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Un’ Amarcord – Sarebbe sempre la stessa cosa. Sareb-be 
un… amarcord. Racconterebbe qualche cosa accadu-ta 
prima, cogliendo la carica che anticipa il dopo. Forse 
non bisognerebbe neppure pensare all’amarcord, per-ché 
la base del cinema – in fondo – è sempre la stessa. 
La realtà è piena di storie stupende e noi continuiamo 
a chiederci “Perché siamo al mondo?”, “Chi siamo?”. 
Anche una piccola storia d’amore può essere una cosa 
stupenda. Di recente pensavo alla scena di un film di 
Tarkovskij: all’incontro tra padre e figlio in Solaris. Il 
figlio cosmonauta che sta volando nello spazio profon-do, 
al di là dell’atmosfera, rischiando la vita, e il povero 
padre che attende il ritorno. Mi chiedevo come sarebbe 
stato l’incontro, cosa avrebbero fatto i due personaggi, 
quale espediente avrebbe utilizzato lo sceneggiatore. E 
alla fine la scelta è di non introdurre niente di eccessivo 
o di falso: nessuna forzatura dell’immaginazione. Il pa-dre 
apre la porta, guarda il figlio che cade in ginocchio 
e abbraccia le gambe del genitore, sommità d’affetto in-nanzi 
a lui. È una scena piena di naturalezza eppure ri-splende 
di fantasia. Torniamo, quindi, a pensare a cose 
più piccole, più semplici, ma proviamo a guardarle con 
maggiore attenzione. Sono un uomo che ama guardare. 
Adesso guardo la pioggia. Prima c’era il sole, adesso tut-to 
è grigio. Non mi chiedo quasi niente. Penso a chi ver-rà 
a trovarmi e attendo. Quest’attesa è già un film ed è 
l’attesa di chi, a novantadue anni, sta andando incontro 
alla morte. Descrivere un simile istante di sospensione, 
con tutti i ricordi che piombano in un paesaggio grigio, è 
già una cosa bella. Poi arriva qualcuno che ti dice “Buon-giorno, 
parliamo di cinema?”. E va bene così. 
1
2 
COM’È TRISTE LA PRUDENZA di Teatro Valle Occupato 
L’occupazione del Teatro Valle – che dura ormai dal 
14 giugno, da più di due mesi e mezzo – è uno degli atti 
di disobbedienza civile più importanti nella Repubbli-ca 
Italiana dal dopoguerra. 
È stata la Costituzione – che nella forma dell’art. 9 
e dell’art. 43 regola la tutela della cultura e del pae-saggio 
da parte dello stato e la possibilità di trasferire 
mediante espropriazione allo Stato servizi pubblici es-senziali 
o di interesse generale – e sono stati i cittadini 
italiani – che hanno iniziato finalmente a riprendere 
in mano il loro destino tramite i referendum del 12 e 
il 13 giugno – a ispirare la lotta delle lavoratrici e dei 
lavoratori dello spettacolo che stanno occupando il 
Teatro Valle. 
Il Teatro Valle non è stato infatti solo “occupato”, ma 
è stato anche “aperto”, messo a disposizione della 
cittadinanza tramite spettacoli che hanno richiama-to 
migliaia di persone e sul suo palco sono transitati 
centinaia di artisti nella logica della programmazione/ 
flusso che ha consentito a chiunque ne facesse richie-sta 
di avere la possibilità di esprimersi. Ma non solo 
questo: il Teatro Valle Occupato ha affrontato di petto 
anche la questione della Formazione e dell’Istruzione 
– ridotta ai minimi termini dal governo Berlusconi – 
aprendo il teatro durante il giorno e organizzando un 
corso di tre settimane per maestranze e tecnici di sce-na 
di teatro, e dei workshop di scrittura scenica, reci-tazione 
e fotografia a cui, per ragioni politiche, non si 
è voluto mettere il numero chiuso. 
Insomma il Teatro Valle, da possibile “gallina delle 
uova d’oro” per pochi, espressione che, anche se sem-plificando, 
riassume le politiche culturali degli ultimi 
quindici anni del nostro paese, sta diventando un’op-portunità 
per molti di avvicinarsi al teatro, di avere 
un luogo d’incontro e di stimolo delle proprie qualità 
umane. 
Per questo la lotta del Teatro Valle non è solo una lotta 
per impedire una privatizzazione nella logica di profit-
to del liberismo più selvaggio, una logica che vorrebbe 
privatizzare anche la cultura per controllarla e disin-nescare 
tutti i suoi meccanismi sovversivi di creazione 
di consapevolezza e di arricchimento dell’umano, non 
è solo una lotta di difesa, ma è una lotta per rendere il 
Teatro Valle un Bene Comune, ovvero qualcosa che va 
al di là sia del concetto di profitto del privato che del 
concetto di lottizzazione e burocratizzazione del pub-blico; 
il Teatro Valle dovrebbe essere gestito da una 
fondazione e dovrebbe avere al suo interno anche una 
scuola per maestranze tecniche del teatro e un centro 
italiano di drammaturgia contemporanea che formino 
nuovi tecnici, nuovi drammaturghi e nuovi artisti, una 
specie di vivaio e un continuo stimolo per tutte le pro-fessionalità 
artistiche e tecniche legate al teatro. 
In questa logica, come collocare una visione del ci-nema 
italiano all’interno dell’articolata e innovativa 
proposta del Teatro Valle Occupato, una proposta che 
sfida a viso aperto l’esistente andando oltre i concetti 
di pubblico e privato, prospettando una gestione alter-nativa 
alle lobby e agli usi privatistici della cultura? 
Il cinema non è un palazzo, non è un teatro, non è un 
bel paesaggio, insomma non è identificabile immedia-tamente 
con un Bene Comune, anche se è qualcosa 
di cui tutti dovrebbero godere. Saltiamo a piè pari il 
discorso moralistico film belli/film brutti, film da pro-durre, 
film impegnati, eccetera. Ma segnaliamo con 
forza che se il cinema, come tutti i mezzi di comuni-cazione 
che veicolano valori ed emozioni e hanno la 
possibilità di costruire un immaginario, diventa un 
monopolio culturale, ovvero viene prodotto con le 
stesse modalità produttive e gerarchiche dello sta-tus 
quo, veicola gli stessi temi e gli stessi generi (un 
esempio potrebbe essere la contemporanea “comme-dia 
frizzante” di successo) con gli stessi attori, le stesse 
attrici, tutti appartenenti a una determinata categoria 
estetica dominante (“i belli”) e a una determinata età 
anagrafica (“i giovani”), la nostra coscienza ci obbliga 
3
a protestare, a ribellarci e a porci, insieme al pubblico, 
una serie di domande. 
Come imprimere un cambiamento al cinema, andan-do 
nella stessa direzione del Teatro Valle, ovvero co-struendo 
uno scenario diverso per il suo futuro, che 
tuteli non solo lo stesso Teatro Valle ma il teatro in 
generale come bene culturale collettivo? 
Come si può rendere il cinema un bene culturale col-lettivo, 
senza ricadere nelle pastoie della logica “pub-blica” 
dei finanziamenti statali, dei vari articoli 28, 8, 
delle commissioni che si riuniscono, dell’amico che ti 
può dare una mano durante la discussione della sce-neggiatura 
da finanziare, delle produzioni che nasco-no 
solo per “gestire” un finanziamento di un film che 
non uscirà mai e che se uscirà sarà comunque senza 
una distribuzione decente. 
Forse la soluzione si potrebbe trovare in una famosa 
frase di Angelo Guglielmi, il direttore che creò la Rai 
Tre che ha innovato il nostro panorama televisivo, 
«la cultura non è una cosa ma una maniera di fare le 
cose». E quale può essere questa maniera nuova, in-novativa 
di fare le cose? Una nuova legge? Una nuova 
normativa, nuovi meccanismi? 
Innanzitutto una legge che consenta al cinema di ave-re 
risorse non legate direttamente alla legge finanzia-ria, 
quindi ai voleri delle varie cricche e commissioni 
d’affari, ma legate a un meccanismo di finanziamento 
autonomo. 
Sul piano normativo, la legge che finanzia il cinema 
avrebbe potuto pure funzionare nel contesto in cui era 
stata prodotta, perché istituiva di una commissione 
composta da tutte le figure professionali e sindacali 
del mondo del cinema che valutava le sceneggiature 
da finanziare. 
Ma da quando il legame e il patto di fiducia tra i cit-tadini 
e i partiti si è spezzato, da quando il cittadino 
non elegge più il suo candidato ma vota per una lista 
di “nominati” dalle segreterie dei partiti, da quando 
le nomine della commissione sono pura espressione 
dei partiti, ci ritroviamo personaggi molto discutibili a 
presiederle, personaggi che non hanno nessuna com-petenza 
ma sono solo i nuovi censori e dispensatori di 
favori per conto terzi. 
Come restituire il cinema agli italiani? Come innescare 
quel meccanismo di riappropriazione dei beni comuni 
che dai referendum del 12 e 13 giugno al Teatro Valle 
Occupato sta sorgendo come una necessità vitale nella 
società italiana? 
Come restituire il cinema italiano ai cittadini italiani, 
che ne sono i veri finanziatori? 
Come far sì che il cinema italiano sia gestito da veri 
produttori e non da appaltatori di denaro pubblico 
che il più delle volte, a fine produzione, vanno simpa-ticamente 
a casa con una nuova macchina di grossa 
cilindrata? 
Come permettere alla politica – quella vera, quella 
formata dalle passioni, dalle speranze e dagli ideali dei 
cittadini – di tornare a essere il motore della nostra 
società? 
Il cinema Bene Comune è quel cinema che i cittadini 
vogliono vedere perché affronta i nodi più spinosi della 
nostra società, come succedeva nel dopoguerra, è quel 
cinema che arrivava nei paesini sperduti dell’Italia ru-rale 
e che tutti andavano a vedere, perché sapevano 
che quel cinema aveva qualcosa da dire e non aveva 
paura di farlo. 
Il cinema bene comune è anche quel cinema che non 
è solo e unicamente “spettacolo” e “intrattenimento”, 
che non è solo una macchina per far soldi costruito 
sui gusti del pubblico, su emozioni preconfezionate e 
“già sentite”, ma è un cinema che vuole riflettere su 
sé stesso, sulla sua funzione e sulla società di cui è 
espressione. 
Inoltre la chiusura delle sale piccole e storiche nei cen-tri 
cittadini – come per esempio il cinema Metropolitan 
di Roma – a favore dei grandi multiplex, dove si con-centra 
il pubblico in cerca di cinema d’azione o d’eva-sione, 
sta cambiando il modo di fruizione del cinema: 
da esperienza “culturale” a esperienza di consumo di 
emozioni, lasciando sempre meno spazio al cosiddetto 
cinema d’autore, in favore di un cinema “industriale” 
– dove cioè i temi, le storie e il confezionamento delle 
emozioni sono gestite a tavolino, facendo tabula rasa 
di qualsiasi visione del mondo non collegata a uno stu-dio 
di marketing. Anche se il cinema “industriale” nel 
passato e nel presente continua a produrre capolavori, 
non è pensabile che rimanga il solo cinema esistente, 
ma questa purtroppo è la tendenza 
Il cinema Bene Comune – al contrario – dovrebbe es-sere 
un cinema adulto, parte integrante della nostra 
4
cultura, nostro specchio e nostro spauracchio. Questa 
funzione adesso è in parte realizzata dal cinema e dalla 
letteratura di genere, ma non possiamo pensare che 
non ci possano essere prodotti mainstream che non 
siano anche bei film. Perché oggi in Italia è inimma-ginabile 
un prodotto come Ultimo Tango a Parigi e 
perché non viene prodotto ogni anno un prodotto di-scutibile 
come La meglio gioventù, intriso di una rara 
consapevolezza della storia non tanto del nostro pae-se, 
ma dei suoi cittadini? 
Perché negli ultimi anni in Italia non è mai stato fat-to 
un film sgradevole – se non per quanto riguarda 
l’idiozia – che per esempio descriva le organizzazioni 
criminali o terroristiche dall’interno prendendo il loro 
punto di vista? Perché – soprattutto dopo il coperchio 
sollevato dall’allenatore Zdenek Zeman sul doping, 
sulle combine e sulla corruzione arbitrale pochi anni 
fa – non è mai stato fatto un film duro sul mondo del 
calcio e sugli interessi che lo regolano? Perché non esi-ste 
un film italiano – che non sia un pamphlet o un do-cumentario 
– sulla vita di Berlusconi o sugli scandali 
finanziari e sessuali della Chiesa Cattolica? 
La cultura cinematografica è stata quasi azzerata, e i 
film che meritano di essere visti si contano sulle dita di 
una mano; l’autore cinematografico è quasi completa-mente 
sganciato dalla società e il più delle volte resta 
impantanato in vuoti esercizi solipsistici. Il livello di 
conflitto su temi considerati “leggeri”, come l’amore o 
l’amicizia, è ampiamente superato dai fumetti. Perché 
la fantascienza, che è anche un’ottima opportunità per 
costruire potenti metafore che parlano della contem-poraneità, 
è così poco praticata in Italia? 
Perché gli autori non parlano più fra loro, perché non 
si scambiano storie, suggestioni? Perché non litigano 
ferocemente, perché in Italia non si scontrano due 
concezioni di cinema? Perché non è il cinema a colo-nizzare 
gli altri prodotti audiovisivi ma è il contrario? 
Perché – a parte poche eccezioni – in Italia le serie 
televisive e le soap sono sempre un’occasione perdu-ta 
e negli altri paesi abbiamo prodotti come Walking 
Dead, Lost, Dexter o Twin Peaks? 
Perché in Italia la formazione delle professionalità 
cinematografiche – soggettisti, sceneggiatori, regi-sti, 
direttori della fotografia, produttori, tecnici del 
suono, attori, truccatori, scenografi, segretari di edi-zione, 
montatori, tecnici degli effetti speciali e della 
post-produzione, eccetera – è delegata al solo Centro 
Sperimentale di Cinematografia, una struttura insuf-ficiente 
ed escludente, il cui compito sembra essere 
quello di riproporre le classiche gerarchie del cine-ma 
italiano, oltre a quello di mettere lo studente al 
centro di una rete di contatti che lo inseriranno nel 
mondo del lavoro? 
Senza addentrarci nella qualità della formazione, la 
riflessione che si può iniziare a fare sulla struttura di 
via Tuscolana è che è “sperimentale” solo di nome, 
ha pochissimi posti e oggi non favorisce certamen-te 
il ricambio di autori e professionalità; soprattutto 
non ha risorse, e quelle di cui dispone le consuma 
per la maggior parte nel suo mantenimento, essendo 
diventato un centro di scambio di favori e di mercato 
di posti di lavoro. 
Perché in televisione non c’è un dibattito sul cinema 
che non sia gestito da personaggi tipo Gigi Marzullo, 
Anselma Dall’Olio o – se va bene – Gian Luigi Rondi? 
Perché i registi di oggi che lavorano in Italia assomi-gliano 
più a piccoli carrieristi disposti a tutto che a 
persone che hanno qualcosa di importante da dire? 
Perché in Italia le cosiddette major sono soltanto 
due, Raicinema e Medusa? Benché la prima in alcuni 
momenti abbia sostenuto il cinema italiano e il do-cumentario, 
pur sempre nella logica delle clientele e 
delle conoscenze, in maniera cioè affatto trasparente, 
ci troviamo di fatto di fronte a un monopolio, allor-ché 
il padrone di Medusa controlla anche la RAI, e 
questo negli ultimi vent’anni è stato praticamente lo 
status quo. 
Perché alcune major americane non riservano una 
parte del proprio budget a produrre film che affron-tano 
temi assolutamente lontani dalle loro produzioni 
tradizionali, come per esempio la Columbia con Adap-tation 
(Il ladro di orchidee) di Spike Jonze? 
Perché non si rischia più? 
Com’è triste la prudenza! 
5
6
SOMMARIO 
Amarcord 
Com'è triste la prudenza 
Editoriale 
Introduzione e questionario 
Intervista a Mimmo Calopresti 
Intervista a Ettore Scola 
Intervista a Daniele Vicari 
Intervista a Massimo Gaudioso 
Intervista a Wilma Labate 
Intervista a Stefano Rulli 
Intervista a Daniele Segre 
Intervista a Roberto Andò 
Intervista a Andrea Segre 
Intervista a Luciana Castellina 
Com'è arrivato sugli schermi 
il primo film italiano sulla Grande Guerra 
Intervista a Roberto Silvestri 
Il cinema, il lavoro 
I- Cinema 
Dalla sintesi digitale a RCL 
Apulia Film Commission 
Milano 55,1 
Cronaca di una settimana di passione 
Venezuela, la rivoluzione della settima arte 
La Nouvelle Vague romena 
Holliwood e l'ebreo combattente 
Cinema ed Ebraismo 
Cinema, bene comune 
Elenco Sostenitori / Librerie 
Tonino Guerra 
Teatro Valle Occupato 
Sandro Teti 
a cura della Redazione 
Ugo Casiraghi (n. 182 / 1959) 
Antonio Medici 
Sergio Bellucci 
Massimiliano Carboni 
Silvio Maselli 
Barbara Sorrentini 
Barbara Meo Evoli 
Daniela Mogavero 
Luigi Bruti Liberati 
Moni Ovadia 
Stefania Brai 
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Proprietà editoriale 
© Nicola Teti & C. Editore 
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Direttore Responsabile 
Sandro Teti 
Art Director 
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Capo redattore 
Tommaso De Lorenzis 
Redazione 
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Archivio Digitale 
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Hanno collaborato 
a questo numero: 
Ulderico Iorillo 
Francesca Turrisi 
Marco Monetta 
Comitato dei Garanti 
Zhores Alferov 
Piero Beldì 
Sergio Bellucci 
Luciano Canfora 
Franco Cardini 
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Dario Coletti 
Guido Fanti 
Franco Ferrarotti 
Mario Geymonat 
Carlo Ghezzi 
Margherita Hack 
Emilio Isgrò 
Milly Moratti 
Diego Novelli 
Piergiorgio Odifreddi 
Mauro Olivi 
Leoluca Orlando 
Moni Ovadia 
Valentino Parlato 
Piercarlo Ravasio 
Guido Rossi 
Sergio Serafini 
Direttori 
Giulio Trevisani 
dal 1945 al 1969 
Carlo Salinari 
dal 1969 al 1977 
Franco Della Peruta Nichi Vendola 
dal 1977 al 2010 
Fotografie 
Tutti i fotogrammi riprodotti in questo 
numero sono tratti dalla trilogia L’armata 
Brancaleone, Brancaleone alle Crociate 
(© Cecchi Gori) e La nuova armata 
Brancaleone di Mario Monicelli, a cui 
questo numero è dedicato, in occasione 
dell’anniversario della sua scomparsa, 
avvenuta il 29 novembre 2010. 
L'editore rimane a disposizione degli 
eventuali aventi diritto per le foto di 
Mario Monicelli presenti in questo 
numero. 
In copertina: 
Mario Monicelli a Firenze 
sul set di Amici miei 
(Archivio ANSA) 
Stiamo lavorando alla creazione di 
un archivio fotografico, filmico e 
cartaceo de Il Calendario del Popolo. 
Cerchiamo vecchie fotografie, anche non 
professionali, volantini, appelli, annunci 
e manifesti riguardanti la rivista o le 
edizioni de Il Calendario, la Teti Editore 
ed eventi a cui hanno partecipato 
(feste de l’Unità, banchetti, convegni, 
eccetera. Metteremo poi a disposizione, 
anche attraverso Internet, tutti questi 
materiali, che costituiscono la memoria 
storica del Calendario. 
Inoltre, se avete vecchi numeri de 
Il Ca­lendario 
e soprattutto degli 
Almanacchi, vi preghiamo di mettervi in 
contatto con la redazione, poiché stiamo 
ricostruendo l’archivio di tutti i numeri 
della rivista. 
Periodico associato 
all’Unione Stampa 
Periodica Italiana 
Il Calendario del Popolo è 
socio del Coordinamento 
Riviste Italiane di Cultura 
Ringraziamenti 
Archivio del Movimento 
Operaio di Roma 
Andreina Albano 
Giorgio Baraggioni 
Renzo Baraggioni 
Greta Barbolini 
Emiliano Chiusa 
Cineteca Lucana 
Pierangela Liuzzi 
Maria Minoletti Teti 
Paola Scarnati 
Per le riprese audiovideo 
di alcune interviste 
ringraziamo: 
Iacopo Venier 
Simone Bucci 
Roberto Pietrucci 
Le interviste sono 
disponibili sul sito 
www.libera.tv
9 
EDITORIALE 
di Sandro Teti 
Cari abbonati e cari lettori, innanzitutto una buona 
notizia, anche se in parte amara, perché Nicola 
Teti non ha potuto gioirne: il gigante Mondadori 
del magnate Silvio Berlusconi è stato sconfitto in 
tribunale, anche in sede civile, sul caso del libro L’Oro 
da Mosca di Valerio Riva, nel quale mio padre veniva 
ripetutamente calunniato. Già dopo la condanna 
penale di Riva, Mondadori era stata costretta a 
rimuovere completamente le false accuse dalle 
successive edizioni del libro. Quella che abbiamo 
ottenuto in sede civile è una grande vittoria sul piano 
morale, etico e politico, anche se putroppo marginale 
sul piano economico. 
Desidero scusarmi con voi per il ritardo con cui 
ricevete questo numero de Il Calendario del Popolo, 
dedicato allo stato della cinematografia italiana. Lo 
sforzo che stiamo compiendo è grande, mentre le 
risorse – per numero di persone e mezzi economici 
– sono limitatissime. Questi ultimi mesi sono stati 
dedicati al pesante e oneroso trasferimento di 
tutto l’archivio storico e delle tirature dei volumi 
della Nicola Teti Editore, dal magazzino di via 
Rezia a Milano a un deposito di Pomezia (Roma), 
trasferimento a cui ho atteso personalmente con i 
collaboratori e i sostenitori della rivista, diviso tra il 
peso dei libri e l’emozione data dallo scorrere tra le 
mani di tutta la storia de Il Calendario. Purtroppo 
siamo stati costretti a effettuare questo trasloco per 
via dei costi di locazione non più sostenibili. 
Siamo impegnati a garantirvi per l’inizio dell’anno 
prossimo la consegna dell’ultimo numero del 2011, 
di cui è già iniziata la redazione. Recupereremo 
quindi il ritardo accumulato, sperando nella vostra 
comprensione. 
Nonostate tutte le difficoltà, siamo confortati nei 
nostri sforzi dai giudizi positivi che ci arrivano 
numerosi da più parti. Anche i consigli e le critiche 
dei lettori rimangono per noi un prezioso contributo, 
e vi invitiamo a scriverci numerosi. 
Stiamo continuando l’opera di messa in sicurezza 
di tutti i numeri de Il Calendario pubblicati dal 
1945 a oggi, attraverso la scansione digitale. 
Stiamo prodigandoci per far conoscere in tutti i 
modi la rivista a nuovi lettori e possibili abbonati. 
Vanno in questa direzione le nostre iniziative nella 
distribuzione e diffusione: troverete infatti in questo 
numero un elenco di molte decine di librerie dove 
la rivista può essere ora acquistata. Inoltre abbiamo 
consolidato la presenza de Il Calendario del Popolo 
su Internet attraverso più canali, quali il nostro sito, 
il nostro blog, Facebook, Twitter e Flickr. Dal 7 all’11 
dicembre Il Calendario del Popolo avrà un proprio 
stand alla Fiera dell’Editoria di Roma, dove il giorno 
9 sarà presentato questo numero. 
Da quando, dopo la scomparsa di Nicola Teti, ci siamo 
presi il difficile impegno di rilanciare la rivista e dargli 
un nuovo orizzonte, molti storici abbonati hanno 
risposto all’appello. Nuovi lettori stanno leggendo 
queste righe. Tuttavia tanti tra di voi, pur avendo 
frequentato queste pagine per molti anni, non hanno 
ancora rinnovato l’abbonamento. A questi amici e 
compagni voglio dire che Il Calendario è cambiato – 
è vero. Non solo è cambiato nella veste grafica, ma ha 
coinvolto, nella stesura degli articoli, un ventaglio di 
intellettuali, politici ed esponenti della società civile, 
compresi operai e minatori – come nel numero 751, 
dedicato al Lavoro – che descrivono il complesso 
mondo di oggi dal suo interno. Ma tutto questo non 
ha in nessun modo intaccato la vocazione originale 
de Il Calendario del Popolo, che è quella di essere 
strumento di divulgazione, di salvaguardia della 
memoria storica e di difesa dei valori della Resistenza 
e della Costituzione. 
Rinnovo pertanto l’appello a lettori, abbonati vecchi 
e nuovi, a sottoscrivere l’abbonamento per il 2012 e 
a diffondere la rivista come facevano, tanti anni fa, i 
“calendaristi”, autentiche staffette della Cultura.
10 
INTRODUZIONE 
Nel progetto di diffusione della cultura popolare, 
sostenuto da Il Calendario del Popolo nei sessantasei 
anni della sua storia, il cinema ha costituito un 
imprescindibile oggetto di ricerca e analisi. Era la 
fine degli anni quaranta. L’Italia si lasciava alle spalle 
l’incubo della guerra. La fatica della ricostruzione 
già volgeva al Miracolo economico e ai fasti 
scoppiettanti del Boom, che saranno tali solo per 
una parte della società italiana. Nei cinematografi, 
intanto, esplodeva il fenomeno del neorealismo. 
Comincia in quel periodo la collaborazione di Ugo 
Casiraghi con Il Calendario del Popolo. Da lì in 
avanti, la riflessione sulla cinematografia – italiana 
e internazionale – passerà dalla sua penna acuta 
e raffinata, impermeabile a postulati dogmatici 
e vezzi di provincia, sempre capace di collegare 
l’interpretazione dello stile artistico alla lettura dei 
rapporti sociali ed economici. 
Sei decenni più tardi Il Calendario del Popolo dedica 
un numero monografico alle tendenze della filmografia 
del Belpaese. Lo fa con la curiosità dell’indagine più 
che col piglio sicuro dell’asserzione, proponendo i 
risultati di un’inchiesta sul campo che ha coinvolto 
registi, sceneggiatori, critici ed esperti in un dialogo 
polifonico e in un ragionamento aperto sullo stato 
dell’arte. Ai nostri interlocutori abbiamo chiesto 
di misurarsi con i nodi irrisolti e i motivi cruciali 
della produzione cinematografica contemporanea, 
all'incrocio tra questioni antiche e nuove urgenze. 
Partendo dalla prassi dell’“impegno”, l’engagement, 
abbiamo provato a riflettere sulla rappresentazione 
critica della realtà e delle sue contraddizioni che – 
da qualche tempo – sembra animare la renaissance 
del cinema italiano. In quest’ottica era inevitabile 
esplorare i rapporti tra cinema di finzione e 
documentario, mentre la televisione continua a 
imporre i dogmi del reality e del «tempo reale». Il 
discorso ci ha portato lontano, avanti e indietro 
nel tempo: dalla grande fabbrica, la cattedrale 
del “secolo breve”, ai mille rivoli della produzione 
post-fordista e del lavoro precario, dalle poetiche 
novecentesche alle nuove frontiere dell’innovazione 
tecnologica, lungo le dorsali della rete telematica, 
nelle mille pratiche di fruizione e condivisione dei 
prodotti dell’ingegno. Abbiamo cercato di cogliere 
le trasformazioni di un genere come la commedia, 
capace di dominare una leggendaria stagione della 
nostra filmografia prima di consegnarsi agli stereotipi 
del filone sentimentale o generazionale. Gli assetti 
produttivi e le concentrazioni distributive del settore, 
insieme alla sconfortante mancanza di politiche 
pubbliche, hanno rappresentato un’altra, inevitabile 
occasione di confronto, rivelandosi metafore dei 
vizi oligopolistici e delle disposizioni straccione del 
capitalismo italico. 
Infine, era davvero impossibile non rievocare la 
lezione di un oppositore irriverente e tenace come 
Mario Monicelli. A un anno dalla morte, abbiamo 
menzionato quella «rivoluzione», a cui continuò 
a invitare fino alla fine, per cogliere l’apporto che 
l’arte può offrire al mutamento del reale. Monicelli 
sapeva quanto costa il riscatto. È «doloroso», diceva. 
E aggiungeva: «L’Italia affronti il dolore sennò vada 
in malora». Lo ricordiamo con le parole che, lo 
scorso autunno, campeggiavano sugli striscioni del 
movimento studentesco: «Ciao, Mario, la facciamo 
‘sta rivoluzione». Proprio da un’indimenticabile 
pellicola di Monicelli, L’armata Brancaleone, abbiamo 
mutuato la selezione iconografica: non solo come 
giusto tributo, ma nella convinzione che quella miscela 
d’ironia e crudezza, miseria e ingegno, cialtroneria e 
vitalità, rimanga la più puntuale autobiografia di una 
nazione chiamata Italia. 
Mentre chiudiamo questo numero, si conclude la 
permanenza di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi. 
Termina, com’era cominciata diciassette anni fa, 
l’avventura del tycoon che voleva governare un 
Paese come si amministra un’azienda. Termina 
con un videomessaggio trasmesso dalle televisioni: 
inquadratura bloccata, monologo e ancora bugie. 
Di certo non s’incrina il senso comune sedimentato 
dalla mutazione antropologica che, all’alba degli 
ottanta, consegnò l’Italia all’analfabetismo iconico 
e al soliloquio della videocrazia. Alla fissità di 
quest’ultima ripresa, incorniciata dal piccolo 
schermo, speriamo di sostituire – col tempo – i campi 
lunghi e i controcampi di una democrazia rinnovata.
11 
QUESTIONARIO 
Oggi è ancora possibile parlare di cinema 
impegnato? 
La realtà è tornata al centro della cinematografia 
italiana più attenta alle contraddizioni dell'esistente. 
Si può parlare di "neo-neorealismo"? 
Quanto incide la mancanza d'una vocazione 
industriale nel circuito cinematografico e quanto 
pesa l'oligopolio della distribuzione? 
Come spieghi l'ostilità che l'Italia berlusconiana 
ostenta nei confronti del cinema? 
È possibile immaginare un'inversione di tendenza? 
E quale prospettiva dovrebbe orientare le nuove 
politiche pubbliche per il cinema? 
Il nostro cinema è stato reso celebre dalla commedia, 
capace di offrire caustiche rappresentazioni della 
realtà. Più tardi quel genere è andato appiattendosi 
su stereotipi sentimentali e generazionali. 
Cos'è accaduto alla commedia italiana? 
Mario Monicelli diceva: «Ci vorrebbe 
un'altra rivoluzione». Sei d'accordo? 
E il cinema può cambiare il mondo?
12 
Credo di no, perché il Novecento è finito. 
Siamo in un’altra epoca in cui la definizione 
di impegno è tutta da rielaborare. Forse, oggi il 
problema è proprio questo: dare una risposta 
all’interrogativo. Credo, comunque, che si tratti di 
qualcosa in divenire. 
Sono profondamente legato al 
documentario. L’ho praticato e 
lo pratico con estrema libertà, e 
anche più spesso del cinema di 
finzione. Credo che non esista 
alcuna differenza in termini 
di valore intrinseco. Possiamo 
perfino ipotizzare che un giorno 
il documentario finirà per 
diventare il cinema tout court e magari quello di 
finzione non passerà più nelle sale. Lo sviluppo di 
nuovi canali di circolazione dei contenuti produrrà 
dei mutamenti radicali. Il documentario potrebbe 
diventare, in virtù delle sue specificità visive, il vero 
prodotto per il grande schermo. Quindi, soprattutto 
in questo momento, la distinzione tra le due forme 
espressive è destituita di ogni fondamento. 
Un altro aspetto che occorre valutare è la fruizione 
di massa a livello televisivo. In quel contenitore 
indifferenziato, nel frullatore televisivo, cinema 
di finzione e documentario annullano le loro 
specificità. Nei margini del piccolo schermo, il 
cinema come grande spettacolo – colto e popolare, 
insieme – smarrisce la sua essenza. 
Difficile da dire. Non esiste una 
“scienza” o un criterio oggettivo. 
Dal mio punto di vista un buon 
documentario è quello capace di vivere la realtà che 
racconta. Il grande documentarista è colui che riesce 
a mettere le mani nella merda di tutti i giorni. Questa 
aderenza a una realtà controversa e contraddittoria 
è – per necessità – meno intellettualistica di quella 
praticata dal cinema di finzione. 
Un tema fondamentale dei miei lavori è la memoria, 
perché ritengo che il racconto della realtà non 
possa eludere il confronto col passato. Memoria e 
adesione al reale – a mio avviso – devono procedere 
intrecciate, insieme al profondo rispetto per gli altri 
di cui si narrano le storie. 
Non credo alla definizione di 
“neo-neorealismo” e vorrei che ci 
liberassimo dalla costrizione di formule e gabbie. 
Vedo una profonda trasformazione in atto e 
quindi penso che dovremmo evadere dagli schemi 
precostituiti. È chiaro che il neorealismo rappresenta 
un momento cruciale della nostra storia. Tuttavia, 
quando si fa cinema, si lavora per definizione sul 
futuro, proiettati in avanti. Ecco perché le definizioni 
non mi convincono. Dovendo descrivere questa 
fase, è impossibile non riscontrare la centralità 
della rappresentazione realistica. Non possiamo 
farne a meno, perché sono aumentate in maniera 
esponenziale le fonti dell’informazione. Ad ogni 
modo occorre stare attenti, perché la televisione offre 
un grado zero di rappresentazione della realtà nella 
forma del reality. Per questo, quando penso al cinema, 
penso a uno strumento che ti proietta in avanti: non 
basta raccontare una realtà, bisogna porsi il problema 
di come trasformarla. La TV è impermeabile a 
questo tipo di tensione, interessata a una meccanica 
restituzione dell’esistente da confezionare per uno 
spettatore complice. La televisione non regge il vero 
realismo. 
A Torino mi è capitato d’incontrare Danis Tanović, 
il regista di No Man’s Land. C’erano a confronto 
due nostri documentari, realizzati negli anni del 
conflitto nei Balcani. Lui aveva raccontato la storia 
di un mutilato di guerra che riabbracciava la sua 
famiglia. C’erano scene fortissime che la televisione 
non potrebbe sostenere. Io, invece, avevo narrato le 
vicende dei profughi che fuggivano da quella guerra 
e arrivavano in Italia. Erano storie terribili e quasi 
intervista a MIMMO CALOPRESTI 
Regista, sceneggiatore e attore, presidente dell’Archivio 
Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico fino al 2010. 
Suoi i film: Preferisco il rumore del mare (2000), La felicità non costa 
niente (2002), L’abbuffata (2007). Ha scritto con Mario Monicelli il 
suo ultimo lavoro La Nuova Armata Brancaleone (2010). 
Impegno 
Che differenza c’è tra 
raccontare la realtà 
attraverso il documentario 
e rappresentarla attraverso 
la finzione narrativa? 
Il documentario è una forma 
espressiva minore o un altro 
punto di vista? 
Quali sono le caratteristiche 
di un buon documentario? 
Neo-neorealismo
13 
mi ero dovuto censurare per renderle fruibili dalla 
televisione. Lo spettatore al cinema ha una soglia 
di sopportazione assai più elevata rispetto a quello 
della televisione, permettendoti maggiore libertà. 
La TV ha modificato complessivamente la fruizione 
dell’immagine, finendo per condizionare tanto il 
cinema di finzione quanto il documentario. 
Non credo che esista 
un problema di censura 
preventiva. 
Certo, gli anni settanta 
sono un periodo molto 
delicato, ma la questione 
non riguarda una 
limitazione della libertà 
a monte. In questi anni, 
Ne La seconda volta, a metà dei 
novanta, ti sei misurato – prima 
di altri – con un periodo delicato 
come gli anni di piombo. 
Esiste un problema di censura - 
autocensura dei cineasti italiani 
su temi scottanti o periodi 
controversi? 
per dire, volevo raccontare la storia di Guido Rossa, 
ma sono stato preceduto. Probabilmente si dubitava 
che potessi narrare la vita di un comunista secondo 
i crismi della sinistra più ortodossa. In questo caso, 
la censura non è venuta dall’esterno, ma ha agito 
dall’interno, per così dire. Spesso, nel confrontarsi 
con certe questioni e determinati periodi, si indulge al 
romanzesco, smarrendo il filo della realtà. Trovare il 
giusto punto di mediazione tra finzione e accadimenti 
reali è complicatissimo. Ne La seconda volta penso 
di esserci riuscito. Sono partito da eventi reali. Ho 
frequentato Liviana Tosi, militante di Prima linea in 
regime di semilibertà, che mi ha raccontato la storia 
a cui è ispirato il film: l’incontro con un uomo a cui 
aveva sparato vent’anni prima e di cui non aveva il 
minimo ricordo. A mio avviso, non c’è un problema 
di censura, ma una difficoltà oggettiva di confrontarsi 
con una stagione irrisolta come gli anni di piombo. 
Col tempo mi sono convinto che quella non fu una 
guerra civile. La vera tragedia shakespeariana sta 
nella vicenda di Guido Rossa, nei proiettili esplosi 
per assicurarsi il monopolio sull’identità di veri 
intervista
comunisti. Raccontare il terrorismo da questa 
particolare angolazione – senza retorica – sarebbe 
stato particolarmente interessante. 
Industria e 
Distribuzione 
In assenza di strutture produttive serie, capaci 
di confrontarsi – e scontrarsi – con il sistema di 
distribuzione, finiscono per prevalere inevitabilmente 
gli interessi consolidati. È come per il sindacato. Se 
c’è una produzione forte, allora è possibile contrattare 
determinate condizioni. Il nostro circuito, purtroppo, 
è vecchio. Manca di vocazione industriale e capacità 
finanziaria. Il cinema italiano da questo punto di 
vista ricorda un manufatto indefinito, qualcosa che 
manca sempre la condizione di prodotto finito, ed 
è facilmente orientabile dai guadagni facili. Se va 
bene la commedia, allora s’impone la monocultura 
della commedia. Da questo punto di vista, il circuito 
cinematografico riproduce i peggiori vizi del sistema 
economico italiano. 
Cinema e Stato 
14 
Le due cose rappresentano una combinazione 
disastrosa. La mancanza di vocazione 
industriale determina l’oligopolio distributivo. 
Mi piacerebbe rispondere che sono contrario, 
ma credo che gli interventi pubblici siano 
opportuni se vincolati a obiettivi precisi: ad esempio, a 
supporto della formazione. Il cinema non lo si impara 
nelle scuole. Bisogna esordire, produrre opere prime. 
Sono favorevole a finanziare i giovani per affrancarli 
dai vincoli di mercato. Non sono favorevole a un 
cinema di stato, ma credo che si possa fare del 
cinema insieme allo stato. Il principio, del resto, vale 
– o dovrebbe valere – per tutti i settori economici. 
Se un settore è in crisi andrebbe supportato da una 
politica industriale seria. Se la politica pubblica è 
indirizzata in questo senso, va benissimo, perché 
avere trenta autori che producono cento film all’anno 
non m’interessa. Al contrario credo che sia strategico 
favorire tanti esordi, immettere sul mercato idee 
nuove. Peraltro, oggi i mezzi tecnici consentono di 
realizzare film a costi bassissimi. In questo senso le 
nuove tecnologie rappresentano una frontiera, anche 
se non basta una videocamera per fare cinema. E 
quindi la formazione è sempre più importante. 
A proposito dello sviluppo 
delle nuove tecnologie, 
cosa pensi della diffusione 
del cinema sul web? 
Che posizione hai rispetto 
alla libera circolazione 
dei contenuti? 
M’interessa molto. Negli Stati 
Uniti mi raccontavano di un 
incontro durante il quale un grande 
produttore, danneggiato dalla 
cosiddetta “pirateria”, rispondeva 
che – senza la libera diffusione 
dei contenuti – non avrebbe visto 
milioni di opere d’arte. La libertà di socializzare e 
condividere contenuti è sempre esistita nella storia 
della cultura. Se i miei film vengono scaricati dal 
web, alla fine sono contento. Non posso obbligare 
nessuno ad andare in sala, però posso costruire dei 
film per cui andarci ha ancora senso. E poi mi capita 
che i ragazzi mi vengano a incontrare al cinema dopo 
aver visto le mie cose sul web in un circuito virtuoso 
che implementa i vari tipi di fruizione. La libertà non 
va limitata. La libertà va vissuta. 
È stato un grande gioco, 
iniziato per sostenere 
l’agitazione degli studenti 
dell’Istituto per la 
cinematografia “Roberto 
Con Mario Monicelli 
hai realizzato 
La nuova armata Brancaleone. 
Raccontaci com’è andata. 
Rossellini”. Stavano facendo una lotta per difendere 
la scuola e ci contattarono chiedendoci un sostegno. 
E noi decidemmo di rispondere. Era bello vedere 
Mario cimentarsi con quei ragazzi, compiere un gesto 
quasi surrealista. E così facemmo La nuova armata 
Brancaleone: un piccolo video realizzato dagli 
studenti a supporto della lotta, con me e Monicelli 
presenti. Direi che è stato un atto di pirateria e il 
comandante della ciurma era proprio Monicelli. Alla 
sua età, rimaneva il più giovane di tutti noi. Sapeva 
stare nel mondo rivendicando una piena libertà. 
Ricordo quando lo chiamai l’ultima volta. Dovevo 
fargli un’intervista. Gli chiesi come stava e lui rispose: 
«Male». Non tollerava di non essere autosufficiente e 
aveva il coraggio di dire le cose che di solito nessuno 
dice. In più praticava questa vicinanza alle forme di 
protesta, anche a quelle non precostituite. Aveva una 
formazione socialista e diceva delle cose scomode 
anche a sinistra. In un mio lavoro intitolato Anch’io 
ero comunista, ho raccontato il PCI attraverso il 
cinema, chiedendo a certi registi come vedevano 
i comunisti e usando i loro materiali. Bertolucci, 
Monicelli e altri partecipavano alle campagne 
elettorali e conservavano una documentazione 
preziosa, girata con grande maestria, che colpisce per 
la sua modernità. Quella era una grande generazione 
di cineasti, capaci di mischiare avanguardia, cinema 
classico, cinema di botteghino, impegno politico. 
Ricordo una scena tratta dal materiale di Bertolucci, 
in cui un edile spiega agli artisti la sua vita in modo 
che la possano rappresentare. Ecco, questo era 
impegno. Alla fine Monicelli non l’ho intervistato 
perché non stava bene, ma nel film ho messo il pezzo 
di una registrazione che aveva fatto a Roma con gli
15 
Succederà che questo schermo rimarrà nero, 
Succederà che questo schermo rimarrà nero, 
senza immagini, senza parole. 
senza immagini, senza parole. 
Monicelli e 
la Rivoluzione 
studenti. Beh, li attaccava frontalmente. Gli diceva 
che erano viziati, che i genitori gli compravano le 
case, che erano solo preoccupati di difendere il loro 
tenore di vita, lamentandosi, mentre c’è gente che 
deve lottare tutti i giorni per una casa. Insomma li 
bacchettava e aveva il coraggio di dire cose scomode. 
La cosa che mi ha sempre colpito di Mario era l’idea 
del gioco come momento di trasformazione della 
realtà. Ma proprio quella è la forza del cinema, che ti 
permette di giocare anche su cose serissime. Questa 
lezione, lui l’ha sempre praticata, aggiungendo – alla 
fine della sua vita – quel pizzico d’infantilismo che 
l’ha reso indimenticabile. 
Ci ho ripensato di recente 
in Calabria, vicino ai luoghi 
in cui Monicelli ha girato 
una parte del film. Ne 
L’armata Brancaleone Mario è riuscito a restituire 
una confusione particolare, unica. Ovvero quella 
condizione che permette ai cialtroni di esistere. 
Al sud domina, a metà strada tra realtà e finzione, 
il personaggio del fanfarone, la cui natura oscilla 
tra carica vitale e pose da guitto ignorante. Ecco, 
questa figura riassume e condensa la quintessenza 
dell’Italia. 
Sì, sono d’accordo, ma credo che la rivoluzione 
sia in atto. Molto dipenderà da come le 
persone la interpreteranno e la vivranno. È 
in atto una grandissima trasformazione. La “marcia 
dei morti viventi” organizzata dagli indignados 
americani è una roba potentissima, oltre che una 
citazione cinematografica eloquente. Io m’illudo che 
il cinema possa cambiare il mondo, ma non ne sono 
sicuro. Un giorno, però, ho incontrato Olmi che mi 
ha detto: «Continuiamo, perché il cinema cambierà 
il mondo». 
intervista 
Qual è la forza metaforica 
di un film indimenticabile 
come L’armata Brancaleone?
16 
intervista a ETTORE SCOLA 
Credo che non abbia mai avuto senso parlare 
di un particolare tipo di cinema impegnato. 
C’è stato un cinema più strettamente politico in una 
stagione in cui esisteva ancora il PCI e venivano 
commissionati alcuni interventi. Per esempio ci 
si prestava a intervistare Berlinguer in occasione 
delle feste dell’Unità. In realtà, in termini generali 
si potrebbe dire che tutto il cinema è impegnato, 
perché – esercitando presa sul pubblico – produce 
comunque degli effetti e delle conseguenze. In questo 
senso, anche Walt Disney e perfino la farsa possono 
essere considerati forme espressive “impegnate”… 
Senza dubbio il grande cinema italiano è stato 
quello del neorealismo e della commedia 
all’italiana. Soprattutto il primo è stato una vera e 
propria rivoluzione capace di modificare schemi, 
tipo di produzione e forme di coinvolgimento degli 
autori. Per la prima volta dopo il fascismo, si capì 
che il cinema poteva essere un’altra cosa, che poteva 
raccontare un paese emerso dalla guerra, distrutto, 
da ricostruire. Per esigenze pratiche, per mancanza di 
mezzi, il neorealismo fu necessariamente un cinema 
d’invenzione. Mancavano gli studi per le riprese, le 
attrezzature, i macchinari. Per questo fu un fenomeno 
della strada, della presa diretta, con attori presi 
dalla vita di ogni giorno. Questa rivoluzione segnò il 
cinema di tutto il mondo e anche il cinema americano 
è figlio del neorealismo. Lo ripetono gli stessi cineasti 
d’oltreoceano. Figlia ed erede del neorealismo fu 
la commedia, dedita a un altro lato dell’uomo: al 
divertimento, alla leggerezza, all’allegria. Eppure dal 
neorealismo la commedia non mutuò solo la lezione 
formale del fare, ma anche la filosofia di Amidei e 
Zavattini che raccomandava di seguire l’uomo. Tutte 
le storie possibili sono dentro l’uomo e non c’è bisogno 
di cercarle con l’immaginazione o nel fantastico: 
basta conservare lo sguardo fisso sulla realtà. La 
commedia all’italiana ha rappresentato questo tipo 
Impegno 
Commedia
intervista 
17 
di approccio sul versante satirico. Certamente, col 
tempo, è diventata una formula generica, buona 
per qualsiasi cosa: da Fellini a Franchi e Ingrassia. 
A un certo punto anche Pasolini fu ricompreso nel 
genere. La commedia ha duemila anni e non finirà 
mai. Attualmente le tematiche sono più legate al 
privato, ai contrasti generazionali. A mio avviso, 
oggi il genere non annovera film memorabili, benché 
ci siano delle eccezioni, s’intende. Per Sorrentino, per 
esempio, è possibile evocare la commedia all’italiana, 
ma non il neorealismo. Sorrentino – piuttosto 
– fa un cinema neoespressionista, impostato su 
una meritevole ricerca di linguaggi. Negli ultimi 
vent’anni la filmografia italiana ha rinunciato a 
questo tipo di ricerca, adesso invece c’è la produzione 
di “vocabolari” differenti e questo è un merito – tra 
gli altri – di Sorrentino. Comunque, la commedia 
continua e continuerà mutando ancora e ancora. Io 
non sono un sostenitore del passato. Ogni tempo si 
Regista e sceneggiatore - Breve filmografia: Se permettete parliamo 
di donne (1964), Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico mis-teriosamente 
scomparso in Africa? (1968), C’eravamo tanto amati 
(1974), Brutti sporchi e cattivi (1976), Una giornata particolare 
(1977), Ballando ballando (1983), La famiglia (1987), 
Gente di Roma (2003). 
specchia in qualcosa, ha la propria prospettiva, la 
propria musica, il proprio cinema. Ci sono stagioni, 
come quella odierna, in cui si procede in “pianura”. 
Ma anche la pianura serve, fa parte della natura, può 
esser fertile, dà frutti e fiori. Non ho nulla contro 
la pianura, ma è inutile cercarvi le vette di De Sica 
o di Fellini. Quella – semplicemente – era un’altra 
stagione. 
Non ho mai creduto a questa distinzione 
e non l’ho mai fatta mia. Per me e per 
molti miei colleghi, un imprescindibile 
punto d’arrivo fu proprio la capacità 
di conciliare il cinema d’autore, con le 
sue istanze autoriali ed espressive, le 
sue inclinazioni morali e le sue prese 
di posizione politiche, con un cinema di grande 
popolarità. Di sicuro esistono tendenze sperimentali, 
ma il cinema nasce e rimane un’arte popolare: anche 
– e soprattutto – quand’è sperimentale. 
Ha ancora senso 
distinguere tra 
cinema d’evasione 
e cinema d’autore? 
Attualmente i due 
generi si intrecciano?
18 
Le vecchie borgate non esistono 
più. Ora esistono le periferie, 
che – in una città plurietnica 
e multiculturale come Roma – 
sono realtà composite, variegate, 
complesse. Se si è imborghesito, 
il borgataro ha cominciato a 
farlo proprio a partire dagli anni 
settanta, quando ha assorbito 
sogni e desideri del piccolo-borghese, consegnandosi 
al consumo. Al di là della piacevolezza della 
formulazione, non credo che il borghese si stia 
“imborgatando”, perché – per l’appunto – la borgata 
non è più una “meta”. Essa non ha più neppure una 
precisa collocazione. Nella città diradata, le borgate 
sono state assorbite, sono nati nuovi quartieri, 
altre propaggini. Sono emerse realtà differenti, 
accomunate dal fatto di aver abdicato alle cellule 
compositive, rinunciato a radici e culture proprie, per 
vivere intorno alla metropoli, per disporsi intorno al 
“grande banchetto”, contentandosi di poche briciole. 
Eppure si continua a rimanere ai bordi di quello che 
viene percepito come un “centro”, dove accadono le 
cose e si prendono le decisioni. Certo, anche altre 
città hanno periferie, ma Roma offre un ampio 
ventaglio delle possibilità di questo tempo. Piazza 
Vittorio è il quartiere dove sono nato: oggi è un 
quartiere orientale, che non per questo ha rinunciato 
alle abitudini e ai costumi dei romani. I cinesi si sono 
romanizzati, parlano romanaccio. 
Cultura, mentalità, costumi 
sono ormai in un cambiamento 
continuo e irreversibile. 
Direi di no. Si lavora su figure 
come il commissario Calabresi 
oppure su momenti complessi 
come il G8 di Genova. Mi pare 
ci sia una nuova tendenza dei 
Brutti, sporchi e cattivi 
tratteggia un indimenticabile 
affresco dei sobborghi romani. 
Trentacinque anni dopo 
sono le borgate che 
si stanno imborghesendo 
oppure è la borghesia 
che si sta “imborgatando”? 
Esiste un problema 
di censura - autocensura 
dei cineasti italiani 
su temi scottanti o 
periodi controversi 
come, per esempio, 
gli anni di piombo?
19 
registi italiani a trarre ispirazione dalla realtà e dalla 
storia del proprio paese. Abbiamo vissuto un periodo 
negativo, segnato da un cinema brutto, fragile, tra gli 
anni ottanta e i primi anni zero, allorché dominavano 
film gracili, poco interessanti, spesso di taglio 
autobiografico, dedicati per esempio al Sessantotto 
e cristallizzati nel punto di vista del reduce. Il 
problema è che quel cinema non ha contribuito a 
produrre giudizi articolati, non ha messo davvero 
in discussione i passaggi complessi e neppure ha 
delineato una prospettiva forte. Da qualche tempo 
mi sembra che le cose stiano cambiando in meglio. 
La netta affermazione della 
televisione, sia sotto il 
profilo del potenziamento 
tecnico, sia come strumento 
di costruzione del consenso 
e di rafforzamento del 
potere, ha di certo inciso 
sul cinema. Prima di tutto sono i lunghi tempi 
di realizzazione che fanno del cinema un mezzo 
espressivo incontrollabile, più indisponibile a piegarsi 
alle necessità contingenti dei potenti e meno incline 
alle lusinghe del potere. Dal 1944, il cinema è sempre 
stato osteggiato dal potere. Oggi non si può parlare 
di vera e propria censura come ai tempi di Mussolini 
e del Minculpop o di Scelba e della Democrazia 
Cristiana. Tuttavia, esiste una forma più moderna 
di controllo, basata su tagli sistematici, comprese le 
ultime disposizioni sul Fondo Unico dello Spettacolo. 
La censura è, per così dire, finanziaria e da questa 
procede una sottile forma di autocensura in virtù 
della quale i giovani registi si orientano verso temi, 
schemi e soluzioni meno rischiosi: per esempio verso 
la commedia o verso le ambientazioni di un passato 
remoto o di un futuro improbabile. Rispetto alle 
contraddizioni del presente, invece, ci si muove con 
troppa cautela. 
Esiste un rapporto di causalità 
che, negli anni ottanta, 
ha legato l’affermazione 
delle televisioni commerciali 
al progressivo declino 
del cinema italiano? 
intervista
20 
ebbe una distribuzione locale proprio grazie a certi 
proprietari di sale. Attualmente un paio di soggetti 
accentrano la distribuzione, dividendosi le pellicole 
e risultando sostanzialmente intercambiabili. Poi c’è 
qualcuno, come De Laurentis, che si specializza nella 
distribuzione di certi generi, ma certe soddisfazioni 
non lo incoraggiano a puntare su opere più impegnate 
o diverse, bensì a reiterare la formula del successo. 
Un tempo la distribuzione – perfino quella regionale 
– sapeva pesare anche sulle scelte realizzative. Per 
non dire dell’America, dove un film distribuito dalla 
Paramount era distinguibilissimo da uno distribuito 
dalla Metro-Goldwyn-Mayer. Esprimevano filosofie, 
prospettive e punti di vista diversi. 
Non è questione di essere favorevole o 
meno. È un elemento imprescindibile e 
obbligatorio. Qualsiasi Stato serio non 
può esimersi dall’investire nella cultura così come 
dovrebbe investire nella scuola e nella sanità. È quello 
Hanno sempre inciso e pesato, perché il cinema 
italiano non è mai stato un fenomeno industriale. 
Quando è nato il neorealismo non si parlava 
d’industria, al massimo di artigianato. Ognuno si 
faceva il suo cinema, inventando praticamente tutto: 
dalle luci alla pellicola. Si trattava letteralmente 
di un’attività manuale. Certo, ci sono stati degli 
imprenditori illuminati. Ma adesso anche quei pochi 
mi pare che abbiano lasciato il posto a dei contabili, 
gente che prima d’investire calcola il massimo 
margine di guadagno, puntando su televisioni e 
coproduzioni. Oggi non si può davvero parlare di 
industria cinematografica. Anche la distribuzione è un 
problema. Ho attraversato molte stagioni di cinema e 
ricordo un periodo in cui la distribuzione non esisteva 
neppure. C’erano degli esercenti locali in varie regioni 
che avevano coraggio e curiosità. Alcuni miei lavori 
sono stati distribuiti proprio da loro. Per esempio, 
Trevico-Torino, un mio film non di grande successo, 
Cinema 
e Stato 
Industria e 
Distribuzione
che accade in paesi come la Francia o l’Inghilterra. 
Rinunciare a investimenti pubblici sarebbe come 
pensare di chiudere le scuole solo perché, in una 
certa annata, il rendimento degli studenti è stato 
particolarmente basso. Lo Stato non deve guardare 
all’esito commerciale dei film, deve garantire un 
servizio che è di sua competenza. 
Sono d’accordo sulla rivoluzione, meno 
d’accordo sul cambiare il mondo. Il 
cinema non ha mai cambiato nulla, 
però può – e deve – aiutare a comprendere il mondo. 
È la gente che, dopo aver compreso, deve provare a 
modificare l’esistente. Tocca al popolo, non al cinema. 
Per quanto riguarda la rivoluzione, è innegabile che 
se ne percepisca l’urgenza. Ma si tratta d’inventarne 
una nuova, fuori dagli schemi e diversa dai grandi 
mutamenti del passato. L’Italia non ha mai fatto una 
vera e propria rivoluzione. È tempo di farne una che 
sia dei giovani e che sappia guardare al lato luminoso 
della vita. Non si può continuare a ripetere: «Ha da 
passà ’a nuttata». Bisogna cominciare a pensare che 
«Domani è un altro giorno». Comunque vedo segnali 
incoraggianti, che lasciano ben sperare. 
Ho cominciato a leggerlo nel secondo 
dopoguerra, intorno al 1947-48. 
Carlo Salinari era mio professore al 
“Liceo Umberto” e quindi cominciai a 
interessarmi alla rivista grazie a lui. Non ostentavamo 
alcun atteggiamento di spocchia e non consideravamo 
Il Calendario del Popolo una rivista per operai 
o analfabeti. Coltivavamo il mito di Di Vittorio e 
leggevamo i suoi interventi sul quindicinale. Ho 
continuato a leggere la testata negli anni cinquanta 
e sessanta. Da giovane comunista figurava tra i miei 
riferimenti, insieme ai titoli degli Editori Riuniti e via 
dicendo. Ha senza dubbio contribuito alla formazione 
della mia generazione come “nutrimento” culturale. 
Leggeva Il Calendario? 
Ha conosciuto i suoi 
direttori storici? 
Monicelli e 
la Rivoluzione 
intervista 
46
22 
intervista a DANIELE VICARI 
Se la domanda si riferisce al cosiddetto 
“cinema d’impegno civile”, credo che 
Regista e sceneggiatore. Vincitore di due David di Donatello, nel 
2003 come miglior regista esordiente con Velocità Massima e nel 
2007 con il documentario Il mio paese. 
Breve filmografia: Il passato è una terra straniera (2008) 
Diaz. Non pulire questo sangue (2011). 
Impegno In Velocità massima (2002) 
in tutto il mondo ci siano registi che continuano 
instancabilmente a fare film incarnati nella realtà, 
critici e non accomodanti. È un fenomeno che è 
nato con il cinema e morirà con il cinema. Stesso 
discorso vale per l’opposto, il cinema cosiddetto 
“d’evasione”. Sono tendenze connaturate al mezzo 
che è nato come fenomeno da baraccone, non 
dobbiamo mai dimenticarlo, a fatica ha conquistato 
la nobiltà dell’espressione artistica. La verità è che le 
tendenze si mescolano a volte imprevedibilmente e 
meravigliosamente, e il più grande errore che possa 
fare un cineasta è rinchiudersi da solo in un recinto, 
anche se nobile come quello del “cinema d’impegno 
civile”. 
Oggi il cinema, dopo aver dominato senza rivali la 
scena dei media, svolge un ruolo meno rilevante, ma 
conserva lo scettro della creatività e della narrazione 
audiovisiva. In questo senso il “cinema d’impegno 
civile” ha una maggiore responsabilità che in passato: 
quella di portare lo sguardo laddove la televisione e 
gli altri media audiovisivi non possono o non sanno 
portarlo, cioè nelle zone d’ombra dell’animo umano e 
dell’organizzazione sociale. Da questo punto di vista 
la “pura denuncia” non regge più la sfida del grande 
schermo, perché il ruolo della denuncia si esaurisce 
nell’incredibile velocità dell’informazione in tempo 
reale, basta pensare alle riprese effettuate con i 
telefonini dai manifestanti della primavera araba, 
che all’istante finiscono nella rete allertando il mondo 
intero, scavalcando censure feroci e pericolosissime. 
I “film di denuncia” non possono più solo essere 
tali, devono essere sempre più complessi, meno 
schematici. Questi film, senza perdere la capacità 
di comunicazione, devono andare sempre più al 
fondo dei fenomeni che rappresentano, cioè devono 
partire dalla denuncia e approdare in territori meno 
cronachistici, altrimenti sono inutili. 
Sono almeno due decenni che 
si parla di “neo-neorealismo”. 
Ma la definizione secondo me 
non regge se non in termini 
genericamente morali. Il 
neorealismo è stata una delle 
avanguardie cinematografiche 
più importanti e influenti 
hai raccontato gli scorci 
d’una Roma obliqua e 
sotterranea: quella delle 
corse clandestine. 
Quale “realtà” sta al centro 
della tua cinematografia? 
della storia del cinema (insieme al cinema russo 
degli anni venti, alla Nouvelle Vague francese e 
alla New Hollywood degli anni settanta). Dentro 
questa avanguardia si sono fuse varie tendenze 
cinematografiche che, a ridosso del boom economico, 
si sono dissolte e hanno dato vita al fenomeno degli 
“autori”. Noi siamo in una fase storica che certamente 
ha bisogno di una nuova spinta “morale” e artistica, 
ma temo che, se non si individua una strada davvero 
innovativa e incisiva, non si potrà parlare di una nuova 
“ondata”. Ciò non esclude che ci siano o possano 
esserci dei grandi autori all’altezza dei “padri” del 
neorealismo. Il nostro cinema sta scandagliando la 
“realtà” a trecentosessanta gradi. Credo che l’aggancio 
con la realtà l’abbiamo certamente ritrovato. È per 
questo che il cinema italiano, con tutte le sue difficoltà 
e insufficienze, dà ancora fastidio ai padroni delle 
ferriere. La questione di fondo però è: le opere che 
stiamo realizzando sono all’altezza del compito? 
Beh, ho già accennato a 
questo argomento nella prima 
risposta. Dal mio punto di 
vista non esiste mai una 
separazione netta tra generi 
e tendenze, se non nella 
produzione seriale. I generi 
sono la tavolozza sulla quale il 
regista mescola i colori. E qui 
entrano in gioco due cose: la 
libertà espressiva e la capacità 
artistica di ciascun cineasta. Il 
Con Il passato è una terra 
straniera (2008) hai scan-dagliato 
la Bari segreta del 
gioco d’azzardo, portando 
sul grande schermo il 
romanzo di uno scrittore 
come Gianrico Carofiglio, 
ritenuto un esponente della 
crime story italiana.Cinema 
d’evasione e d’autore 
si intrecciano o si 
distinguono ancora?
23 
cinema contemporaneo deve poi fare i conti con un 
pubblico davvero sfuggente, che reagisce a pulsioni 
imprevedibili, a volte dettate da dosi massicce di 
marketing, altre volte da sotterranei sommovimenti 
che portano in sala persone che normalmente non ci 
vanno. Il più delle volte il pubblico contemporaneo 
si sente respinto dai film “impegnati” o “d’autore”. 
Questi fenomeni non possono lasciarci indifferenti, 
bisogna comunicare con gli spettatori, accettare la 
sfida, individuare un pubblico, altrimenti si smette 
semplicemente di fare il cinema. Oppure si deve 
avere il coraggio di fare scelte radicali come quella 
di Corso Salani: fuori da ogni schema, fuori da ogni 
sistema. Con tutti i rischi di marginalità e anche di 
mancanza di mezzi che comporta. Nella marginalità 
non è detto che non si possano fare grandi cose, basta 
pensare a Jean Vigo. 
Nel mio piccolo io perseguo la strada opposta, 
non disdegno il confronto con modelli narrativi di 
“genere”, e con il “sistema” produttivo, prima di 
tutto perché il cinema è il mio mestiere, per me non 
è una missione astratta, poi perché ritengo che certi 
modelli non siano né esauriti, né scandagliati fino 
in fondo, né tantomeno ingabbianti se frutto di una 
scelta libera e consapevole. Il cinema “dei generi” 
non è un fenomeno commerciale e basta, altrimenti 
dovremmo buttare alle ortiche l’esperienza di cineasti 
come Kubrick, Scorsese, Cronenberg, i Cohen e molti 
altri che, in un continuo “dentro-fuori” con i generi, 
hanno rivoluzionato e rivoluzionano il cinema. 
Provo a fare un 
ragionamento a ruota 
libera. Secondo me il 
problema principale 
è la mancanza di 
coraggio da parte di 
autori e produttori. Se 
queste due categorie 
prendono in mano il 
loro destino, si può parlare di tutto, non c’è al mondo 
nessuna entità che possa fermare o deviare un progetto 
ben strutturato, a meno che il regista o il produttore 
non siano disposti a mollare o non vengano eliminati 
fisicamente come si fa in Iran, dove i cineasti finiscono 
in galera come fossero assassini o stupratori. Che poi 
ci siano soggetti che non hanno piacere che si trattino 
certi argomenti non c’è dubbio, ma questo fa parte 
della normale dialettica che deve esserci tra Titti e 
Gatto Silvestro: se non c’è la dialettica non c’è la storia. 
Purtroppo noi molto spesso tra Titti e Gatto Silvestro 
scegliamo la Nonnina che vuole farli convivere a ogni 
costo, e finiamo per fare film indecisi e fragili. Non 
c’è dubbio poi che i dirigenti delle grandi società che 
dovrebbero avere come scopo quello di finanziare 
bei film e realizzare grandi incassi a prescindere 
dall’appartenenza ideologica del regista, siano molto 
sensibili ai temi che possono dar fastidio a chi comanda. 
Ma altrettanto importante è il fenomeno delle “vestali”, 
delle verità assolute che si appropriano di fatti e pezzi di 
storia, ne fanno quando va bene una missione e quando 
va male un mestiere, e allora tutto si cristallizza in 
dibattiti stucchevoli su chi ne sa di più e chi ha diritto di 
parlarne e chi no, così la libertà di interpretazione di un 
fenomeno va a farsi benedire ancora prima che un film 
venga realizzato. Questo problema però riguarda anche 
la produzione legislativa e persino quella industriale. 
L’Italia, tra veti incrociati e lotte intestine, sta dando 
uno spettacolo desolante dinanzi al mondo intero: ecco 
che i diritti civili o la costruzione di un inceneritore 
diventano casus belli che durano decenni, senza 
che nessuno si prenda la responsabilità di proporre 
soluzioni serie ed efficaci. Per tornare al cinema, qui da 
noi può facilmente verificarsi il fenomeno tragicomico 
dei film di cui si è solo parlato ma che non ha mai visto 
o non vedrà mai nessuno. 
Per me esiste “il luogo” solo 
come “personaggio” del film. Se 
un luogo non vive e non significa, 
Hai appena finito di girare 
Diaz. Non pulire questo sangue. 
Il G8 di Genova è uno dei coni 
d’ombra della recente storia italiana. 
Pensando a ciò che è accaduto con 
La prima linea di Renato De Maria, 
credi che ci sia un’avversione nei 
confronti di chi tenta di narrare 
determinati momenti del passato? 
Quanto conta l’aderenza 
ai luoghi nel tuo 
approccio al cinema? 
intervista
24 
In Europa nessun paese ha abolito il 
finanziamento pubblico per il cinema, ma 
in tutti i paesi si è sviluppato un sistema 
Cinema 
e Stato 
produttivo basato su un mix di finanziamenti. Il 
presupposto per il buon funzionamento di questo 
mix è la limpidezza assoluta del percorso produttivo 
e distributivo dei film. Mi chiedo da molto tempo chi 
da noi ha davvero interesse a fare chiarezza. Basta 
veramente poco per far sì che il cinema finanzi sé 
stesso, attraverso lo sbigliettamento, una tassa di 
scopo, un sacrosanto obbligo per le TV di finanziare 
i film visto che spolpano il cinema vecchio e nuovo 
in ogni modo. 
Mario era un uomo dolcissimo e 
intelligentissimo, di sicuro non si 
sarebbe stupito se gli avessi chiesto: 
Monicelli e 
la Rivoluzione 
«scusa, ma qual è la prima?» 
Non saprei se il cinema può cambiare il mondo, di 
certo può contribuire a addormentare le coscienze 
o a svegliarle, dipende però anche da quanto sonno 
hanno queste coscienze. 
magari va benissimo per andarci in vacanza ma non 
va bene per il cinema. 
Industria e 
Distribuzione 
Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe 
un trattato di storia economico-politica del 
cinema italiano. Siccome l’ultima impresa di 
questo genere la fece il dimenticato Lorenzo Quaglietti, 
mi limito a dire tre cose banali: 
1. In Italia ci vuole una seria normativa “antitrust”. 
Questa cosa è più urgente della legge sul conflitto 
di interessi, perché l’Italia è il paese degli oligopoli. 
La quotazione dei diritti per la TV dei film italiani 
la fanno due o tre soggetti, che generalmente sono 
d’accordo fra loro nel tenerla talmente bassa che 
nessun produttore può farci conto per produrre un 
film (problema che non tocca le nobildonne dell’Est 
Europa). Addirittura può succedere, a causa di questo 
oligopolio, che un film di grande successo commerciale 
oltre che di enorme successo critico come Il Divo non 
venga acquistato da nessuna televisione per due anni, 
finché La7 non decide di mandarlo meritoriamente in 
onda, ma con una valutazione economica ovviamente 
commisurata alla dimensione della rete. Ecco che il 
produttore la prossima volta ci penserà bene prima di 
impegnarsi per una cifra che il “mercato” italiano non 
mette a disposizione. 
2. In Italia, nei posti dirigenziali come in quelli 
intermedi, ci vuole gente che si assuma la piena 
responsabilità delle proprie scelte, delle proprie 
opinioni e dei propri errori, altrimenti non usciremo 
mai dal pantano in cui siamo. 
Questo vale purtroppo per quasi tutti i settori 
dell’apparato pubblico e privato, quindi anche per 
il cinema. 
3. Una seria industria cinematografica ha bisogno di 
un quadro normativo che renda agevole realizzare 
vendere e distribuire film di ogni genere, forma e 
dimensione. Il quadro legislativo che abbiamo in 
Italia fa il mestiere contrario, complica. E complica 
davvero molto.
intervista 
25 
intervista a MASSIMO GAUDIOSO 
Essendo cresciuto in un’epoca in cui la 
parola “impegno” era pane quotidiano, 
Impegno 
non posso dire – soprattutto a posteriori – di non 
averci mai creduto. Finita l’infatuazione, però, e con 
l’esperienza maturata nel tempo, posso affermare 
che, quando sento parlare di cinema impegnato oggi, 
avverto qualcosa che non mi piace affatto. Preferisco 
parlare di cinema fatto bene, con onestà, passione 
e competenza: ecco, se c’è un impegno, è quello 
morale con sé stessi e con la materia che si decide di 
raccontare. 
È difficile parlare di una sola realtà, 
oggi come sempre, le realtà che 
Neo-neorealismo 
vengono rappresentate nel nostro cinema sono 
molteplici così come molteplici sono le interpretazioni 
di quelle realtà e gli stili, i linguaggi con cui vengono 
rappresentate. 
Quando ero un semplice spettatore non riuscivo 
a comprendere le suddivisioni in categorie, anche 
se ammetto che mi aiutavano a distinguere uno 
stile, un approccio da un altro; ora che il cinema “lo 
faccio” sono diventato ancora più refrattario alle 
categorie, non riesco a riconoscermi in nessuna di 
esse. Il termine neo-neorealismo non so cosa sia, 
di sicuro non è una definizione che userei per i film 
che ho fatto, nemmeno quelli fatti insieme a Matteo. 
Ma se s’intende che nella scelta e nella creazione di 
una storia non sono uno che ama viaggiare di primo 
acchito con la fantasia ma preferisce prendere spunto 
dalla realtà, dalle cose che vive o che conosce, allora 
va bene. 
Quando faccio un film 
devo conoscere a fondo 
la realtà che racconto, mi 
sembra una cosa normale 
o perlomeno è una cosa 
che faccio naturalmente. 
Se è una realtà che non conosco ma suscita per 
qualche motivo il mio interesse allora mi ci devo 
compenetrare completamente. Non ho una grande 
fantasia, o meglio non ce l’ho durante la costruzione 
di uno scenario o dei personaggi, preferisco 
“appoggiarmi” alle cose che conosco, al mio vissuto o 
a quello di qualcun altro. Se, come spesso succede, si 
tratta di realtà che non conosco, cerco di farle mie, di 
conoscere le problematiche dei vari personaggi che 
ne sono protagonisti, le loro contraddizioni, i sogni, 
le paure, le motivazioni che li spingono a compiere 
determinate azioni, insomma tutto quello che mi 
può aiutare a farli agire in un modo “naturale” e 
ovviamente in questo rientrano anche i paesaggi, gli 
ambienti in cui vivono... 
Che vuol dire autorialità 
più aperta? Che non 
c’è un solo autore? 
Certo, il cinema è 
un’arte collettiva nel 
senso che è il risultato 
di diversi contributi 
“artistici”; ci sono gli autori della sceneggiatura, della 
fotografia, del suono, del montaggio, delle musiche… 
e naturalmente c’è il regista, che sceglie i suoi 
collaboratori, il progetto da realizzare e gli dà la sua 
impronta decisiva durante tutte le fasi di lavoro, a cui 
danno il loro contributo creativo i suoi collaboratori. 
Io amo fare quello che faccio: in un certo modo credo 
sia lo stesso approccio al cinema che ha Matteo, 
per questo ci siamo subito trovati, perché avevamo 
delle affinità nel modo d’intendere questo mestiere, 
di pensare e di fare un film, che è un approccio 
sicuramente diverso da quello di altri… non migliore 
né peggiore, solo diverso. 
La nostra non è una relazione esclusiva, lo diventa 
però nel momento in cui decidiamo di intraprendere 
una nuova storia che è un po’ come partire insieme 
per un viaggio. Quando faccio film con altri registi 
cerco innanzitutto di ricreare la stessa intesa che 
ho con Matteo, ma non è così facile trovare sempre 
Quanto conta l’aderenza 
ai luoghi, alle città, 
l’interesse per la più remota 
provincia italiana, 
nelle tue sceneggiature? 
Regista, sceneggiatore e attore, vincitore del David di Donatello 2003 
per il soggetto per L’imbalsamatore con Ugo Chiti e Matteo Garrone 
(Garrone, 2002), firma la sceneggiatura di Gomorra (Garrone, 2008). 
È regista de Il caricatore (1996), Un caso di forza maggiore (1997), 
La vita è una sola (1999). 
La scrittura cinematografica presuppone 
un’autorialità più “aperta” di quella let-teraria. 
Come influisce sul tuo lavoro il 
rapporto privilegiato con Matteo Garrone? 
In che termini l’occhio del regista e le 
attitudini degli attori mutano lo script?
26 
delle persone con cui sei in perfetta sintonia, delle 
cui scelte ti fidi ciecamente, a cui non devi spiegare il 
motivo per cui fai o dici una determinata cosa. Una 
sceneggiatura subisce sempre delle modifiche durante 
le riprese. È inevitabile. Un film viene riscritto sul 
set e ancora una volta durante il montaggio, io la 
penso così ed è una cosa che accetto, non ho la tipica 
frustrazione dello sceneggiatore che resta sempre 
deluso dal risultato finale e pensa: “io non l’avrei 
fatto così”. Insomma… diciamo che mi succede meno 
quando lavoro con Matteo perché so esattamente 
come lavora e quello che vuole, anzi quello che non 
vuole, e quasi sempre lo condivido… Per questo cerco 
di essere presente il più possibile anche durante 
queste due fasi del lavoro. 
L’occhio del regista conta eccome! Nel caso di Matteo 
questo è ancora più evidente dal momento che lui è 
anche l’operatore alla macchina dei suoi film e poi ama 
girare le scene in ordine cronologico, modificando la 
dinamica della storia giorno per giorno se necessario 
o perlomeno seguendo le suggestioni che derivano 
dalla realtà dei posti e, perché no, anche dalle 
attitudini degli attori. Quindi sono sempre pronto a 
“riscrivere” quella che è diventata per sua natura una 
cosa diversa da ciò che avevamo scritto. 
Il libro di Roberto era 
talmente vasto che ci 
siamo subito resi conto 
dell’impossibilità di 
farne un solo film. 
Questa è stata la 
nostra fortuna, perché 
abbiamo deciso in 
pochissimo tempo 
che strada prendere e 
Quali difficoltà hai incontrato 
nell’adattare per il grande schermo 
un libro sfuggente e inclassificabile 
come quello di Roberto Saviano? 
Perché nella trasposizione filmica 
avete modificato l’inquietante scena 
iniziale al porto di Napoli con una 
concitata sequenza di conflitto a 
fuoco in stile gangster movie? 
cosa lasciare fuori. Con Matteo ci siamo subito trovati 
d’accordo nell’eliminare il personaggio che fa da 
collante nel libro, cioè il giornalista che gira in vespa 
(ovvero lo stesso Roberto), che con tutto il materiale 
che c’era risultava anacronistico. In quel modo era 
chiaro che non ci sarebbe stato né un protagonista, 
né un trait d’union ma tanti protagonisti e tante
27 
storie. Siccome un film ti costringe (per la sua durata 
limitata) a delimitare i confini, e siccome a Matteo 
(come a me) piace soffermarsi sui personaggi – 
sulla loro umanità (o disumanità) – dilatare certi 
momenti, era naturale che restringessimo il campo a 
pochi personaggi e a poche storie, un po’ sull’esempio 
di Paisà di Rossellini (un film che abbiamo rievocato 
spesso). Anche la scelta dei personaggi e quindi delle 
storie è stata una naturale conseguenza di questo 
ragionamento e della nostra predisposizione verso 
l’aspetto “umano” piuttosto che quello politico-sociale. 
La scena iniziale al porto di Napoli è quella che 
ci ha fatto innamorare del libro (come credo sia 
successo a molti). Matteo ci teneva molto a metterla 
ma piano piano si è (o meglio, lo abbiamo) convinto 
che non aveva nulla a che vedere con il resto del 
film e come spesso succede l’immagine “ispiratrice” 
è scomparsa dal film. L’agguato iniziale invece era 
parte integrante della storia di ben tre personaggi 
– anche se inizialmente non era stato pensato 
così, Matteo è stato ispirato da quello che ha visto 
durante i sopralluoghi – oltre a essere una scena 
perfetta per introdurre il contesto in cui si svolgeva 
l’intero film. 
Lo conservo, certo, ma dal momento 
che non mi piace perseguire in 
modo monolitico un’idea lascio 
anche che prenda il sopravvento… 
è normale, nel mio metodo di 
lavoro, che questo succeda, ma 
forse più che prendere il sopravvento direi che la mia 
“ispirazione” è continuamente sollecitata da fattori 
esterni che attraverso un processo mentale tortuoso 
e spesso imprevedibile me la rendono un po’ alla 
volta sempre più chiara... 
Io ho sempre pensato che i grandi film 
popolari fossero anche grandi film 
d’autore, questo perché i film con cui 
sono cresciuto erano film di grande 
successo e solo in seguito ho scoperto 
che erano di Kubrick, Spielberg, 
Come autore conservi 
sempre il controllo sulla 
storia che stai narrando 
o a volte hai l’impressione 
che prenda il sopravvento? 
Ha ancora senso 
distinguere tra 
cinema d’evasione 
e cinema d’autore? 
Attualmente i due 
generi si intrecciano?
28 
Coppola eccetera… Si trattava di film innovativi sul 
piano del linguaggio e dei contenuti, oppure erano 
ottimi film di genere. Ho sempre cercato di fare 
cinema seguendo quell’esempio ma evidentemente 
i primi risultati non sono stati all’altezza delle mie 
aspettative. È chiaro che quando si fa un film si 
vorrebbe che venisse visto da più gente possibile, ma 
non sempre i gusti, le idee, la sensibilità degli autori 
sono in sintonia con quelli del pubblico. Magari 
mi sbaglio ma purtroppo oggi i film d’evasione mi 
sembrano sempre meno “cinematografici” e sempre 
più vicini a uno stile televisivo, quindi sempre più 
inconciliabili col cinema d’autore. Ultimamente ho 
finalmente convinto i produttori che ero in grado 
di fare film popolari, come le commedie che ho 
sempre adorato, che i film cosiddetti di genere non 
devono essere per forza volgari, stupidi, da TV... 
Intorno a me vedo che qualcosa sta cambiando, che 
si sta recuperando quella tradizione tutta italiana 
che riusciva a coniugare l’intrattenimento con la 
“autorialità”, se così si può dire. 
Ovviamente incidono tanto. L’assistenzialismo 
statale è stato smantellato (per me 
giustamente…) ma la politica non è ancora 
stata capace di creare un sistema industriale 
non assistito. Comunque io ho poca fiducia nelle 
istituzioni e credo che le soluzioni siano sempre 
altrove. Purtroppo non potremo mai contare su un 
mercato “colonizzato” come la Francia e l’Inghilterra, 
e come al solito dovremo sperare negli sprazzi di 
genio italico… La televisione, che ha avuto uno 
sviluppo di tipo industriale, avrebbe dovuto investire 
anche nel cinema ma purtroppo la maggior parte dei 
produttori televisivi ha avuto sempre una visione 
ristretta, esclusivamente incentrata sul guadagno 
e sulla crescita personali. Ma anche in questo caso 
le cose stanno cambiando. Ci sono produttori più 
“illuminati” che producono film che non hanno 
solo una destinazione televisiva. Poi ci sono realtà 
come la rete, che, mi auguro, saranno in grado di 
scardinare le modalità della distribuzione e dunque 
anche l’oligopolio attuale potrebbe essere superato 
dal nuovo che avanza… perlomeno per un po’... 
Sono convinto che grazie alle nuove tecnologie, che 
sono sempre più accessibili a tutti (come auspicava 
cinquant’anni fa Truffaut, facendo il paragone con la 
diffusione della scrittura), non solo si possono fare 
i film senza produttori ma si possono mostrare a 
un pubblico altrettanto vasto di quello che va nelle 
sale senza bisogno delle grandi distribuzioni, anzi 
nonostante loro. Lo stato, anziché sperperare i soldi 
continuando a creare istituzioni che negli intenti 
dovrebbero essere di sostegno al cinema, mentre 
nella realtà servono soltanto a elargire ennesime 
cariche e poltrone che a chi fa cinema non servono 
affatto, potrebbe pensare e mettere in funzione 
forme di sostegno al cinema italiano, più mirate e 
meno settarie del finanziamento pubblico. Forme 
che tengano conto dei grandi cambiamenti che ci 
sono stati, che a esempio aiutino la diffusione del 
cinema nelle scuole, che ne favoriscano lo sviluppo 
con un’autentica politica culturale senza lasciare che 
tutto venga delegato alla logica del mercato (una 
logica assurda). Ma appena dico queste cose mi 
rendo conto di quanto siano ingenue... 
Si dice che la destra attacca il cinema 
perché lo avverte come uno strumento 
della sinistra e in parte è vero, se si 
pensa che il 99% di chi fa cinema (ma vale anche per il 
mondo dell’arte e della cultura in generale) si dichiara 
di sinistra o professa idee cosiddette di sinistra. Ma 
se così non fosse stato dubito che avrebbe fatto chissà 
che… Berlusconi invece avversa l’assistenzialismo 
statale in parte per gli stessi motivi e in parte perché, 
essendo a capo di una società che per motivi che è 
ormai vano riesumare è diventata leader nel settore, 
ovvero la Medusa, non capisce perché lo stato debba 
buttare via i soldi per un cinema che non solo non 
corrisponde ai suoi gusti personali (e a quelli dei suoi 
sodali) ma non riesce quasi mai a risultare “attivo”, 
economicamente parlando (anche in questo caso 
i motivi per cui questo accade sono noti a molti e 
riguardano proprio la politica culturale sviluppata 
in questo ventennio da Berlusconi e la situazione di 
duopolio distributivo). Ma non è che la sinistra, dopo 
varie solenni dichiarazioni, avesse fatto granché. Non 
c’è stato il tempo! Così si suol dire… 
Industria e 
Distribuzione 
Cinema 
e berlusconismo
29 
intervista a WILMA LABATE 
Credo che il concetto di cinema impegnato 
sia superato e obsoleto. All’ultima 
edizione della Mostra del cinema di Venezia, in una 
congiuntura di pesante crisi economica e di profondi 
mutamenti politici come quelli in atto nel Maghreb, 
ha vinto il film – particolare e meraviglioso – di 
Aleksandr Sokurov. È un segnale che fa riflettere 
inevitabilmente sull’usura di una formula canonica 
come quella di “cinema engagé”. 
A mio avviso è una categoria 
fuorviante, anche perché – oggi – la 
realtà è in un’evoluzione continua, sorprendente e 
imprevedibile. Il cinema ha un dovere, lo stesso che 
ha avuto durante il Novecento: quello di prevedere, 
di precorrere i tempi. È una tensione che ha sempre 
animato la ricerca cinematografica, evidente in 
un movimento come quello della Nouvelle Vague. 
Essere un passo avanti rispetto alla storia significa 
interpretare il futuro prima che accada. 
Oggi è tutto più complesso, perché una realtà sfumata 
e sfuggente spinge al racconto del presente secondo 
una rappresentazione confortante e stereotipata. 
E invece il confronto con il reale dovrebbe essere 
condotto sulla base dell’invenzione di nuovi linguaggi, 
di una nuova scrittura. Mi piacerebbe che il cinema 
italiano raccontasse il demone del denaro, svelasse il 
grande bluff della finanza internazionale, palesasse 
l’inganno del capitalismo. Per articolare questo 
tipo di narrazione, però, bisognerebbe inventare un 
linguaggio profondamente diverso ed emancipato 
dall’eredità novecentesca. 
Devo confessare 
che ho scelto di 
raccontare quella 
storia perché volevo 
comprendere l’oggi 
e non per il fascino 
di un evento di 
ieri. M’interessava 
raccontare l’inizio della fine, l’incipit di una tendenza 
articolata di cui – oggi – vediamo il punto estremo. 
Ho un grande interesse per il cosiddetto materiale di 
repertorio. Nel 1996 realizzai Lavorare stanca, un 
film di puro montaggio. Ne posso parlar bene, perché 
non ho girato neppure un metro di pellicola. Era un 
film sul lavoro, realizzato interamente con materiali 
delle Teche RAI. A volte dimentichiamo che la RAI 
è stata una grande televisione. Gli ultimi vent’anni 
non devono occultarne il valore passato. Gli archivi 
rappresentano una risorsa straordinaria, ma – al 
tempo stesso – possono costituire una trappola, 
perché tendono a forzare la mano e rischiano di 
risultare didascalici. L’uso che ne fa Pietro Marcello ne 
La bocca del lupo è di grande spessore, perché si basa 
su un esercizio di appropriazione e destrutturazione, 
perfino di stravolgimento. 
Rispetto alla problematicità dei racconti su certi 
eventi della storia, senza dubbio esiste un inveterato 
pregiudizio dei produttori: la paura è che il pubblico 
non sia interessato a narrazioni di quel tipo e diserti 
i botteghini. La questione del gusto degli spettatori 
è un problema complessissimo, perché – in realtà – 
è impossibile dire con esattezza ciò che il pubblico 
desidera vedere. Forse le commedie riscuotono tanto 
successo perché, per venticinque anni, si è girato poco 
altro. In Francia, per esempio, questo non accade. 
Un film crudo, durissimo come Hunger, con Steve 
McQueen alla regia, in Italia è andato malissimo. A 
me, dall’altra parte delle Alpi, è capitato di vederlo 
sottotitolato, in una normale multisala piena di 
spettatori. Quello che bisognerebbe fare è ragionare 
sulla distribuzione, sui meccanismi che la governano 
e su quanto incide nella formazione del gusto. È vero 
che il pubblico tradisce un certo tipo di film, ma è 
anche vero che, se continuiamo a imporre la dittatura 
della commedie, il risultato è inevitabile. Una vera 
produzione cinematografica dev’essere capace di 
garantire un’offerta molteplice. 
Impegno 
Neo-neorealismo 
In Signorina Effe (1980) hai parlato 
dei trentacinque giorni ai cancelli di 
Mirafiori. Era l’ultima battaglia di una 
stagione ormai al tramonto. 
Come ti rapporti all’uso dei materiali 
storici? Credi che ci sia un’avversione 
nei confronti di chi tenta di narrare 
determinati momenti del passato? 
Regista di La mia generazione (1996), Un altro mondo è possibile 
(2001), Domenica (2001) e Signorina Effe (2007). Sceneggiatrice di 
La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010). Attrice nel documentario 
Fuori fuoco (Federico Greco, Mazzino Montinari, 2005). 
intervista
30 
Negli anni sessanta le commedie erano “cattivissime”: 
potremmo dire impegnate. Oggi non si riesce a 
raggiungere quel livello, perché è indispensabile fare 
i conti con le pretese dei produttori e con il presunto 
gusto del pubblico. 
Ho scelto di misurarmi 
col tema del lavoro 
operaio perché oggi 
percepiamo tutti i più 
brutali effetti della 
crisi del fordismo e 
delle ristrutturazioni in 
fabbrica. In Signorina 
Effe ero interessata a 
rappresentare l’uomo a 
Ti sei misurata con un 
tema delicatissimo come quello 
delle condizioni del lavoro 
in fabbrica. Proviamo a fare 
il controcampo: cosa pensi della 
rappresentazione cinematografica 
del lavoro precario inchiodata 
nella cornice della commedia 
sentimentale e generazionale? 
lavoro fissandolo nell’interazione con la macchina. È 
una cosa che generalmente si vede pochissimo, perché 
purtroppo è quasi impossibile girare in fabbrica. 
Rispetto a quello che avrei voluto in partenza, 
emerge poco anche in Signoria Effe. Evidentemente 
il cinema riesce a confrontarsi più agevolmente con 
i temi della disoccupazione, del precariato, delle 
migrazioni, occultando la ferocia del rapporto tra 
lavoratore e mezzo di produzione. Volendo forzare, 
potrei dire che siamo quasi fermi a Chaplin. E poi c’è 
il pregiudizio che la classe operaia non esista più. 
L’Italia berlusconiana è televisiva. 
Lui ha avuto il genio di modellare un 
intero paese sul registro Mediaset. 
Ha reso tutto TV, compreso il cinema, 
imponendo alla cultura lo “stile del 
Cinema 
e berlusconismo 
Monicelli e 
la Rivoluzione 
tanga”. Basterebbe questo per andare alla rivoluzione 
che auspicava Monicelli.
intervista 
31 
intervista a STEFANO RULLI 
Impegno C’è stato un periodo storico in cui 
quest’espressione ha avuto un significato 
univoco. Parlo del dopoguerra in particolare, ma 
anche degli anni sessanta e settanta. La necessità, 
l’utilità, di quel cinema era legata alla consapevolezza 
dell’esistenza di cose che non venivano messe a 
conoscenza dei cittadini. Così, il cinema – oltre a 
produrre racconto, fare “romanzo”, suscitare emozioni, 
creare personaggi – aveva il dovere morale di 
informare, di fare emergere realtà segrete o 
sconosciute. Una pietra miliare di questo approccio è 
Salvatore Giuliano, in cui si mescolano grande 
cinema, modernità di stile e analisi giornalistica. In 
altre parole: tutti i requisiti del miglior cinema 
impegnato. I lavori di Rosi, per esempio Le mani sulla 
città, nascevano da un clima politico, ma anche 
dall’intenzione di rivolgersi a un pubblico ampio. Oggi 
le cose sono cambiate. Il problema non è il difetto, 
bensì l’eccesso di informazione che finisce per 
disinformare. Oggi il grande pubblico è disorientato 
dalla televisione, dal surplus di notizie, pareri, analisi. 
Davanti a una situazione di questo tipo il cinema deve 
assumersi la responsabilità di offrire allo spettatore 
uno sguardo sulla realtà. È nello sguardo, nella 
capacità d’interpretazione, nella definizione di un 
punto di vista, che il cinema rende il massimo servizio. 
In questo senso si può ancora parlare di impegno, 
anche se la parola non è la più adatta a designare 
questo tipo di attitudine: ovvero quella di aiutare lo 
spettatore a guardare con occhi diversi ciò che sembra 
ovvio e scontato. Spesso nel linguaggio non conta 
tanto il significato delle parole, bensì quello che le 
parole nascondono. Il cinema ha una capacità di 
racconto superiore ad altre forme di arte, perché 
intreccia immagini e parole. Per me, come 
sceneggiatore, scrivere non significa scommettere su 
battute che illustrano o spiegano un personaggio, 
bensì insistere sul rapporto tra ciò che un personaggio 
dice e quello che fa, il modo in cui si comporta, la 
Sceneggiatore. - Breve filmografia: Il muro di gomma 
(Marco Risi, 1991), Il ladro di bambini (Gianni Amelio, 1992), 
La tregua (Francesco Rosi, 1997), La meglio gioventù 
(Marco Tullio Giordana, 2003), Romanzo criminale (Michele Placido, 
2005), Baciami ancora (Gabriele Muccino, 2010). 
gestualità che usa, quello che non fa vedere 
immediatamente. 
Credo che ci sia ancora spazio per un cinema che aiuti 
a comprendere la realtà. Non so se si possa parlare 
di impegno vero e proprio, ma di una utilità critica, 
sì. E oggi, rispetto al passato, il discorso sullo stile è 
ancora più importante. Lo sguardo è stile, e quindi il 
problema del come raccontare è davvero ineludibile. 
La piovra è stato il primo 
tentativo di portare in televisione 
temi che non erano propri della 
fiction. Attraverso una narrazione 
“romanzesca”, abbiamo cercato 
di restituire il sentimento politico 
di un’epoca. La TV si prestava 
bene come mezzo espressivo 
per impostare il racconto della 
storia d’Italia in quanto storia di 
misteri. Avevamo scelto dei meccanismi narrativi 
che ammiccavano esplicitamente alle tecniche del 
romanzo popolare: storie truci, rimbalzi attraverso 
il tempo, fatti remoti che rimandavano al presente e 
via dicendo. Era impossibile comprendere le vicende 
della prima Repubblica senza considerare l’attività 
del controspionaggio americano. Alcuni personaggi 
ambigui, legati alla politica, ai servizi segreti, al crimine 
organizzato, hanno attraversato gli anni cinquanta, 
sessanta e settanta, dipanando il filo rosso – o meglio 
“nero” – di un’invisibile continuità. Questi motivi non 
erano frutto dell’invenzione, bensì parte costitutiva 
della nostra storia. 
Oggi ho l’impressione che prevalga la sufficienza dei 
modelli narrativi, cui non corrisponde il disvelamento 
delle dinamiche politiche e sociali di un periodo. 
Romanzo criminale è stato un tentativo di narrare, 
attraverso le vicende di un gruppo di proletari romani, 
una pagina degli anni settanta segnata dall’attività 
dei servizi e dall’ombra lunga di un enigmatico 
burattinaio. In altri lavori che ho seguito, la questione 
Oltre che per il cinema, 
lei ha scritto per la TV. 
Tra le altre cose, è l’autore 
di alcune serie di una 
fiction leggendaria come 
La piovra. In che termini 
si è trasformata la scrittura 
televisiva di argomento 
criminale?
32 
della mafia, ad esempio, si è piegata maggiormente 
alle necessità del manicheismo buoni-cattivi. In questi 
casi l’elemento dell’indagine politica si perde negli 
schemi delle narrazioni popolari, nei motivi universali 
della vendetta o delle grandi passioni. Ne La piovra, al 
contrario, praticavamo una lettura plastica, alludendo 
al rapporto tra mafia e P2, tra P2 e politica. Cambiano 
gli stili, mutano i periodi storici, ma l’importante 
è continuare a interpretare il reale, a offrire una 
prospettiva, un punto di vista. Bisogna preservare 
quest’approccio dall’omologazione stilistica dei format 
odierni, dal taglio paternalistico con cui ci si rivolge a 
un pubblico, trattato – troppo spesso – alla stregua di 
un bambino spaventato. 
Faccio sempre un discorso di tendenza, perché 
ogni film ha una storia diversa. Credo che la 
comicità di Virzì sia erede della commedia all’italiana 
e del suo rapporto con la realtà. Pensiamo al tema del 
precariato, per esempio. 
Senza dubbio ci sono altre commedie che concedono 
troppo al meccanismo del racconto sentimentale, 
a volte bozzettistico, in cui prevale l’istanza 
dell’intrattenimento, del coinvolgimento spensierato. 
Nel cinema, però, c’è posto per tutto. La lezione 
della commedia all’italiana rivive – a mio avviso 
– ne La scuola di Luchetti, in cui si sviluppava una 
critica a un certo modello di istruzione. Ho fatto altri 
tentativi con Petraglia in lavori che non hanno avuto 
particolare successo, per esempio in Arriva la bufera. 
Raccontavamo di un giudice che andava al Sud, 
finendo per misurarsi con una corruzione pervasiva 
e diffusa. Erano gli anni in cui si contrapponeva la 
politica corrotta alla società civile onesta. Si trattava 
di una dicotomia banale che volevamo smontare. Il 
film non ebbe successo, forse perché il pubblico non 
si divertì a riconoscere certe condotte nella vita d’ogni 
giorno. Tangentopoli andava bene finché il corrotto 
era il politico o il banchiere, ma quando la mazzetta 
Commedia
All’inizio degli anni ottanta, 
lei ha realizzato dei documentari 
sui sobborghi romani. 
33 
Tre decenni dopo sono le borgate 
che si stanno imborghesendo 
oppure è la borghesia 
che si sta “imborgatando”? 
potevi prenderla anche tu o il tuo vicino, allora c’era 
poco da divertirsi. Realizzammo in grande libertà un 
prodotto parossistico che provava a dislocare su un 
altro piano la satira politica. Il Divo di Sorrentino 
non è un film comico, però ha degli elementi di satira 
così alta che rappresenta un avanzamento rispetto ai 
modelli della commedia all’italiana. In fondo, lo stesso 
Nanni Moretti, regista particolarmente serio, ha la 
capacità di esprimere una comicità a tratti surreale. 
Se decidiamo di non applicare uno schema rigido 
e proviamo a emanciparci dalla grande tradizione 
che – a volte – finisce per gravare sulle nostre spalle, 
credo che esistano autori in grado di sperimentare 
innovazioni significative. La comicità nasce quando ci 
si rende conto che la risata non è frutto della battuta 
facile, ma un aspetto intrinseco della realtà da cogliere 
ed evidenziare. Questa disposizione comica si esprime 
in altre forme, pur non costituendosi come genere, al 
contrario della comicità sentimentale. 
Ricordo le demolizioni 
del vecchio Tiburtino e la 
costruzione delle nuove 
abitazioni a trecento metri 
di distanza. La gente 
traslocava con carretti e 
camioncini. Raccogliemmo le 
testimonianze di chi viveva al 
Tiburtino III, le storie del dopoguerra, delle lotte per 
le nuove case. Parlavano con l’orgoglio di chi aveva 
un’identità, di chi aveva lottato per un’esistenza 
dignitosa. Finalmente avevano vinto. Li filmammo 
mentre si traferivano e la cosa che emergeva era un 
sentimento di disorientamento. Cessavano di essere 
proletari, poveri ma con un’identità, e si ritrovavano 
in queste abitazioni moderne, col balconcino privato, 
dopo trent’anni di ballatoi, di un’esistenza condivisa, 
della cultura di una comunità, del tempo trascorso 
insieme nella piazza o all’osteria. I gruppi di vicini 
intervista
34 
non erano stati trasferiti in modo omogeneo, bensì 
divisi secondo criteri matematici. La stessa “stecca”, 
costruita lungo un viale privo di piazza, finiva per 
cancellare una storia. Istintivamente mi viene da dire 
che questa vicenda è emblematica dell’incompiuto 
passaggio dallo stato popolare alla condizione 
piccolo-borghese. Si tratta di una sospensione 
tra un’identità legata al passato e un presente 
profondamente segnato dalla crisi economica. Forse, 
l’imborghesimento più che ascesa a un paradiso è 
transito in un purgatorio. Ricordo San Basilio in 
quei «deliziosi anni di merda», come Altan definì gli 
ottanta. Colpiva il vuoto, il soffocamento, la rabbia 
dei giovani delle borgate. Credo che la modernità 
abbia appiattito le vecchie connotazioni sociali, e che 
la conseguente insoddisfazione, l’assenza di ruoli, la 
claustrofobia riguardino ormai l’intera società. 
Il vero problema è la difficoltà delle piccole 
produzioni indipendenti a trovare spazi. È 
vero che si registra la moltiplicazione del numero 
di sale, ma questa crescita riguarda solo un certo 
tipo di cinema. Da una recente rilevazione risulta 
che le pellicole di registi di fascia alta, come Virzì, 
Archibugi, Luchetti, puntano su una distribuzione 
legata a sale generalmente collocate nel centro 
delle città. Parlo di cinema come il Metropolitan a 
Roma che stanno scomparendo. In una città come 
Perugia, nell’arco di quindici anni, sei o sette cinema 
hanno chiuso. Eppure in periferia hanno aperto due 
grandi multiplex. Tecnicamente Perugia ha più sale 
di prima, ma bisogna chiedersi per quale tipo di 
film. Per i lavori dei registi cui ho fatto riferimento 
prima, diventa tutto più difficile. L’incasso tende a 
diminuire del 10-20%, ma non perché vanno meno 
bene nelle sale in cui erano passate le pellicole 
precedenti. Semplicemente perché quelle sale non 
esistono più e quindi l’incasso complessivo si riduce. 
È vero che dall’inizio degli anni novanta il cinema 
Industria e 
Distribuzione
intervista 
35 
italiano ha ricominciato a crescere dal punto di vista 
dei numeri, ma bisogna ragionare anche sul tipo di 
pubblico. Come associazione degli autori, i Cento 
Autori, abbiamo il dovere di elaborare un modello di 
fruizione che sia radicalmente alternativo a quello dei 
multiplex, caratterizzati da precise ragion d’essere, 
da uno specifico tipo di prodotti, dall’organizzazione 
di determinati spazi intorno ai cinema. Bisogna fare 
qualcosa di analogo per favorire non solo la fruizione 
di un cinema diverso, ma anche un uso diverso 
del tempo libero. Il cinema non è mai stato solo il 
momento della proiezione, bensì un evento che crea 
un tessuto di relazioni, forme di socialità, momenti 
di confronto. Quando chiude una sala, si disgrega 
questa trama di rapporti sociali. Nelle città in cui il 
centro storico perde sale, è un modello intellettuale e 
relazionale a disgregarsi. È fondamentale preservare, 
e rilanciare, differenti forme di aggregazione culturale 
e sociale. 
Il primo livello dell’intervento pubblico 
dovrebbe orientarsi – in termini di 
agevolazioni fiscali o di accesso ai finanziamenti – 
verso quei gestori che favoriscono le aggregazioni 
socio-culturali. Parlo di un’ampia platea di soggetti 
che comprendono non solo privati, ma anche 
associazioni culturali disseminate in provincia. 
Puntare sulla digitalizzazione, per esempio, mi 
pare una scommessa imprescindibile. Non credo 
che si debba semplicemente riaprire le sale che 
hanno chiuso. Penso che occorra anche rinnovarle. 
Non si deve proiettare solo il cinema di finzione, 
ma bisogna valorizzare anche generi alternativi 
come il documentario. Inoltre, lo sviluppo delle 
nuove tecnologie, offre la concreta la possibilità di 
organizzare un vero e proprio palinsesto, di pianificare 
una programmazione. L’esercente è in condizione di 
trasformarsi in operatore culturale, scommettendo 
sull’accostamento tra offerta tradizionale e prodotti 
Cinema e Stato
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Il Calendario del Popolo - Venezuela, la rivoluzione della settima arte

  • 1. Un’ Amarcord – Sarebbe sempre la stessa cosa. Sareb-be un… amarcord. Racconterebbe qualche cosa accadu-ta prima, cogliendo la carica che anticipa il dopo. Forse non bisognerebbe neppure pensare all’amarcord, per-ché la base del cinema – in fondo – è sempre la stessa. La realtà è piena di storie stupende e noi continuiamo a chiederci “Perché siamo al mondo?”, “Chi siamo?”. Anche una piccola storia d’amore può essere una cosa stupenda. Di recente pensavo alla scena di un film di Tarkovskij: all’incontro tra padre e figlio in Solaris. Il figlio cosmonauta che sta volando nello spazio profon-do, al di là dell’atmosfera, rischiando la vita, e il povero padre che attende il ritorno. Mi chiedevo come sarebbe stato l’incontro, cosa avrebbero fatto i due personaggi, quale espediente avrebbe utilizzato lo sceneggiatore. E alla fine la scelta è di non introdurre niente di eccessivo o di falso: nessuna forzatura dell’immaginazione. Il pa-dre apre la porta, guarda il figlio che cade in ginocchio e abbraccia le gambe del genitore, sommità d’affetto in-nanzi a lui. È una scena piena di naturalezza eppure ri-splende di fantasia. Torniamo, quindi, a pensare a cose più piccole, più semplici, ma proviamo a guardarle con maggiore attenzione. Sono un uomo che ama guardare. Adesso guardo la pioggia. Prima c’era il sole, adesso tut-to è grigio. Non mi chiedo quasi niente. Penso a chi ver-rà a trovarmi e attendo. Quest’attesa è già un film ed è l’attesa di chi, a novantadue anni, sta andando incontro alla morte. Descrivere un simile istante di sospensione, con tutti i ricordi che piombano in un paesaggio grigio, è già una cosa bella. Poi arriva qualcuno che ti dice “Buon-giorno, parliamo di cinema?”. E va bene così. 1
  • 2. 2 COM’È TRISTE LA PRUDENZA di Teatro Valle Occupato L’occupazione del Teatro Valle – che dura ormai dal 14 giugno, da più di due mesi e mezzo – è uno degli atti di disobbedienza civile più importanti nella Repubbli-ca Italiana dal dopoguerra. È stata la Costituzione – che nella forma dell’art. 9 e dell’art. 43 regola la tutela della cultura e del pae-saggio da parte dello stato e la possibilità di trasferire mediante espropriazione allo Stato servizi pubblici es-senziali o di interesse generale – e sono stati i cittadini italiani – che hanno iniziato finalmente a riprendere in mano il loro destino tramite i referendum del 12 e il 13 giugno – a ispirare la lotta delle lavoratrici e dei lavoratori dello spettacolo che stanno occupando il Teatro Valle. Il Teatro Valle non è stato infatti solo “occupato”, ma è stato anche “aperto”, messo a disposizione della cittadinanza tramite spettacoli che hanno richiama-to migliaia di persone e sul suo palco sono transitati centinaia di artisti nella logica della programmazione/ flusso che ha consentito a chiunque ne facesse richie-sta di avere la possibilità di esprimersi. Ma non solo questo: il Teatro Valle Occupato ha affrontato di petto anche la questione della Formazione e dell’Istruzione – ridotta ai minimi termini dal governo Berlusconi – aprendo il teatro durante il giorno e organizzando un corso di tre settimane per maestranze e tecnici di sce-na di teatro, e dei workshop di scrittura scenica, reci-tazione e fotografia a cui, per ragioni politiche, non si è voluto mettere il numero chiuso. Insomma il Teatro Valle, da possibile “gallina delle uova d’oro” per pochi, espressione che, anche se sem-plificando, riassume le politiche culturali degli ultimi quindici anni del nostro paese, sta diventando un’op-portunità per molti di avvicinarsi al teatro, di avere un luogo d’incontro e di stimolo delle proprie qualità umane. Per questo la lotta del Teatro Valle non è solo una lotta per impedire una privatizzazione nella logica di profit-
  • 3. to del liberismo più selvaggio, una logica che vorrebbe privatizzare anche la cultura per controllarla e disin-nescare tutti i suoi meccanismi sovversivi di creazione di consapevolezza e di arricchimento dell’umano, non è solo una lotta di difesa, ma è una lotta per rendere il Teatro Valle un Bene Comune, ovvero qualcosa che va al di là sia del concetto di profitto del privato che del concetto di lottizzazione e burocratizzazione del pub-blico; il Teatro Valle dovrebbe essere gestito da una fondazione e dovrebbe avere al suo interno anche una scuola per maestranze tecniche del teatro e un centro italiano di drammaturgia contemporanea che formino nuovi tecnici, nuovi drammaturghi e nuovi artisti, una specie di vivaio e un continuo stimolo per tutte le pro-fessionalità artistiche e tecniche legate al teatro. In questa logica, come collocare una visione del ci-nema italiano all’interno dell’articolata e innovativa proposta del Teatro Valle Occupato, una proposta che sfida a viso aperto l’esistente andando oltre i concetti di pubblico e privato, prospettando una gestione alter-nativa alle lobby e agli usi privatistici della cultura? Il cinema non è un palazzo, non è un teatro, non è un bel paesaggio, insomma non è identificabile immedia-tamente con un Bene Comune, anche se è qualcosa di cui tutti dovrebbero godere. Saltiamo a piè pari il discorso moralistico film belli/film brutti, film da pro-durre, film impegnati, eccetera. Ma segnaliamo con forza che se il cinema, come tutti i mezzi di comuni-cazione che veicolano valori ed emozioni e hanno la possibilità di costruire un immaginario, diventa un monopolio culturale, ovvero viene prodotto con le stesse modalità produttive e gerarchiche dello sta-tus quo, veicola gli stessi temi e gli stessi generi (un esempio potrebbe essere la contemporanea “comme-dia frizzante” di successo) con gli stessi attori, le stesse attrici, tutti appartenenti a una determinata categoria estetica dominante (“i belli”) e a una determinata età anagrafica (“i giovani”), la nostra coscienza ci obbliga 3
  • 4. a protestare, a ribellarci e a porci, insieme al pubblico, una serie di domande. Come imprimere un cambiamento al cinema, andan-do nella stessa direzione del Teatro Valle, ovvero co-struendo uno scenario diverso per il suo futuro, che tuteli non solo lo stesso Teatro Valle ma il teatro in generale come bene culturale collettivo? Come si può rendere il cinema un bene culturale col-lettivo, senza ricadere nelle pastoie della logica “pub-blica” dei finanziamenti statali, dei vari articoli 28, 8, delle commissioni che si riuniscono, dell’amico che ti può dare una mano durante la discussione della sce-neggiatura da finanziare, delle produzioni che nasco-no solo per “gestire” un finanziamento di un film che non uscirà mai e che se uscirà sarà comunque senza una distribuzione decente. Forse la soluzione si potrebbe trovare in una famosa frase di Angelo Guglielmi, il direttore che creò la Rai Tre che ha innovato il nostro panorama televisivo, «la cultura non è una cosa ma una maniera di fare le cose». E quale può essere questa maniera nuova, in-novativa di fare le cose? Una nuova legge? Una nuova normativa, nuovi meccanismi? Innanzitutto una legge che consenta al cinema di ave-re risorse non legate direttamente alla legge finanzia-ria, quindi ai voleri delle varie cricche e commissioni d’affari, ma legate a un meccanismo di finanziamento autonomo. Sul piano normativo, la legge che finanzia il cinema avrebbe potuto pure funzionare nel contesto in cui era stata prodotta, perché istituiva di una commissione composta da tutte le figure professionali e sindacali del mondo del cinema che valutava le sceneggiature da finanziare. Ma da quando il legame e il patto di fiducia tra i cit-tadini e i partiti si è spezzato, da quando il cittadino non elegge più il suo candidato ma vota per una lista di “nominati” dalle segreterie dei partiti, da quando le nomine della commissione sono pura espressione dei partiti, ci ritroviamo personaggi molto discutibili a presiederle, personaggi che non hanno nessuna com-petenza ma sono solo i nuovi censori e dispensatori di favori per conto terzi. Come restituire il cinema agli italiani? Come innescare quel meccanismo di riappropriazione dei beni comuni che dai referendum del 12 e 13 giugno al Teatro Valle Occupato sta sorgendo come una necessità vitale nella società italiana? Come restituire il cinema italiano ai cittadini italiani, che ne sono i veri finanziatori? Come far sì che il cinema italiano sia gestito da veri produttori e non da appaltatori di denaro pubblico che il più delle volte, a fine produzione, vanno simpa-ticamente a casa con una nuova macchina di grossa cilindrata? Come permettere alla politica – quella vera, quella formata dalle passioni, dalle speranze e dagli ideali dei cittadini – di tornare a essere il motore della nostra società? Il cinema Bene Comune è quel cinema che i cittadini vogliono vedere perché affronta i nodi più spinosi della nostra società, come succedeva nel dopoguerra, è quel cinema che arrivava nei paesini sperduti dell’Italia ru-rale e che tutti andavano a vedere, perché sapevano che quel cinema aveva qualcosa da dire e non aveva paura di farlo. Il cinema bene comune è anche quel cinema che non è solo e unicamente “spettacolo” e “intrattenimento”, che non è solo una macchina per far soldi costruito sui gusti del pubblico, su emozioni preconfezionate e “già sentite”, ma è un cinema che vuole riflettere su sé stesso, sulla sua funzione e sulla società di cui è espressione. Inoltre la chiusura delle sale piccole e storiche nei cen-tri cittadini – come per esempio il cinema Metropolitan di Roma – a favore dei grandi multiplex, dove si con-centra il pubblico in cerca di cinema d’azione o d’eva-sione, sta cambiando il modo di fruizione del cinema: da esperienza “culturale” a esperienza di consumo di emozioni, lasciando sempre meno spazio al cosiddetto cinema d’autore, in favore di un cinema “industriale” – dove cioè i temi, le storie e il confezionamento delle emozioni sono gestite a tavolino, facendo tabula rasa di qualsiasi visione del mondo non collegata a uno stu-dio di marketing. Anche se il cinema “industriale” nel passato e nel presente continua a produrre capolavori, non è pensabile che rimanga il solo cinema esistente, ma questa purtroppo è la tendenza Il cinema Bene Comune – al contrario – dovrebbe es-sere un cinema adulto, parte integrante della nostra 4
  • 5. cultura, nostro specchio e nostro spauracchio. Questa funzione adesso è in parte realizzata dal cinema e dalla letteratura di genere, ma non possiamo pensare che non ci possano essere prodotti mainstream che non siano anche bei film. Perché oggi in Italia è inimma-ginabile un prodotto come Ultimo Tango a Parigi e perché non viene prodotto ogni anno un prodotto di-scutibile come La meglio gioventù, intriso di una rara consapevolezza della storia non tanto del nostro pae-se, ma dei suoi cittadini? Perché negli ultimi anni in Italia non è mai stato fat-to un film sgradevole – se non per quanto riguarda l’idiozia – che per esempio descriva le organizzazioni criminali o terroristiche dall’interno prendendo il loro punto di vista? Perché – soprattutto dopo il coperchio sollevato dall’allenatore Zdenek Zeman sul doping, sulle combine e sulla corruzione arbitrale pochi anni fa – non è mai stato fatto un film duro sul mondo del calcio e sugli interessi che lo regolano? Perché non esi-ste un film italiano – che non sia un pamphlet o un do-cumentario – sulla vita di Berlusconi o sugli scandali finanziari e sessuali della Chiesa Cattolica? La cultura cinematografica è stata quasi azzerata, e i film che meritano di essere visti si contano sulle dita di una mano; l’autore cinematografico è quasi completa-mente sganciato dalla società e il più delle volte resta impantanato in vuoti esercizi solipsistici. Il livello di conflitto su temi considerati “leggeri”, come l’amore o l’amicizia, è ampiamente superato dai fumetti. Perché la fantascienza, che è anche un’ottima opportunità per costruire potenti metafore che parlano della contem-poraneità, è così poco praticata in Italia? Perché gli autori non parlano più fra loro, perché non si scambiano storie, suggestioni? Perché non litigano ferocemente, perché in Italia non si scontrano due concezioni di cinema? Perché non è il cinema a colo-nizzare gli altri prodotti audiovisivi ma è il contrario? Perché – a parte poche eccezioni – in Italia le serie televisive e le soap sono sempre un’occasione perdu-ta e negli altri paesi abbiamo prodotti come Walking Dead, Lost, Dexter o Twin Peaks? Perché in Italia la formazione delle professionalità cinematografiche – soggettisti, sceneggiatori, regi-sti, direttori della fotografia, produttori, tecnici del suono, attori, truccatori, scenografi, segretari di edi-zione, montatori, tecnici degli effetti speciali e della post-produzione, eccetera – è delegata al solo Centro Sperimentale di Cinematografia, una struttura insuf-ficiente ed escludente, il cui compito sembra essere quello di riproporre le classiche gerarchie del cine-ma italiano, oltre a quello di mettere lo studente al centro di una rete di contatti che lo inseriranno nel mondo del lavoro? Senza addentrarci nella qualità della formazione, la riflessione che si può iniziare a fare sulla struttura di via Tuscolana è che è “sperimentale” solo di nome, ha pochissimi posti e oggi non favorisce certamen-te il ricambio di autori e professionalità; soprattutto non ha risorse, e quelle di cui dispone le consuma per la maggior parte nel suo mantenimento, essendo diventato un centro di scambio di favori e di mercato di posti di lavoro. Perché in televisione non c’è un dibattito sul cinema che non sia gestito da personaggi tipo Gigi Marzullo, Anselma Dall’Olio o – se va bene – Gian Luigi Rondi? Perché i registi di oggi che lavorano in Italia assomi-gliano più a piccoli carrieristi disposti a tutto che a persone che hanno qualcosa di importante da dire? Perché in Italia le cosiddette major sono soltanto due, Raicinema e Medusa? Benché la prima in alcuni momenti abbia sostenuto il cinema italiano e il do-cumentario, pur sempre nella logica delle clientele e delle conoscenze, in maniera cioè affatto trasparente, ci troviamo di fatto di fronte a un monopolio, allor-ché il padrone di Medusa controlla anche la RAI, e questo negli ultimi vent’anni è stato praticamente lo status quo. Perché alcune major americane non riservano una parte del proprio budget a produrre film che affron-tano temi assolutamente lontani dalle loro produzioni tradizionali, come per esempio la Columbia con Adap-tation (Il ladro di orchidee) di Spike Jonze? Perché non si rischia più? Com’è triste la prudenza! 5
  • 6. 6
  • 7. SOMMARIO Amarcord Com'è triste la prudenza Editoriale Introduzione e questionario Intervista a Mimmo Calopresti Intervista a Ettore Scola Intervista a Daniele Vicari Intervista a Massimo Gaudioso Intervista a Wilma Labate Intervista a Stefano Rulli Intervista a Daniele Segre Intervista a Roberto Andò Intervista a Andrea Segre Intervista a Luciana Castellina Com'è arrivato sugli schermi il primo film italiano sulla Grande Guerra Intervista a Roberto Silvestri Il cinema, il lavoro I- Cinema Dalla sintesi digitale a RCL Apulia Film Commission Milano 55,1 Cronaca di una settimana di passione Venezuela, la rivoluzione della settima arte La Nouvelle Vague romena Holliwood e l'ebreo combattente Cinema ed Ebraismo Cinema, bene comune Elenco Sostenitori / Librerie Tonino Guerra Teatro Valle Occupato Sandro Teti a cura della Redazione Ugo Casiraghi (n. 182 / 1959) Antonio Medici Sergio Bellucci Massimiliano Carboni Silvio Maselli Barbara Sorrentini Barbara Meo Evoli Daniela Mogavero Luigi Bruti Liberati Moni Ovadia Stefania Brai 1 2 9 10 12 16 22 25 29 31 38 39 42 44 46 48 50 54 57 60 64 66 68 70 72 76 84
  • 8. Proprietà editoriale © Nicola Teti & C. Editore Direzione, Redazione Amministrazione Piazza di Sant’Egidio, 9 Roma 00153 C.F. / P.IVA 00935990150 Tel.: 06 58 17 90 56 06 58 33 40 70 Fax: 06 233236789 info@calendariodelpopolo.it info@sandrotetieditore.it www.calendariodelpopolo.it www.sandrotetieditore.it ISSN: 0393-3741 Distribuzione: PDE s.p.a Stampa: Tipografia Facciotti Prezzo: € 9,00 Rivista Periodica Registrata presso il tribunale di Milano n.159 del 9/7/1948 Modalità pagamento: Bollettino Postale Versamento su c.c.p. n. 734202 intestato a Il Calendario del Popolo BONIFICO BANCARIO CC intestato a Nicola Teti & C. Editore Codice IBAN: IT91M0558401637000000000200 Direttore Responsabile Sandro Teti Art Director Laura Peretti Capo redattore Tommaso De Lorenzis Redazione Paolo Bianchi Impaginazione Antonio Maglia Ufficio Stampa Leonardo Giulioni Ufficio Abbonamenti Teresa Colistra Blog e Social Network Tommaso Sabatini Archivio Digitale Piero Beldì Hanno collaborato a questo numero: Ulderico Iorillo Francesca Turrisi Marco Monetta Comitato dei Garanti Zhores Alferov Piero Beldì Sergio Bellucci Luciano Canfora Franco Cardini Luciana Castellina Dario Coletti Guido Fanti Franco Ferrarotti Mario Geymonat Carlo Ghezzi Margherita Hack Emilio Isgrò Milly Moratti Diego Novelli Piergiorgio Odifreddi Mauro Olivi Leoluca Orlando Moni Ovadia Valentino Parlato Piercarlo Ravasio Guido Rossi Sergio Serafini Direttori Giulio Trevisani dal 1945 al 1969 Carlo Salinari dal 1969 al 1977 Franco Della Peruta Nichi Vendola dal 1977 al 2010 Fotografie Tutti i fotogrammi riprodotti in questo numero sono tratti dalla trilogia L’armata Brancaleone, Brancaleone alle Crociate (© Cecchi Gori) e La nuova armata Brancaleone di Mario Monicelli, a cui questo numero è dedicato, in occasione dell’anniversario della sua scomparsa, avvenuta il 29 novembre 2010. L'editore rimane a disposizione degli eventuali aventi diritto per le foto di Mario Monicelli presenti in questo numero. In copertina: Mario Monicelli a Firenze sul set di Amici miei (Archivio ANSA) Stiamo lavorando alla creazione di un archivio fotografico, filmico e cartaceo de Il Calendario del Popolo. Cerchiamo vecchie fotografie, anche non professionali, volantini, appelli, annunci e manifesti riguardanti la rivista o le edizioni de Il Calendario, la Teti Editore ed eventi a cui hanno partecipato (feste de l’Unità, banchetti, convegni, eccetera. Metteremo poi a disposizione, anche attraverso Internet, tutti questi materiali, che costituiscono la memoria storica del Calendario. Inoltre, se avete vecchi numeri de Il Ca­lendario e soprattutto degli Almanacchi, vi preghiamo di mettervi in contatto con la redazione, poiché stiamo ricostruendo l’archivio di tutti i numeri della rivista. Periodico associato all’Unione Stampa Periodica Italiana Il Calendario del Popolo è socio del Coordinamento Riviste Italiane di Cultura Ringraziamenti Archivio del Movimento Operaio di Roma Andreina Albano Giorgio Baraggioni Renzo Baraggioni Greta Barbolini Emiliano Chiusa Cineteca Lucana Pierangela Liuzzi Maria Minoletti Teti Paola Scarnati Per le riprese audiovideo di alcune interviste ringraziamo: Iacopo Venier Simone Bucci Roberto Pietrucci Le interviste sono disponibili sul sito www.libera.tv
  • 9. 9 EDITORIALE di Sandro Teti Cari abbonati e cari lettori, innanzitutto una buona notizia, anche se in parte amara, perché Nicola Teti non ha potuto gioirne: il gigante Mondadori del magnate Silvio Berlusconi è stato sconfitto in tribunale, anche in sede civile, sul caso del libro L’Oro da Mosca di Valerio Riva, nel quale mio padre veniva ripetutamente calunniato. Già dopo la condanna penale di Riva, Mondadori era stata costretta a rimuovere completamente le false accuse dalle successive edizioni del libro. Quella che abbiamo ottenuto in sede civile è una grande vittoria sul piano morale, etico e politico, anche se putroppo marginale sul piano economico. Desidero scusarmi con voi per il ritardo con cui ricevete questo numero de Il Calendario del Popolo, dedicato allo stato della cinematografia italiana. Lo sforzo che stiamo compiendo è grande, mentre le risorse – per numero di persone e mezzi economici – sono limitatissime. Questi ultimi mesi sono stati dedicati al pesante e oneroso trasferimento di tutto l’archivio storico e delle tirature dei volumi della Nicola Teti Editore, dal magazzino di via Rezia a Milano a un deposito di Pomezia (Roma), trasferimento a cui ho atteso personalmente con i collaboratori e i sostenitori della rivista, diviso tra il peso dei libri e l’emozione data dallo scorrere tra le mani di tutta la storia de Il Calendario. Purtroppo siamo stati costretti a effettuare questo trasloco per via dei costi di locazione non più sostenibili. Siamo impegnati a garantirvi per l’inizio dell’anno prossimo la consegna dell’ultimo numero del 2011, di cui è già iniziata la redazione. Recupereremo quindi il ritardo accumulato, sperando nella vostra comprensione. Nonostate tutte le difficoltà, siamo confortati nei nostri sforzi dai giudizi positivi che ci arrivano numerosi da più parti. Anche i consigli e le critiche dei lettori rimangono per noi un prezioso contributo, e vi invitiamo a scriverci numerosi. Stiamo continuando l’opera di messa in sicurezza di tutti i numeri de Il Calendario pubblicati dal 1945 a oggi, attraverso la scansione digitale. Stiamo prodigandoci per far conoscere in tutti i modi la rivista a nuovi lettori e possibili abbonati. Vanno in questa direzione le nostre iniziative nella distribuzione e diffusione: troverete infatti in questo numero un elenco di molte decine di librerie dove la rivista può essere ora acquistata. Inoltre abbiamo consolidato la presenza de Il Calendario del Popolo su Internet attraverso più canali, quali il nostro sito, il nostro blog, Facebook, Twitter e Flickr. Dal 7 all’11 dicembre Il Calendario del Popolo avrà un proprio stand alla Fiera dell’Editoria di Roma, dove il giorno 9 sarà presentato questo numero. Da quando, dopo la scomparsa di Nicola Teti, ci siamo presi il difficile impegno di rilanciare la rivista e dargli un nuovo orizzonte, molti storici abbonati hanno risposto all’appello. Nuovi lettori stanno leggendo queste righe. Tuttavia tanti tra di voi, pur avendo frequentato queste pagine per molti anni, non hanno ancora rinnovato l’abbonamento. A questi amici e compagni voglio dire che Il Calendario è cambiato – è vero. Non solo è cambiato nella veste grafica, ma ha coinvolto, nella stesura degli articoli, un ventaglio di intellettuali, politici ed esponenti della società civile, compresi operai e minatori – come nel numero 751, dedicato al Lavoro – che descrivono il complesso mondo di oggi dal suo interno. Ma tutto questo non ha in nessun modo intaccato la vocazione originale de Il Calendario del Popolo, che è quella di essere strumento di divulgazione, di salvaguardia della memoria storica e di difesa dei valori della Resistenza e della Costituzione. Rinnovo pertanto l’appello a lettori, abbonati vecchi e nuovi, a sottoscrivere l’abbonamento per il 2012 e a diffondere la rivista come facevano, tanti anni fa, i “calendaristi”, autentiche staffette della Cultura.
  • 10. 10 INTRODUZIONE Nel progetto di diffusione della cultura popolare, sostenuto da Il Calendario del Popolo nei sessantasei anni della sua storia, il cinema ha costituito un imprescindibile oggetto di ricerca e analisi. Era la fine degli anni quaranta. L’Italia si lasciava alle spalle l’incubo della guerra. La fatica della ricostruzione già volgeva al Miracolo economico e ai fasti scoppiettanti del Boom, che saranno tali solo per una parte della società italiana. Nei cinematografi, intanto, esplodeva il fenomeno del neorealismo. Comincia in quel periodo la collaborazione di Ugo Casiraghi con Il Calendario del Popolo. Da lì in avanti, la riflessione sulla cinematografia – italiana e internazionale – passerà dalla sua penna acuta e raffinata, impermeabile a postulati dogmatici e vezzi di provincia, sempre capace di collegare l’interpretazione dello stile artistico alla lettura dei rapporti sociali ed economici. Sei decenni più tardi Il Calendario del Popolo dedica un numero monografico alle tendenze della filmografia del Belpaese. Lo fa con la curiosità dell’indagine più che col piglio sicuro dell’asserzione, proponendo i risultati di un’inchiesta sul campo che ha coinvolto registi, sceneggiatori, critici ed esperti in un dialogo polifonico e in un ragionamento aperto sullo stato dell’arte. Ai nostri interlocutori abbiamo chiesto di misurarsi con i nodi irrisolti e i motivi cruciali della produzione cinematografica contemporanea, all'incrocio tra questioni antiche e nuove urgenze. Partendo dalla prassi dell’“impegno”, l’engagement, abbiamo provato a riflettere sulla rappresentazione critica della realtà e delle sue contraddizioni che – da qualche tempo – sembra animare la renaissance del cinema italiano. In quest’ottica era inevitabile esplorare i rapporti tra cinema di finzione e documentario, mentre la televisione continua a imporre i dogmi del reality e del «tempo reale». Il discorso ci ha portato lontano, avanti e indietro nel tempo: dalla grande fabbrica, la cattedrale del “secolo breve”, ai mille rivoli della produzione post-fordista e del lavoro precario, dalle poetiche novecentesche alle nuove frontiere dell’innovazione tecnologica, lungo le dorsali della rete telematica, nelle mille pratiche di fruizione e condivisione dei prodotti dell’ingegno. Abbiamo cercato di cogliere le trasformazioni di un genere come la commedia, capace di dominare una leggendaria stagione della nostra filmografia prima di consegnarsi agli stereotipi del filone sentimentale o generazionale. Gli assetti produttivi e le concentrazioni distributive del settore, insieme alla sconfortante mancanza di politiche pubbliche, hanno rappresentato un’altra, inevitabile occasione di confronto, rivelandosi metafore dei vizi oligopolistici e delle disposizioni straccione del capitalismo italico. Infine, era davvero impossibile non rievocare la lezione di un oppositore irriverente e tenace come Mario Monicelli. A un anno dalla morte, abbiamo menzionato quella «rivoluzione», a cui continuò a invitare fino alla fine, per cogliere l’apporto che l’arte può offrire al mutamento del reale. Monicelli sapeva quanto costa il riscatto. È «doloroso», diceva. E aggiungeva: «L’Italia affronti il dolore sennò vada in malora». Lo ricordiamo con le parole che, lo scorso autunno, campeggiavano sugli striscioni del movimento studentesco: «Ciao, Mario, la facciamo ‘sta rivoluzione». Proprio da un’indimenticabile pellicola di Monicelli, L’armata Brancaleone, abbiamo mutuato la selezione iconografica: non solo come giusto tributo, ma nella convinzione che quella miscela d’ironia e crudezza, miseria e ingegno, cialtroneria e vitalità, rimanga la più puntuale autobiografia di una nazione chiamata Italia. Mentre chiudiamo questo numero, si conclude la permanenza di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi. Termina, com’era cominciata diciassette anni fa, l’avventura del tycoon che voleva governare un Paese come si amministra un’azienda. Termina con un videomessaggio trasmesso dalle televisioni: inquadratura bloccata, monologo e ancora bugie. Di certo non s’incrina il senso comune sedimentato dalla mutazione antropologica che, all’alba degli ottanta, consegnò l’Italia all’analfabetismo iconico e al soliloquio della videocrazia. Alla fissità di quest’ultima ripresa, incorniciata dal piccolo schermo, speriamo di sostituire – col tempo – i campi lunghi e i controcampi di una democrazia rinnovata.
  • 11. 11 QUESTIONARIO Oggi è ancora possibile parlare di cinema impegnato? La realtà è tornata al centro della cinematografia italiana più attenta alle contraddizioni dell'esistente. Si può parlare di "neo-neorealismo"? Quanto incide la mancanza d'una vocazione industriale nel circuito cinematografico e quanto pesa l'oligopolio della distribuzione? Come spieghi l'ostilità che l'Italia berlusconiana ostenta nei confronti del cinema? È possibile immaginare un'inversione di tendenza? E quale prospettiva dovrebbe orientare le nuove politiche pubbliche per il cinema? Il nostro cinema è stato reso celebre dalla commedia, capace di offrire caustiche rappresentazioni della realtà. Più tardi quel genere è andato appiattendosi su stereotipi sentimentali e generazionali. Cos'è accaduto alla commedia italiana? Mario Monicelli diceva: «Ci vorrebbe un'altra rivoluzione». Sei d'accordo? E il cinema può cambiare il mondo?
  • 12. 12 Credo di no, perché il Novecento è finito. Siamo in un’altra epoca in cui la definizione di impegno è tutta da rielaborare. Forse, oggi il problema è proprio questo: dare una risposta all’interrogativo. Credo, comunque, che si tratti di qualcosa in divenire. Sono profondamente legato al documentario. L’ho praticato e lo pratico con estrema libertà, e anche più spesso del cinema di finzione. Credo che non esista alcuna differenza in termini di valore intrinseco. Possiamo perfino ipotizzare che un giorno il documentario finirà per diventare il cinema tout court e magari quello di finzione non passerà più nelle sale. Lo sviluppo di nuovi canali di circolazione dei contenuti produrrà dei mutamenti radicali. Il documentario potrebbe diventare, in virtù delle sue specificità visive, il vero prodotto per il grande schermo. Quindi, soprattutto in questo momento, la distinzione tra le due forme espressive è destituita di ogni fondamento. Un altro aspetto che occorre valutare è la fruizione di massa a livello televisivo. In quel contenitore indifferenziato, nel frullatore televisivo, cinema di finzione e documentario annullano le loro specificità. Nei margini del piccolo schermo, il cinema come grande spettacolo – colto e popolare, insieme – smarrisce la sua essenza. Difficile da dire. Non esiste una “scienza” o un criterio oggettivo. Dal mio punto di vista un buon documentario è quello capace di vivere la realtà che racconta. Il grande documentarista è colui che riesce a mettere le mani nella merda di tutti i giorni. Questa aderenza a una realtà controversa e contraddittoria è – per necessità – meno intellettualistica di quella praticata dal cinema di finzione. Un tema fondamentale dei miei lavori è la memoria, perché ritengo che il racconto della realtà non possa eludere il confronto col passato. Memoria e adesione al reale – a mio avviso – devono procedere intrecciate, insieme al profondo rispetto per gli altri di cui si narrano le storie. Non credo alla definizione di “neo-neorealismo” e vorrei che ci liberassimo dalla costrizione di formule e gabbie. Vedo una profonda trasformazione in atto e quindi penso che dovremmo evadere dagli schemi precostituiti. È chiaro che il neorealismo rappresenta un momento cruciale della nostra storia. Tuttavia, quando si fa cinema, si lavora per definizione sul futuro, proiettati in avanti. Ecco perché le definizioni non mi convincono. Dovendo descrivere questa fase, è impossibile non riscontrare la centralità della rappresentazione realistica. Non possiamo farne a meno, perché sono aumentate in maniera esponenziale le fonti dell’informazione. Ad ogni modo occorre stare attenti, perché la televisione offre un grado zero di rappresentazione della realtà nella forma del reality. Per questo, quando penso al cinema, penso a uno strumento che ti proietta in avanti: non basta raccontare una realtà, bisogna porsi il problema di come trasformarla. La TV è impermeabile a questo tipo di tensione, interessata a una meccanica restituzione dell’esistente da confezionare per uno spettatore complice. La televisione non regge il vero realismo. A Torino mi è capitato d’incontrare Danis Tanović, il regista di No Man’s Land. C’erano a confronto due nostri documentari, realizzati negli anni del conflitto nei Balcani. Lui aveva raccontato la storia di un mutilato di guerra che riabbracciava la sua famiglia. C’erano scene fortissime che la televisione non potrebbe sostenere. Io, invece, avevo narrato le vicende dei profughi che fuggivano da quella guerra e arrivavano in Italia. Erano storie terribili e quasi intervista a MIMMO CALOPRESTI Regista, sceneggiatore e attore, presidente dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico fino al 2010. Suoi i film: Preferisco il rumore del mare (2000), La felicità non costa niente (2002), L’abbuffata (2007). Ha scritto con Mario Monicelli il suo ultimo lavoro La Nuova Armata Brancaleone (2010). Impegno Che differenza c’è tra raccontare la realtà attraverso il documentario e rappresentarla attraverso la finzione narrativa? Il documentario è una forma espressiva minore o un altro punto di vista? Quali sono le caratteristiche di un buon documentario? Neo-neorealismo
  • 13. 13 mi ero dovuto censurare per renderle fruibili dalla televisione. Lo spettatore al cinema ha una soglia di sopportazione assai più elevata rispetto a quello della televisione, permettendoti maggiore libertà. La TV ha modificato complessivamente la fruizione dell’immagine, finendo per condizionare tanto il cinema di finzione quanto il documentario. Non credo che esista un problema di censura preventiva. Certo, gli anni settanta sono un periodo molto delicato, ma la questione non riguarda una limitazione della libertà a monte. In questi anni, Ne La seconda volta, a metà dei novanta, ti sei misurato – prima di altri – con un periodo delicato come gli anni di piombo. Esiste un problema di censura - autocensura dei cineasti italiani su temi scottanti o periodi controversi? per dire, volevo raccontare la storia di Guido Rossa, ma sono stato preceduto. Probabilmente si dubitava che potessi narrare la vita di un comunista secondo i crismi della sinistra più ortodossa. In questo caso, la censura non è venuta dall’esterno, ma ha agito dall’interno, per così dire. Spesso, nel confrontarsi con certe questioni e determinati periodi, si indulge al romanzesco, smarrendo il filo della realtà. Trovare il giusto punto di mediazione tra finzione e accadimenti reali è complicatissimo. Ne La seconda volta penso di esserci riuscito. Sono partito da eventi reali. Ho frequentato Liviana Tosi, militante di Prima linea in regime di semilibertà, che mi ha raccontato la storia a cui è ispirato il film: l’incontro con un uomo a cui aveva sparato vent’anni prima e di cui non aveva il minimo ricordo. A mio avviso, non c’è un problema di censura, ma una difficoltà oggettiva di confrontarsi con una stagione irrisolta come gli anni di piombo. Col tempo mi sono convinto che quella non fu una guerra civile. La vera tragedia shakespeariana sta nella vicenda di Guido Rossa, nei proiettili esplosi per assicurarsi il monopolio sull’identità di veri intervista
  • 14. comunisti. Raccontare il terrorismo da questa particolare angolazione – senza retorica – sarebbe stato particolarmente interessante. Industria e Distribuzione In assenza di strutture produttive serie, capaci di confrontarsi – e scontrarsi – con il sistema di distribuzione, finiscono per prevalere inevitabilmente gli interessi consolidati. È come per il sindacato. Se c’è una produzione forte, allora è possibile contrattare determinate condizioni. Il nostro circuito, purtroppo, è vecchio. Manca di vocazione industriale e capacità finanziaria. Il cinema italiano da questo punto di vista ricorda un manufatto indefinito, qualcosa che manca sempre la condizione di prodotto finito, ed è facilmente orientabile dai guadagni facili. Se va bene la commedia, allora s’impone la monocultura della commedia. Da questo punto di vista, il circuito cinematografico riproduce i peggiori vizi del sistema economico italiano. Cinema e Stato 14 Le due cose rappresentano una combinazione disastrosa. La mancanza di vocazione industriale determina l’oligopolio distributivo. Mi piacerebbe rispondere che sono contrario, ma credo che gli interventi pubblici siano opportuni se vincolati a obiettivi precisi: ad esempio, a supporto della formazione. Il cinema non lo si impara nelle scuole. Bisogna esordire, produrre opere prime. Sono favorevole a finanziare i giovani per affrancarli dai vincoli di mercato. Non sono favorevole a un cinema di stato, ma credo che si possa fare del cinema insieme allo stato. Il principio, del resto, vale – o dovrebbe valere – per tutti i settori economici. Se un settore è in crisi andrebbe supportato da una politica industriale seria. Se la politica pubblica è indirizzata in questo senso, va benissimo, perché avere trenta autori che producono cento film all’anno non m’interessa. Al contrario credo che sia strategico favorire tanti esordi, immettere sul mercato idee nuove. Peraltro, oggi i mezzi tecnici consentono di realizzare film a costi bassissimi. In questo senso le nuove tecnologie rappresentano una frontiera, anche se non basta una videocamera per fare cinema. E quindi la formazione è sempre più importante. A proposito dello sviluppo delle nuove tecnologie, cosa pensi della diffusione del cinema sul web? Che posizione hai rispetto alla libera circolazione dei contenuti? M’interessa molto. Negli Stati Uniti mi raccontavano di un incontro durante il quale un grande produttore, danneggiato dalla cosiddetta “pirateria”, rispondeva che – senza la libera diffusione dei contenuti – non avrebbe visto milioni di opere d’arte. La libertà di socializzare e condividere contenuti è sempre esistita nella storia della cultura. Se i miei film vengono scaricati dal web, alla fine sono contento. Non posso obbligare nessuno ad andare in sala, però posso costruire dei film per cui andarci ha ancora senso. E poi mi capita che i ragazzi mi vengano a incontrare al cinema dopo aver visto le mie cose sul web in un circuito virtuoso che implementa i vari tipi di fruizione. La libertà non va limitata. La libertà va vissuta. È stato un grande gioco, iniziato per sostenere l’agitazione degli studenti dell’Istituto per la cinematografia “Roberto Con Mario Monicelli hai realizzato La nuova armata Brancaleone. Raccontaci com’è andata. Rossellini”. Stavano facendo una lotta per difendere la scuola e ci contattarono chiedendoci un sostegno. E noi decidemmo di rispondere. Era bello vedere Mario cimentarsi con quei ragazzi, compiere un gesto quasi surrealista. E così facemmo La nuova armata Brancaleone: un piccolo video realizzato dagli studenti a supporto della lotta, con me e Monicelli presenti. Direi che è stato un atto di pirateria e il comandante della ciurma era proprio Monicelli. Alla sua età, rimaneva il più giovane di tutti noi. Sapeva stare nel mondo rivendicando una piena libertà. Ricordo quando lo chiamai l’ultima volta. Dovevo fargli un’intervista. Gli chiesi come stava e lui rispose: «Male». Non tollerava di non essere autosufficiente e aveva il coraggio di dire le cose che di solito nessuno dice. In più praticava questa vicinanza alle forme di protesta, anche a quelle non precostituite. Aveva una formazione socialista e diceva delle cose scomode anche a sinistra. In un mio lavoro intitolato Anch’io ero comunista, ho raccontato il PCI attraverso il cinema, chiedendo a certi registi come vedevano i comunisti e usando i loro materiali. Bertolucci, Monicelli e altri partecipavano alle campagne elettorali e conservavano una documentazione preziosa, girata con grande maestria, che colpisce per la sua modernità. Quella era una grande generazione di cineasti, capaci di mischiare avanguardia, cinema classico, cinema di botteghino, impegno politico. Ricordo una scena tratta dal materiale di Bertolucci, in cui un edile spiega agli artisti la sua vita in modo che la possano rappresentare. Ecco, questo era impegno. Alla fine Monicelli non l’ho intervistato perché non stava bene, ma nel film ho messo il pezzo di una registrazione che aveva fatto a Roma con gli
  • 15. 15 Succederà che questo schermo rimarrà nero, Succederà che questo schermo rimarrà nero, senza immagini, senza parole. senza immagini, senza parole. Monicelli e la Rivoluzione studenti. Beh, li attaccava frontalmente. Gli diceva che erano viziati, che i genitori gli compravano le case, che erano solo preoccupati di difendere il loro tenore di vita, lamentandosi, mentre c’è gente che deve lottare tutti i giorni per una casa. Insomma li bacchettava e aveva il coraggio di dire cose scomode. La cosa che mi ha sempre colpito di Mario era l’idea del gioco come momento di trasformazione della realtà. Ma proprio quella è la forza del cinema, che ti permette di giocare anche su cose serissime. Questa lezione, lui l’ha sempre praticata, aggiungendo – alla fine della sua vita – quel pizzico d’infantilismo che l’ha reso indimenticabile. Ci ho ripensato di recente in Calabria, vicino ai luoghi in cui Monicelli ha girato una parte del film. Ne L’armata Brancaleone Mario è riuscito a restituire una confusione particolare, unica. Ovvero quella condizione che permette ai cialtroni di esistere. Al sud domina, a metà strada tra realtà e finzione, il personaggio del fanfarone, la cui natura oscilla tra carica vitale e pose da guitto ignorante. Ecco, questa figura riassume e condensa la quintessenza dell’Italia. Sì, sono d’accordo, ma credo che la rivoluzione sia in atto. Molto dipenderà da come le persone la interpreteranno e la vivranno. È in atto una grandissima trasformazione. La “marcia dei morti viventi” organizzata dagli indignados americani è una roba potentissima, oltre che una citazione cinematografica eloquente. Io m’illudo che il cinema possa cambiare il mondo, ma non ne sono sicuro. Un giorno, però, ho incontrato Olmi che mi ha detto: «Continuiamo, perché il cinema cambierà il mondo». intervista Qual è la forza metaforica di un film indimenticabile come L’armata Brancaleone?
  • 16. 16 intervista a ETTORE SCOLA Credo che non abbia mai avuto senso parlare di un particolare tipo di cinema impegnato. C’è stato un cinema più strettamente politico in una stagione in cui esisteva ancora il PCI e venivano commissionati alcuni interventi. Per esempio ci si prestava a intervistare Berlinguer in occasione delle feste dell’Unità. In realtà, in termini generali si potrebbe dire che tutto il cinema è impegnato, perché – esercitando presa sul pubblico – produce comunque degli effetti e delle conseguenze. In questo senso, anche Walt Disney e perfino la farsa possono essere considerati forme espressive “impegnate”… Senza dubbio il grande cinema italiano è stato quello del neorealismo e della commedia all’italiana. Soprattutto il primo è stato una vera e propria rivoluzione capace di modificare schemi, tipo di produzione e forme di coinvolgimento degli autori. Per la prima volta dopo il fascismo, si capì che il cinema poteva essere un’altra cosa, che poteva raccontare un paese emerso dalla guerra, distrutto, da ricostruire. Per esigenze pratiche, per mancanza di mezzi, il neorealismo fu necessariamente un cinema d’invenzione. Mancavano gli studi per le riprese, le attrezzature, i macchinari. Per questo fu un fenomeno della strada, della presa diretta, con attori presi dalla vita di ogni giorno. Questa rivoluzione segnò il cinema di tutto il mondo e anche il cinema americano è figlio del neorealismo. Lo ripetono gli stessi cineasti d’oltreoceano. Figlia ed erede del neorealismo fu la commedia, dedita a un altro lato dell’uomo: al divertimento, alla leggerezza, all’allegria. Eppure dal neorealismo la commedia non mutuò solo la lezione formale del fare, ma anche la filosofia di Amidei e Zavattini che raccomandava di seguire l’uomo. Tutte le storie possibili sono dentro l’uomo e non c’è bisogno di cercarle con l’immaginazione o nel fantastico: basta conservare lo sguardo fisso sulla realtà. La commedia all’italiana ha rappresentato questo tipo Impegno Commedia
  • 17. intervista 17 di approccio sul versante satirico. Certamente, col tempo, è diventata una formula generica, buona per qualsiasi cosa: da Fellini a Franchi e Ingrassia. A un certo punto anche Pasolini fu ricompreso nel genere. La commedia ha duemila anni e non finirà mai. Attualmente le tematiche sono più legate al privato, ai contrasti generazionali. A mio avviso, oggi il genere non annovera film memorabili, benché ci siano delle eccezioni, s’intende. Per Sorrentino, per esempio, è possibile evocare la commedia all’italiana, ma non il neorealismo. Sorrentino – piuttosto – fa un cinema neoespressionista, impostato su una meritevole ricerca di linguaggi. Negli ultimi vent’anni la filmografia italiana ha rinunciato a questo tipo di ricerca, adesso invece c’è la produzione di “vocabolari” differenti e questo è un merito – tra gli altri – di Sorrentino. Comunque, la commedia continua e continuerà mutando ancora e ancora. Io non sono un sostenitore del passato. Ogni tempo si Regista e sceneggiatore - Breve filmografia: Se permettete parliamo di donne (1964), Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico mis-teriosamente scomparso in Africa? (1968), C’eravamo tanto amati (1974), Brutti sporchi e cattivi (1976), Una giornata particolare (1977), Ballando ballando (1983), La famiglia (1987), Gente di Roma (2003). specchia in qualcosa, ha la propria prospettiva, la propria musica, il proprio cinema. Ci sono stagioni, come quella odierna, in cui si procede in “pianura”. Ma anche la pianura serve, fa parte della natura, può esser fertile, dà frutti e fiori. Non ho nulla contro la pianura, ma è inutile cercarvi le vette di De Sica o di Fellini. Quella – semplicemente – era un’altra stagione. Non ho mai creduto a questa distinzione e non l’ho mai fatta mia. Per me e per molti miei colleghi, un imprescindibile punto d’arrivo fu proprio la capacità di conciliare il cinema d’autore, con le sue istanze autoriali ed espressive, le sue inclinazioni morali e le sue prese di posizione politiche, con un cinema di grande popolarità. Di sicuro esistono tendenze sperimentali, ma il cinema nasce e rimane un’arte popolare: anche – e soprattutto – quand’è sperimentale. Ha ancora senso distinguere tra cinema d’evasione e cinema d’autore? Attualmente i due generi si intrecciano?
  • 18. 18 Le vecchie borgate non esistono più. Ora esistono le periferie, che – in una città plurietnica e multiculturale come Roma – sono realtà composite, variegate, complesse. Se si è imborghesito, il borgataro ha cominciato a farlo proprio a partire dagli anni settanta, quando ha assorbito sogni e desideri del piccolo-borghese, consegnandosi al consumo. Al di là della piacevolezza della formulazione, non credo che il borghese si stia “imborgatando”, perché – per l’appunto – la borgata non è più una “meta”. Essa non ha più neppure una precisa collocazione. Nella città diradata, le borgate sono state assorbite, sono nati nuovi quartieri, altre propaggini. Sono emerse realtà differenti, accomunate dal fatto di aver abdicato alle cellule compositive, rinunciato a radici e culture proprie, per vivere intorno alla metropoli, per disporsi intorno al “grande banchetto”, contentandosi di poche briciole. Eppure si continua a rimanere ai bordi di quello che viene percepito come un “centro”, dove accadono le cose e si prendono le decisioni. Certo, anche altre città hanno periferie, ma Roma offre un ampio ventaglio delle possibilità di questo tempo. Piazza Vittorio è il quartiere dove sono nato: oggi è un quartiere orientale, che non per questo ha rinunciato alle abitudini e ai costumi dei romani. I cinesi si sono romanizzati, parlano romanaccio. Cultura, mentalità, costumi sono ormai in un cambiamento continuo e irreversibile. Direi di no. Si lavora su figure come il commissario Calabresi oppure su momenti complessi come il G8 di Genova. Mi pare ci sia una nuova tendenza dei Brutti, sporchi e cattivi tratteggia un indimenticabile affresco dei sobborghi romani. Trentacinque anni dopo sono le borgate che si stanno imborghesendo oppure è la borghesia che si sta “imborgatando”? Esiste un problema di censura - autocensura dei cineasti italiani su temi scottanti o periodi controversi come, per esempio, gli anni di piombo?
  • 19. 19 registi italiani a trarre ispirazione dalla realtà e dalla storia del proprio paese. Abbiamo vissuto un periodo negativo, segnato da un cinema brutto, fragile, tra gli anni ottanta e i primi anni zero, allorché dominavano film gracili, poco interessanti, spesso di taglio autobiografico, dedicati per esempio al Sessantotto e cristallizzati nel punto di vista del reduce. Il problema è che quel cinema non ha contribuito a produrre giudizi articolati, non ha messo davvero in discussione i passaggi complessi e neppure ha delineato una prospettiva forte. Da qualche tempo mi sembra che le cose stiano cambiando in meglio. La netta affermazione della televisione, sia sotto il profilo del potenziamento tecnico, sia come strumento di costruzione del consenso e di rafforzamento del potere, ha di certo inciso sul cinema. Prima di tutto sono i lunghi tempi di realizzazione che fanno del cinema un mezzo espressivo incontrollabile, più indisponibile a piegarsi alle necessità contingenti dei potenti e meno incline alle lusinghe del potere. Dal 1944, il cinema è sempre stato osteggiato dal potere. Oggi non si può parlare di vera e propria censura come ai tempi di Mussolini e del Minculpop o di Scelba e della Democrazia Cristiana. Tuttavia, esiste una forma più moderna di controllo, basata su tagli sistematici, comprese le ultime disposizioni sul Fondo Unico dello Spettacolo. La censura è, per così dire, finanziaria e da questa procede una sottile forma di autocensura in virtù della quale i giovani registi si orientano verso temi, schemi e soluzioni meno rischiosi: per esempio verso la commedia o verso le ambientazioni di un passato remoto o di un futuro improbabile. Rispetto alle contraddizioni del presente, invece, ci si muove con troppa cautela. Esiste un rapporto di causalità che, negli anni ottanta, ha legato l’affermazione delle televisioni commerciali al progressivo declino del cinema italiano? intervista
  • 20. 20 ebbe una distribuzione locale proprio grazie a certi proprietari di sale. Attualmente un paio di soggetti accentrano la distribuzione, dividendosi le pellicole e risultando sostanzialmente intercambiabili. Poi c’è qualcuno, come De Laurentis, che si specializza nella distribuzione di certi generi, ma certe soddisfazioni non lo incoraggiano a puntare su opere più impegnate o diverse, bensì a reiterare la formula del successo. Un tempo la distribuzione – perfino quella regionale – sapeva pesare anche sulle scelte realizzative. Per non dire dell’America, dove un film distribuito dalla Paramount era distinguibilissimo da uno distribuito dalla Metro-Goldwyn-Mayer. Esprimevano filosofie, prospettive e punti di vista diversi. Non è questione di essere favorevole o meno. È un elemento imprescindibile e obbligatorio. Qualsiasi Stato serio non può esimersi dall’investire nella cultura così come dovrebbe investire nella scuola e nella sanità. È quello Hanno sempre inciso e pesato, perché il cinema italiano non è mai stato un fenomeno industriale. Quando è nato il neorealismo non si parlava d’industria, al massimo di artigianato. Ognuno si faceva il suo cinema, inventando praticamente tutto: dalle luci alla pellicola. Si trattava letteralmente di un’attività manuale. Certo, ci sono stati degli imprenditori illuminati. Ma adesso anche quei pochi mi pare che abbiano lasciato il posto a dei contabili, gente che prima d’investire calcola il massimo margine di guadagno, puntando su televisioni e coproduzioni. Oggi non si può davvero parlare di industria cinematografica. Anche la distribuzione è un problema. Ho attraversato molte stagioni di cinema e ricordo un periodo in cui la distribuzione non esisteva neppure. C’erano degli esercenti locali in varie regioni che avevano coraggio e curiosità. Alcuni miei lavori sono stati distribuiti proprio da loro. Per esempio, Trevico-Torino, un mio film non di grande successo, Cinema e Stato Industria e Distribuzione
  • 21. che accade in paesi come la Francia o l’Inghilterra. Rinunciare a investimenti pubblici sarebbe come pensare di chiudere le scuole solo perché, in una certa annata, il rendimento degli studenti è stato particolarmente basso. Lo Stato non deve guardare all’esito commerciale dei film, deve garantire un servizio che è di sua competenza. Sono d’accordo sulla rivoluzione, meno d’accordo sul cambiare il mondo. Il cinema non ha mai cambiato nulla, però può – e deve – aiutare a comprendere il mondo. È la gente che, dopo aver compreso, deve provare a modificare l’esistente. Tocca al popolo, non al cinema. Per quanto riguarda la rivoluzione, è innegabile che se ne percepisca l’urgenza. Ma si tratta d’inventarne una nuova, fuori dagli schemi e diversa dai grandi mutamenti del passato. L’Italia non ha mai fatto una vera e propria rivoluzione. È tempo di farne una che sia dei giovani e che sappia guardare al lato luminoso della vita. Non si può continuare a ripetere: «Ha da passà ’a nuttata». Bisogna cominciare a pensare che «Domani è un altro giorno». Comunque vedo segnali incoraggianti, che lasciano ben sperare. Ho cominciato a leggerlo nel secondo dopoguerra, intorno al 1947-48. Carlo Salinari era mio professore al “Liceo Umberto” e quindi cominciai a interessarmi alla rivista grazie a lui. Non ostentavamo alcun atteggiamento di spocchia e non consideravamo Il Calendario del Popolo una rivista per operai o analfabeti. Coltivavamo il mito di Di Vittorio e leggevamo i suoi interventi sul quindicinale. Ho continuato a leggere la testata negli anni cinquanta e sessanta. Da giovane comunista figurava tra i miei riferimenti, insieme ai titoli degli Editori Riuniti e via dicendo. Ha senza dubbio contribuito alla formazione della mia generazione come “nutrimento” culturale. Leggeva Il Calendario? Ha conosciuto i suoi direttori storici? Monicelli e la Rivoluzione intervista 46
  • 22. 22 intervista a DANIELE VICARI Se la domanda si riferisce al cosiddetto “cinema d’impegno civile”, credo che Regista e sceneggiatore. Vincitore di due David di Donatello, nel 2003 come miglior regista esordiente con Velocità Massima e nel 2007 con il documentario Il mio paese. Breve filmografia: Il passato è una terra straniera (2008) Diaz. Non pulire questo sangue (2011). Impegno In Velocità massima (2002) in tutto il mondo ci siano registi che continuano instancabilmente a fare film incarnati nella realtà, critici e non accomodanti. È un fenomeno che è nato con il cinema e morirà con il cinema. Stesso discorso vale per l’opposto, il cinema cosiddetto “d’evasione”. Sono tendenze connaturate al mezzo che è nato come fenomeno da baraccone, non dobbiamo mai dimenticarlo, a fatica ha conquistato la nobiltà dell’espressione artistica. La verità è che le tendenze si mescolano a volte imprevedibilmente e meravigliosamente, e il più grande errore che possa fare un cineasta è rinchiudersi da solo in un recinto, anche se nobile come quello del “cinema d’impegno civile”. Oggi il cinema, dopo aver dominato senza rivali la scena dei media, svolge un ruolo meno rilevante, ma conserva lo scettro della creatività e della narrazione audiovisiva. In questo senso il “cinema d’impegno civile” ha una maggiore responsabilità che in passato: quella di portare lo sguardo laddove la televisione e gli altri media audiovisivi non possono o non sanno portarlo, cioè nelle zone d’ombra dell’animo umano e dell’organizzazione sociale. Da questo punto di vista la “pura denuncia” non regge più la sfida del grande schermo, perché il ruolo della denuncia si esaurisce nell’incredibile velocità dell’informazione in tempo reale, basta pensare alle riprese effettuate con i telefonini dai manifestanti della primavera araba, che all’istante finiscono nella rete allertando il mondo intero, scavalcando censure feroci e pericolosissime. I “film di denuncia” non possono più solo essere tali, devono essere sempre più complessi, meno schematici. Questi film, senza perdere la capacità di comunicazione, devono andare sempre più al fondo dei fenomeni che rappresentano, cioè devono partire dalla denuncia e approdare in territori meno cronachistici, altrimenti sono inutili. Sono almeno due decenni che si parla di “neo-neorealismo”. Ma la definizione secondo me non regge se non in termini genericamente morali. Il neorealismo è stata una delle avanguardie cinematografiche più importanti e influenti hai raccontato gli scorci d’una Roma obliqua e sotterranea: quella delle corse clandestine. Quale “realtà” sta al centro della tua cinematografia? della storia del cinema (insieme al cinema russo degli anni venti, alla Nouvelle Vague francese e alla New Hollywood degli anni settanta). Dentro questa avanguardia si sono fuse varie tendenze cinematografiche che, a ridosso del boom economico, si sono dissolte e hanno dato vita al fenomeno degli “autori”. Noi siamo in una fase storica che certamente ha bisogno di una nuova spinta “morale” e artistica, ma temo che, se non si individua una strada davvero innovativa e incisiva, non si potrà parlare di una nuova “ondata”. Ciò non esclude che ci siano o possano esserci dei grandi autori all’altezza dei “padri” del neorealismo. Il nostro cinema sta scandagliando la “realtà” a trecentosessanta gradi. Credo che l’aggancio con la realtà l’abbiamo certamente ritrovato. È per questo che il cinema italiano, con tutte le sue difficoltà e insufficienze, dà ancora fastidio ai padroni delle ferriere. La questione di fondo però è: le opere che stiamo realizzando sono all’altezza del compito? Beh, ho già accennato a questo argomento nella prima risposta. Dal mio punto di vista non esiste mai una separazione netta tra generi e tendenze, se non nella produzione seriale. I generi sono la tavolozza sulla quale il regista mescola i colori. E qui entrano in gioco due cose: la libertà espressiva e la capacità artistica di ciascun cineasta. Il Con Il passato è una terra straniera (2008) hai scan-dagliato la Bari segreta del gioco d’azzardo, portando sul grande schermo il romanzo di uno scrittore come Gianrico Carofiglio, ritenuto un esponente della crime story italiana.Cinema d’evasione e d’autore si intrecciano o si distinguono ancora?
  • 23. 23 cinema contemporaneo deve poi fare i conti con un pubblico davvero sfuggente, che reagisce a pulsioni imprevedibili, a volte dettate da dosi massicce di marketing, altre volte da sotterranei sommovimenti che portano in sala persone che normalmente non ci vanno. Il più delle volte il pubblico contemporaneo si sente respinto dai film “impegnati” o “d’autore”. Questi fenomeni non possono lasciarci indifferenti, bisogna comunicare con gli spettatori, accettare la sfida, individuare un pubblico, altrimenti si smette semplicemente di fare il cinema. Oppure si deve avere il coraggio di fare scelte radicali come quella di Corso Salani: fuori da ogni schema, fuori da ogni sistema. Con tutti i rischi di marginalità e anche di mancanza di mezzi che comporta. Nella marginalità non è detto che non si possano fare grandi cose, basta pensare a Jean Vigo. Nel mio piccolo io perseguo la strada opposta, non disdegno il confronto con modelli narrativi di “genere”, e con il “sistema” produttivo, prima di tutto perché il cinema è il mio mestiere, per me non è una missione astratta, poi perché ritengo che certi modelli non siano né esauriti, né scandagliati fino in fondo, né tantomeno ingabbianti se frutto di una scelta libera e consapevole. Il cinema “dei generi” non è un fenomeno commerciale e basta, altrimenti dovremmo buttare alle ortiche l’esperienza di cineasti come Kubrick, Scorsese, Cronenberg, i Cohen e molti altri che, in un continuo “dentro-fuori” con i generi, hanno rivoluzionato e rivoluzionano il cinema. Provo a fare un ragionamento a ruota libera. Secondo me il problema principale è la mancanza di coraggio da parte di autori e produttori. Se queste due categorie prendono in mano il loro destino, si può parlare di tutto, non c’è al mondo nessuna entità che possa fermare o deviare un progetto ben strutturato, a meno che il regista o il produttore non siano disposti a mollare o non vengano eliminati fisicamente come si fa in Iran, dove i cineasti finiscono in galera come fossero assassini o stupratori. Che poi ci siano soggetti che non hanno piacere che si trattino certi argomenti non c’è dubbio, ma questo fa parte della normale dialettica che deve esserci tra Titti e Gatto Silvestro: se non c’è la dialettica non c’è la storia. Purtroppo noi molto spesso tra Titti e Gatto Silvestro scegliamo la Nonnina che vuole farli convivere a ogni costo, e finiamo per fare film indecisi e fragili. Non c’è dubbio poi che i dirigenti delle grandi società che dovrebbero avere come scopo quello di finanziare bei film e realizzare grandi incassi a prescindere dall’appartenenza ideologica del regista, siano molto sensibili ai temi che possono dar fastidio a chi comanda. Ma altrettanto importante è il fenomeno delle “vestali”, delle verità assolute che si appropriano di fatti e pezzi di storia, ne fanno quando va bene una missione e quando va male un mestiere, e allora tutto si cristallizza in dibattiti stucchevoli su chi ne sa di più e chi ha diritto di parlarne e chi no, così la libertà di interpretazione di un fenomeno va a farsi benedire ancora prima che un film venga realizzato. Questo problema però riguarda anche la produzione legislativa e persino quella industriale. L’Italia, tra veti incrociati e lotte intestine, sta dando uno spettacolo desolante dinanzi al mondo intero: ecco che i diritti civili o la costruzione di un inceneritore diventano casus belli che durano decenni, senza che nessuno si prenda la responsabilità di proporre soluzioni serie ed efficaci. Per tornare al cinema, qui da noi può facilmente verificarsi il fenomeno tragicomico dei film di cui si è solo parlato ma che non ha mai visto o non vedrà mai nessuno. Per me esiste “il luogo” solo come “personaggio” del film. Se un luogo non vive e non significa, Hai appena finito di girare Diaz. Non pulire questo sangue. Il G8 di Genova è uno dei coni d’ombra della recente storia italiana. Pensando a ciò che è accaduto con La prima linea di Renato De Maria, credi che ci sia un’avversione nei confronti di chi tenta di narrare determinati momenti del passato? Quanto conta l’aderenza ai luoghi nel tuo approccio al cinema? intervista
  • 24. 24 In Europa nessun paese ha abolito il finanziamento pubblico per il cinema, ma in tutti i paesi si è sviluppato un sistema Cinema e Stato produttivo basato su un mix di finanziamenti. Il presupposto per il buon funzionamento di questo mix è la limpidezza assoluta del percorso produttivo e distributivo dei film. Mi chiedo da molto tempo chi da noi ha davvero interesse a fare chiarezza. Basta veramente poco per far sì che il cinema finanzi sé stesso, attraverso lo sbigliettamento, una tassa di scopo, un sacrosanto obbligo per le TV di finanziare i film visto che spolpano il cinema vecchio e nuovo in ogni modo. Mario era un uomo dolcissimo e intelligentissimo, di sicuro non si sarebbe stupito se gli avessi chiesto: Monicelli e la Rivoluzione «scusa, ma qual è la prima?» Non saprei se il cinema può cambiare il mondo, di certo può contribuire a addormentare le coscienze o a svegliarle, dipende però anche da quanto sonno hanno queste coscienze. magari va benissimo per andarci in vacanza ma non va bene per il cinema. Industria e Distribuzione Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe un trattato di storia economico-politica del cinema italiano. Siccome l’ultima impresa di questo genere la fece il dimenticato Lorenzo Quaglietti, mi limito a dire tre cose banali: 1. In Italia ci vuole una seria normativa “antitrust”. Questa cosa è più urgente della legge sul conflitto di interessi, perché l’Italia è il paese degli oligopoli. La quotazione dei diritti per la TV dei film italiani la fanno due o tre soggetti, che generalmente sono d’accordo fra loro nel tenerla talmente bassa che nessun produttore può farci conto per produrre un film (problema che non tocca le nobildonne dell’Est Europa). Addirittura può succedere, a causa di questo oligopolio, che un film di grande successo commerciale oltre che di enorme successo critico come Il Divo non venga acquistato da nessuna televisione per due anni, finché La7 non decide di mandarlo meritoriamente in onda, ma con una valutazione economica ovviamente commisurata alla dimensione della rete. Ecco che il produttore la prossima volta ci penserà bene prima di impegnarsi per una cifra che il “mercato” italiano non mette a disposizione. 2. In Italia, nei posti dirigenziali come in quelli intermedi, ci vuole gente che si assuma la piena responsabilità delle proprie scelte, delle proprie opinioni e dei propri errori, altrimenti non usciremo mai dal pantano in cui siamo. Questo vale purtroppo per quasi tutti i settori dell’apparato pubblico e privato, quindi anche per il cinema. 3. Una seria industria cinematografica ha bisogno di un quadro normativo che renda agevole realizzare vendere e distribuire film di ogni genere, forma e dimensione. Il quadro legislativo che abbiamo in Italia fa il mestiere contrario, complica. E complica davvero molto.
  • 25. intervista 25 intervista a MASSIMO GAUDIOSO Essendo cresciuto in un’epoca in cui la parola “impegno” era pane quotidiano, Impegno non posso dire – soprattutto a posteriori – di non averci mai creduto. Finita l’infatuazione, però, e con l’esperienza maturata nel tempo, posso affermare che, quando sento parlare di cinema impegnato oggi, avverto qualcosa che non mi piace affatto. Preferisco parlare di cinema fatto bene, con onestà, passione e competenza: ecco, se c’è un impegno, è quello morale con sé stessi e con la materia che si decide di raccontare. È difficile parlare di una sola realtà, oggi come sempre, le realtà che Neo-neorealismo vengono rappresentate nel nostro cinema sono molteplici così come molteplici sono le interpretazioni di quelle realtà e gli stili, i linguaggi con cui vengono rappresentate. Quando ero un semplice spettatore non riuscivo a comprendere le suddivisioni in categorie, anche se ammetto che mi aiutavano a distinguere uno stile, un approccio da un altro; ora che il cinema “lo faccio” sono diventato ancora più refrattario alle categorie, non riesco a riconoscermi in nessuna di esse. Il termine neo-neorealismo non so cosa sia, di sicuro non è una definizione che userei per i film che ho fatto, nemmeno quelli fatti insieme a Matteo. Ma se s’intende che nella scelta e nella creazione di una storia non sono uno che ama viaggiare di primo acchito con la fantasia ma preferisce prendere spunto dalla realtà, dalle cose che vive o che conosce, allora va bene. Quando faccio un film devo conoscere a fondo la realtà che racconto, mi sembra una cosa normale o perlomeno è una cosa che faccio naturalmente. Se è una realtà che non conosco ma suscita per qualche motivo il mio interesse allora mi ci devo compenetrare completamente. Non ho una grande fantasia, o meglio non ce l’ho durante la costruzione di uno scenario o dei personaggi, preferisco “appoggiarmi” alle cose che conosco, al mio vissuto o a quello di qualcun altro. Se, come spesso succede, si tratta di realtà che non conosco, cerco di farle mie, di conoscere le problematiche dei vari personaggi che ne sono protagonisti, le loro contraddizioni, i sogni, le paure, le motivazioni che li spingono a compiere determinate azioni, insomma tutto quello che mi può aiutare a farli agire in un modo “naturale” e ovviamente in questo rientrano anche i paesaggi, gli ambienti in cui vivono... Che vuol dire autorialità più aperta? Che non c’è un solo autore? Certo, il cinema è un’arte collettiva nel senso che è il risultato di diversi contributi “artistici”; ci sono gli autori della sceneggiatura, della fotografia, del suono, del montaggio, delle musiche… e naturalmente c’è il regista, che sceglie i suoi collaboratori, il progetto da realizzare e gli dà la sua impronta decisiva durante tutte le fasi di lavoro, a cui danno il loro contributo creativo i suoi collaboratori. Io amo fare quello che faccio: in un certo modo credo sia lo stesso approccio al cinema che ha Matteo, per questo ci siamo subito trovati, perché avevamo delle affinità nel modo d’intendere questo mestiere, di pensare e di fare un film, che è un approccio sicuramente diverso da quello di altri… non migliore né peggiore, solo diverso. La nostra non è una relazione esclusiva, lo diventa però nel momento in cui decidiamo di intraprendere una nuova storia che è un po’ come partire insieme per un viaggio. Quando faccio film con altri registi cerco innanzitutto di ricreare la stessa intesa che ho con Matteo, ma non è così facile trovare sempre Quanto conta l’aderenza ai luoghi, alle città, l’interesse per la più remota provincia italiana, nelle tue sceneggiature? Regista, sceneggiatore e attore, vincitore del David di Donatello 2003 per il soggetto per L’imbalsamatore con Ugo Chiti e Matteo Garrone (Garrone, 2002), firma la sceneggiatura di Gomorra (Garrone, 2008). È regista de Il caricatore (1996), Un caso di forza maggiore (1997), La vita è una sola (1999). La scrittura cinematografica presuppone un’autorialità più “aperta” di quella let-teraria. Come influisce sul tuo lavoro il rapporto privilegiato con Matteo Garrone? In che termini l’occhio del regista e le attitudini degli attori mutano lo script?
  • 26. 26 delle persone con cui sei in perfetta sintonia, delle cui scelte ti fidi ciecamente, a cui non devi spiegare il motivo per cui fai o dici una determinata cosa. Una sceneggiatura subisce sempre delle modifiche durante le riprese. È inevitabile. Un film viene riscritto sul set e ancora una volta durante il montaggio, io la penso così ed è una cosa che accetto, non ho la tipica frustrazione dello sceneggiatore che resta sempre deluso dal risultato finale e pensa: “io non l’avrei fatto così”. Insomma… diciamo che mi succede meno quando lavoro con Matteo perché so esattamente come lavora e quello che vuole, anzi quello che non vuole, e quasi sempre lo condivido… Per questo cerco di essere presente il più possibile anche durante queste due fasi del lavoro. L’occhio del regista conta eccome! Nel caso di Matteo questo è ancora più evidente dal momento che lui è anche l’operatore alla macchina dei suoi film e poi ama girare le scene in ordine cronologico, modificando la dinamica della storia giorno per giorno se necessario o perlomeno seguendo le suggestioni che derivano dalla realtà dei posti e, perché no, anche dalle attitudini degli attori. Quindi sono sempre pronto a “riscrivere” quella che è diventata per sua natura una cosa diversa da ciò che avevamo scritto. Il libro di Roberto era talmente vasto che ci siamo subito resi conto dell’impossibilità di farne un solo film. Questa è stata la nostra fortuna, perché abbiamo deciso in pochissimo tempo che strada prendere e Quali difficoltà hai incontrato nell’adattare per il grande schermo un libro sfuggente e inclassificabile come quello di Roberto Saviano? Perché nella trasposizione filmica avete modificato l’inquietante scena iniziale al porto di Napoli con una concitata sequenza di conflitto a fuoco in stile gangster movie? cosa lasciare fuori. Con Matteo ci siamo subito trovati d’accordo nell’eliminare il personaggio che fa da collante nel libro, cioè il giornalista che gira in vespa (ovvero lo stesso Roberto), che con tutto il materiale che c’era risultava anacronistico. In quel modo era chiaro che non ci sarebbe stato né un protagonista, né un trait d’union ma tanti protagonisti e tante
  • 27. 27 storie. Siccome un film ti costringe (per la sua durata limitata) a delimitare i confini, e siccome a Matteo (come a me) piace soffermarsi sui personaggi – sulla loro umanità (o disumanità) – dilatare certi momenti, era naturale che restringessimo il campo a pochi personaggi e a poche storie, un po’ sull’esempio di Paisà di Rossellini (un film che abbiamo rievocato spesso). Anche la scelta dei personaggi e quindi delle storie è stata una naturale conseguenza di questo ragionamento e della nostra predisposizione verso l’aspetto “umano” piuttosto che quello politico-sociale. La scena iniziale al porto di Napoli è quella che ci ha fatto innamorare del libro (come credo sia successo a molti). Matteo ci teneva molto a metterla ma piano piano si è (o meglio, lo abbiamo) convinto che non aveva nulla a che vedere con il resto del film e come spesso succede l’immagine “ispiratrice” è scomparsa dal film. L’agguato iniziale invece era parte integrante della storia di ben tre personaggi – anche se inizialmente non era stato pensato così, Matteo è stato ispirato da quello che ha visto durante i sopralluoghi – oltre a essere una scena perfetta per introdurre il contesto in cui si svolgeva l’intero film. Lo conservo, certo, ma dal momento che non mi piace perseguire in modo monolitico un’idea lascio anche che prenda il sopravvento… è normale, nel mio metodo di lavoro, che questo succeda, ma forse più che prendere il sopravvento direi che la mia “ispirazione” è continuamente sollecitata da fattori esterni che attraverso un processo mentale tortuoso e spesso imprevedibile me la rendono un po’ alla volta sempre più chiara... Io ho sempre pensato che i grandi film popolari fossero anche grandi film d’autore, questo perché i film con cui sono cresciuto erano film di grande successo e solo in seguito ho scoperto che erano di Kubrick, Spielberg, Come autore conservi sempre il controllo sulla storia che stai narrando o a volte hai l’impressione che prenda il sopravvento? Ha ancora senso distinguere tra cinema d’evasione e cinema d’autore? Attualmente i due generi si intrecciano?
  • 28. 28 Coppola eccetera… Si trattava di film innovativi sul piano del linguaggio e dei contenuti, oppure erano ottimi film di genere. Ho sempre cercato di fare cinema seguendo quell’esempio ma evidentemente i primi risultati non sono stati all’altezza delle mie aspettative. È chiaro che quando si fa un film si vorrebbe che venisse visto da più gente possibile, ma non sempre i gusti, le idee, la sensibilità degli autori sono in sintonia con quelli del pubblico. Magari mi sbaglio ma purtroppo oggi i film d’evasione mi sembrano sempre meno “cinematografici” e sempre più vicini a uno stile televisivo, quindi sempre più inconciliabili col cinema d’autore. Ultimamente ho finalmente convinto i produttori che ero in grado di fare film popolari, come le commedie che ho sempre adorato, che i film cosiddetti di genere non devono essere per forza volgari, stupidi, da TV... Intorno a me vedo che qualcosa sta cambiando, che si sta recuperando quella tradizione tutta italiana che riusciva a coniugare l’intrattenimento con la “autorialità”, se così si può dire. Ovviamente incidono tanto. L’assistenzialismo statale è stato smantellato (per me giustamente…) ma la politica non è ancora stata capace di creare un sistema industriale non assistito. Comunque io ho poca fiducia nelle istituzioni e credo che le soluzioni siano sempre altrove. Purtroppo non potremo mai contare su un mercato “colonizzato” come la Francia e l’Inghilterra, e come al solito dovremo sperare negli sprazzi di genio italico… La televisione, che ha avuto uno sviluppo di tipo industriale, avrebbe dovuto investire anche nel cinema ma purtroppo la maggior parte dei produttori televisivi ha avuto sempre una visione ristretta, esclusivamente incentrata sul guadagno e sulla crescita personali. Ma anche in questo caso le cose stanno cambiando. Ci sono produttori più “illuminati” che producono film che non hanno solo una destinazione televisiva. Poi ci sono realtà come la rete, che, mi auguro, saranno in grado di scardinare le modalità della distribuzione e dunque anche l’oligopolio attuale potrebbe essere superato dal nuovo che avanza… perlomeno per un po’... Sono convinto che grazie alle nuove tecnologie, che sono sempre più accessibili a tutti (come auspicava cinquant’anni fa Truffaut, facendo il paragone con la diffusione della scrittura), non solo si possono fare i film senza produttori ma si possono mostrare a un pubblico altrettanto vasto di quello che va nelle sale senza bisogno delle grandi distribuzioni, anzi nonostante loro. Lo stato, anziché sperperare i soldi continuando a creare istituzioni che negli intenti dovrebbero essere di sostegno al cinema, mentre nella realtà servono soltanto a elargire ennesime cariche e poltrone che a chi fa cinema non servono affatto, potrebbe pensare e mettere in funzione forme di sostegno al cinema italiano, più mirate e meno settarie del finanziamento pubblico. Forme che tengano conto dei grandi cambiamenti che ci sono stati, che a esempio aiutino la diffusione del cinema nelle scuole, che ne favoriscano lo sviluppo con un’autentica politica culturale senza lasciare che tutto venga delegato alla logica del mercato (una logica assurda). Ma appena dico queste cose mi rendo conto di quanto siano ingenue... Si dice che la destra attacca il cinema perché lo avverte come uno strumento della sinistra e in parte è vero, se si pensa che il 99% di chi fa cinema (ma vale anche per il mondo dell’arte e della cultura in generale) si dichiara di sinistra o professa idee cosiddette di sinistra. Ma se così non fosse stato dubito che avrebbe fatto chissà che… Berlusconi invece avversa l’assistenzialismo statale in parte per gli stessi motivi e in parte perché, essendo a capo di una società che per motivi che è ormai vano riesumare è diventata leader nel settore, ovvero la Medusa, non capisce perché lo stato debba buttare via i soldi per un cinema che non solo non corrisponde ai suoi gusti personali (e a quelli dei suoi sodali) ma non riesce quasi mai a risultare “attivo”, economicamente parlando (anche in questo caso i motivi per cui questo accade sono noti a molti e riguardano proprio la politica culturale sviluppata in questo ventennio da Berlusconi e la situazione di duopolio distributivo). Ma non è che la sinistra, dopo varie solenni dichiarazioni, avesse fatto granché. Non c’è stato il tempo! Così si suol dire… Industria e Distribuzione Cinema e berlusconismo
  • 29. 29 intervista a WILMA LABATE Credo che il concetto di cinema impegnato sia superato e obsoleto. All’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia, in una congiuntura di pesante crisi economica e di profondi mutamenti politici come quelli in atto nel Maghreb, ha vinto il film – particolare e meraviglioso – di Aleksandr Sokurov. È un segnale che fa riflettere inevitabilmente sull’usura di una formula canonica come quella di “cinema engagé”. A mio avviso è una categoria fuorviante, anche perché – oggi – la realtà è in un’evoluzione continua, sorprendente e imprevedibile. Il cinema ha un dovere, lo stesso che ha avuto durante il Novecento: quello di prevedere, di precorrere i tempi. È una tensione che ha sempre animato la ricerca cinematografica, evidente in un movimento come quello della Nouvelle Vague. Essere un passo avanti rispetto alla storia significa interpretare il futuro prima che accada. Oggi è tutto più complesso, perché una realtà sfumata e sfuggente spinge al racconto del presente secondo una rappresentazione confortante e stereotipata. E invece il confronto con il reale dovrebbe essere condotto sulla base dell’invenzione di nuovi linguaggi, di una nuova scrittura. Mi piacerebbe che il cinema italiano raccontasse il demone del denaro, svelasse il grande bluff della finanza internazionale, palesasse l’inganno del capitalismo. Per articolare questo tipo di narrazione, però, bisognerebbe inventare un linguaggio profondamente diverso ed emancipato dall’eredità novecentesca. Devo confessare che ho scelto di raccontare quella storia perché volevo comprendere l’oggi e non per il fascino di un evento di ieri. M’interessava raccontare l’inizio della fine, l’incipit di una tendenza articolata di cui – oggi – vediamo il punto estremo. Ho un grande interesse per il cosiddetto materiale di repertorio. Nel 1996 realizzai Lavorare stanca, un film di puro montaggio. Ne posso parlar bene, perché non ho girato neppure un metro di pellicola. Era un film sul lavoro, realizzato interamente con materiali delle Teche RAI. A volte dimentichiamo che la RAI è stata una grande televisione. Gli ultimi vent’anni non devono occultarne il valore passato. Gli archivi rappresentano una risorsa straordinaria, ma – al tempo stesso – possono costituire una trappola, perché tendono a forzare la mano e rischiano di risultare didascalici. L’uso che ne fa Pietro Marcello ne La bocca del lupo è di grande spessore, perché si basa su un esercizio di appropriazione e destrutturazione, perfino di stravolgimento. Rispetto alla problematicità dei racconti su certi eventi della storia, senza dubbio esiste un inveterato pregiudizio dei produttori: la paura è che il pubblico non sia interessato a narrazioni di quel tipo e diserti i botteghini. La questione del gusto degli spettatori è un problema complessissimo, perché – in realtà – è impossibile dire con esattezza ciò che il pubblico desidera vedere. Forse le commedie riscuotono tanto successo perché, per venticinque anni, si è girato poco altro. In Francia, per esempio, questo non accade. Un film crudo, durissimo come Hunger, con Steve McQueen alla regia, in Italia è andato malissimo. A me, dall’altra parte delle Alpi, è capitato di vederlo sottotitolato, in una normale multisala piena di spettatori. Quello che bisognerebbe fare è ragionare sulla distribuzione, sui meccanismi che la governano e su quanto incide nella formazione del gusto. È vero che il pubblico tradisce un certo tipo di film, ma è anche vero che, se continuiamo a imporre la dittatura della commedie, il risultato è inevitabile. Una vera produzione cinematografica dev’essere capace di garantire un’offerta molteplice. Impegno Neo-neorealismo In Signorina Effe (1980) hai parlato dei trentacinque giorni ai cancelli di Mirafiori. Era l’ultima battaglia di una stagione ormai al tramonto. Come ti rapporti all’uso dei materiali storici? Credi che ci sia un’avversione nei confronti di chi tenta di narrare determinati momenti del passato? Regista di La mia generazione (1996), Un altro mondo è possibile (2001), Domenica (2001) e Signorina Effe (2007). Sceneggiatrice di La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010). Attrice nel documentario Fuori fuoco (Federico Greco, Mazzino Montinari, 2005). intervista
  • 30. 30 Negli anni sessanta le commedie erano “cattivissime”: potremmo dire impegnate. Oggi non si riesce a raggiungere quel livello, perché è indispensabile fare i conti con le pretese dei produttori e con il presunto gusto del pubblico. Ho scelto di misurarmi col tema del lavoro operaio perché oggi percepiamo tutti i più brutali effetti della crisi del fordismo e delle ristrutturazioni in fabbrica. In Signorina Effe ero interessata a rappresentare l’uomo a Ti sei misurata con un tema delicatissimo come quello delle condizioni del lavoro in fabbrica. Proviamo a fare il controcampo: cosa pensi della rappresentazione cinematografica del lavoro precario inchiodata nella cornice della commedia sentimentale e generazionale? lavoro fissandolo nell’interazione con la macchina. È una cosa che generalmente si vede pochissimo, perché purtroppo è quasi impossibile girare in fabbrica. Rispetto a quello che avrei voluto in partenza, emerge poco anche in Signoria Effe. Evidentemente il cinema riesce a confrontarsi più agevolmente con i temi della disoccupazione, del precariato, delle migrazioni, occultando la ferocia del rapporto tra lavoratore e mezzo di produzione. Volendo forzare, potrei dire che siamo quasi fermi a Chaplin. E poi c’è il pregiudizio che la classe operaia non esista più. L’Italia berlusconiana è televisiva. Lui ha avuto il genio di modellare un intero paese sul registro Mediaset. Ha reso tutto TV, compreso il cinema, imponendo alla cultura lo “stile del Cinema e berlusconismo Monicelli e la Rivoluzione tanga”. Basterebbe questo per andare alla rivoluzione che auspicava Monicelli.
  • 31. intervista 31 intervista a STEFANO RULLI Impegno C’è stato un periodo storico in cui quest’espressione ha avuto un significato univoco. Parlo del dopoguerra in particolare, ma anche degli anni sessanta e settanta. La necessità, l’utilità, di quel cinema era legata alla consapevolezza dell’esistenza di cose che non venivano messe a conoscenza dei cittadini. Così, il cinema – oltre a produrre racconto, fare “romanzo”, suscitare emozioni, creare personaggi – aveva il dovere morale di informare, di fare emergere realtà segrete o sconosciute. Una pietra miliare di questo approccio è Salvatore Giuliano, in cui si mescolano grande cinema, modernità di stile e analisi giornalistica. In altre parole: tutti i requisiti del miglior cinema impegnato. I lavori di Rosi, per esempio Le mani sulla città, nascevano da un clima politico, ma anche dall’intenzione di rivolgersi a un pubblico ampio. Oggi le cose sono cambiate. Il problema non è il difetto, bensì l’eccesso di informazione che finisce per disinformare. Oggi il grande pubblico è disorientato dalla televisione, dal surplus di notizie, pareri, analisi. Davanti a una situazione di questo tipo il cinema deve assumersi la responsabilità di offrire allo spettatore uno sguardo sulla realtà. È nello sguardo, nella capacità d’interpretazione, nella definizione di un punto di vista, che il cinema rende il massimo servizio. In questo senso si può ancora parlare di impegno, anche se la parola non è la più adatta a designare questo tipo di attitudine: ovvero quella di aiutare lo spettatore a guardare con occhi diversi ciò che sembra ovvio e scontato. Spesso nel linguaggio non conta tanto il significato delle parole, bensì quello che le parole nascondono. Il cinema ha una capacità di racconto superiore ad altre forme di arte, perché intreccia immagini e parole. Per me, come sceneggiatore, scrivere non significa scommettere su battute che illustrano o spiegano un personaggio, bensì insistere sul rapporto tra ciò che un personaggio dice e quello che fa, il modo in cui si comporta, la Sceneggiatore. - Breve filmografia: Il muro di gomma (Marco Risi, 1991), Il ladro di bambini (Gianni Amelio, 1992), La tregua (Francesco Rosi, 1997), La meglio gioventù (Marco Tullio Giordana, 2003), Romanzo criminale (Michele Placido, 2005), Baciami ancora (Gabriele Muccino, 2010). gestualità che usa, quello che non fa vedere immediatamente. Credo che ci sia ancora spazio per un cinema che aiuti a comprendere la realtà. Non so se si possa parlare di impegno vero e proprio, ma di una utilità critica, sì. E oggi, rispetto al passato, il discorso sullo stile è ancora più importante. Lo sguardo è stile, e quindi il problema del come raccontare è davvero ineludibile. La piovra è stato il primo tentativo di portare in televisione temi che non erano propri della fiction. Attraverso una narrazione “romanzesca”, abbiamo cercato di restituire il sentimento politico di un’epoca. La TV si prestava bene come mezzo espressivo per impostare il racconto della storia d’Italia in quanto storia di misteri. Avevamo scelto dei meccanismi narrativi che ammiccavano esplicitamente alle tecniche del romanzo popolare: storie truci, rimbalzi attraverso il tempo, fatti remoti che rimandavano al presente e via dicendo. Era impossibile comprendere le vicende della prima Repubblica senza considerare l’attività del controspionaggio americano. Alcuni personaggi ambigui, legati alla politica, ai servizi segreti, al crimine organizzato, hanno attraversato gli anni cinquanta, sessanta e settanta, dipanando il filo rosso – o meglio “nero” – di un’invisibile continuità. Questi motivi non erano frutto dell’invenzione, bensì parte costitutiva della nostra storia. Oggi ho l’impressione che prevalga la sufficienza dei modelli narrativi, cui non corrisponde il disvelamento delle dinamiche politiche e sociali di un periodo. Romanzo criminale è stato un tentativo di narrare, attraverso le vicende di un gruppo di proletari romani, una pagina degli anni settanta segnata dall’attività dei servizi e dall’ombra lunga di un enigmatico burattinaio. In altri lavori che ho seguito, la questione Oltre che per il cinema, lei ha scritto per la TV. Tra le altre cose, è l’autore di alcune serie di una fiction leggendaria come La piovra. In che termini si è trasformata la scrittura televisiva di argomento criminale?
  • 32. 32 della mafia, ad esempio, si è piegata maggiormente alle necessità del manicheismo buoni-cattivi. In questi casi l’elemento dell’indagine politica si perde negli schemi delle narrazioni popolari, nei motivi universali della vendetta o delle grandi passioni. Ne La piovra, al contrario, praticavamo una lettura plastica, alludendo al rapporto tra mafia e P2, tra P2 e politica. Cambiano gli stili, mutano i periodi storici, ma l’importante è continuare a interpretare il reale, a offrire una prospettiva, un punto di vista. Bisogna preservare quest’approccio dall’omologazione stilistica dei format odierni, dal taglio paternalistico con cui ci si rivolge a un pubblico, trattato – troppo spesso – alla stregua di un bambino spaventato. Faccio sempre un discorso di tendenza, perché ogni film ha una storia diversa. Credo che la comicità di Virzì sia erede della commedia all’italiana e del suo rapporto con la realtà. Pensiamo al tema del precariato, per esempio. Senza dubbio ci sono altre commedie che concedono troppo al meccanismo del racconto sentimentale, a volte bozzettistico, in cui prevale l’istanza dell’intrattenimento, del coinvolgimento spensierato. Nel cinema, però, c’è posto per tutto. La lezione della commedia all’italiana rivive – a mio avviso – ne La scuola di Luchetti, in cui si sviluppava una critica a un certo modello di istruzione. Ho fatto altri tentativi con Petraglia in lavori che non hanno avuto particolare successo, per esempio in Arriva la bufera. Raccontavamo di un giudice che andava al Sud, finendo per misurarsi con una corruzione pervasiva e diffusa. Erano gli anni in cui si contrapponeva la politica corrotta alla società civile onesta. Si trattava di una dicotomia banale che volevamo smontare. Il film non ebbe successo, forse perché il pubblico non si divertì a riconoscere certe condotte nella vita d’ogni giorno. Tangentopoli andava bene finché il corrotto era il politico o il banchiere, ma quando la mazzetta Commedia
  • 33. All’inizio degli anni ottanta, lei ha realizzato dei documentari sui sobborghi romani. 33 Tre decenni dopo sono le borgate che si stanno imborghesendo oppure è la borghesia che si sta “imborgatando”? potevi prenderla anche tu o il tuo vicino, allora c’era poco da divertirsi. Realizzammo in grande libertà un prodotto parossistico che provava a dislocare su un altro piano la satira politica. Il Divo di Sorrentino non è un film comico, però ha degli elementi di satira così alta che rappresenta un avanzamento rispetto ai modelli della commedia all’italiana. In fondo, lo stesso Nanni Moretti, regista particolarmente serio, ha la capacità di esprimere una comicità a tratti surreale. Se decidiamo di non applicare uno schema rigido e proviamo a emanciparci dalla grande tradizione che – a volte – finisce per gravare sulle nostre spalle, credo che esistano autori in grado di sperimentare innovazioni significative. La comicità nasce quando ci si rende conto che la risata non è frutto della battuta facile, ma un aspetto intrinseco della realtà da cogliere ed evidenziare. Questa disposizione comica si esprime in altre forme, pur non costituendosi come genere, al contrario della comicità sentimentale. Ricordo le demolizioni del vecchio Tiburtino e la costruzione delle nuove abitazioni a trecento metri di distanza. La gente traslocava con carretti e camioncini. Raccogliemmo le testimonianze di chi viveva al Tiburtino III, le storie del dopoguerra, delle lotte per le nuove case. Parlavano con l’orgoglio di chi aveva un’identità, di chi aveva lottato per un’esistenza dignitosa. Finalmente avevano vinto. Li filmammo mentre si traferivano e la cosa che emergeva era un sentimento di disorientamento. Cessavano di essere proletari, poveri ma con un’identità, e si ritrovavano in queste abitazioni moderne, col balconcino privato, dopo trent’anni di ballatoi, di un’esistenza condivisa, della cultura di una comunità, del tempo trascorso insieme nella piazza o all’osteria. I gruppi di vicini intervista
  • 34. 34 non erano stati trasferiti in modo omogeneo, bensì divisi secondo criteri matematici. La stessa “stecca”, costruita lungo un viale privo di piazza, finiva per cancellare una storia. Istintivamente mi viene da dire che questa vicenda è emblematica dell’incompiuto passaggio dallo stato popolare alla condizione piccolo-borghese. Si tratta di una sospensione tra un’identità legata al passato e un presente profondamente segnato dalla crisi economica. Forse, l’imborghesimento più che ascesa a un paradiso è transito in un purgatorio. Ricordo San Basilio in quei «deliziosi anni di merda», come Altan definì gli ottanta. Colpiva il vuoto, il soffocamento, la rabbia dei giovani delle borgate. Credo che la modernità abbia appiattito le vecchie connotazioni sociali, e che la conseguente insoddisfazione, l’assenza di ruoli, la claustrofobia riguardino ormai l’intera società. Il vero problema è la difficoltà delle piccole produzioni indipendenti a trovare spazi. È vero che si registra la moltiplicazione del numero di sale, ma questa crescita riguarda solo un certo tipo di cinema. Da una recente rilevazione risulta che le pellicole di registi di fascia alta, come Virzì, Archibugi, Luchetti, puntano su una distribuzione legata a sale generalmente collocate nel centro delle città. Parlo di cinema come il Metropolitan a Roma che stanno scomparendo. In una città come Perugia, nell’arco di quindici anni, sei o sette cinema hanno chiuso. Eppure in periferia hanno aperto due grandi multiplex. Tecnicamente Perugia ha più sale di prima, ma bisogna chiedersi per quale tipo di film. Per i lavori dei registi cui ho fatto riferimento prima, diventa tutto più difficile. L’incasso tende a diminuire del 10-20%, ma non perché vanno meno bene nelle sale in cui erano passate le pellicole precedenti. Semplicemente perché quelle sale non esistono più e quindi l’incasso complessivo si riduce. È vero che dall’inizio degli anni novanta il cinema Industria e Distribuzione
  • 35. intervista 35 italiano ha ricominciato a crescere dal punto di vista dei numeri, ma bisogna ragionare anche sul tipo di pubblico. Come associazione degli autori, i Cento Autori, abbiamo il dovere di elaborare un modello di fruizione che sia radicalmente alternativo a quello dei multiplex, caratterizzati da precise ragion d’essere, da uno specifico tipo di prodotti, dall’organizzazione di determinati spazi intorno ai cinema. Bisogna fare qualcosa di analogo per favorire non solo la fruizione di un cinema diverso, ma anche un uso diverso del tempo libero. Il cinema non è mai stato solo il momento della proiezione, bensì un evento che crea un tessuto di relazioni, forme di socialità, momenti di confronto. Quando chiude una sala, si disgrega questa trama di rapporti sociali. Nelle città in cui il centro storico perde sale, è un modello intellettuale e relazionale a disgregarsi. È fondamentale preservare, e rilanciare, differenti forme di aggregazione culturale e sociale. Il primo livello dell’intervento pubblico dovrebbe orientarsi – in termini di agevolazioni fiscali o di accesso ai finanziamenti – verso quei gestori che favoriscono le aggregazioni socio-culturali. Parlo di un’ampia platea di soggetti che comprendono non solo privati, ma anche associazioni culturali disseminate in provincia. Puntare sulla digitalizzazione, per esempio, mi pare una scommessa imprescindibile. Non credo che si debba semplicemente riaprire le sale che hanno chiuso. Penso che occorra anche rinnovarle. Non si deve proiettare solo il cinema di finzione, ma bisogna valorizzare anche generi alternativi come il documentario. Inoltre, lo sviluppo delle nuove tecnologie, offre la concreta la possibilità di organizzare un vero e proprio palinsesto, di pianificare una programmazione. L’esercente è in condizione di trasformarsi in operatore culturale, scommettendo sull’accostamento tra offerta tradizionale e prodotti Cinema e Stato