Dalla formula relativistica dell'energia, all'equazione di Dirac.
1. Dalla formula relativistica dell’energia, all’equazione di Dirac
Consideriamo una particella quantistica relativistica. In questo caso,
l’hamiltoniana è ottenuta dall’espressione relativistica dell’energia, che non è
p2
/2µ, ma:
( μ) +
Questa espressione deriva direttamente dall’equazione ( μ) = − ,
in cui µ è adesso la massa della particella a riposo. A questo punto, occorre
tener presente che la radice quadrata del radicando ( μ) + , porta a
notevoli difficoltà rispetto alla necessità di preservare positive le frequenze.
Per evitare d’ingombrare inutilmente il radicando in questione, poniamo la
velocità della luce uguale a uno (c = 1), affinché la nostra hamiltoniana
relativistica diventi:
Ĥ = μ +
Dobbiamo inoltre tenere a mente che p2
, in meccanica quantistica, è in realtà
l’operatore differenziale parziale del secondo ordine, -ħ2
∇2, così che avremo
bisogno di molta sofisticazione matematica per assegnare un significato
coerente all’espressione: μ − ħ ∇ , che è la radice quadrata di un
operatore alle derivate parziali! Inoltre, vi è una difficoltà ancora più seria con
questa radice quadrata, perchè contiene un’implicita ambiguità di segno. In
fisica classica, simili ambiguità potrebbero non preoccuparci, perchè le
quantità in esame sono comuni funzioni a valori reali e noi possiamo pensare
di essere in grado di mantenere i valori positivi, separati da quelli negativi.
“Solo studiando
la matematica
possiamo sperare di
indovinare il tipo di
matematica che
entrerà nella fisica
del futuro”.
Paul Dirac
(1902 – 1984)
2. In meccanica quantistica, però, questo non è così facile. Il motivo è in parte
dovuto al fatto che le funzioni d’onda quantistiche sono complesse, e le due
radici quadrate di un’espressione complessa non tendono a separarsi
nettamente in “positiva” e “negativa” in un modo globalmente coerente.
Questo dovrebbe essere considerato in relazione al fatto che la meccanica
quantistica ha a che fare con operatori che agiscono su funzioni complesse, e
cose come le radici quadrate possono condurre ad ambiguità sostanziali che
non possono essere risolte semplicemente dicendo: “prendete solo la radice
positiva”. Vi è comunque un altro modo di esprimere questa difficoltà.
Si deve tener presente che in meccanica quantistica le varie cose che
“potrebbero” accadere, in una situazione fisica, possono tutte contribuire allo
stato quantistico, quindi tutte queste alternative hanno un’influenza su
qualunque cosa potrebbe avvenire. Quando è presente qualcosa come una
radice quadrata, ciascuna delle due radici deve essere ritenuta una
“possibilità”, così che persino una “non fisica energia negativa” deve essere
valutata come una “possibilità fisica”. Non appena vi è la possibilità di un
simile stato con energia negativa, si presenta la probabilità di una transizione
spontanea da energia positiva a energia negativa, che può condurre ad una
instabilità catastrofica. Nel caso di una particella non relativistica, non
abbiamo questo problema della possibilità di energia negativa, perche la
quantità definita positiva p2
/2µ, non ha questa imbarazzante radice quadrata.
Tuttavia, l’espressione relativistica μ + è più problematica per il fatto
che normalmente, non abbiamo una procedura chiara per escludere le radici
quadrate negative. Nel caso di una singola particella libera (o di un sistema di
tali particelle non interagenti), questo non porta effettivamente ad una seria
difficoltà, perchè possiamo limitare l’attenzione a sovrapposizioni di
soluzioni di onde piane di energia positiva dell’equazione libera di
Schrödinger (senza transizioni a stati di energia negativa). Tuttavia, questo
non è più il caso nel momento in cui siano presenti interazioni; persino per
una singola particella relativistica carica in un dato campo elettromagnetico
la funzione d’onda non può, in generale, mantenere la condizione di
frequenza positiva. In questo è facile percepire il conflitto tra i principi della
meccanica quantistica e quelli della relatività. Ebbene il grande fisico Paul
Dirac, scoprì un modo per risolvere questo particolare conflitto. Come primo
passo avanzò una proposta ingegnosa e decisamente intuitiva (la sua
equazione per l’elettrone, ora famosa), che eliminò la fastidiosa radice
quadrata in un modo meraviglioso ed inatteso. In seguito, tutto ciò condusse
ad un punto di vista fortemente originale in cui le energie negative vengono
eliminate, poichè i loro effetti sono rimpiazzati da ciò che allora si rivelò
come una sorprendente predizione: l’esistenza di antiparticelle. Per
comprendere al meglio il significato di tutto ciò, occorre ritornare alla
caratteristica essenziale della teoria della relatività, da cui ha origine la radice
quadrata.
3. Ricordiamo a questo punto il motivo alla base del nostro apparente bisogno
di adottare l’hamiltoniana μ + , nel caso relativistico. Questo proviene
in definitiva dal fatto che l’equazione di Schrödinger fa uso dell’operatore
∂/∂t (cioè il “tasso di variazione rispetto al tempo”) mentre, in relatività, ∂/∂t
non è una cosa invariante, perchè il tempo e lo spazio non possono essere
presi in considerazione separatamente, ma sono solo aspetti particolari di uno
“spaziotempo” combinato. Perciò, non è “relativisticamente invariante”
ritenere che ∂/∂t sia una cosa fondamentale. Ora, sappiamo che il ∂/∂t
nell’equazione di Schrödinger proviene dalla generale “regola di
quantizzazione”, per cui il quadrimpulso standard spazio-temporale pa (vale
a dire, l’energia E da iћ∂/∂t e –p da iћ∇). La “non invarianza relativistica” di
∂/∂t è così strettamente collegata alla non invarianza dell’energia; allo stesso
modo con cui tempo e spazio vengono mescolati nella teoria della relatività,
anche energia e quantità di moto vengono mescolati.
Si ricordi inoltre che l’equazione di Einstein, E=mc2
(con la convenzione che
c=1), ci dice che l’energia è massa e la massa è energia, così che anche la
massa risulti sempre “non invariante”. Ciò, tuttavia, si riferisce al concetto di
“massa” additiva m (la componente temporale del quadrimpulso) che non è
intrinseco a una particella in sè, ma che è la massa misurata in qualche sistema
di riferimento che non necessariamente condivide la velocità di quella
particella. Quanto maggiore è la velocità della particella, tanto più grande è
questa massa “percepita” (il che è proprio il motivo per cui m non è una
quantità invariante). La massa a riposo µ di una particella è invariante, ma ha
il difetto di non essere additiva e di non essere conservata nelle trasformazioni
delle particelle: pertanto non è una buona scelta per qualcosa che deve essere
uguagliato ad una hamiltoniana. Inoltre, µ è data come una radice quadrata di
un’espressione in termini di energia e quantità di moto; e precisamente
(ponendo c=1), abbiamo:
µ2
= pa pa
= m2
– p2
...cioè: µ = − ,
che esprime in modo diverso l’espressione per la massa-energia m = E (=Ĥ)
che avevamo in precedenza, e precisamente: m = μ + . Ciononostante,
potremmo giocare con l’idea di usare questa invariante energia a riposo µ
(oppure il suo quadrato µ2
), in un’equazione di tipo Schrödinger, invece di
usare la non invariante m. L’espediente di quantizzazione (cioè, il rimpiazzare
m con iћ∂/∂t e p con -iћ∇), quando viene applicato all’energia a riposo al
quadrato (vale a dire a µ2
= m2
– p2
), ci fornisce (iћ)2
moltiplicato per
l’operatore:
◻ = − = − − − ,
4. nelle coordinate di Minkowski (t, x, y, z). Ciò è chiamato operatore d’onda (o
dalambertiano), e ha davvero un significato invariante. (Si ricordi che (∂/∂x)2
,
significa l’operatore di derivata seconda ∂2
/∂x2
, etc.).Anche se la
convenzionale equazione di Schrödinger non ci consente d’impiegare
direttamente questo operatore (perchè, per i motivi sopra indicati, essa
richiede l’operatore di primo ordine “∂/∂t” e non quello di secondo ordine
(∂/∂t)2
), possiamo però anticipare che l’equazione di secondo ordine:
(iћ)2
◻ ψ = µ2
ψ ,
(dove (iћ)2
◻ è ottenuto da µ2
con l’espediente di quantizzazione e il µ
nell’equazione è effettivamente la massa a riposo) dovrebbe essere sensata
come equazione d’onda per una particella relativistica. Questa equazione può
essere riscritta come:
(◻ + M2
) ψ = 0 ,
dove M = µ/ћ e ha davvero significato nella teoria quantistica relativistica.
Oggi questa equazione viene spesso chiamata “equazione di Klein-Gordon”,
anche se pare sia stato lo stesso Schrödinger il primo a suggerire questa
equazione relativisticamente invariante; cosa che fece persino prima di
adottare la sua, ora famosissima, “equazione di Schrödinger”.
Nel contesto della moderna teoria quantistica dei campi, l’equazione di Klein-
Gordon può essere impiegata, se viene interpretata in modo opportuno, per
descrivere particelle massive senza spin; nello specifico quelle particelle
chiamate mesoni (ossia particelle di massa intermedia, come i pioni o i kaoni).
Ma questa interpretazione richiede tutta la struttura della teoria quantistica dei
campi, che era solo in forma embrionale quando nel 1928 Dirac propose per
primo la sua equazione, dall’aspetto molto diverso, per l’elettrone. Dirac
aveva presentato argomentazioni a favore di un’equazione in cui la derivata
rispetto al tempo ∂/∂t compare al primo ordine (come nell’equazione di
Schrödinger) invece che al secondo ordine (∂/∂t)2
come nel dalambertiano ◻.
I suoi motivi erano collegati a quelli sopra indicati, ma egli ragionava
soprattutto sulla base della richiesta che la funzione d’onda di una particella
dovrebbe fornire un’espressione per la densità di probabilità di trovare la
particella in un posto scelto a piacere, in modo qualitativamente simile alla
ψψ della comune meccanica quantistica non relativistica, che dovrebbe essere
definita positiva in modo che questa probabilità non possa mai diventare
negativa. Questa richiesta non è affatto uguale a quella per cui l’energia sia
definita positiva, ma è una richiesta complementare che ha sostanzialmente
la stessa importanza.
Con un’ingegnosa e penetrante risoluzione dell’apparentemente irresolubile
conflitto tra le richieste della relatività e il suo bisogno di un operatore del
5. primo ordine ∂/∂t, Dirac si destreggiò a trovare un’equazione che fosse del
primo ordine in ∂/∂t, prendendo esplicitamente la radice quadrata
dell’operatore d’onda ◻ in un modo sottilmente invariante dal punto di vista
relativistico. Ci riuscì con l’introduzione di certe grandezze aggiuntive non
commutanti; queste sono legittime in meccanica quantistica perchè debbono
essere trattate come operatori lineari agenti sulla funzione d’onda, alla
maniera degli operatori non commutanti di posizione e momento. Come
vedremo tra poco, è notevole che questi operatori non commutanti, che
introdusse Dirac, descrivano i gradi di libertà di spin dei più fondamentali
fermioni presenti in natura al momento della scoperta di Dirac (vale a dire di
elettroni e protoni, ma anche di neutroni, muoni, quark e di molte altre
particelle con spin semintero, oggi ben conosciute).
In verità, nel trovare le sue grandezze non commutanti di “spin”, Dirac
riscoprì le algebre di Clifford. Sembra che non sia stato a conoscenza del
precedente lavoro di William Kingdon Clifford (1845 – 1879) e neppure del
fatto che questi (e anche Hamilton prima di lui), avesse già notato che
elementi di queste algebre, potevano essere impiegati per “estrarre la radice
quadrata” dei laplaciani; dato che l’operatore d’onda ◻ è un genere
particolare di laplaciano, quando la dimensione è 4 e la segnatura è + − − −.
In realtà, come lo stesso Clifford sapeva, William Rowan Hamilton aveva già
dimostrato (intorno al 1840), che si poteva ottenere una radice quadrata del
comune laplaciano 3-dimensionale, con l’uso dei quaternioni:
+ + = − − − = −∇
Il procedimento di Clifford estendeva questa cosa al caso di un numero
maggiore di dimensioni. Forse non è sorprendente che Dirac non fosse a
conoscenza delle scoperte di Clifford, risalenti a più di mezzo secolo prima,
perchè questo lavoro non era affatto noto, negli anni Venti, neppure a molti
specialisti di algebra. Anche se Dirac fosse stato a conoscenza delle algebre
di Clifford già in precedenza, ciò non avrebbe offuscato la genialità della
percezione che tali grandezze sono importanti per la meccanica quantistica
dell’elettrone, dato che si tratta di un grande e inatteso progresso nel campo
della conoscenza fisica. Nel caso di Dirac, è proprio l’operatore d’onda quello
di cui si deve estrarre la radice quadrata, poichè è il laplaciano (lorentziano)
4-dimensionale della geometria di Minkowski:
◻ = − ∇2
.
6. Perciò impieghiamo gli elementi dell’algebra “lorentziana” di Clifford γ0, ...
γ3, che soddisfano le relazioni:
= 1 , = −1 , = −1 , = −1
In un algebra standard di Clifford (segnatura + + ... +), ciascuno di questi
quadrati sarebbe -1. Questo è ciò che deduciamo seguendo la convenzione
standard, in fisica, relativa ai segni; dove le spaziali mantengono gli
originari quadrati negativi di Clifford. La γ0 temporale ha, tuttavia, un
quadrato positivo. È in questo senso che l’algebra di Clifford di Dirac è
“lorentziana”. Le differenti grandezze soddisfano ancora le relazioni di
anticommutazione di Clifford:
= − ( ≠ )
Il fatto cruciale impiegato da Dirac, è che il dalambertiano è il quadrato di un
operatore del primo ordine definito con l’aiuto di questi elementi di Clifford:
◻ = (γ0 ∂/∂t – γ1 ∂/∂x – γ2 ∂/∂y – γ3 ∂/∂z )2
.
Possiamo scriverlo più concisamente con la notazione vettoriale, dove γ = (γ1,
γ2 , γ3), come:
◻ = (γ0 ∂/∂t – γ.∇)2
,
oppure, con ancora maggior concisione come:
◻ = ∂2
,
dove la grandezza:
∂ = γ0 ∂/∂t – γ.∇ = γa
∂/∂xa
(con γa
= gab
γb ) è chiamata operatore di Dirac. Questa comoda notazione
con barra obliqua (slash) è stata introdotta da Richard Feynman; più in
generale, un vettore Aa
potrebbe essere rappresentato dall’elemento
dell’algebra di Clifford-Dirac:
A = γa Aa
7. Ritorniamo ora alla nostra “equazione d’onda” (◻ + M2
) ψ = 0; impiegando
l’operatore di Dirac ∂, possiamo fattorizzare la quantità ◻ + M2
che compare
in questa equazione:
◻ + M2
= ∂2
+ M2
= (∂ + iM) (∂ - iM),
dove M = µ/ћ. L’equazione di Dirac per l’elettrone è allora (∂ + iM)ψ = - 0,
cioè:
∂ψ = -iMψ,
meglio conosciuta oggi nella sua forma in unità naturali ( dove ћ = c = 1):
oppure, reinserendo ћ, scrivendola in termini della massa a riposo µ:
ћ∂ψ = -iµψ.
Dalla fattorizzazione precedente è chiaro che ogni volta che questa equazione
è valida, deve essere valida anche l’equazione d’onda (◻ + M2
) ψ = 0. In
questo modo, le funzioni d’onda che soddisfano l’equazione di Dirac espressa
prima devono soddisfare anche l’ ”equazione d’onda” che governa il
comportamento delle particelle relativistiche di massa a riposo pari a ћM.
L’equazione di Dirac ha il vantaggio, rispetto all’equazione d’onda, di essere
di primo ordine in ∂/∂t. In verità, l’equazione di Dirac può essere riscritta in
forma di equazione di Schrödinger:
i ћ = ( ћ γ0 γ.∇ + γ0 µ ) ψ,
dove ћ γ0 γ.∇ + γ0 µ, svolge il ruolo di operatore hamiltoniano. La selezione
dell’operatore ∂/∂t non è, naturalmente, relativisticamente invariante, ma
l’equazione di Dirac completa ∂ψ = -iMψ è relativisticamente invariante
(per vederlo, si deve fare un attento esame dell’interazione tra gli elementi
dell’algebra di Clifford e le trasformazioni di Lorentz). Fu un notevole colpo
per i fisici di allora apprendere che vi sono entità relativisticamente invarianti
che giacciono al di fuori della struttura standard del calcolo vettoriale e
tensoriale. Ciò a cui Dirac aveva effettivamente dato inizio, era un nuovo
poderoso formalismo oggigiorno noto come calcolo spinoriale; un calcolo che
va oltre il convenzionale calcolo vettoriale e tensoriale. Il “prezzo” che
8. sembra dobbiamo pagare per questa notevole eliminazione della
imbarazzante radice quadrata, mentre si conserva l’invarianza relativistica, è
la comparsa di questi strani, non commutanti elementi γa dell’algebra di
Clifford. Che cosa significano? Dobbiamo pensare siano operatori agenti
sulla funzione d’onda; poichè questi particolari operatori sono elementi
nuovi, che non provengono direttamente dalle (non commutanti) variabili
quantistiche di posizione e quantità di moto che abbiamo già preso in esame,
devono riferisrsi a (e agire su) qualche nuovo grado di libertà della nostra
particella. Dobbiamo chiederci a quale scopo fisico, possano servire questi
nuovi gradi di libertà. Col senno di poi, grazie alla nostra attuale terminologia,
vediamo che la risposta sta nel nome stesso di “spinore”: i nuovi gradi di
libertà descrivono lo spin dell’elettrone. Si ricordi che, uno spinore può essere
pensato come un oggetto su cui agiscono come operatori, gli elementi
dell’algebra di Clifford. Nell’equazione di Dirac, gli elementi di Clifford
agiscono sulla funzione d’onda ψ, che deve quindi essere essa stessa uno
spinore. Essa ha gradi di libertà extra, oltre la sola dipendenza dalla posizione
e dal tempo di una comune funzione d’onda scalare, e sono proprio questi
gradi di libertà in più, a descrivere lo spin dell’elettrone!
Ora cominciamo a capire che il prezzo che abbiamo dovuto pagare per essere
in grado di fattorizzare l’operatore d’onda con l’impiego degli elementi di
Clifford, ci ha procurato un “affare” quasi incredibile! Non soltanto ci dà una
teoria che descrive con precisione lo spin dell’elettrone, ma quando
aggiungiamo all’hamiltoniana il termine standard che dà l’interazione con un
determinato campo elettromagnetico (un termine che introduce
l’elettrodinamica in preciso accordo con le “prescrizioni di gauge”), troviamo
che l’elettrone di Dirac si comporta nel campo elettromagnetico, proprio
come si dovrebbe comportare l’elettrone con carica, inclusi alcuni sottili
termini dovuti al suo moto relativistico. Ma non è solo il comportamento da
particella carica dell’elettrone a venire correttamente descritto; l’elettrone di
Dirac si comporta anche come una particella in possesso di un momento
magnetico di valore molto ben definito, e precisamente:
ћ2
e
4μc
,
dove “- e” è la carica dell’elettrone e µ la sua massa. Ciò significa che
l’elettrone non ha solo una carica elettrica, ma si comporta anche come un
piccolo magnete. Il valore di Dirac per il momento magnetico dell’elettrone
è, in modo notevole, molto prossimo al valore effettivamente osservato, per
circa una parte su mille. La migliore determinazione moderna del momento
magnetico dell’elettrone, differisce dal valore originario di Dirac, per il
seguente fattore moltiplicativo: 1, 001 159 652 118...
9. Persino questa piccola discrepanza è adesso spiegata con effetti correttivi
provenienti dall’elettrodinamica quantistica, che incorpora l’equazione di
Dirac come uno dei suoi “ingredienti” fondamentali. L’accordo con la Natura
della piccola, ma ingegnosa, equazione di Dirac, è davvero straordinario!
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Bibliografia:
- R. PENROSE, La strada che porta alla realtà, Rizzoli, Milano, 2005.
- D. MONTI, Equazione di Dirac, Bollati & Boringhieri, Torino, 1996.
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