneziano raggiungerà nella serie dei capolavori degli anni cinquanta, come Matilde Juva Branca, Selene Taccioli Ruga e Mariquita d’Adda Falcò, un tale raffinato equilibrio tra la interpretazione dei sentimenti, lo scavo psicologico e la valorizzazione pittorica degli abiti, da destinare queste immagini a simbolo dell’animo più segreto ed inquieto del Romanticismo lombardo. Il confronto più significativo tra i due resta quello relativo a due dei ritratti più famosi del secolo, quelli del Manzoni. Molteni, nel dipinto ora conservato nella sala della Biblioteca Nazionale Braidense a lui dedicata, offriva nel 1835 l’icona seducente dello scrittore romantico che posa ispirato, con il suo romanzo in mano, sullo sfondo di “quel ramo del lago di Como” da lui reso immortale. Hayez nel quadro, il suo più celebre dopo il Bacio, conservato a Brera, restituiva nel 1841 tutta l’interiorità e le inquietudini dell’uomo rappresentato seduto mentre stringe in primo piano la sua tabacchiera. In Hayez l’impegno nella ritrattistica risulta complementare a quello nel prediletto genere storico. Questa stringente relazione trova conferma nella consuetudine, con cui si ricollegava alla grande tradizione rinascimentale ed in particolare veneta, di prestare ai protagonisti dei suoi dipinti storici le sembianze degli amici, di personaggi noti e spesso dei committenti stessi. Non mancava poi, come abbiamo già notato, di inserire anche il proprio autoritratto. Era un modo per attualizzare le vicende rappresentate e favorire il coinvolgimento del pubblico, abituato a vedere le stesse scene rievocate sui palcoscenici contemporanei. Sappiamo come la pittura storica e il melodramma abbiano trattato spesso gli stessi soggetti34 . La intensa e sempre prestigiosa produzione di ritratti servì anche a rendere più stretto il rapporto con una committenza e un collezionismo che, negli anni dell’esordio milanese, restarono circoscritti all’aristocrazia illuminata e alla grande burocrazia già coinvolte con il regime napoleonico, come nel caso di Francesco Arese, Giorgio Pallavicino Trivulzio, Giacomo Ciani, Giovanni Battista Sommariva, Carlo Cicogna, il bresciano Paolo Tosio, il veneziano Giacomo Treves, per poi estendersi alla nuova imprenditoria dove spiccano i grandi banchieri come Ambrogio Uboldo e il genovese Francesco Peloso; ai funzionari pubblici come Antonio Patrizio e Luigi Taccioli. Mentre la classe emergente e civilmente impegnata legata alle nuove attività industriali vi risulta ben rappresentata da personaggi di spicco come Enrico Mylius, titolare delle famose filande immortalate dal pennello di Migliara, o da Francesco Cavezzali, arricchitosi grazie alle forniture di chinino e all’attività delle sue fornaci nel Lodigiano. Mentre con Filippo Ala Ponzoni, Luigi Crivelli, Tommaso Gallarati Scotti, Antonio e Giulio Litta Modignani, Rosa Poldi Pezzoli, la famiglia amica dei Negroni Prati Morosini e il fedele consulente, il letterato Andrea Maffei, entrava in gioco una seconda generazione dell’aristocrazia progressista divenuta protagonista del nostro Risorgimento. La sua disponibilità e la grande capacità professionale gli consentirono un certo successo anche fuori d’Italia, presso importanti collezionisti tedeschi, come Maurizio Bethmman di Francoforte, il conte di Schönborn, il re di Wüttemberg, ed austriaci, in particolare i funzionari dell’amministrazione asburgica come il consigliere Karis, il ministro degli Interni Kolowrat, l’ambasciatore Lützow, ma anche lo stesso imperatore Ferdinando I per cui realizzò uno dei suoi dipinti storici più importanti, L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari con la propria famiglia del 1838-1840. Hanno avuto un ruolo di grande rilievo anche quegli aristocratici stranieri che, come la contessa russa Giulia Samoyloff, l’ungherese Casimiro Batthyany, il tedesco Ludwing von Seufferheld, si erano trasferiti a Milano svolgendovi una intensa attività culturale e mondana, non escluso un notevole impegno anche come collezionisti d’arte, volta ad attirare la poco affidabile nobiltà locale e a favorire il consenso nei confronti del regime, soprattutto quando al poco popolare Francesco I, troppo legato ai rigori della Restaurazione, subentrò il più mite Ferdinando I. La sua ascesa nel 1835 al soglio imperiale e il soggiorno a Milano nel 1838, per farsi incoronare re d’Italia, sembravano dischiudere una fase di riconciliazione storica destinata ad infrangersi nelle drammatiche vicende del 1848. 30 Si vedano su queste tangenze La tempesta del mio cor. Il gesto del melodramma dalle arti figurative al cinema, catalogo della mostra di Parma (Palazzo della Pilotta) a cura di G. Godi, C. Sisi, Milano 2001; Dalla scena al dipinto. La magia del teatro nella pittura dell’Ottocento. Da David a Delacroix, da Füssli a Degas, catalogo della mostra di Rovereto (MART) a cura di G. Cogeval, B. Avanzi, Milano 2010.
  • 13. 1838-1882. Dalla celebrazione asburgica al tramonto della pittura storica. Il successo dei grandi temi romantici Le testimonianze dell’epoca concordano nel ritenere i Profughi di Parga il traguardo più alto raggiunto da Hayez nella “pittura civile”. Nel 1841 Mazzini, sottolineando il limite oggettivo della situazione italiana che non consentiva, come invece era potuto avvenire altrove ed in particolare in Francia per la rivoluzione del 1830, di rappresentare gli avvenimenti contemporanei, pensava che in questo dipinto il suo “genio democratico” si fosse trovato “nel suo centro, come lo sarebbe se la censura austriaca gli permettesse di dipingere la notte del 29 novembre in Varsavia, o le tre giornate d’ operai e di studenti a Parigi”. L’ opera ci impressiona ancora per la sua dimensione corale, che ha un respiro tale da poter essere accostata al Va pensiero verdiano, e, più che in ogni altro suo quadro storico, per la forza del messaggio politico. Infatti il popolo, che lotta e soffre per la propria libertà, vi è protagonista assoluto. Anche se non vi è raffigurato un fatto proprio contemporaneo, si tratta di avvenimento comunque recente, relativo alla lotta combattuta dai Greci per la propria indipendenza dal dominio turco che aveva visto una grande adesione da parte dell’opinione pubblica in tutta Europa, suggestionata anche dalla partecipazione di personaggi come Byron, morto, come è noto, a Missolungi nel 1824. Hayez fu certamente, insieme al Delacroix del Massacro di Scio e della Grecia spirante sulle rovine di Missolungi, l’interprete maggiore di un genere di pittura, il filone del cosiddetto filellenismo, diffusa a livello europeo, soprattutto tra l’Italia e la Francia35 . Questo repertorio, di cui Hayez consegnerà poi l’esclusiva al suo vecchio amico ed epigono a Venezia Lodovico Lipparini, finirà con il perdere il carattere di appassionato coinvolgimento patriottico per lasciarsi prendere la mano dalle seduzioni dell’orientalismo, che sollecitavano la sperimentazione di nuove formule espressive legate alla resa di particolari situazioni atmosferiche e luminose, e di altrettanto brillanti effetti favoriti dalla rappresentazione dei costumi esotici. I molti dipinti dove Hayez nel corso degli anni trenta e quaranta ha replicato questi soggetti, e soprattutto la lunga serie delle Barche di greci fuggitivi, caratterizzati da una stesura rapida che a volte poteva indulgere ad una certa facilità illustrativa, dovevano incontrare il favore dei collezionisti che finirono per ricercarli più per le loro qualità pittoriche che per il loro significato. In questa direzione, che veniva incontro alle richieste di una clientela più vasta ma anche più eterogenea, era comunque inevitabile il passaggio dall’impegno della scena storica al repertorio decisamente orientalista dove trionferà la seduzione, particolarmente congeniale all’indole e alle sempre più sicure capacità pittoriche di Hayez, delle Odalische e degli Interni di harem. In questi soggetti doveva incontrare una vasta concorrenza, in particolare ancora quella di Molteni. Il successo riscosso dalle Odalische corrispondeva alla sua straordinaria congenialità nella resa del nudo femminile, la cui sontuosa carnalità risaltava su sfondi di paesaggi o ambienti convenzionali, ma scenicamente perfetti per dar assoluto rilievo alle figure. Questa superba routine dei Bagni di Ninfe, Betsabea, Bagnanti ed appunto Odalische, cui si aggiungeranno le eroine bibliche come Rebecca, Ruth, Tamar, se da un lato risentiva di un generale scadimento ideale, sopravvenuto un po’ ovunque con il clima rampante della monarchia di Luglio, e segnava il ritorno ad una pittura piacevole a sfondo erotico, rispondeva però anche, come conferma la qualità spesso straordinaria dei risultati, al temperamento dell’artista, che ora ci è più noto grazie alla riscoperta di una sconvolgente serie di disegni licenziosi cui affidò la cronaca incandescente delle sue prodezze amatorie36 , e alle sue ambizioni di riuscire a confrontare sul “vero” la grande tradizione della pittura cinque e seicentesca, tra le Veneri tizianesche e le più levigate nudità emiliane del Reni, del Domenichino e di Cagnacci. Anche se rimaneva un’eco della “vera carne” che l’aveva sempre impressionato nei nudi marmorei dell’indimenticato Canova. L’impressionante impresa della decorazione ad affresco dell’immensa volta della Sala delle Cariatidi, l’ambiente più rappresentativo del Palazzo Reale di Milano, realizzata nel 1838 con grande professionalità, 35 Risorgimento greco e filellenismo italiano, lotte cultura arte, catalogo della mostra di Roma (Palazzo Venezia) a cura di C. Spetsieri Beschi, Roma 1986; N.M. Athanassoglu-Kallmyer, French Images from the Greeck War of Independance, New Haven e Londra 1989. 36 F. Mazzocca, in Il Veneto e l’Austria cit., pp. 148-152; F. Mazzocca, Hayez privato. Arte e passioni nella Milano romantica, Torino 1997.
  • 14. seguiva di molti anni un altro intervento nella stessa sede dove era stato impegnato tra il 1822 e il 1823 insieme a Palagi, rinnovando l’antica collaborazione a Palazzo Torlonia negli anni romani, per completare il ciclo gli affreschi della Sala della Lanterna relativi alle storie dell’antica Roma lasciato incompiuto da Appiani che, del resto, non era riuscito ad affrescare come aveva progettato la stessa volta della Sala delle Cariatidi37 . Il senso di sfida con quell’ultimo mito dell’arte lombarda era ormai molto attenuato e questa impresa, seguita al viaggio nel 1837 a Vienna e Monaco, doveva risentire dell’impressione in lui suscitata dai grandiosi cantieri decorativi che aveva avuto occasione di ammirare nella capitale bavarese. Nel gigantesco soffitto ovale, purtroppo polverizzato dai bombardamenti del 1943, rappresentò con un incredibile numero di figure un soggetto complicato ed un po’ anacronistico come l’Allegoria dell’ordine politico di Ferdinando I d’Austria. Questa impresa, destinata a celebrare l’incoronazione dell’imperatore in Duomo con la corona ferrea di re d’Italia, deve molto alla consulenza iconografica dell’amico poeta Andrea Maffei, responsabile del soggetto, e a una nuova sfida espressiva che lo portò a confrontarsi con il Tiepolo. Rimaneva poi la passione per il nudo che doveva mitigare la pur superba retorica di questa complicata macchina allegorica. Lo doveva notare Massimo d’Azeglio, quando nel settembre del 1837 poté vedere il cartone preparatorio e sorprendere l’amico ad iniziare la difficile “trasformazione di tante idee metafisiche come sarebbe la gloria, la memoria, la fedeltà, la clemenza, l’immortalità, in altrettanto belle ragazzotte di bella e buona carne, che se avessero ancora di giunta il dono di muoversi e d’essere vive, farebbero venir voglia a più d’uno di studiar le cose metafisiche”38 . Il rimpianto per la perdita di questo capolavoro, di cui ci resta almeno la documentazione fotografica, è tanto più forte se pensiamo a quanto questa riconsiderazione di Tiepolo, in largo anticipo sulla sua rivalutazione ufficiale operata da Pietro Selvatico nelle sue lezioni tenute tra il 1852 e il 1856 all’Accademia di Venezia39 e molto prima che sui suoi “mantelloni azzurri” potessero scorgersi, come avrà modo di notare il feroce sarcasmo di Roberto Longhi nel suo celebre Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, “salire in fila indiana le blatte di Barabino, di Bianchi, di Morelli, di Maccari, di Favretto, di Tito”, sia stata decisiva per aggiornare la pittura di Hayez conferendogli un nuovo slancio e un respiro europei. Egli riusciva, ancora una volta, a riconsegnare alla modernità la tradizione veneta, innestando in questo caso Tiepolo sull’esperanto dell’accademismo internazionale con cui aveva avuto modo di confrontarsi a Monaco di Baviera. La sua grandezza non doveva essere riconosciuta a Parigi dove i suoi dipinti, inviati all’Exposition Universelle del 185540 , furono accolti dal sarcasmo di Gautier nei confronti dell’italiano rimasto, secondo lui, un “romantique à la façon de Fragonard fils et autres nouvateurs de 1820”. Invece nel 1841 il Selvatico, che pure non lo amava e con cui aveva avuto degli scontri, aveva voluto difenderlo rispondendo ad un articolo pubblicato l’anno precedente sulla popolare “Revue des Deux Mondes”, dove Hayez e Carlo Arienti erano stati liquidati come sbiaditi imitatori di Scheffer e Delaroche. Lo riconosceva , con un giudizio che possiamo in gran parte condividere, come artista valoroso e veramente originale, e se nel suo pennello (non nel suo concetto mai) vi ha ombra di imitazione, è talvolta di Paolo e più spesso (purtroppo) di Tiepolo, ma imitazione ingegnosa, libera, e che nulla nuoce all’indipendenza del suo stile, tutto grazia e varietà, alla freschezza di quel pennello, multiforme, gaio, brillantissimo41 . 37 F. Mazzocca, Hayez a Palazzo Reale: la Sala delle Cariatidi e la politica asburgica (1820-1830), in Hayez cit., pp. 200-210. 38 Lettera a Paolo Toschi datata Milano 15 settembre 1837, in M. d’Azeglio, Epistolario (1819-1866). I (1819-1840), a cura di G. Virlogeux, Torino 1987, p. 286. 39 Sul ritorno a Tiepolo nel corso degli anni cinquanta si rimanda a F. Mazzocca, Una raccolta di disegni di Gerolamo Induno, episodi di vita risorgimentale, Milano 1984. 40 Furono esposti questi dipinti: Bice del Balzo (1838), Strage di Patrasso (1839), Alberico da Romano (1850), Le Veneziane (1853), l’Autoritratto del 1848 e i ritratti di Matilde Juva Branca (1851) e di Giuseppina Negroni Prati Morosini (1853). 41 P. Selvatico, Note a “La Pittura e la Scultura in Italia” (articolo della Revue des Deux Mondes), in “Rivista Europea”, IV, 1841, pp. 321-335.
  • 15. Mentre cominciava a perdere il consenso della critica ideologicamente più schierata, che privilegiando i contenuti ne metteva in discussione il disimpegno, Hayez apriva una nuova e formalmente più matura fase della sua pittura storica dove sul valore del messaggio prevalevano le suggestioni di uno stile che, dopo la sua positiva verifica nelle due grandi e anche politicamente diverse commissioni pubbliche dell’affresco asburgico per la Sala delle Cariatidi e della monumentale tela della Sete dei Crociati destinata alla reggia di Torino dove entrava nel 1850, poteva candidarsi a linguaggio pittorico della nazione italiana che, prima dell’unità politica, aveva conquistato una sua identità culturale, grazie anche alla letteratura se pensiamo in particolare a Manzoni e al melodramma. La stesura, procrastinata per quasi un ventennio, della Sete dei Crociati, il dipinto progettato come il proprio capolavoro ancora prima che re Carlo Alberto ne rilevasse la commissione, doveva condizionare la produzione di quegli anni, sempre più orientata a confrontarsi con il Settecento di Tiepolo e Piazzetta entro composizioni che nei movimenti e nelle gestualità delle figure, nel superbo rapporto tra il nudo e il panneggio, nella variazione delle atmosfere e dei colori, ci trasmettono una commozione e una suggestione come musicali che non hanno eguali nella pittura storica sempre più convenzionale del tempo. Pensiamo a capolavori come l’Esaù e Giacobbe del 1844, dove i sofisticati richiami al Settecento veneto e alla pittura accademica tedesca, si risolvono nella struggente atmosfera di una cronaca senza tempo, o come i Vespri siciliani del 1846, dove la vicenda appare come sospesa e fermata nella tensione psicologica dei gesti e nella recuperata nella ricchezza del colore ora virato su campiture sempre più fredde, o come, infine, l’Alberico da Romano del 1850, dove queste superbe convenzioni appaiono mitigate dal confronto con un “vero” determinato dalla concentrazione sui risvolti individuali e familiari di quella tragica vicenda. LacapacitàdapartediHayezdiconfrontarsi,senzalasciarsenetravolgere,conl’affermazionediquelPurismo accademico elaborato tra Roma, Firenze e Siena, sotto le cui insegne si andrà in realtà realizzando bene o male l’unità pittorica italiana42 , trova conferma nell’impegno monumentale della superba e neotiepolesca pala de Il martirio di San Bartolomeo inviata, quasi come una sfida, dall’artista quasi settantenne alla chiesa parrocchiale di Castenedolo nel 1856, da dove uscirà undici anni dopo per essere presentata, insieme ad una nuova versione del Bacio, all’Esposizione Universale di Parigi. Questa svolta internazionale esigeva anche una rarefazione dei temi, con il conseguente abbandono di quelli più legati alla storia locale ripresi, con esiti meno convincenti, nell’occasione di particolari commissioni, come i due dipinti I Consoli Milanesi eseguito per Luigi Crivelli nel 1852 o La riconciliazione dell’imperatore Ottone II con sua madre Adelaide di Borgogna ambientato nella piazza di San Michele a Pavia e destinato nel 1858 a Tommaso Gallarati Scotti. Preferì invece legare la propria fama, su una ribalta estesa al di là dei confini milanesi, ad un più selezionato e appassionante repertorio romantico relativo soprattutto alla storia di Venezia, sempre più popolare nella cultura e nella pittura europee, e alla elaborazione di nuove figure allegoriche che, più dell’ormai declinante genere storico, rispondevano al mutato clima ideale di quegli anni difficili, precedenti e successivi alla crisi politica e sociale del 1848. Fu una strategia vincente, cui si devono i suoi dipinti destinati a diventare più popolari e amati, anche perché presentano gli stessi soggetti e trasmettono la stessa commozione del melodramma, in particolare quello di Verdi. Si tratta in realtà di un confronto anche concreto, se pensiamo al ruolo fondamentale svolto da Hayez nella commissione dell’Accademia di Brera incaricata di sorvegliare la realizzazione degli spettacoli, appunto le opere e i grandi balli di carattere storico, realizzati alla Scala43 . 42 Vedi F. Mazzocca, Il modello accademico e la pittura di storia, in AA.VV., La pittura in Italia. L’Ottocento, a cura di E. Castelnuovo, Milano 1991, II, pp. 626-627; Nel segno di Ingres. Luigi Mussini e l’Accademia in Europa nell’Ottocento, catalogo della mostra di Siena (Complesso Museale di Santa Maria della Scala) a cura di C. Sisi, E. Spalletti, Cinisello Balsamo (Milano) 2008. 43 F. Mazzocca, Pittura storica e melodramma: il caso di Hayez, in AA.VV., Scritti in onore di Nicola Mangini, Roma 1994, pp. 55-60; G. Agoti, L. Ciapparelli, Hayez “regista” d’opera. La Commissione Artistica dell’Accademia di Brera e gli allestimenti verdiani alla Scala alla metà dell’Ottocento e E. Girardi, Hayez e i rapporti con il mondo musicale, in Hayez dal mito al bacio cit., pp. 46-65
  • 16. La storia di Venezia, ispirata da fonti storiche, come Sabellico, Sanuto, Daru, Sismondi, o letterarie, come Manzoni, Byron, Niccolini, era riuscita ad assumere nelle opere realizzate tra gli anni venti e quaranta una sua precisa identità romantica, come nel Pietro Rossi del 1820 e il Carmagnola del 1821, e civile come nella serie sul tema privilegiato de I due Foscari e Vittor Pisani a partire dal 1840, dove veniva rappresentato il conflitto tra le ragioni del potere e gli affetti familiari, con uno slancio libertario condiviso, se pensiamo alla vicenda più amata dal pubblico, quella appunto de I due Foscari, con Byron ed in particolare con Verdi44 . A questo strenuo impegno ideologico aveva corrisposto sul versante stilistico la riconsiderazione della tradizione narrativa e epica della grande pittura veneziana del Rinascimento, come una appassionata esplorazione delle architetture e dei costumi dell’antica Repubblica. La crisi ideale degli anni quaranta, segnata dalle delusioni e dall’amarezza del disimpegno, farà di Hayez, in uno dei momenti più intensi della sua vicenda creativa, il popolarissimo interprete del mito internazionale di Venezia45 , che, come sottolineava nel 1845 Cesare Cantù a proposito di una nuova ed ultima versione di un’altra vicenda molto rappresentata, quella di Valenza Gradenigo, mercé d’alcune storie forestiere, della negligenza nostra e delle esagerazioni di romanzieri, di poeti, di politici, resta nelle fantasie come uno spauracchio; una specie di prigione in grande, ove sulla cervice di tutti pendeva la terribile spada dei Dieci e dell’inquisizione di stato. Per disporre questi bruni colori si cercarono le linee da alcuni di quei fatti che abbondano presso tutti i popoli, d’una giustizia che non rende ragione, di castighi inflitti a innocenti e scoperti tali dopo che era tolto il modo di ripararvi46 . Con la celebre trilogia, formata da Accusa segreta del 1848, Il consiglio alla vendetta del 1851 e La vendetta di una rivale (o Le Veneziane) del 1853, ispirata da Andrea Maffei, il popolare motivo della vendetta si risolveva in splendide, “bieche immagini”, tanto intriganti nella loro estenuata definizione formale, da segnare, in coincidenza con il rafforzarsi del mito decadente di Venezia nella cultura europea, il brusco risveglio dal “sogno dorato”, quando il fondo della scena si ottenebra, e in mezzo ai trionfi guerrieri, alla letizia delle feste, all’ebrezza delle danze raffiguri tribunali segreti, e giudici inesorabili, ignoti, e cupe gelosie, e orrende vendette, che ebbero soli testimoni il Ponte dei Sospiri e il Canal Orfano. Quando diviene emblematico, come nella Vendetta di una rivale, il tema della maschera, mentre “Tu credi che […] copra un viso giocondo? t’inganni: là sotto s’ascondono le torve sembianze del sicario e del delatore”47 . Ma è soprattutto nel particolarissimo, e pure frequentato48 , genere delle mezze figure emblematiche, accademicamente ispirate alla tradizione emiliana delle Sibille e delle Cleopatre, tra Reni, Guercino, Domenichino e Cagnacci, che Hayez elaborò una sua originalissima rarefazione di un’iconografia rilanciata dal Romanticismo, conferendo alla Malinconia nelle due successive versioni del 1840 e del 1842, ma anche alle meditabonde eroine bibliche, dalla più volte rappresentata Rebecca alle due versioni di Ruth a Tamar di Giuda, realizzate tra il quarto e in quinto decennio, e soprattutto alla straordinaria Ciociara del 1842, da identificarsi come una allegoria dell’Italia, una tale icasticità da farne le inquiete muse del contemporaneo male di vivere. 44 F. Mazzocca, Pittura storica e melodramma. I dipinti di Francesco Hayez su “I due Foscari”, in Festival Verdi. Parma e le terre di Verdi. I due Foscari, a cura di P. Petrobelli, Parma 2009, pp. 71-91. 45 Venezia nell’Ottocento. Immagini e mito, catalogo della mostra di Venezia (Ala Napoleonica e Museo Correr) a cura di G. Pavanello, G. Romanelli, Milano 1983. 46 C. Cantù, La Gradenigo davanti agli Inquisitori, quadro di Francesco Hayez, in Album. Esposizione di Belle Arti, IX, Milano 1845, p. 21. 47 M. Gatta, Le Veneziane, quadro di Francesco Hayez, in Album. Esposizione di Belle Arti, XV, 1853, pp. 3-4. 48 Come dimostrano i dipinti sul tema della Malinconia e soggetti analoghi di Natale Schiavoni o le sculture di Luigi Ferrari, su cui B. Cinelli, in L’Ottocento di Andrea Maffei, catalogo della mostra di Riva del Garda (Museo Civico) a cura di M. Botteti, B. Cinelli, F. Mazzocca, Riva del Garda 1987, pp. 168-174. Mentre su una più estesa fortuna del tema P.-K. Schuster, Das Bilder Zur Wirkungsgeschichte von Dürers Melancholiekupferstich, in “Idea Jahrbuch der Hamburger Kunsthalle”, I, 1982, pp. 72-134.
  • 17. Quando, con le due versioni della Meditazione nel 1850 e 1851, questi motivi s’innestavano con l’amara riflessione sulla crisi politica e ideale seguita al dramma non solo italiano del 1848-1849, Hayez ritornava al centro del dibattito artistico, influenzando in maniera decisiva la scultura di Vincenzo Vela, che affronterà lo stesso tema come con La preghiera del mattino del 1846 si era ispirato alla Malinconia, e offrendoci, soprattutto nella seconda redazione dove compare sulla croce la data vergata con il rosso sangue dei martiri delle gloriose e tragiche Cinque Giornate di Milano, una struggente immagine dell’Italia identificata come la giovane patria “bella e perduta”. Questo percorso finisce non a caso nell’atmosfera umbratile e sospesa del suo dipinto più popolare, Il bacio, anch’esso realizzato in diverse versioni, di cui le tre più importanti sono state per la prima volta riunite in questa occasione. Sia quello, oggi a Brera, presentato all’esposizione del 1859, allestita dopo la liberazione di Milano da parte delle truppe di Vittorio Emanuele II e di Napoleone III, sia quello inviato all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, dove riscosse un enorme successo, vennero accolti con un entusiasmo determinato non solo dalla trascinante rappresentazione di un tema così universale e coinvolgente, ma anche dal fatto che i due amanti che sembrano fondere insieme i loro corpi rappresentano la passione che aveva accompagnato la nascita dell’Italia finalmente unita. In realtà questo dipinto, così intenso ed essenziale, nascondeva tra le pieghe della sua allusività, insieme ad uno slancio di ottimismo, anche le perplessità del vecchio artista, che tanto aveva combattuto con la sua pittura per una causa la quale però si andava realizzando tra i compromessi, come dimostrava la delusione per l’armistizio di Villafranca che lasciava l’amata Venezia ancora in mano dell’Austria. Con questa precoce testimonianza Hayez si inseriva dunque, come altri artisti del tempo, nella schiera di quanti erano rimasti delusi da come si erano realizzati i sogni del Risorgimento. Questa amarezza, espressa anche da testimonianze personali, come quando scriveva negli ultimi tempi all’amica Luigia Negroni Prati Morosni che “leggere Goldoni per staccarsi dai tristi pensieri è un mezzo buonissimo tanto più che ognuno di noi non possiamo migliorare i tempi né [lo possono] le teste esaltate”, si tradurrà negli anni successivi in una volontaria diserzione, rimproveratagli dalla critica, di fronte alle istanze di una pittura storica educativa e celebrativa che la propaganda della nuova nazione chiedeva agli artisti. Ma nei due monumentali dipinti, la Distruzione del Tempio di Gerusalemme ed il Marin Faliero, lungamente preparati come dimostrano i moltissimi disegni di studio e presentati a Brera nel 1867, per essere destinati come proprio testamento artistico alle due Accademie di Venezia e di Milano cui era stata legata nel tempo la sua vita, smentiva, guadagnandosi il sostegno di Camillo Boito, i suoi detrattori e la morte stessa, troppe volte annunciata, di quel grande genere storico che gli aveva data fama e ricchezza, consentendogli nella sua quasi secolare carriera di restare l’ultimo grande “pittore italiano”. Mentre le sue sembianze, ancora fiere, venivano sovrapposte a quelle del vecchio Doge Marin Faliero che indicava con la mano il patibolo, ricoperto da un drappo nero, su cui avrebbe lasciato la testa. Fu questo il suo modo di congedarsi, con un grande senso della scena e prima della sua reale scomparsa avvenuta quindici anni dopo, dal mondo.