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Elena Riva
Femmine adolescenti tra identità
 personale e identità di genere
Durante un colloquio con una paziente sedicenne particolarmente brillante, nel
periodo in cui cominciavo a riflettere su questa relazione, mi è capitato di pensare
quale avrebbe potuto esserne il titolo nel linguaggio di una delle dirette interessate:
Identità a sedici anni: essere “un tipo” o essere “la tipa”?
Nel racconto di Irene la differenza concettuale fra i due termini era chiara. Nel
gruppo classe, con gli amici e le amiche a scuola, lei è certamente “un tipo”, termine
cui si potrebbe far seguire una serie di aggettivi in cui ha imparato a riconoscersi e a
sentirsi riconosciuta: un tipo simpatico, un tipo attraente, un tipo intelligente, un tipo
orgoglioso e permaloso; aggettivi che riflettono caratteristiche individuali più o
meno positive, pregi e difetti, aspetti del suo carattere ma anche valori che le sono
stati proposti dagli adulti e che lei sta faticosamente cercando di vagliare e far
propri, integrandoli nell’identità personale.
Quando però torna Alessandro, il ragazzo “grande” che vive e frequenta l’Università
in un’altra città, Irene smette di essere “un tipo” e diventa “la tipa”, termine che
nella grammatica relazionale del gruppo degli amici di lui regge non numerosi
aggettivi ma un unico complemento, definibile forse “di possesso”: Irene è “la tipa
di Alessandro”.
Per Irene essere “un tipo” o “una tipa” significa avere una sorta di doppia vita in cui
interpreta due diversi personaggi. Durante la settimana è un tipo confuso ma libero,
incoerente e coraggioso: ogni scelta ha il prezzo di conflitti interni e relazionali da
cui qualche volta esce un po’ malconcia, ma con la sensazione di essere più forte.
Durante il weekend invece le sembra di “vivere sulle nuvole” ed “essere una
principessa”, ammirata e un po’ viziata; in queste situazioni scegliere non serve: non
le importa vedere un film o un altro, frequentare l’uno o l’altro locale, uscire in
coppia o con gli amici; le importa di essere con Alessandro, sentire le sue attenzioni
e godere nel gruppo del prestigio che deriva dall’essere la sua ragazza. A volte si
sente strana, non si ritrova in questa trasformazione, le sembra di stare benissimo e
insieme di perdere non solo lo spirito critico ma perfino la capacità di riconoscere i
propri desideri, di smarrire autonomia, determinazione, intraprendenza, tutte le
qualità insomma che di solito le vengono attribuite e che sembrano sparire in
presenza di Alessandro e dei suoi amici. Con loro sente di “brillare di luce riflessa”
e non capisce come ci si possa sentire contemporanaeamente raggianti e svuotate.
Irene è in terapia perché “fa pasticci con il cibo”. Benché non possa essere definita
anoressica o bulimica alterna diete rigorose a periodi in cui ogni mutamento
d’umore si trasforma in una fame nervosa che la “obbliga” a ingoiare tutto ciò che di
dolce trova per casa.

 “Reviving Ophelia” di Mary Pipher, qualche anno fa un best seller negli Stati Uniti,
descrive parecchie adolescenti simili a Irene, ragazze disorientate dalla distanza fra
quelle che hanno imparato a considerare caratteristiche adeguate alla vita adulta
nella società in cui vivono, qualità e valori appresi in famiglia e a scuola, e ciò che
con l’adolescenza scoprono circa le caratteristiche dell’identità di genere apprezzate
dall’altro sesso.
Il riferimento a Ofelia, eroina shakesperiana, è indicativo: nell’infanzia Ofelia era
libera e felice, ma in adolescenza si perde; s’innamora di Amleto ed è dilaniata dal
conflitto fra lui e il proprio padre; si sforza di compiacere entrambi, poiché dalla
loro approvazione fa derivare il proprio valore: quando Amleto la rifiuta perché è
una figlia obbediente, si uccide.
“Reviving Ophelia” richiama l’attenzione degli adulti sul malessere delle
adolescenti, lacerate dal conflitto fra l’espressione del proprio Sé autonomo e il
bisogno di essere femminili; secondo la Pipher sarebbero responsabili di questo
disagio gli orientamenti culturali della società contemporanea, in virtù dei quali le
adolescenti, scoprendo la difficoltà di essere insieme adulte e femminili, rinunciano
al vero sé e scelgono l’accettabilità sociale.
La Pipher opta per un’interpretazione psicosociale del malessere adolescenziale
femminile.
Emilce Bleichmar invece, da un vertice psicoanalitico innanzitutto distingue
l’identità di genere, cui ineriscono gli aspetti psicologici, sociali e culturali della
femminilità, dall’identità sessuale, che riguarda le componenti biologiche e
anatomiche, oltre all’orientamento sessuale; quindi definisce l’identità di genere
come una struttura rivestita di valori e di significati dal sistema narcisistico del
soggetto, che costruisce l’ideale di genere utilizzando dapprincipio come modelli
rappresentazioni idealizzate degli oggetti genitoriali.
In questa prospettiva il primo abozzo di identità femminile si strutturerebbe nella
relazione primaria con la madre: l’Altro speculare coincide per la bambina con il
proprio doppio, il che favorisce l’instaurarsi precoce dell’identità di genere; fra la
bambina e sua madre non esiste disarmonia anatomica né d’identità: la bambina ama
un oggetto con il quale simultaneamente s’identifica, e costruisce dunque una
precoce immagine femminile, un nucleo d’identità forte e idealizzato. Questo
modello entra in crisi da un lato con la scoperta della differenza anatomica fra i
sessi, dall’altro osservando la diversa valutazione sociale della femminilità e della
mascolinità; tali elementi, che mettono in discussione la funzione narcisizzante
primaria della madre, determinano la perdita dell’ideale femminile primario e il
turbamento del sistema narcisistico della bambina, cui è inflitta una duplice
delusione, relativa a se stessa e alla madre. La riparazione narcisistica della
femminilità avviene in genere attraverso la ricerca del padre, cosicché il desiderio
sessuale della bambina si mescola indissolubilmente al desiderio di riconoscimento
narcisistico. Qui il percorso dei due generi si differenzia: mentre il maschio si
aspetterà dalla donna il piacere sessuale e le cure anaclitiche, dall’uomo il
riconoscimento narcisistico che erige il padre a ideale di un genere socialmente
valorizzato, nella femmina dopo la delusione materna il padre interviene nella
costruzione di un Ideale dell’Io femminile secondario, favorendo l’istituzione di
comportamenti, desideri, interessi e valori maschili come ideali. Sarà poi il contesto
socio culturale a decidere se tali traguardi potranno essere perseguiti e considerati
raggiungibili in proprio o dovranno essere dirottati sui propri oggetti d’amore, il
partner e/o i figli, su cui il narcisismo femminile verrà investito.
Alla bambina spetta dunque il compito di ricostruire un sistema narcisistico di ideali
di genere, ripristinando una femminilità valorizzata che orienti tanto il suo ruolo
femminile quanto il suo desiderio sessuale verso il conseguimento del progetto di
trasformarsi in donna: costruire insomma un Ideale dell’Io femminile. Tale compito
la impegnerà soprattutto durante l’adolescenza.
L’intreccio fra il percorso evolutivo individuale e variabili psicosociali nella
costruzione degli ideali, e dunque anche dell’ideale di genere, rende opportuni
alcuni rilievi sui cambiamenti della famiglia negli ultimi trent’anni, e sulle loro
conseguenze nella relazione genitori figlia e nella costruzione degli oggetti interni e
dei modelli di relazione oggettuale di quest’ultima.
I genitori delle adolescenti anni ‘90 sono padri e madri “di transizione”, che hanno
interiorizzato modelli parentali e ruoli sessuali “tradizionali”, poi spesso criticati e
modificati nel corso della vita adulta; si tratta dunque di genitori in conflitto con i
propri modelli interni nella gestione del ruolo sessuale e di quello parentale, il che li
rende qualche volta incerti e contraddittori, inducendoli a fornire alle figlie
indicazioni ambigue su ciò che si aspettano da loro.
Oggi in famiglia - come a scuola e nei diversi ambiti di socializzazione - a maschi e
femmine si insegnano le stesse cose e si richiedono analoghe prestazioni scolastiche
e sociali, uguali dimostrazioni di competenza, competitività e iniziativa.
I genitori di solito sostengono l’uguaglianza fra i sessi e propongono lo stesso
modello educativo per fratelli e sorelle; durante l’infanzia spesso sono coerenti con
tali propositi, mentre con l’adolescenza diventano più “cauti” con le figlie
nell’acconsentire uscite serali e vacanze di gruppo, o addirittura l’uso del motorino;
le “conquiste” d’autonomia vengono dilazionate nel tempo con motivazioni varie
(mai esplicitamente la differenza sessuale) mentre rispetto ai fratelli si fanno più
elevate le aspettative di un comportamento responsabile e collaborativo.
L’evidenza di quanto in passato tali disuguaglianze fossero ancor più marcate, oltre
ad essere esplicitamente attribuite al diverso destino familiare e sociale, induce a
chiedersi se l’avere che fare con una coppia di genitori tradizionali, con modelli di
genere ben differenziati, o invece con la coppia formata da un “nuovo padre” e una
“nuova madre”, modifichi il processo di costruzione dell’identità di genere.
Come si è detto l’adolescente femmina si riferisce in modo primario alla figura
materna per costruire la propria femminilità, mentre chiede al padre la
valorizzazione del Sé personale e sociale.
Ai processi identificatori e controidentificatori rivolti alla madre fin dall’infanzia,
nella prima adolescenza si aggiunge e spesso si contrappone l’incessante attività
elaborativa del gruppo monosessuale femminile, garante del cambiamento nei valori
che sostengono la nuova identità femminile e la nuova contrattualità affettiva fra
maschi e femmine adolescenti. Scrive Charmet: “La madre avverte una
responsabilità particolare nel formare il sentimento dell’identità femminile... e la
figlia adolescente reagisce come se effettivamente avesse il compito di influenzarla
nell’area della femminilità, come se subdolamente si apprestasse a plasmarla ad
immagine e somiglianza di una figura femminile precostituita”. E’ a questo punto
che intervengono le amiche del cuore, a sostenere la spinta all’autonomia dal
modello materno nella scelta dei valori che ispirano l’identità di genere e a
introdurre la “crisi” fra i modelli di ruolo sessuale più o meno inconsciamente
interiorizzati e l’elabozione emotiva e culturale del gruppo generazionale.
D’altra parte anche le madri cambiano; se viene meno un uniforme e coerente
sostegno culturale al modello femminile-materno “tradizionale” di una donna
dipendente e passiva, sacrificalmente votata all’accudimento della famiglia e
sostanzialmente sottomessa al partner, e compare sulla scena sociale una “nuova
madre” orientata alla realizzazione di sé attraverso il successo sociale e
professionale, volta dunque a promuovere in se stessa e nella figlia maggior
autonomia, la costruzione della femminilità della figlia avverrà attraverso percorsi
diversi e con l’assimilazioni di diversi valori.
Pure sul versante paterno la situazione è fluida e cangiante; se spetta al padre la
valorizzazione della femminilità della figlia, il sostegno narcisistico di un padre
affettuosamente vicino, meno idealizzato o temuto che in passato, ma più capace di
sostenere la nascita sociale della ragazza proponendole realizzazioni personali e
sociali non precluse da una definizione socialmente svalutata della femminilità e dei
suoi possibili traguardi, può fornire alla figlia un’autostima e un sentimento del
proprio valore meno fragile di quello derivante dal rapporto con un padre che
mortifica la femminilità della figlia, anche solo attraverso l’esibizione di un rapporto
di coppia asimmetrico.

E’ interessante a questo riguardo la rilettura che la Bleichmar propone del caso di
Dora, la femmina adolescente più famosa della storia della psicoanalisi; secondo
quest’autrice all’origine della malattia di Dora non sono i conflitti pulsionali, la
dinamica fra desideri e divieti sessuali rivolti all’uno e all’altro genitore, bensì le
profonde mortificazioni narcisistiche della femminilità inflitte da entrambi le figure
parentali e dai loro sostituti; scrive la Bleichmar: “L’interesse di Dora era
manifestamente rivolto più alla donna che all’uomo, ma non alla donna in quanto
sesso, bensì in quanto essere dotato di femminilità. Si rifletteva qui la ricerca di un
ideale dell’Io femminile che in Dora appariva piuttosto confuso.. Come poteva la
madre, donna di pochi lumi, totalmente squalificata agli occhi di un padre per il
quale la moglie “non contava niente”, capace solo di regnare sugli oggetti domestici,
rappresentare l’ideale di una ragazza come Dora, descritta da Freud come “una
ragazza matura e dal giudizio molto indipendente”? La signora K. pareva molto più
indicata ad essere e a rappresentare il modello di una femminilità da ammirare,
oggetto di predilezione del padre di Dora, lettrice di libri di argomento sessuale, un
prototipo dunque di maggior valore..”.
Al padre, oggetto idealizzato cui Dora rivolge non solo il desiderio edipico ma anche
il bisogno di valorizzazione narcisistica che la sostenga nell’oltrepassare i confini
del mondo domestico materno, “non viene imputato il fatto di preferire sessualmente
la signora K., bensì quello di ignorare il suo compito di garante dell’onorabilità della
figlia adolescente, cioè di difensore del narcisismo della sua incipiente femminilità..
L’indignazione di Dora esprime la lucida percezione della sua poca importanza
come essere umano, come altro significativo per suo padre, padre che lei
considerava come Ideale dell’io, ideale che non solo non la riconosceva, ma neppure
riusciva a sostenersi in quanto tale”.

Se è opinione comune che l’isteria - di cui Dora rappresenta il prototipo nella storia
della psicoanalisi - sia il linguaggio del malessere femminile del secolo scorso, è
l’anoressia a proporsi oggi come segnale della sofferenza delle femmine nuove.
L’allarme sul dilagare dei disturbi del comportamento alimentare è forte: basta uno
sguardo fra i banchi di liceo per constatare che una seria patologia psichiatrica si è
trasformata nell’arco di un decennio in un comportamento diffuso su base
generazionale e sessuale, che in quanto tale denuncia un disagio specifico
dell’adolescenza e della femminilità nell’ambiente socio culturale in cui viviamo.
 Devereux ha coniato per quelle patologie che compaiono in modo disomogeneo
nelle popolazioni e nei loro diversi strati il termine “disturbo etnico”. Si tratta di
sindromi che esprimono angosce e problemi irrisolti specifici di una determinata
cultura e conservano una certa continuità con forme di comportamento “precliniche”
diffuse nello stesso ambiente (il “culto” del corpo magro ad esempio); esse rivelano
conflitti fondamentali e tensioni psicologiche comuni, che solo in qualche caso
assumono carattere patologico. In questa prospettiva possiamo sostenere che “la
natura” femminile prodotta dalle definizioni culturali del nostro tempo sia un
elemento essenziale nella genesi dei disturbi del comportamento alimentare.
 In quanto indici di una sofferenza psichica specifica dell’adolescenza e della
femminilità attuali, i disturbi alimentari rappresentano un ambito privilegiato per
analizzare la costruzione dell’identità femminile oggi; troveremo infatti enfatizzate
nelle ragazze anoressiche e bulimiche le stesse difficoltà presenti in forme meno
specifiche e patologiche in molte adolescenti, difficoltà alle quali le anoressiche si
illudono di aver trovato soluzione attraverso il sintomo.
E tuttavia il diffondersi epidemico dei disturbi del comportamento alimentare mostra
piuttosto l’impatto travolgente che non gli esiti del mutamento valoriale che orienta
la costruzione dell’identità femminile; per questo è azzardato generalizzare
rischiando di voler predire il futuro, ed è più opportuno limitarsi a qualche
considerazione clinica e osservazione fenomenologica.
La letteratura clinica suggerisce che le adolescenti che soffrono di disturbi del
comportamento alimentare abbiano a che fare con un modello di coppia parentale
ipertradizionale, che accentua e militarizza, rendendole stereotipate e
sostanzialmente inconsistenti, le caratteristiche della coppia genitoriale del passato.
Oggi però questa coppia è agli occhi della figlia “diversa”, per quanto riguarda la
declinazione affettiva dei ruoli sessuali, dai modelli socialmente diffusi. La figlia
anoressica sceglie, come Dora, di identificarsi con il padre potente e idealizzato e
rifiuta disprezzandolo il modello materno sacrificale. Sarebbe dunque il conflitto i
fra valori tradizionali agiti in famiglia e le nuove definizioni della femminilità a
sostenere il disagio anoressico?
In una situazione di transizione fra passato e futuro, madri e padri in conflitto con i
propri modelli interni di ruolo, che scelgano di adeguarsi o differenziarsi, risultano
comunque narcisisticamente più fragili. Le nuove madri si considerano meno capaci
di accudimento e inadeguate al confronto della disponibilità sacrificale delle proprie
madri, mentre le madri tradizionali si sentono personalmente e socialmente svalutate
e soffrono del mancato riconoscimento della “dignità” del ruolo femminile materno
nella coppia. I nuovi padri si ritengono meno capaci dei loro predecessori di imporre
regole e proporre valori e sentono meno riconosciuta in famiglia la propria autorità
virile, mentre quelli tradizionali soffrono l’isolamento affettivo cui li costringe la
declinazione “autoritaria” del ruolo paterno. Ne deriva per tutti una maggior fragilità
narcisistica, dunque più ambiguità e timori di fallimento nel compito parentale; sui
figli vengono proiettate angosce di fallimento e aspettative più elevate, volte a
rassicurare i genitori della “bontà” propria e delle proprie scelte educative.
L’effetto di queste aspettative massicce quanto ambigue è efficacemente descritto da
una famosa “striscia” di cartoons, in cui una Mafalda freneticamente impegnata a
cambiare ambienti, abiti ed accessori, così riflette fra sé: “Per essere donna bisogna
pensare come un uomo, comportarsi come una signora, sembrare una ragazzina.. e,
come se non bastasse, lavorare come una matta!!” Si tratta di un pensiero che
potrebbe essere eletto a manifesto delle adolescenti destinate a diventare
anoressiche, ragazze impegnate su tutti i fronti: bravissime a scuola, ordinate e
obbedienti in famiglia, ascoltatrici disponibili e pazienti con gli amici, attente al
proprio aspetto e in perenne lotta con i brufoli o i chili di troppo; fino a quando,
appunto, non “diventano matte” e trasformano quelle che fino a quel momento
l’ambiente aveva considerato delle virtù in ossessioni terribili con cui tiranneggiano
se stesse e gli altri.

In un articolo del 1976 Franco Fornari faceva derivare i disturbi della sessualità
femminile da un conflitto fra i valori del codice materno e quelli del codice
femminile risolto a spese della femminilità, con l’annullamento cioè del desiderio e
del piacere sessuale.
Analizzando il contesto affettivo della società contemporanea, più volte Fornari
rileva un’inflazione di codice materno, alleato al codice complementare del bambino
onnipotente, a spese dei valori affettivi inerenti ad altri codici, in particolare quello
paterno.
Il codice materno, fondato su una contrattualità onnipotente pregenitale che ha come
perno la sacrificalità del “dare tutto senza avere niente in cambio” è funzionale alla
relazione madre bambino e in quest’ambito necessario alla sopravvivenza. Il codice
femminile si colloca invece nell’ambito di relazioni di scambio reciprocamente
convenienti, di cui è espressione l’accoppiamento genitale.
Secondo Fornari le teorie freudiana e kleiniana della femminilità, pur opposte fra
loro, tendono entrambi a confondere i valori del codice femminile con quelli del
codice materno quando fondano la femminilità sulla triade: narcisismo, passività e
masochismo; questa inerisce infatti piuttosto al codice materno e alla contrattualità
sacrificale implicita nella relazione primaria madre-bambino, che non al codice
femminile fondato sul reciproco scambio.
L’intrusione di valori materni nella relazione fra i sessi e l’asservimento del codice
femminile a quello materno, sebbene “naturalmente” fondato dal desiderio della
donna di garantire il legame per proteggere la genitorialità, da un lato produce
l’infantilizzazione del partner maschile attraverso l’onnipotenza materna del “dare
tutto senza aver nulla in cambio” spostata dalla relazione madre bambino al rapporto
di coppia, dall’altro ha come esito patogeno i disturbi della sessualità femminile.
Possiamo osservare come il declinarsi confusivo dei codici affettivi nella dinamica
relazionale di coppia descritta da Fornari sia la stessa che compare fra i genitori
dell’adolescente anoressica.
La loro relazione coniugale viene infatti descritta come il legame fra una madre
sacrificale e un bambino onnipotente, con il sacrificio degli erotemi ai parentemi;
tale dinamica deriverebbe da una contrattualità di coppia originariamente fondata
sulle mancanze subite da entrambi nella famiglia d’origine, la madre in termini di
riconoscimento, il padre in termini di accudimento e nutrimento affettivo; la madre
cercherà l’apprezzamento del partner “facendo tutto per lui senza chiedere nulla”, e
ne attenderà in cambio il riconoscimento che la compensi di quello mancato nella
famiglia d’origine; il padre esigerà attenzioni e cure, qualcuno che si occupi di lui
più di quanto sia avvenuto nell’infanzia. Questo modello relazionale finisce per
deludere entrambi e soprattutto per uccidere la relazione erotica, fondata sul
reciproco scambio di piacere.
La figlia anoressica apparentemente si identifica con entrambi questi genitori, con
una madre che nutre senza poter essere nutrita e con un padre narcisisticamente
chiuso che protesta di essere affamato e mal nutrito.

Come la nuova declinazione di valori del codice femminile si intreccia con tali
modelli relazionali? La sedicenne di oggi apprende, prima nel gruppo monosessuale
femminile, poi nelle prime esperienze di coppia, una contrattualità fra i sessi diversa
da quella introiettata in famiglia identificandosi con la coppia parentale.
Particolarmente indicativi al riguardo sono i mutamenti del rituale di
corteggiamento, che Fornari considera come un esempio lampante dell’asservimento
dei valori della femminilità a quelli della maternità: “Il corteggiamento prescrive che
il maschio sia continuamente tentante la ragazza e chieda il rapporto sessuale come
prova d’amore (..) ciò si spiega in base al fatto che il rapporto sessuale venga
simbolizzato secondo il codice materno non come fruire di un possesso attraverso un
possedersi reciprocamente, ma come un pasto molto desiderato che la donna offre
all’uomo come prova dell’amore materno”; questa simbolizzazione orale confusiva
della genitalità nega il desiderio sessuale femminile, in nome del bisogno materno di
garantire il legame.
Non occorre essere osservatori particolarmente attenti per rilevare che gli
adolescenti di oggi, maschi e femmine, hanno radicalmente trasformato i rituali di
corteggiamento nella direzione di una maggior reciprocità ed intercambiabilità di
ruoli; le nuove adolescenti sono senza dubbio più intraprendenti delle loro madri
nell’affermare il proprio desiderio sessuale e nell’assumere un ruolo attivo nel
rituale di corteggiamento.
Anche in questo caso il carattere recente del cambiamento invita alla prudenza
nell’interpretarne il significato. Se ne osserviamo gli esiti sul versante maschile
dobbiamo notare l’effetto inibitorio che la rivendicazione del desiderio femminile
provoca negli adolescenti maschi, spaventati e confusi anche perché hanno lasciato
da poco l’infanzia e confondono l’intraprendenza femminile delle compagne con
l’intrusività della madre dell’infanzia che vorrebbe trattenerli legati a sé. Tuttavia la
nuova contrattualità della coppia adolescente, pur con tutte le ambiguità dei processi
di transizione, sembrerebbe andare verso il riconoscimento di un desiderio
femminile simmetrico a quello maschile.
La fenomenologia attuale della relazione di coppia fra giovanissimi appare in ogni
caso difficilmente compatibile con la triologia di masochismo, passività e
narcisismo che Freud attribuisce alla femminilità e Fornari al codice materno.
E’ possibile ipotizzare che l’allentarsi dei legami fra sessualità e maternità derivante
dalla scoperta degli anticoncezionali abbia contribuito ad una maggior separazione
fra codice materno e codice femminile, il che avrebbe sulla fondazione dei valori
della femminilità lo stesso significato di svolta epocale che la situazione atomica ha
avuto nella declinazione del codice paterno.
La sottomissione del codice femminile al codice materno allo scopo di fondare il
legame garante della parentalità è forse meno necessaria alla sopravvivenza della
specie in un contesto socio-culturale in cui la struttura familiare va modificandosi in
formazioni sempre più complesse e in cui sia la scelta che la permanenza della
genitorialità tende a svincolarsi dal destino della coppia; i membri di una coppia
coniugale meno solida e duratura che nel passato, devono poter garantire il
permanere del legame parentale a prescindere dal perdurare o meno di quello
coniugale: ciò avviene con la fondazione affettiva del legame genitori figli
attraverso relazioni piutto che vincoli sociali e di ruolo.
Anche qui è opportuna una certa prudenza interpretativa per non confondere
elementi contingenti con mutamenti di fondo. Rimanendo ancorati dunque al piano
dell’osservazione, possiamo rilevare che l’adolescente femmina non sembra più
disposta ad usare la sessualità come merce di scambio sull’altare del legame e che,
avendo interiorizzato l’autonomia come valore integrato nell’identità personale, è
riluttante a spenderlo in cambio della passività e della dipendenza che culturalmente,
anche dalla psicoanalisi, vengono attribuite all’identità femminile.
Forse la nuova femmina adolescente si sta dando tanto da fare, sia pure in modo
confuso e con molta sofferenza, per liberare il codice femminile dalla tirannia del
codice materno, da cui dipenderebbe una relazione con l’altro sesso improntata alla
sacrificalità piuttosto che allo scambio.
In questo senso la “sindrome culturale” anoressica esprime in modo radicalizzato
fino ad essere caricaturale i conflitti fondamentali della nuova femminilità. La
protesta simbolicamente espressa dal comportamento anoressico può infatti essere
letta come un’espressione estrema dell’onnipotenza materna, della sacrificalità che
nega ogni bisogno e ogni dipendenza, rappresentata dall’assillo di nutrire gli altri
senza tenere nulla per sé; e insieme come una negazione del corpo femminile,
trasformato dall’identificazione fallica, e della relazione di scambio, annullata
dall’estrema chiusura narcisistica che elimina magicamente ogni dipendenza.
La patologia anoressica potrebbe essere dunque un’espressione caricaturale e
militarizzata della madre onnipotente che impedisce l’accesso alla femminilità; essa
rappresenterebbe in questo senso l’ammissione di un fallimento nel tentativo
dell’adolescente di integrare identità personale e di genere, fallimento che si esprime
nell’incapacità di prendere le distanze dall’imperiosità dei propri modelli interni per
instaurare una nuova relazione di scambio nella coppia genitale.

Vorrei concludere queste riflessioni con il racconto di una seduta di psicoterapia di
Sara, anoressica diciassettenne; al quarto anno di psicoterapia Sara ha ripreso peso e
vita sociale, e da quasi un mese frequenta per la prima volta un ragazzo.
“Devo dirle due cose: intanto ho una gran paura d’ingrassare, mi guardo nello
specchio e mi vedo enorme; poi devo chiederle un consiglio...”
Mi guarda con un’espressione furba, come a dire “so benissimo che non si può!” e
racconta di Marco, ventidue anni, che le ha chiesto di cenare a casa sua uno di questi
giorni: “Ci vado? Le mie compagne e mia madre dicono che bisogna farsi desiderare
e io ho una gran paura di fare la cosa sbagliata.”
Chiedo cosa desideri lei: “Andrei al volo!!..Però prima di decidere volevo sentire
cosa ne pensa..”. Sono preoccupata dell’idealizzazione di Sara e temo possa
sostituirmi alla madre come oggetto da compiacere senza poter essere davvero
libera; tergiverso cercando di evitare una risposta diretta.
Racconta di essere “sulle nuvole” dall’ultimo incontro con Marco e che per la prima
volta oggi non ha preso appunti durante le lezioni: “Ho la testa altrove..”. Con un
tono più euforico che preoccupato parla della paura di “lasciarsi andare”. Le faccio
notare che non sembra davvero preoccupata e le chiedo se non prendere appunti
abbia qualche rapporto con la paura di ingrassare: “Adesso che lo dice sì, però non
ci avevo pensato..”. Parliamo, usando il linguaggio costruito in questi anni di lavoro
comune, di come “Sara grassa” sia l’equivalente di una Sara che “si lascia andare”,
che “non prende appunti” e rischia di perdere il controllo.
“Mi fa venire in mente un sogno: eravamo in un locale con Marco, ci baciavamo, poi
lui però mi dava delle “regole” per stare con lui; erano tante, però io ricordo solo che
dovevo fare l’amore ogni volta che voleva lui e che lui poteva farlo anche con le
altre. Non mi ricordo se gli dicevo qualcosa, so che pensavo che io non me la
sentivo di fare l’amore e che però l’avrei perso se non fossi stata alle sue regole. Poi
mi accompagna a casa e c’è anche mio padre con noi..”. Mi limito a commentare
che questo Marco del sogno ricorda Enrica, l’amica del cuore di Sara; si apre il tema
delle relazioni compiacenti, in cui lei è disposta a “far da tappetino” pur di non
perdere l’altro.
Sara afferma di non capire perchè Marco desideri stare proprio con lei: lui è più
grande, ha avuto altre ragazze, lei “non sa come si fa”, nemmeno rispetto al “farsi
desiderare” di cui parlano le sue amiche. Sta ancora cercando aiuto per decidere
sull’invito a cena, che in questo momento le interessa più del suo sogno. Parliamo
del timore di perdere l’altro se non si sta alle sue “regole” e della mancanza di
autostima; davvero bisogna sottomettersi alle regole dell’altro, come nel sogno, o
“darsi delle regole”, tenere le distanze, “farsi desiderare”, come dicono le sue
compagne? “Allora secondo lei non faccio male ad andare?”, traduce subito Sara. Le
dico che mi sembra importante che si renda conto del rischio, presente nel sogno e
nei suoi discorsi, di avere con Marco una relazione in cui è più importante far quello
che lui desidera per piacergli e compiacerlo, che tener conto dei propri desideri e
delle proprie paure. Se fa attenzione a questo rischio può decidere da sola, senza
ascoltare me, sua madre o le sue amiche: “Allora ci vado!”
“Però io mi chiedo cosa ci faccia tuo padre nel sogno..” riprendo; “Me lo sono
chiesta anch’io..”. E’ più disposta a riflettere ora che ha deciso. “Mi sembra che è
mia madre che cerco di accontentare, non mio padre..”; “Cerchi di accontentare tua
madre perchè temi che si arrabbi e non ti parli, oppure che stia male; però tieni
molto alla stima di tuo padre..”; “Ah sì! Per esempio è per lui che voglio andar bene
a scuola; però lui non me l’ha mai chiesto, mentre mia madre mi ripete sempre come
dovrei essere o non essere..”; “Tuo padre non è di tante parole, ma tu sai bene cosa
pensa, e siccome lo stimi ti dai un gran da fare per non deluderlo..”; “Sì, anche se lui
non mi chiede niente..”; “Quindi non sai cosa pensi del tuo rapporto con Marco?”;
“Lo so sì, pensa che alla mia età queste cose son tutte bazzeccole!!”; “Il che
significa che prima di tutto non devono distrarre dalle cose importanti?”; sorride:
“Sì, che non bisogna avere la testa fra le nuvole..” “..nè perdere il controllo..”
continuo con lo stesso tono ironico, “diventando una ragazza grassa e stupida..”,
conclude Sara, ridendo divertita e sollevata.
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F.Fornari: Codice materno e disturbi della femminilità, in “Ginecologia psicosomatica e
psicoprofilassi isterica. Atti del I Congresso di psicoprofilassi ostetrica” a cura di R. Ceruti, Piccin,
Padova,1976
F.Fornari Carmen adorata Longanesi, Milano, 1985
M.Palazzolo Selvini, S.Cirillo, M.Selvini, A.M. Sorrentino: Ragazze anoressiche e bulimiche
Cortina, Milano,1998
M.Pipher Reviving Ophelia Saving the selves of adolescent girls Ballantine Books, New York,1975
W.Vandereycken R.van Deth Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche Cortina, Milano1995

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  • 1. Elena Riva Femmine adolescenti tra identità personale e identità di genere
  • 2. Durante un colloquio con una paziente sedicenne particolarmente brillante, nel periodo in cui cominciavo a riflettere su questa relazione, mi è capitato di pensare quale avrebbe potuto esserne il titolo nel linguaggio di una delle dirette interessate: Identità a sedici anni: essere “un tipo” o essere “la tipa”? Nel racconto di Irene la differenza concettuale fra i due termini era chiara. Nel gruppo classe, con gli amici e le amiche a scuola, lei è certamente “un tipo”, termine cui si potrebbe far seguire una serie di aggettivi in cui ha imparato a riconoscersi e a sentirsi riconosciuta: un tipo simpatico, un tipo attraente, un tipo intelligente, un tipo orgoglioso e permaloso; aggettivi che riflettono caratteristiche individuali più o meno positive, pregi e difetti, aspetti del suo carattere ma anche valori che le sono stati proposti dagli adulti e che lei sta faticosamente cercando di vagliare e far propri, integrandoli nell’identità personale. Quando però torna Alessandro, il ragazzo “grande” che vive e frequenta l’Università in un’altra città, Irene smette di essere “un tipo” e diventa “la tipa”, termine che nella grammatica relazionale del gruppo degli amici di lui regge non numerosi aggettivi ma un unico complemento, definibile forse “di possesso”: Irene è “la tipa di Alessandro”. Per Irene essere “un tipo” o “una tipa” significa avere una sorta di doppia vita in cui interpreta due diversi personaggi. Durante la settimana è un tipo confuso ma libero, incoerente e coraggioso: ogni scelta ha il prezzo di conflitti interni e relazionali da cui qualche volta esce un po’ malconcia, ma con la sensazione di essere più forte. Durante il weekend invece le sembra di “vivere sulle nuvole” ed “essere una principessa”, ammirata e un po’ viziata; in queste situazioni scegliere non serve: non le importa vedere un film o un altro, frequentare l’uno o l’altro locale, uscire in coppia o con gli amici; le importa di essere con Alessandro, sentire le sue attenzioni e godere nel gruppo del prestigio che deriva dall’essere la sua ragazza. A volte si sente strana, non si ritrova in questa trasformazione, le sembra di stare benissimo e insieme di perdere non solo lo spirito critico ma perfino la capacità di riconoscere i propri desideri, di smarrire autonomia, determinazione, intraprendenza, tutte le qualità insomma che di solito le vengono attribuite e che sembrano sparire in presenza di Alessandro e dei suoi amici. Con loro sente di “brillare di luce riflessa” e non capisce come ci si possa sentire contemporanaeamente raggianti e svuotate. Irene è in terapia perché “fa pasticci con il cibo”. Benché non possa essere definita anoressica o bulimica alterna diete rigorose a periodi in cui ogni mutamento d’umore si trasforma in una fame nervosa che la “obbliga” a ingoiare tutto ciò che di dolce trova per casa. “Reviving Ophelia” di Mary Pipher, qualche anno fa un best seller negli Stati Uniti, descrive parecchie adolescenti simili a Irene, ragazze disorientate dalla distanza fra quelle che hanno imparato a considerare caratteristiche adeguate alla vita adulta nella società in cui vivono, qualità e valori appresi in famiglia e a scuola, e ciò che con l’adolescenza scoprono circa le caratteristiche dell’identità di genere apprezzate dall’altro sesso. Il riferimento a Ofelia, eroina shakesperiana, è indicativo: nell’infanzia Ofelia era libera e felice, ma in adolescenza si perde; s’innamora di Amleto ed è dilaniata dal conflitto fra lui e il proprio padre; si sforza di compiacere entrambi, poiché dalla loro approvazione fa derivare il proprio valore: quando Amleto la rifiuta perché è una figlia obbediente, si uccide.
  • 3. “Reviving Ophelia” richiama l’attenzione degli adulti sul malessere delle adolescenti, lacerate dal conflitto fra l’espressione del proprio Sé autonomo e il bisogno di essere femminili; secondo la Pipher sarebbero responsabili di questo disagio gli orientamenti culturali della società contemporanea, in virtù dei quali le adolescenti, scoprendo la difficoltà di essere insieme adulte e femminili, rinunciano al vero sé e scelgono l’accettabilità sociale. La Pipher opta per un’interpretazione psicosociale del malessere adolescenziale femminile. Emilce Bleichmar invece, da un vertice psicoanalitico innanzitutto distingue l’identità di genere, cui ineriscono gli aspetti psicologici, sociali e culturali della femminilità, dall’identità sessuale, che riguarda le componenti biologiche e anatomiche, oltre all’orientamento sessuale; quindi definisce l’identità di genere come una struttura rivestita di valori e di significati dal sistema narcisistico del soggetto, che costruisce l’ideale di genere utilizzando dapprincipio come modelli rappresentazioni idealizzate degli oggetti genitoriali. In questa prospettiva il primo abozzo di identità femminile si strutturerebbe nella relazione primaria con la madre: l’Altro speculare coincide per la bambina con il proprio doppio, il che favorisce l’instaurarsi precoce dell’identità di genere; fra la bambina e sua madre non esiste disarmonia anatomica né d’identità: la bambina ama un oggetto con il quale simultaneamente s’identifica, e costruisce dunque una precoce immagine femminile, un nucleo d’identità forte e idealizzato. Questo modello entra in crisi da un lato con la scoperta della differenza anatomica fra i sessi, dall’altro osservando la diversa valutazione sociale della femminilità e della mascolinità; tali elementi, che mettono in discussione la funzione narcisizzante primaria della madre, determinano la perdita dell’ideale femminile primario e il turbamento del sistema narcisistico della bambina, cui è inflitta una duplice delusione, relativa a se stessa e alla madre. La riparazione narcisistica della femminilità avviene in genere attraverso la ricerca del padre, cosicché il desiderio sessuale della bambina si mescola indissolubilmente al desiderio di riconoscimento narcisistico. Qui il percorso dei due generi si differenzia: mentre il maschio si aspetterà dalla donna il piacere sessuale e le cure anaclitiche, dall’uomo il riconoscimento narcisistico che erige il padre a ideale di un genere socialmente valorizzato, nella femmina dopo la delusione materna il padre interviene nella costruzione di un Ideale dell’Io femminile secondario, favorendo l’istituzione di comportamenti, desideri, interessi e valori maschili come ideali. Sarà poi il contesto socio culturale a decidere se tali traguardi potranno essere perseguiti e considerati raggiungibili in proprio o dovranno essere dirottati sui propri oggetti d’amore, il partner e/o i figli, su cui il narcisismo femminile verrà investito. Alla bambina spetta dunque il compito di ricostruire un sistema narcisistico di ideali
  • 4. di genere, ripristinando una femminilità valorizzata che orienti tanto il suo ruolo femminile quanto il suo desiderio sessuale verso il conseguimento del progetto di trasformarsi in donna: costruire insomma un Ideale dell’Io femminile. Tale compito la impegnerà soprattutto durante l’adolescenza. L’intreccio fra il percorso evolutivo individuale e variabili psicosociali nella costruzione degli ideali, e dunque anche dell’ideale di genere, rende opportuni alcuni rilievi sui cambiamenti della famiglia negli ultimi trent’anni, e sulle loro conseguenze nella relazione genitori figlia e nella costruzione degli oggetti interni e dei modelli di relazione oggettuale di quest’ultima. I genitori delle adolescenti anni ‘90 sono padri e madri “di transizione”, che hanno interiorizzato modelli parentali e ruoli sessuali “tradizionali”, poi spesso criticati e modificati nel corso della vita adulta; si tratta dunque di genitori in conflitto con i propri modelli interni nella gestione del ruolo sessuale e di quello parentale, il che li rende qualche volta incerti e contraddittori, inducendoli a fornire alle figlie indicazioni ambigue su ciò che si aspettano da loro. Oggi in famiglia - come a scuola e nei diversi ambiti di socializzazione - a maschi e femmine si insegnano le stesse cose e si richiedono analoghe prestazioni scolastiche e sociali, uguali dimostrazioni di competenza, competitività e iniziativa. I genitori di solito sostengono l’uguaglianza fra i sessi e propongono lo stesso modello educativo per fratelli e sorelle; durante l’infanzia spesso sono coerenti con tali propositi, mentre con l’adolescenza diventano più “cauti” con le figlie nell’acconsentire uscite serali e vacanze di gruppo, o addirittura l’uso del motorino; le “conquiste” d’autonomia vengono dilazionate nel tempo con motivazioni varie (mai esplicitamente la differenza sessuale) mentre rispetto ai fratelli si fanno più elevate le aspettative di un comportamento responsabile e collaborativo. L’evidenza di quanto in passato tali disuguaglianze fossero ancor più marcate, oltre ad essere esplicitamente attribuite al diverso destino familiare e sociale, induce a chiedersi se l’avere che fare con una coppia di genitori tradizionali, con modelli di genere ben differenziati, o invece con la coppia formata da un “nuovo padre” e una “nuova madre”, modifichi il processo di costruzione dell’identità di genere. Come si è detto l’adolescente femmina si riferisce in modo primario alla figura materna per costruire la propria femminilità, mentre chiede al padre la valorizzazione del Sé personale e sociale. Ai processi identificatori e controidentificatori rivolti alla madre fin dall’infanzia, nella prima adolescenza si aggiunge e spesso si contrappone l’incessante attività elaborativa del gruppo monosessuale femminile, garante del cambiamento nei valori che sostengono la nuova identità femminile e la nuova contrattualità affettiva fra maschi e femmine adolescenti. Scrive Charmet: “La madre avverte una responsabilità particolare nel formare il sentimento dell’identità femminile... e la
  • 5. figlia adolescente reagisce come se effettivamente avesse il compito di influenzarla nell’area della femminilità, come se subdolamente si apprestasse a plasmarla ad immagine e somiglianza di una figura femminile precostituita”. E’ a questo punto che intervengono le amiche del cuore, a sostenere la spinta all’autonomia dal modello materno nella scelta dei valori che ispirano l’identità di genere e a introdurre la “crisi” fra i modelli di ruolo sessuale più o meno inconsciamente interiorizzati e l’elabozione emotiva e culturale del gruppo generazionale. D’altra parte anche le madri cambiano; se viene meno un uniforme e coerente sostegno culturale al modello femminile-materno “tradizionale” di una donna dipendente e passiva, sacrificalmente votata all’accudimento della famiglia e sostanzialmente sottomessa al partner, e compare sulla scena sociale una “nuova madre” orientata alla realizzazione di sé attraverso il successo sociale e professionale, volta dunque a promuovere in se stessa e nella figlia maggior autonomia, la costruzione della femminilità della figlia avverrà attraverso percorsi diversi e con l’assimilazioni di diversi valori. Pure sul versante paterno la situazione è fluida e cangiante; se spetta al padre la valorizzazione della femminilità della figlia, il sostegno narcisistico di un padre affettuosamente vicino, meno idealizzato o temuto che in passato, ma più capace di sostenere la nascita sociale della ragazza proponendole realizzazioni personali e sociali non precluse da una definizione socialmente svalutata della femminilità e dei suoi possibili traguardi, può fornire alla figlia un’autostima e un sentimento del proprio valore meno fragile di quello derivante dal rapporto con un padre che mortifica la femminilità della figlia, anche solo attraverso l’esibizione di un rapporto di coppia asimmetrico. E’ interessante a questo riguardo la rilettura che la Bleichmar propone del caso di Dora, la femmina adolescente più famosa della storia della psicoanalisi; secondo quest’autrice all’origine della malattia di Dora non sono i conflitti pulsionali, la dinamica fra desideri e divieti sessuali rivolti all’uno e all’altro genitore, bensì le profonde mortificazioni narcisistiche della femminilità inflitte da entrambi le figure parentali e dai loro sostituti; scrive la Bleichmar: “L’interesse di Dora era manifestamente rivolto più alla donna che all’uomo, ma non alla donna in quanto sesso, bensì in quanto essere dotato di femminilità. Si rifletteva qui la ricerca di un ideale dell’Io femminile che in Dora appariva piuttosto confuso.. Come poteva la madre, donna di pochi lumi, totalmente squalificata agli occhi di un padre per il quale la moglie “non contava niente”, capace solo di regnare sugli oggetti domestici, rappresentare l’ideale di una ragazza come Dora, descritta da Freud come “una ragazza matura e dal giudizio molto indipendente”? La signora K. pareva molto più indicata ad essere e a rappresentare il modello di una femminilità da ammirare, oggetto di predilezione del padre di Dora, lettrice di libri di argomento sessuale, un prototipo dunque di maggior valore..”. Al padre, oggetto idealizzato cui Dora rivolge non solo il desiderio edipico ma anche il bisogno di valorizzazione narcisistica che la sostenga nell’oltrepassare i confini del mondo domestico materno, “non viene imputato il fatto di preferire sessualmente
  • 6. la signora K., bensì quello di ignorare il suo compito di garante dell’onorabilità della figlia adolescente, cioè di difensore del narcisismo della sua incipiente femminilità.. L’indignazione di Dora esprime la lucida percezione della sua poca importanza come essere umano, come altro significativo per suo padre, padre che lei considerava come Ideale dell’io, ideale che non solo non la riconosceva, ma neppure riusciva a sostenersi in quanto tale”. Se è opinione comune che l’isteria - di cui Dora rappresenta il prototipo nella storia della psicoanalisi - sia il linguaggio del malessere femminile del secolo scorso, è l’anoressia a proporsi oggi come segnale della sofferenza delle femmine nuove. L’allarme sul dilagare dei disturbi del comportamento alimentare è forte: basta uno sguardo fra i banchi di liceo per constatare che una seria patologia psichiatrica si è trasformata nell’arco di un decennio in un comportamento diffuso su base generazionale e sessuale, che in quanto tale denuncia un disagio specifico dell’adolescenza e della femminilità nell’ambiente socio culturale in cui viviamo. Devereux ha coniato per quelle patologie che compaiono in modo disomogeneo nelle popolazioni e nei loro diversi strati il termine “disturbo etnico”. Si tratta di sindromi che esprimono angosce e problemi irrisolti specifici di una determinata cultura e conservano una certa continuità con forme di comportamento “precliniche” diffuse nello stesso ambiente (il “culto” del corpo magro ad esempio); esse rivelano conflitti fondamentali e tensioni psicologiche comuni, che solo in qualche caso assumono carattere patologico. In questa prospettiva possiamo sostenere che “la natura” femminile prodotta dalle definizioni culturali del nostro tempo sia un elemento essenziale nella genesi dei disturbi del comportamento alimentare. In quanto indici di una sofferenza psichica specifica dell’adolescenza e della femminilità attuali, i disturbi alimentari rappresentano un ambito privilegiato per analizzare la costruzione dell’identità femminile oggi; troveremo infatti enfatizzate nelle ragazze anoressiche e bulimiche le stesse difficoltà presenti in forme meno specifiche e patologiche in molte adolescenti, difficoltà alle quali le anoressiche si illudono di aver trovato soluzione attraverso il sintomo. E tuttavia il diffondersi epidemico dei disturbi del comportamento alimentare mostra piuttosto l’impatto travolgente che non gli esiti del mutamento valoriale che orienta la costruzione dell’identità femminile; per questo è azzardato generalizzare rischiando di voler predire il futuro, ed è più opportuno limitarsi a qualche considerazione clinica e osservazione fenomenologica. La letteratura clinica suggerisce che le adolescenti che soffrono di disturbi del comportamento alimentare abbiano a che fare con un modello di coppia parentale ipertradizionale, che accentua e militarizza, rendendole stereotipate e sostanzialmente inconsistenti, le caratteristiche della coppia genitoriale del passato. Oggi però questa coppia è agli occhi della figlia “diversa”, per quanto riguarda la declinazione affettiva dei ruoli sessuali, dai modelli socialmente diffusi. La figlia
  • 7. anoressica sceglie, come Dora, di identificarsi con il padre potente e idealizzato e rifiuta disprezzandolo il modello materno sacrificale. Sarebbe dunque il conflitto i fra valori tradizionali agiti in famiglia e le nuove definizioni della femminilità a sostenere il disagio anoressico? In una situazione di transizione fra passato e futuro, madri e padri in conflitto con i propri modelli interni di ruolo, che scelgano di adeguarsi o differenziarsi, risultano comunque narcisisticamente più fragili. Le nuove madri si considerano meno capaci di accudimento e inadeguate al confronto della disponibilità sacrificale delle proprie madri, mentre le madri tradizionali si sentono personalmente e socialmente svalutate e soffrono del mancato riconoscimento della “dignità” del ruolo femminile materno nella coppia. I nuovi padri si ritengono meno capaci dei loro predecessori di imporre regole e proporre valori e sentono meno riconosciuta in famiglia la propria autorità virile, mentre quelli tradizionali soffrono l’isolamento affettivo cui li costringe la declinazione “autoritaria” del ruolo paterno. Ne deriva per tutti una maggior fragilità narcisistica, dunque più ambiguità e timori di fallimento nel compito parentale; sui figli vengono proiettate angosce di fallimento e aspettative più elevate, volte a rassicurare i genitori della “bontà” propria e delle proprie scelte educative. L’effetto di queste aspettative massicce quanto ambigue è efficacemente descritto da una famosa “striscia” di cartoons, in cui una Mafalda freneticamente impegnata a cambiare ambienti, abiti ed accessori, così riflette fra sé: “Per essere donna bisogna pensare come un uomo, comportarsi come una signora, sembrare una ragazzina.. e, come se non bastasse, lavorare come una matta!!” Si tratta di un pensiero che potrebbe essere eletto a manifesto delle adolescenti destinate a diventare anoressiche, ragazze impegnate su tutti i fronti: bravissime a scuola, ordinate e obbedienti in famiglia, ascoltatrici disponibili e pazienti con gli amici, attente al proprio aspetto e in perenne lotta con i brufoli o i chili di troppo; fino a quando, appunto, non “diventano matte” e trasformano quelle che fino a quel momento l’ambiente aveva considerato delle virtù in ossessioni terribili con cui tiranneggiano se stesse e gli altri. In un articolo del 1976 Franco Fornari faceva derivare i disturbi della sessualità femminile da un conflitto fra i valori del codice materno e quelli del codice femminile risolto a spese della femminilità, con l’annullamento cioè del desiderio e del piacere sessuale. Analizzando il contesto affettivo della società contemporanea, più volte Fornari rileva un’inflazione di codice materno, alleato al codice complementare del bambino onnipotente, a spese dei valori affettivi inerenti ad altri codici, in particolare quello paterno. Il codice materno, fondato su una contrattualità onnipotente pregenitale che ha come
  • 8. perno la sacrificalità del “dare tutto senza avere niente in cambio” è funzionale alla relazione madre bambino e in quest’ambito necessario alla sopravvivenza. Il codice femminile si colloca invece nell’ambito di relazioni di scambio reciprocamente convenienti, di cui è espressione l’accoppiamento genitale. Secondo Fornari le teorie freudiana e kleiniana della femminilità, pur opposte fra loro, tendono entrambi a confondere i valori del codice femminile con quelli del codice materno quando fondano la femminilità sulla triade: narcisismo, passività e masochismo; questa inerisce infatti piuttosto al codice materno e alla contrattualità sacrificale implicita nella relazione primaria madre-bambino, che non al codice femminile fondato sul reciproco scambio. L’intrusione di valori materni nella relazione fra i sessi e l’asservimento del codice femminile a quello materno, sebbene “naturalmente” fondato dal desiderio della donna di garantire il legame per proteggere la genitorialità, da un lato produce l’infantilizzazione del partner maschile attraverso l’onnipotenza materna del “dare tutto senza aver nulla in cambio” spostata dalla relazione madre bambino al rapporto di coppia, dall’altro ha come esito patogeno i disturbi della sessualità femminile. Possiamo osservare come il declinarsi confusivo dei codici affettivi nella dinamica relazionale di coppia descritta da Fornari sia la stessa che compare fra i genitori dell’adolescente anoressica. La loro relazione coniugale viene infatti descritta come il legame fra una madre sacrificale e un bambino onnipotente, con il sacrificio degli erotemi ai parentemi; tale dinamica deriverebbe da una contrattualità di coppia originariamente fondata sulle mancanze subite da entrambi nella famiglia d’origine, la madre in termini di riconoscimento, il padre in termini di accudimento e nutrimento affettivo; la madre cercherà l’apprezzamento del partner “facendo tutto per lui senza chiedere nulla”, e ne attenderà in cambio il riconoscimento che la compensi di quello mancato nella famiglia d’origine; il padre esigerà attenzioni e cure, qualcuno che si occupi di lui più di quanto sia avvenuto nell’infanzia. Questo modello relazionale finisce per deludere entrambi e soprattutto per uccidere la relazione erotica, fondata sul reciproco scambio di piacere. La figlia anoressica apparentemente si identifica con entrambi questi genitori, con una madre che nutre senza poter essere nutrita e con un padre narcisisticamente chiuso che protesta di essere affamato e mal nutrito. Come la nuova declinazione di valori del codice femminile si intreccia con tali modelli relazionali? La sedicenne di oggi apprende, prima nel gruppo monosessuale femminile, poi nelle prime esperienze di coppia, una contrattualità fra i sessi diversa da quella introiettata in famiglia identificandosi con la coppia parentale. Particolarmente indicativi al riguardo sono i mutamenti del rituale di
  • 9. corteggiamento, che Fornari considera come un esempio lampante dell’asservimento dei valori della femminilità a quelli della maternità: “Il corteggiamento prescrive che il maschio sia continuamente tentante la ragazza e chieda il rapporto sessuale come prova d’amore (..) ciò si spiega in base al fatto che il rapporto sessuale venga simbolizzato secondo il codice materno non come fruire di un possesso attraverso un possedersi reciprocamente, ma come un pasto molto desiderato che la donna offre all’uomo come prova dell’amore materno”; questa simbolizzazione orale confusiva della genitalità nega il desiderio sessuale femminile, in nome del bisogno materno di garantire il legame. Non occorre essere osservatori particolarmente attenti per rilevare che gli adolescenti di oggi, maschi e femmine, hanno radicalmente trasformato i rituali di corteggiamento nella direzione di una maggior reciprocità ed intercambiabilità di ruoli; le nuove adolescenti sono senza dubbio più intraprendenti delle loro madri nell’affermare il proprio desiderio sessuale e nell’assumere un ruolo attivo nel rituale di corteggiamento. Anche in questo caso il carattere recente del cambiamento invita alla prudenza nell’interpretarne il significato. Se ne osserviamo gli esiti sul versante maschile dobbiamo notare l’effetto inibitorio che la rivendicazione del desiderio femminile provoca negli adolescenti maschi, spaventati e confusi anche perché hanno lasciato da poco l’infanzia e confondono l’intraprendenza femminile delle compagne con l’intrusività della madre dell’infanzia che vorrebbe trattenerli legati a sé. Tuttavia la nuova contrattualità della coppia adolescente, pur con tutte le ambiguità dei processi di transizione, sembrerebbe andare verso il riconoscimento di un desiderio femminile simmetrico a quello maschile. La fenomenologia attuale della relazione di coppia fra giovanissimi appare in ogni caso difficilmente compatibile con la triologia di masochismo, passività e narcisismo che Freud attribuisce alla femminilità e Fornari al codice materno. E’ possibile ipotizzare che l’allentarsi dei legami fra sessualità e maternità derivante dalla scoperta degli anticoncezionali abbia contribuito ad una maggior separazione fra codice materno e codice femminile, il che avrebbe sulla fondazione dei valori della femminilità lo stesso significato di svolta epocale che la situazione atomica ha avuto nella declinazione del codice paterno. La sottomissione del codice femminile al codice materno allo scopo di fondare il legame garante della parentalità è forse meno necessaria alla sopravvivenza della specie in un contesto socio-culturale in cui la struttura familiare va modificandosi in formazioni sempre più complesse e in cui sia la scelta che la permanenza della genitorialità tende a svincolarsi dal destino della coppia; i membri di una coppia coniugale meno solida e duratura che nel passato, devono poter garantire il permanere del legame parentale a prescindere dal perdurare o meno di quello
  • 10. coniugale: ciò avviene con la fondazione affettiva del legame genitori figli attraverso relazioni piutto che vincoli sociali e di ruolo. Anche qui è opportuna una certa prudenza interpretativa per non confondere elementi contingenti con mutamenti di fondo. Rimanendo ancorati dunque al piano dell’osservazione, possiamo rilevare che l’adolescente femmina non sembra più disposta ad usare la sessualità come merce di scambio sull’altare del legame e che, avendo interiorizzato l’autonomia come valore integrato nell’identità personale, è riluttante a spenderlo in cambio della passività e della dipendenza che culturalmente, anche dalla psicoanalisi, vengono attribuite all’identità femminile. Forse la nuova femmina adolescente si sta dando tanto da fare, sia pure in modo confuso e con molta sofferenza, per liberare il codice femminile dalla tirannia del codice materno, da cui dipenderebbe una relazione con l’altro sesso improntata alla sacrificalità piuttosto che allo scambio. In questo senso la “sindrome culturale” anoressica esprime in modo radicalizzato fino ad essere caricaturale i conflitti fondamentali della nuova femminilità. La protesta simbolicamente espressa dal comportamento anoressico può infatti essere letta come un’espressione estrema dell’onnipotenza materna, della sacrificalità che nega ogni bisogno e ogni dipendenza, rappresentata dall’assillo di nutrire gli altri senza tenere nulla per sé; e insieme come una negazione del corpo femminile, trasformato dall’identificazione fallica, e della relazione di scambio, annullata dall’estrema chiusura narcisistica che elimina magicamente ogni dipendenza. La patologia anoressica potrebbe essere dunque un’espressione caricaturale e militarizzata della madre onnipotente che impedisce l’accesso alla femminilità; essa rappresenterebbe in questo senso l’ammissione di un fallimento nel tentativo dell’adolescente di integrare identità personale e di genere, fallimento che si esprime nell’incapacità di prendere le distanze dall’imperiosità dei propri modelli interni per instaurare una nuova relazione di scambio nella coppia genitale. Vorrei concludere queste riflessioni con il racconto di una seduta di psicoterapia di Sara, anoressica diciassettenne; al quarto anno di psicoterapia Sara ha ripreso peso e vita sociale, e da quasi un mese frequenta per la prima volta un ragazzo. “Devo dirle due cose: intanto ho una gran paura d’ingrassare, mi guardo nello specchio e mi vedo enorme; poi devo chiederle un consiglio...” Mi guarda con un’espressione furba, come a dire “so benissimo che non si può!” e racconta di Marco, ventidue anni, che le ha chiesto di cenare a casa sua uno di questi giorni: “Ci vado? Le mie compagne e mia madre dicono che bisogna farsi desiderare e io ho una gran paura di fare la cosa sbagliata.” Chiedo cosa desideri lei: “Andrei al volo!!..Però prima di decidere volevo sentire cosa ne pensa..”. Sono preoccupata dell’idealizzazione di Sara e temo possa sostituirmi alla madre come oggetto da compiacere senza poter essere davvero libera; tergiverso cercando di evitare una risposta diretta. Racconta di essere “sulle nuvole” dall’ultimo incontro con Marco e che per la prima volta oggi non ha preso appunti durante le lezioni: “Ho la testa altrove..”. Con un
  • 11. tono più euforico che preoccupato parla della paura di “lasciarsi andare”. Le faccio notare che non sembra davvero preoccupata e le chiedo se non prendere appunti abbia qualche rapporto con la paura di ingrassare: “Adesso che lo dice sì, però non ci avevo pensato..”. Parliamo, usando il linguaggio costruito in questi anni di lavoro comune, di come “Sara grassa” sia l’equivalente di una Sara che “si lascia andare”, che “non prende appunti” e rischia di perdere il controllo. “Mi fa venire in mente un sogno: eravamo in un locale con Marco, ci baciavamo, poi lui però mi dava delle “regole” per stare con lui; erano tante, però io ricordo solo che dovevo fare l’amore ogni volta che voleva lui e che lui poteva farlo anche con le altre. Non mi ricordo se gli dicevo qualcosa, so che pensavo che io non me la sentivo di fare l’amore e che però l’avrei perso se non fossi stata alle sue regole. Poi mi accompagna a casa e c’è anche mio padre con noi..”. Mi limito a commentare che questo Marco del sogno ricorda Enrica, l’amica del cuore di Sara; si apre il tema delle relazioni compiacenti, in cui lei è disposta a “far da tappetino” pur di non perdere l’altro. Sara afferma di non capire perchè Marco desideri stare proprio con lei: lui è più grande, ha avuto altre ragazze, lei “non sa come si fa”, nemmeno rispetto al “farsi desiderare” di cui parlano le sue amiche. Sta ancora cercando aiuto per decidere sull’invito a cena, che in questo momento le interessa più del suo sogno. Parliamo del timore di perdere l’altro se non si sta alle sue “regole” e della mancanza di autostima; davvero bisogna sottomettersi alle regole dell’altro, come nel sogno, o “darsi delle regole”, tenere le distanze, “farsi desiderare”, come dicono le sue compagne? “Allora secondo lei non faccio male ad andare?”, traduce subito Sara. Le dico che mi sembra importante che si renda conto del rischio, presente nel sogno e nei suoi discorsi, di avere con Marco una relazione in cui è più importante far quello che lui desidera per piacergli e compiacerlo, che tener conto dei propri desideri e delle proprie paure. Se fa attenzione a questo rischio può decidere da sola, senza ascoltare me, sua madre o le sue amiche: “Allora ci vado!” “Però io mi chiedo cosa ci faccia tuo padre nel sogno..” riprendo; “Me lo sono chiesta anch’io..”. E’ più disposta a riflettere ora che ha deciso. “Mi sembra che è mia madre che cerco di accontentare, non mio padre..”; “Cerchi di accontentare tua madre perchè temi che si arrabbi e non ti parli, oppure che stia male; però tieni molto alla stima di tuo padre..”; “Ah sì! Per esempio è per lui che voglio andar bene a scuola; però lui non me l’ha mai chiesto, mentre mia madre mi ripete sempre come dovrei essere o non essere..”; “Tuo padre non è di tante parole, ma tu sai bene cosa pensa, e siccome lo stimi ti dai un gran da fare per non deluderlo..”; “Sì, anche se lui non mi chiede niente..”; “Quindi non sai cosa pensi del tuo rapporto con Marco?”; “Lo so sì, pensa che alla mia età queste cose son tutte bazzeccole!!”; “Il che significa che prima di tutto non devono distrarre dalle cose importanti?”; sorride: “Sì, che non bisogna avere la testa fra le nuvole..” “..nè perdere il controllo..” continuo con lo stesso tono ironico, “diventando una ragazza grassa e stupida..”, conclude Sara, ridendo divertita e sollevata.
  • 12. Bibliografia E.Dio Blechmar Il femminismo dell’isteria Cortina, Milano, 1994 G. Devereux Saggi di etnopsichiatria generale Armando Roma 1978 G.Pietropolli Charmet: Amici compagni complici Franco Angeli, Milano,1997 G.Pietropolli Charmet L’adolescente e lo psicologo, Franco Angeli, Milano 1998 G.Pietropolli Charmet, E.Riva: Adolescenti in crisi, genitori in difficoltà F.Angeli, Milano,1995 F.Fornari: Codice materno e disturbi della femminilità, in “Ginecologia psicosomatica e psicoprofilassi isterica. Atti del I Congresso di psicoprofilassi ostetrica” a cura di R. Ceruti, Piccin, Padova,1976 F.Fornari Carmen adorata Longanesi, Milano, 1985 M.Palazzolo Selvini, S.Cirillo, M.Selvini, A.M. Sorrentino: Ragazze anoressiche e bulimiche Cortina, Milano,1998 M.Pipher Reviving Ophelia Saving the selves of adolescent girls Ballantine Books, New York,1975 W.Vandereycken R.van Deth Dalle sante ascetiche alle ragazze anoressiche Cortina, Milano1995