L’hanno chiamata “Hugowood”. Così è stata definita la
Cinecittà di Caracas da molti media europei. Secondo questa interpretazione falsa della realtà, negli studi
cinematografici statali fondati in Venezuela nel 2006
si realizzerebbero esclusivamente film inneggianti
all’ex-presidente Hugo Chávez.
Il Calendario del Popolo - Venezuela, la rivoluzione della settima arte
1. Un’ Amarcord – Sarebbe sempre la stessa cosa. Sareb-be
un… amarcord. Racconterebbe qualche cosa accadu-ta
prima, cogliendo la carica che anticipa il dopo. Forse
non bisognerebbe neppure pensare all’amarcord, per-ché
la base del cinema – in fondo – è sempre la stessa.
La realtà è piena di storie stupende e noi continuiamo
a chiederci “Perché siamo al mondo?”, “Chi siamo?”.
Anche una piccola storia d’amore può essere una cosa
stupenda. Di recente pensavo alla scena di un film di
Tarkovskij: all’incontro tra padre e figlio in Solaris. Il
figlio cosmonauta che sta volando nello spazio profon-do,
al di là dell’atmosfera, rischiando la vita, e il povero
padre che attende il ritorno. Mi chiedevo come sarebbe
stato l’incontro, cosa avrebbero fatto i due personaggi,
quale espediente avrebbe utilizzato lo sceneggiatore. E
alla fine la scelta è di non introdurre niente di eccessivo
o di falso: nessuna forzatura dell’immaginazione. Il pa-dre
apre la porta, guarda il figlio che cade in ginocchio
e abbraccia le gambe del genitore, sommità d’affetto in-nanzi
a lui. È una scena piena di naturalezza eppure ri-splende
di fantasia. Torniamo, quindi, a pensare a cose
più piccole, più semplici, ma proviamo a guardarle con
maggiore attenzione. Sono un uomo che ama guardare.
Adesso guardo la pioggia. Prima c’era il sole, adesso tut-to
è grigio. Non mi chiedo quasi niente. Penso a chi ver-rà
a trovarmi e attendo. Quest’attesa è già un film ed è
l’attesa di chi, a novantadue anni, sta andando incontro
alla morte. Descrivere un simile istante di sospensione,
con tutti i ricordi che piombano in un paesaggio grigio, è
già una cosa bella. Poi arriva qualcuno che ti dice “Buon-giorno,
parliamo di cinema?”. E va bene così.
1
2. 2
COM’È TRISTE LA PRUDENZA di Teatro Valle Occupato
L’occupazione del Teatro Valle – che dura ormai dal
14 giugno, da più di due mesi e mezzo – è uno degli atti
di disobbedienza civile più importanti nella Repubbli-ca
Italiana dal dopoguerra.
È stata la Costituzione – che nella forma dell’art. 9
e dell’art. 43 regola la tutela della cultura e del pae-saggio
da parte dello stato e la possibilità di trasferire
mediante espropriazione allo Stato servizi pubblici es-senziali
o di interesse generale – e sono stati i cittadini
italiani – che hanno iniziato finalmente a riprendere
in mano il loro destino tramite i referendum del 12 e
il 13 giugno – a ispirare la lotta delle lavoratrici e dei
lavoratori dello spettacolo che stanno occupando il
Teatro Valle.
Il Teatro Valle non è stato infatti solo “occupato”, ma
è stato anche “aperto”, messo a disposizione della
cittadinanza tramite spettacoli che hanno richiama-to
migliaia di persone e sul suo palco sono transitati
centinaia di artisti nella logica della programmazione/
flusso che ha consentito a chiunque ne facesse richie-sta
di avere la possibilità di esprimersi. Ma non solo
questo: il Teatro Valle Occupato ha affrontato di petto
anche la questione della Formazione e dell’Istruzione
– ridotta ai minimi termini dal governo Berlusconi –
aprendo il teatro durante il giorno e organizzando un
corso di tre settimane per maestranze e tecnici di sce-na
di teatro, e dei workshop di scrittura scenica, reci-tazione
e fotografia a cui, per ragioni politiche, non si
è voluto mettere il numero chiuso.
Insomma il Teatro Valle, da possibile “gallina delle
uova d’oro” per pochi, espressione che, anche se sem-plificando,
riassume le politiche culturali degli ultimi
quindici anni del nostro paese, sta diventando un’op-portunità
per molti di avvicinarsi al teatro, di avere
un luogo d’incontro e di stimolo delle proprie qualità
umane.
Per questo la lotta del Teatro Valle non è solo una lotta
per impedire una privatizzazione nella logica di profit-
3. to del liberismo più selvaggio, una logica che vorrebbe
privatizzare anche la cultura per controllarla e disin-nescare
tutti i suoi meccanismi sovversivi di creazione
di consapevolezza e di arricchimento dell’umano, non
è solo una lotta di difesa, ma è una lotta per rendere il
Teatro Valle un Bene Comune, ovvero qualcosa che va
al di là sia del concetto di profitto del privato che del
concetto di lottizzazione e burocratizzazione del pub-blico;
il Teatro Valle dovrebbe essere gestito da una
fondazione e dovrebbe avere al suo interno anche una
scuola per maestranze tecniche del teatro e un centro
italiano di drammaturgia contemporanea che formino
nuovi tecnici, nuovi drammaturghi e nuovi artisti, una
specie di vivaio e un continuo stimolo per tutte le pro-fessionalità
artistiche e tecniche legate al teatro.
In questa logica, come collocare una visione del ci-nema
italiano all’interno dell’articolata e innovativa
proposta del Teatro Valle Occupato, una proposta che
sfida a viso aperto l’esistente andando oltre i concetti
di pubblico e privato, prospettando una gestione alter-nativa
alle lobby e agli usi privatistici della cultura?
Il cinema non è un palazzo, non è un teatro, non è un
bel paesaggio, insomma non è identificabile immedia-tamente
con un Bene Comune, anche se è qualcosa
di cui tutti dovrebbero godere. Saltiamo a piè pari il
discorso moralistico film belli/film brutti, film da pro-durre,
film impegnati, eccetera. Ma segnaliamo con
forza che se il cinema, come tutti i mezzi di comuni-cazione
che veicolano valori ed emozioni e hanno la
possibilità di costruire un immaginario, diventa un
monopolio culturale, ovvero viene prodotto con le
stesse modalità produttive e gerarchiche dello sta-tus
quo, veicola gli stessi temi e gli stessi generi (un
esempio potrebbe essere la contemporanea “comme-dia
frizzante” di successo) con gli stessi attori, le stesse
attrici, tutti appartenenti a una determinata categoria
estetica dominante (“i belli”) e a una determinata età
anagrafica (“i giovani”), la nostra coscienza ci obbliga
3
4. a protestare, a ribellarci e a porci, insieme al pubblico,
una serie di domande.
Come imprimere un cambiamento al cinema, andan-do
nella stessa direzione del Teatro Valle, ovvero co-struendo
uno scenario diverso per il suo futuro, che
tuteli non solo lo stesso Teatro Valle ma il teatro in
generale come bene culturale collettivo?
Come si può rendere il cinema un bene culturale col-lettivo,
senza ricadere nelle pastoie della logica “pub-blica”
dei finanziamenti statali, dei vari articoli 28, 8,
delle commissioni che si riuniscono, dell’amico che ti
può dare una mano durante la discussione della sce-neggiatura
da finanziare, delle produzioni che nasco-no
solo per “gestire” un finanziamento di un film che
non uscirà mai e che se uscirà sarà comunque senza
una distribuzione decente.
Forse la soluzione si potrebbe trovare in una famosa
frase di Angelo Guglielmi, il direttore che creò la Rai
Tre che ha innovato il nostro panorama televisivo,
«la cultura non è una cosa ma una maniera di fare le
cose». E quale può essere questa maniera nuova, in-novativa
di fare le cose? Una nuova legge? Una nuova
normativa, nuovi meccanismi?
Innanzitutto una legge che consenta al cinema di ave-re
risorse non legate direttamente alla legge finanzia-ria,
quindi ai voleri delle varie cricche e commissioni
d’affari, ma legate a un meccanismo di finanziamento
autonomo.
Sul piano normativo, la legge che finanzia il cinema
avrebbe potuto pure funzionare nel contesto in cui era
stata prodotta, perché istituiva di una commissione
composta da tutte le figure professionali e sindacali
del mondo del cinema che valutava le sceneggiature
da finanziare.
Ma da quando il legame e il patto di fiducia tra i cit-tadini
e i partiti si è spezzato, da quando il cittadino
non elegge più il suo candidato ma vota per una lista
di “nominati” dalle segreterie dei partiti, da quando
le nomine della commissione sono pura espressione
dei partiti, ci ritroviamo personaggi molto discutibili a
presiederle, personaggi che non hanno nessuna com-petenza
ma sono solo i nuovi censori e dispensatori di
favori per conto terzi.
Come restituire il cinema agli italiani? Come innescare
quel meccanismo di riappropriazione dei beni comuni
che dai referendum del 12 e 13 giugno al Teatro Valle
Occupato sta sorgendo come una necessità vitale nella
società italiana?
Come restituire il cinema italiano ai cittadini italiani,
che ne sono i veri finanziatori?
Come far sì che il cinema italiano sia gestito da veri
produttori e non da appaltatori di denaro pubblico
che il più delle volte, a fine produzione, vanno simpa-ticamente
a casa con una nuova macchina di grossa
cilindrata?
Come permettere alla politica – quella vera, quella
formata dalle passioni, dalle speranze e dagli ideali dei
cittadini – di tornare a essere il motore della nostra
società?
Il cinema Bene Comune è quel cinema che i cittadini
vogliono vedere perché affronta i nodi più spinosi della
nostra società, come succedeva nel dopoguerra, è quel
cinema che arrivava nei paesini sperduti dell’Italia ru-rale
e che tutti andavano a vedere, perché sapevano
che quel cinema aveva qualcosa da dire e non aveva
paura di farlo.
Il cinema bene comune è anche quel cinema che non
è solo e unicamente “spettacolo” e “intrattenimento”,
che non è solo una macchina per far soldi costruito
sui gusti del pubblico, su emozioni preconfezionate e
“già sentite”, ma è un cinema che vuole riflettere su
sé stesso, sulla sua funzione e sulla società di cui è
espressione.
Inoltre la chiusura delle sale piccole e storiche nei cen-tri
cittadini – come per esempio il cinema Metropolitan
di Roma – a favore dei grandi multiplex, dove si con-centra
il pubblico in cerca di cinema d’azione o d’eva-sione,
sta cambiando il modo di fruizione del cinema:
da esperienza “culturale” a esperienza di consumo di
emozioni, lasciando sempre meno spazio al cosiddetto
cinema d’autore, in favore di un cinema “industriale”
– dove cioè i temi, le storie e il confezionamento delle
emozioni sono gestite a tavolino, facendo tabula rasa
di qualsiasi visione del mondo non collegata a uno stu-dio
di marketing. Anche se il cinema “industriale” nel
passato e nel presente continua a produrre capolavori,
non è pensabile che rimanga il solo cinema esistente,
ma questa purtroppo è la tendenza
Il cinema Bene Comune – al contrario – dovrebbe es-sere
un cinema adulto, parte integrante della nostra
4
5. cultura, nostro specchio e nostro spauracchio. Questa
funzione adesso è in parte realizzata dal cinema e dalla
letteratura di genere, ma non possiamo pensare che
non ci possano essere prodotti mainstream che non
siano anche bei film. Perché oggi in Italia è inimma-ginabile
un prodotto come Ultimo Tango a Parigi e
perché non viene prodotto ogni anno un prodotto di-scutibile
come La meglio gioventù, intriso di una rara
consapevolezza della storia non tanto del nostro pae-se,
ma dei suoi cittadini?
Perché negli ultimi anni in Italia non è mai stato fat-to
un film sgradevole – se non per quanto riguarda
l’idiozia – che per esempio descriva le organizzazioni
criminali o terroristiche dall’interno prendendo il loro
punto di vista? Perché – soprattutto dopo il coperchio
sollevato dall’allenatore Zdenek Zeman sul doping,
sulle combine e sulla corruzione arbitrale pochi anni
fa – non è mai stato fatto un film duro sul mondo del
calcio e sugli interessi che lo regolano? Perché non esi-ste
un film italiano – che non sia un pamphlet o un do-cumentario
– sulla vita di Berlusconi o sugli scandali
finanziari e sessuali della Chiesa Cattolica?
La cultura cinematografica è stata quasi azzerata, e i
film che meritano di essere visti si contano sulle dita di
una mano; l’autore cinematografico è quasi completa-mente
sganciato dalla società e il più delle volte resta
impantanato in vuoti esercizi solipsistici. Il livello di
conflitto su temi considerati “leggeri”, come l’amore o
l’amicizia, è ampiamente superato dai fumetti. Perché
la fantascienza, che è anche un’ottima opportunità per
costruire potenti metafore che parlano della contem-poraneità,
è così poco praticata in Italia?
Perché gli autori non parlano più fra loro, perché non
si scambiano storie, suggestioni? Perché non litigano
ferocemente, perché in Italia non si scontrano due
concezioni di cinema? Perché non è il cinema a colo-nizzare
gli altri prodotti audiovisivi ma è il contrario?
Perché – a parte poche eccezioni – in Italia le serie
televisive e le soap sono sempre un’occasione perdu-ta
e negli altri paesi abbiamo prodotti come Walking
Dead, Lost, Dexter o Twin Peaks?
Perché in Italia la formazione delle professionalità
cinematografiche – soggettisti, sceneggiatori, regi-sti,
direttori della fotografia, produttori, tecnici del
suono, attori, truccatori, scenografi, segretari di edi-zione,
montatori, tecnici degli effetti speciali e della
post-produzione, eccetera – è delegata al solo Centro
Sperimentale di Cinematografia, una struttura insuf-ficiente
ed escludente, il cui compito sembra essere
quello di riproporre le classiche gerarchie del cine-ma
italiano, oltre a quello di mettere lo studente al
centro di una rete di contatti che lo inseriranno nel
mondo del lavoro?
Senza addentrarci nella qualità della formazione, la
riflessione che si può iniziare a fare sulla struttura di
via Tuscolana è che è “sperimentale” solo di nome,
ha pochissimi posti e oggi non favorisce certamen-te
il ricambio di autori e professionalità; soprattutto
non ha risorse, e quelle di cui dispone le consuma
per la maggior parte nel suo mantenimento, essendo
diventato un centro di scambio di favori e di mercato
di posti di lavoro.
Perché in televisione non c’è un dibattito sul cinema
che non sia gestito da personaggi tipo Gigi Marzullo,
Anselma Dall’Olio o – se va bene – Gian Luigi Rondi?
Perché i registi di oggi che lavorano in Italia assomi-gliano
più a piccoli carrieristi disposti a tutto che a
persone che hanno qualcosa di importante da dire?
Perché in Italia le cosiddette major sono soltanto
due, Raicinema e Medusa? Benché la prima in alcuni
momenti abbia sostenuto il cinema italiano e il do-cumentario,
pur sempre nella logica delle clientele e
delle conoscenze, in maniera cioè affatto trasparente,
ci troviamo di fatto di fronte a un monopolio, allor-ché
il padrone di Medusa controlla anche la RAI, e
questo negli ultimi vent’anni è stato praticamente lo
status quo.
Perché alcune major americane non riservano una
parte del proprio budget a produrre film che affron-tano
temi assolutamente lontani dalle loro produzioni
tradizionali, come per esempio la Columbia con Adap-tation
(Il ladro di orchidee) di Spike Jonze?
Perché non si rischia più?
Com’è triste la prudenza!
5
7. SOMMARIO
Amarcord
Com'è triste la prudenza
Editoriale
Introduzione e questionario
Intervista a Mimmo Calopresti
Intervista a Ettore Scola
Intervista a Daniele Vicari
Intervista a Massimo Gaudioso
Intervista a Wilma Labate
Intervista a Stefano Rulli
Intervista a Daniele Segre
Intervista a Roberto Andò
Intervista a Andrea Segre
Intervista a Luciana Castellina
Com'è arrivato sugli schermi
il primo film italiano sulla Grande Guerra
Intervista a Roberto Silvestri
Il cinema, il lavoro
I- Cinema
Dalla sintesi digitale a RCL
Apulia Film Commission
Milano 55,1
Cronaca di una settimana di passione
Venezuela, la rivoluzione della settima arte
La Nouvelle Vague romena
Holliwood e l'ebreo combattente
Cinema ed Ebraismo
Cinema, bene comune
Elenco Sostenitori / Librerie
Tonino Guerra
Teatro Valle Occupato
Sandro Teti
a cura della Redazione
Ugo Casiraghi (n. 182 / 1959)
Antonio Medici
Sergio Bellucci
Massimiliano Carboni
Silvio Maselli
Barbara Sorrentini
Barbara Meo Evoli
Daniela Mogavero
Luigi Bruti Liberati
Moni Ovadia
Stefania Brai
1
2
9
10
12
16
22
25
29
31
38
39
42
44
46
48
50
54
57
60
64
66
68
70
72
76
84
9. 9
EDITORIALE
di Sandro Teti
Cari abbonati e cari lettori, innanzitutto una buona
notizia, anche se in parte amara, perché Nicola
Teti non ha potuto gioirne: il gigante Mondadori
del magnate Silvio Berlusconi è stato sconfitto in
tribunale, anche in sede civile, sul caso del libro L’Oro
da Mosca di Valerio Riva, nel quale mio padre veniva
ripetutamente calunniato. Già dopo la condanna
penale di Riva, Mondadori era stata costretta a
rimuovere completamente le false accuse dalle
successive edizioni del libro. Quella che abbiamo
ottenuto in sede civile è una grande vittoria sul piano
morale, etico e politico, anche se putroppo marginale
sul piano economico.
Desidero scusarmi con voi per il ritardo con cui
ricevete questo numero de Il Calendario del Popolo,
dedicato allo stato della cinematografia italiana. Lo
sforzo che stiamo compiendo è grande, mentre le
risorse – per numero di persone e mezzi economici
– sono limitatissime. Questi ultimi mesi sono stati
dedicati al pesante e oneroso trasferimento di
tutto l’archivio storico e delle tirature dei volumi
della Nicola Teti Editore, dal magazzino di via
Rezia a Milano a un deposito di Pomezia (Roma),
trasferimento a cui ho atteso personalmente con i
collaboratori e i sostenitori della rivista, diviso tra il
peso dei libri e l’emozione data dallo scorrere tra le
mani di tutta la storia de Il Calendario. Purtroppo
siamo stati costretti a effettuare questo trasloco per
via dei costi di locazione non più sostenibili.
Siamo impegnati a garantirvi per l’inizio dell’anno
prossimo la consegna dell’ultimo numero del 2011,
di cui è già iniziata la redazione. Recupereremo
quindi il ritardo accumulato, sperando nella vostra
comprensione.
Nonostate tutte le difficoltà, siamo confortati nei
nostri sforzi dai giudizi positivi che ci arrivano
numerosi da più parti. Anche i consigli e le critiche
dei lettori rimangono per noi un prezioso contributo,
e vi invitiamo a scriverci numerosi.
Stiamo continuando l’opera di messa in sicurezza
di tutti i numeri de Il Calendario pubblicati dal
1945 a oggi, attraverso la scansione digitale.
Stiamo prodigandoci per far conoscere in tutti i
modi la rivista a nuovi lettori e possibili abbonati.
Vanno in questa direzione le nostre iniziative nella
distribuzione e diffusione: troverete infatti in questo
numero un elenco di molte decine di librerie dove
la rivista può essere ora acquistata. Inoltre abbiamo
consolidato la presenza de Il Calendario del Popolo
su Internet attraverso più canali, quali il nostro sito,
il nostro blog, Facebook, Twitter e Flickr. Dal 7 all’11
dicembre Il Calendario del Popolo avrà un proprio
stand alla Fiera dell’Editoria di Roma, dove il giorno
9 sarà presentato questo numero.
Da quando, dopo la scomparsa di Nicola Teti, ci siamo
presi il difficile impegno di rilanciare la rivista e dargli
un nuovo orizzonte, molti storici abbonati hanno
risposto all’appello. Nuovi lettori stanno leggendo
queste righe. Tuttavia tanti tra di voi, pur avendo
frequentato queste pagine per molti anni, non hanno
ancora rinnovato l’abbonamento. A questi amici e
compagni voglio dire che Il Calendario è cambiato –
è vero. Non solo è cambiato nella veste grafica, ma ha
coinvolto, nella stesura degli articoli, un ventaglio di
intellettuali, politici ed esponenti della società civile,
compresi operai e minatori – come nel numero 751,
dedicato al Lavoro – che descrivono il complesso
mondo di oggi dal suo interno. Ma tutto questo non
ha in nessun modo intaccato la vocazione originale
de Il Calendario del Popolo, che è quella di essere
strumento di divulgazione, di salvaguardia della
memoria storica e di difesa dei valori della Resistenza
e della Costituzione.
Rinnovo pertanto l’appello a lettori, abbonati vecchi
e nuovi, a sottoscrivere l’abbonamento per il 2012 e
a diffondere la rivista come facevano, tanti anni fa, i
“calendaristi”, autentiche staffette della Cultura.
10. 10
INTRODUZIONE
Nel progetto di diffusione della cultura popolare,
sostenuto da Il Calendario del Popolo nei sessantasei
anni della sua storia, il cinema ha costituito un
imprescindibile oggetto di ricerca e analisi. Era la
fine degli anni quaranta. L’Italia si lasciava alle spalle
l’incubo della guerra. La fatica della ricostruzione
già volgeva al Miracolo economico e ai fasti
scoppiettanti del Boom, che saranno tali solo per
una parte della società italiana. Nei cinematografi,
intanto, esplodeva il fenomeno del neorealismo.
Comincia in quel periodo la collaborazione di Ugo
Casiraghi con Il Calendario del Popolo. Da lì in
avanti, la riflessione sulla cinematografia – italiana
e internazionale – passerà dalla sua penna acuta
e raffinata, impermeabile a postulati dogmatici
e vezzi di provincia, sempre capace di collegare
l’interpretazione dello stile artistico alla lettura dei
rapporti sociali ed economici.
Sei decenni più tardi Il Calendario del Popolo dedica
un numero monografico alle tendenze della filmografia
del Belpaese. Lo fa con la curiosità dell’indagine più
che col piglio sicuro dell’asserzione, proponendo i
risultati di un’inchiesta sul campo che ha coinvolto
registi, sceneggiatori, critici ed esperti in un dialogo
polifonico e in un ragionamento aperto sullo stato
dell’arte. Ai nostri interlocutori abbiamo chiesto
di misurarsi con i nodi irrisolti e i motivi cruciali
della produzione cinematografica contemporanea,
all'incrocio tra questioni antiche e nuove urgenze.
Partendo dalla prassi dell’“impegno”, l’engagement,
abbiamo provato a riflettere sulla rappresentazione
critica della realtà e delle sue contraddizioni che –
da qualche tempo – sembra animare la renaissance
del cinema italiano. In quest’ottica era inevitabile
esplorare i rapporti tra cinema di finzione e
documentario, mentre la televisione continua a
imporre i dogmi del reality e del «tempo reale». Il
discorso ci ha portato lontano, avanti e indietro
nel tempo: dalla grande fabbrica, la cattedrale
del “secolo breve”, ai mille rivoli della produzione
post-fordista e del lavoro precario, dalle poetiche
novecentesche alle nuove frontiere dell’innovazione
tecnologica, lungo le dorsali della rete telematica,
nelle mille pratiche di fruizione e condivisione dei
prodotti dell’ingegno. Abbiamo cercato di cogliere
le trasformazioni di un genere come la commedia,
capace di dominare una leggendaria stagione della
nostra filmografia prima di consegnarsi agli stereotipi
del filone sentimentale o generazionale. Gli assetti
produttivi e le concentrazioni distributive del settore,
insieme alla sconfortante mancanza di politiche
pubbliche, hanno rappresentato un’altra, inevitabile
occasione di confronto, rivelandosi metafore dei
vizi oligopolistici e delle disposizioni straccione del
capitalismo italico.
Infine, era davvero impossibile non rievocare la
lezione di un oppositore irriverente e tenace come
Mario Monicelli. A un anno dalla morte, abbiamo
menzionato quella «rivoluzione», a cui continuò
a invitare fino alla fine, per cogliere l’apporto che
l’arte può offrire al mutamento del reale. Monicelli
sapeva quanto costa il riscatto. È «doloroso», diceva.
E aggiungeva: «L’Italia affronti il dolore sennò vada
in malora». Lo ricordiamo con le parole che, lo
scorso autunno, campeggiavano sugli striscioni del
movimento studentesco: «Ciao, Mario, la facciamo
‘sta rivoluzione». Proprio da un’indimenticabile
pellicola di Monicelli, L’armata Brancaleone, abbiamo
mutuato la selezione iconografica: non solo come
giusto tributo, ma nella convinzione che quella miscela
d’ironia e crudezza, miseria e ingegno, cialtroneria e
vitalità, rimanga la più puntuale autobiografia di una
nazione chiamata Italia.
Mentre chiudiamo questo numero, si conclude la
permanenza di Silvio Berlusconi a palazzo Chigi.
Termina, com’era cominciata diciassette anni fa,
l’avventura del tycoon che voleva governare un
Paese come si amministra un’azienda. Termina
con un videomessaggio trasmesso dalle televisioni:
inquadratura bloccata, monologo e ancora bugie.
Di certo non s’incrina il senso comune sedimentato
dalla mutazione antropologica che, all’alba degli
ottanta, consegnò l’Italia all’analfabetismo iconico
e al soliloquio della videocrazia. Alla fissità di
quest’ultima ripresa, incorniciata dal piccolo
schermo, speriamo di sostituire – col tempo – i campi
lunghi e i controcampi di una democrazia rinnovata.
11. 11
QUESTIONARIO
Oggi è ancora possibile parlare di cinema
impegnato?
La realtà è tornata al centro della cinematografia
italiana più attenta alle contraddizioni dell'esistente.
Si può parlare di "neo-neorealismo"?
Quanto incide la mancanza d'una vocazione
industriale nel circuito cinematografico e quanto
pesa l'oligopolio della distribuzione?
Come spieghi l'ostilità che l'Italia berlusconiana
ostenta nei confronti del cinema?
È possibile immaginare un'inversione di tendenza?
E quale prospettiva dovrebbe orientare le nuove
politiche pubbliche per il cinema?
Il nostro cinema è stato reso celebre dalla commedia,
capace di offrire caustiche rappresentazioni della
realtà. Più tardi quel genere è andato appiattendosi
su stereotipi sentimentali e generazionali.
Cos'è accaduto alla commedia italiana?
Mario Monicelli diceva: «Ci vorrebbe
un'altra rivoluzione». Sei d'accordo?
E il cinema può cambiare il mondo?
12. 12
Credo di no, perché il Novecento è finito.
Siamo in un’altra epoca in cui la definizione
di impegno è tutta da rielaborare. Forse, oggi il
problema è proprio questo: dare una risposta
all’interrogativo. Credo, comunque, che si tratti di
qualcosa in divenire.
Sono profondamente legato al
documentario. L’ho praticato e
lo pratico con estrema libertà, e
anche più spesso del cinema di
finzione. Credo che non esista
alcuna differenza in termini
di valore intrinseco. Possiamo
perfino ipotizzare che un giorno
il documentario finirà per
diventare il cinema tout court e magari quello di
finzione non passerà più nelle sale. Lo sviluppo di
nuovi canali di circolazione dei contenuti produrrà
dei mutamenti radicali. Il documentario potrebbe
diventare, in virtù delle sue specificità visive, il vero
prodotto per il grande schermo. Quindi, soprattutto
in questo momento, la distinzione tra le due forme
espressive è destituita di ogni fondamento.
Un altro aspetto che occorre valutare è la fruizione
di massa a livello televisivo. In quel contenitore
indifferenziato, nel frullatore televisivo, cinema
di finzione e documentario annullano le loro
specificità. Nei margini del piccolo schermo, il
cinema come grande spettacolo – colto e popolare,
insieme – smarrisce la sua essenza.
Difficile da dire. Non esiste una
“scienza” o un criterio oggettivo.
Dal mio punto di vista un buon
documentario è quello capace di vivere la realtà che
racconta. Il grande documentarista è colui che riesce
a mettere le mani nella merda di tutti i giorni. Questa
aderenza a una realtà controversa e contraddittoria
è – per necessità – meno intellettualistica di quella
praticata dal cinema di finzione.
Un tema fondamentale dei miei lavori è la memoria,
perché ritengo che il racconto della realtà non
possa eludere il confronto col passato. Memoria e
adesione al reale – a mio avviso – devono procedere
intrecciate, insieme al profondo rispetto per gli altri
di cui si narrano le storie.
Non credo alla definizione di
“neo-neorealismo” e vorrei che ci
liberassimo dalla costrizione di formule e gabbie.
Vedo una profonda trasformazione in atto e
quindi penso che dovremmo evadere dagli schemi
precostituiti. È chiaro che il neorealismo rappresenta
un momento cruciale della nostra storia. Tuttavia,
quando si fa cinema, si lavora per definizione sul
futuro, proiettati in avanti. Ecco perché le definizioni
non mi convincono. Dovendo descrivere questa
fase, è impossibile non riscontrare la centralità
della rappresentazione realistica. Non possiamo
farne a meno, perché sono aumentate in maniera
esponenziale le fonti dell’informazione. Ad ogni
modo occorre stare attenti, perché la televisione offre
un grado zero di rappresentazione della realtà nella
forma del reality. Per questo, quando penso al cinema,
penso a uno strumento che ti proietta in avanti: non
basta raccontare una realtà, bisogna porsi il problema
di come trasformarla. La TV è impermeabile a
questo tipo di tensione, interessata a una meccanica
restituzione dell’esistente da confezionare per uno
spettatore complice. La televisione non regge il vero
realismo.
A Torino mi è capitato d’incontrare Danis Tanović,
il regista di No Man’s Land. C’erano a confronto
due nostri documentari, realizzati negli anni del
conflitto nei Balcani. Lui aveva raccontato la storia
di un mutilato di guerra che riabbracciava la sua
famiglia. C’erano scene fortissime che la televisione
non potrebbe sostenere. Io, invece, avevo narrato le
vicende dei profughi che fuggivano da quella guerra
e arrivavano in Italia. Erano storie terribili e quasi
intervista a MIMMO CALOPRESTI
Regista, sceneggiatore e attore, presidente dell’Archivio
Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico fino al 2010.
Suoi i film: Preferisco il rumore del mare (2000), La felicità non costa
niente (2002), L’abbuffata (2007). Ha scritto con Mario Monicelli il
suo ultimo lavoro La Nuova Armata Brancaleone (2010).
Impegno
Che differenza c’è tra
raccontare la realtà
attraverso il documentario
e rappresentarla attraverso
la finzione narrativa?
Il documentario è una forma
espressiva minore o un altro
punto di vista?
Quali sono le caratteristiche
di un buon documentario?
Neo-neorealismo
13. 13
mi ero dovuto censurare per renderle fruibili dalla
televisione. Lo spettatore al cinema ha una soglia
di sopportazione assai più elevata rispetto a quello
della televisione, permettendoti maggiore libertà.
La TV ha modificato complessivamente la fruizione
dell’immagine, finendo per condizionare tanto il
cinema di finzione quanto il documentario.
Non credo che esista
un problema di censura
preventiva.
Certo, gli anni settanta
sono un periodo molto
delicato, ma la questione
non riguarda una
limitazione della libertà
a monte. In questi anni,
Ne La seconda volta, a metà dei
novanta, ti sei misurato – prima
di altri – con un periodo delicato
come gli anni di piombo.
Esiste un problema di censura -
autocensura dei cineasti italiani
su temi scottanti o periodi
controversi?
per dire, volevo raccontare la storia di Guido Rossa,
ma sono stato preceduto. Probabilmente si dubitava
che potessi narrare la vita di un comunista secondo
i crismi della sinistra più ortodossa. In questo caso,
la censura non è venuta dall’esterno, ma ha agito
dall’interno, per così dire. Spesso, nel confrontarsi
con certe questioni e determinati periodi, si indulge al
romanzesco, smarrendo il filo della realtà. Trovare il
giusto punto di mediazione tra finzione e accadimenti
reali è complicatissimo. Ne La seconda volta penso
di esserci riuscito. Sono partito da eventi reali. Ho
frequentato Liviana Tosi, militante di Prima linea in
regime di semilibertà, che mi ha raccontato la storia
a cui è ispirato il film: l’incontro con un uomo a cui
aveva sparato vent’anni prima e di cui non aveva il
minimo ricordo. A mio avviso, non c’è un problema
di censura, ma una difficoltà oggettiva di confrontarsi
con una stagione irrisolta come gli anni di piombo.
Col tempo mi sono convinto che quella non fu una
guerra civile. La vera tragedia shakespeariana sta
nella vicenda di Guido Rossa, nei proiettili esplosi
per assicurarsi il monopolio sull’identità di veri
intervista
14. comunisti. Raccontare il terrorismo da questa
particolare angolazione – senza retorica – sarebbe
stato particolarmente interessante.
Industria e
Distribuzione
In assenza di strutture produttive serie, capaci
di confrontarsi – e scontrarsi – con il sistema di
distribuzione, finiscono per prevalere inevitabilmente
gli interessi consolidati. È come per il sindacato. Se
c’è una produzione forte, allora è possibile contrattare
determinate condizioni. Il nostro circuito, purtroppo,
è vecchio. Manca di vocazione industriale e capacità
finanziaria. Il cinema italiano da questo punto di
vista ricorda un manufatto indefinito, qualcosa che
manca sempre la condizione di prodotto finito, ed
è facilmente orientabile dai guadagni facili. Se va
bene la commedia, allora s’impone la monocultura
della commedia. Da questo punto di vista, il circuito
cinematografico riproduce i peggiori vizi del sistema
economico italiano.
Cinema e Stato
14
Le due cose rappresentano una combinazione
disastrosa. La mancanza di vocazione
industriale determina l’oligopolio distributivo.
Mi piacerebbe rispondere che sono contrario,
ma credo che gli interventi pubblici siano
opportuni se vincolati a obiettivi precisi: ad esempio, a
supporto della formazione. Il cinema non lo si impara
nelle scuole. Bisogna esordire, produrre opere prime.
Sono favorevole a finanziare i giovani per affrancarli
dai vincoli di mercato. Non sono favorevole a un
cinema di stato, ma credo che si possa fare del
cinema insieme allo stato. Il principio, del resto, vale
– o dovrebbe valere – per tutti i settori economici.
Se un settore è in crisi andrebbe supportato da una
politica industriale seria. Se la politica pubblica è
indirizzata in questo senso, va benissimo, perché
avere trenta autori che producono cento film all’anno
non m’interessa. Al contrario credo che sia strategico
favorire tanti esordi, immettere sul mercato idee
nuove. Peraltro, oggi i mezzi tecnici consentono di
realizzare film a costi bassissimi. In questo senso le
nuove tecnologie rappresentano una frontiera, anche
se non basta una videocamera per fare cinema. E
quindi la formazione è sempre più importante.
A proposito dello sviluppo
delle nuove tecnologie,
cosa pensi della diffusione
del cinema sul web?
Che posizione hai rispetto
alla libera circolazione
dei contenuti?
M’interessa molto. Negli Stati
Uniti mi raccontavano di un
incontro durante il quale un grande
produttore, danneggiato dalla
cosiddetta “pirateria”, rispondeva
che – senza la libera diffusione
dei contenuti – non avrebbe visto
milioni di opere d’arte. La libertà di socializzare e
condividere contenuti è sempre esistita nella storia
della cultura. Se i miei film vengono scaricati dal
web, alla fine sono contento. Non posso obbligare
nessuno ad andare in sala, però posso costruire dei
film per cui andarci ha ancora senso. E poi mi capita
che i ragazzi mi vengano a incontrare al cinema dopo
aver visto le mie cose sul web in un circuito virtuoso
che implementa i vari tipi di fruizione. La libertà non
va limitata. La libertà va vissuta.
È stato un grande gioco,
iniziato per sostenere
l’agitazione degli studenti
dell’Istituto per la
cinematografia “Roberto
Con Mario Monicelli
hai realizzato
La nuova armata Brancaleone.
Raccontaci com’è andata.
Rossellini”. Stavano facendo una lotta per difendere
la scuola e ci contattarono chiedendoci un sostegno.
E noi decidemmo di rispondere. Era bello vedere
Mario cimentarsi con quei ragazzi, compiere un gesto
quasi surrealista. E così facemmo La nuova armata
Brancaleone: un piccolo video realizzato dagli
studenti a supporto della lotta, con me e Monicelli
presenti. Direi che è stato un atto di pirateria e il
comandante della ciurma era proprio Monicelli. Alla
sua età, rimaneva il più giovane di tutti noi. Sapeva
stare nel mondo rivendicando una piena libertà.
Ricordo quando lo chiamai l’ultima volta. Dovevo
fargli un’intervista. Gli chiesi come stava e lui rispose:
«Male». Non tollerava di non essere autosufficiente e
aveva il coraggio di dire le cose che di solito nessuno
dice. In più praticava questa vicinanza alle forme di
protesta, anche a quelle non precostituite. Aveva una
formazione socialista e diceva delle cose scomode
anche a sinistra. In un mio lavoro intitolato Anch’io
ero comunista, ho raccontato il PCI attraverso il
cinema, chiedendo a certi registi come vedevano
i comunisti e usando i loro materiali. Bertolucci,
Monicelli e altri partecipavano alle campagne
elettorali e conservavano una documentazione
preziosa, girata con grande maestria, che colpisce per
la sua modernità. Quella era una grande generazione
di cineasti, capaci di mischiare avanguardia, cinema
classico, cinema di botteghino, impegno politico.
Ricordo una scena tratta dal materiale di Bertolucci,
in cui un edile spiega agli artisti la sua vita in modo
che la possano rappresentare. Ecco, questo era
impegno. Alla fine Monicelli non l’ho intervistato
perché non stava bene, ma nel film ho messo il pezzo
di una registrazione che aveva fatto a Roma con gli
15. 15
Succederà che questo schermo rimarrà nero,
Succederà che questo schermo rimarrà nero,
senza immagini, senza parole.
senza immagini, senza parole.
Monicelli e
la Rivoluzione
studenti. Beh, li attaccava frontalmente. Gli diceva
che erano viziati, che i genitori gli compravano le
case, che erano solo preoccupati di difendere il loro
tenore di vita, lamentandosi, mentre c’è gente che
deve lottare tutti i giorni per una casa. Insomma li
bacchettava e aveva il coraggio di dire cose scomode.
La cosa che mi ha sempre colpito di Mario era l’idea
del gioco come momento di trasformazione della
realtà. Ma proprio quella è la forza del cinema, che ti
permette di giocare anche su cose serissime. Questa
lezione, lui l’ha sempre praticata, aggiungendo – alla
fine della sua vita – quel pizzico d’infantilismo che
l’ha reso indimenticabile.
Ci ho ripensato di recente
in Calabria, vicino ai luoghi
in cui Monicelli ha girato
una parte del film. Ne
L’armata Brancaleone Mario è riuscito a restituire
una confusione particolare, unica. Ovvero quella
condizione che permette ai cialtroni di esistere.
Al sud domina, a metà strada tra realtà e finzione,
il personaggio del fanfarone, la cui natura oscilla
tra carica vitale e pose da guitto ignorante. Ecco,
questa figura riassume e condensa la quintessenza
dell’Italia.
Sì, sono d’accordo, ma credo che la rivoluzione
sia in atto. Molto dipenderà da come le
persone la interpreteranno e la vivranno. È
in atto una grandissima trasformazione. La “marcia
dei morti viventi” organizzata dagli indignados
americani è una roba potentissima, oltre che una
citazione cinematografica eloquente. Io m’illudo che
il cinema possa cambiare il mondo, ma non ne sono
sicuro. Un giorno, però, ho incontrato Olmi che mi
ha detto: «Continuiamo, perché il cinema cambierà
il mondo».
intervista
Qual è la forza metaforica
di un film indimenticabile
come L’armata Brancaleone?
16. 16
intervista a ETTORE SCOLA
Credo che non abbia mai avuto senso parlare
di un particolare tipo di cinema impegnato.
C’è stato un cinema più strettamente politico in una
stagione in cui esisteva ancora il PCI e venivano
commissionati alcuni interventi. Per esempio ci
si prestava a intervistare Berlinguer in occasione
delle feste dell’Unità. In realtà, in termini generali
si potrebbe dire che tutto il cinema è impegnato,
perché – esercitando presa sul pubblico – produce
comunque degli effetti e delle conseguenze. In questo
senso, anche Walt Disney e perfino la farsa possono
essere considerati forme espressive “impegnate”…
Senza dubbio il grande cinema italiano è stato
quello del neorealismo e della commedia
all’italiana. Soprattutto il primo è stato una vera e
propria rivoluzione capace di modificare schemi,
tipo di produzione e forme di coinvolgimento degli
autori. Per la prima volta dopo il fascismo, si capì
che il cinema poteva essere un’altra cosa, che poteva
raccontare un paese emerso dalla guerra, distrutto,
da ricostruire. Per esigenze pratiche, per mancanza di
mezzi, il neorealismo fu necessariamente un cinema
d’invenzione. Mancavano gli studi per le riprese, le
attrezzature, i macchinari. Per questo fu un fenomeno
della strada, della presa diretta, con attori presi
dalla vita di ogni giorno. Questa rivoluzione segnò il
cinema di tutto il mondo e anche il cinema americano
è figlio del neorealismo. Lo ripetono gli stessi cineasti
d’oltreoceano. Figlia ed erede del neorealismo fu
la commedia, dedita a un altro lato dell’uomo: al
divertimento, alla leggerezza, all’allegria. Eppure dal
neorealismo la commedia non mutuò solo la lezione
formale del fare, ma anche la filosofia di Amidei e
Zavattini che raccomandava di seguire l’uomo. Tutte
le storie possibili sono dentro l’uomo e non c’è bisogno
di cercarle con l’immaginazione o nel fantastico:
basta conservare lo sguardo fisso sulla realtà. La
commedia all’italiana ha rappresentato questo tipo
Impegno
Commedia
17. intervista
17
di approccio sul versante satirico. Certamente, col
tempo, è diventata una formula generica, buona
per qualsiasi cosa: da Fellini a Franchi e Ingrassia.
A un certo punto anche Pasolini fu ricompreso nel
genere. La commedia ha duemila anni e non finirà
mai. Attualmente le tematiche sono più legate al
privato, ai contrasti generazionali. A mio avviso,
oggi il genere non annovera film memorabili, benché
ci siano delle eccezioni, s’intende. Per Sorrentino, per
esempio, è possibile evocare la commedia all’italiana,
ma non il neorealismo. Sorrentino – piuttosto
– fa un cinema neoespressionista, impostato su
una meritevole ricerca di linguaggi. Negli ultimi
vent’anni la filmografia italiana ha rinunciato a
questo tipo di ricerca, adesso invece c’è la produzione
di “vocabolari” differenti e questo è un merito – tra
gli altri – di Sorrentino. Comunque, la commedia
continua e continuerà mutando ancora e ancora. Io
non sono un sostenitore del passato. Ogni tempo si
Regista e sceneggiatore - Breve filmografia: Se permettete parliamo
di donne (1964), Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico mis-teriosamente
scomparso in Africa? (1968), C’eravamo tanto amati
(1974), Brutti sporchi e cattivi (1976), Una giornata particolare
(1977), Ballando ballando (1983), La famiglia (1987),
Gente di Roma (2003).
specchia in qualcosa, ha la propria prospettiva, la
propria musica, il proprio cinema. Ci sono stagioni,
come quella odierna, in cui si procede in “pianura”.
Ma anche la pianura serve, fa parte della natura, può
esser fertile, dà frutti e fiori. Non ho nulla contro
la pianura, ma è inutile cercarvi le vette di De Sica
o di Fellini. Quella – semplicemente – era un’altra
stagione.
Non ho mai creduto a questa distinzione
e non l’ho mai fatta mia. Per me e per
molti miei colleghi, un imprescindibile
punto d’arrivo fu proprio la capacità
di conciliare il cinema d’autore, con le
sue istanze autoriali ed espressive, le
sue inclinazioni morali e le sue prese
di posizione politiche, con un cinema di grande
popolarità. Di sicuro esistono tendenze sperimentali,
ma il cinema nasce e rimane un’arte popolare: anche
– e soprattutto – quand’è sperimentale.
Ha ancora senso
distinguere tra
cinema d’evasione
e cinema d’autore?
Attualmente i due
generi si intrecciano?
18. 18
Le vecchie borgate non esistono
più. Ora esistono le periferie,
che – in una città plurietnica
e multiculturale come Roma –
sono realtà composite, variegate,
complesse. Se si è imborghesito,
il borgataro ha cominciato a
farlo proprio a partire dagli anni
settanta, quando ha assorbito
sogni e desideri del piccolo-borghese, consegnandosi
al consumo. Al di là della piacevolezza della
formulazione, non credo che il borghese si stia
“imborgatando”, perché – per l’appunto – la borgata
non è più una “meta”. Essa non ha più neppure una
precisa collocazione. Nella città diradata, le borgate
sono state assorbite, sono nati nuovi quartieri,
altre propaggini. Sono emerse realtà differenti,
accomunate dal fatto di aver abdicato alle cellule
compositive, rinunciato a radici e culture proprie, per
vivere intorno alla metropoli, per disporsi intorno al
“grande banchetto”, contentandosi di poche briciole.
Eppure si continua a rimanere ai bordi di quello che
viene percepito come un “centro”, dove accadono le
cose e si prendono le decisioni. Certo, anche altre
città hanno periferie, ma Roma offre un ampio
ventaglio delle possibilità di questo tempo. Piazza
Vittorio è il quartiere dove sono nato: oggi è un
quartiere orientale, che non per questo ha rinunciato
alle abitudini e ai costumi dei romani. I cinesi si sono
romanizzati, parlano romanaccio.
Cultura, mentalità, costumi
sono ormai in un cambiamento
continuo e irreversibile.
Direi di no. Si lavora su figure
come il commissario Calabresi
oppure su momenti complessi
come il G8 di Genova. Mi pare
ci sia una nuova tendenza dei
Brutti, sporchi e cattivi
tratteggia un indimenticabile
affresco dei sobborghi romani.
Trentacinque anni dopo
sono le borgate che
si stanno imborghesendo
oppure è la borghesia
che si sta “imborgatando”?
Esiste un problema
di censura - autocensura
dei cineasti italiani
su temi scottanti o
periodi controversi
come, per esempio,
gli anni di piombo?
19. 19
registi italiani a trarre ispirazione dalla realtà e dalla
storia del proprio paese. Abbiamo vissuto un periodo
negativo, segnato da un cinema brutto, fragile, tra gli
anni ottanta e i primi anni zero, allorché dominavano
film gracili, poco interessanti, spesso di taglio
autobiografico, dedicati per esempio al Sessantotto
e cristallizzati nel punto di vista del reduce. Il
problema è che quel cinema non ha contribuito a
produrre giudizi articolati, non ha messo davvero
in discussione i passaggi complessi e neppure ha
delineato una prospettiva forte. Da qualche tempo
mi sembra che le cose stiano cambiando in meglio.
La netta affermazione della
televisione, sia sotto il
profilo del potenziamento
tecnico, sia come strumento
di costruzione del consenso
e di rafforzamento del
potere, ha di certo inciso
sul cinema. Prima di tutto sono i lunghi tempi
di realizzazione che fanno del cinema un mezzo
espressivo incontrollabile, più indisponibile a piegarsi
alle necessità contingenti dei potenti e meno incline
alle lusinghe del potere. Dal 1944, il cinema è sempre
stato osteggiato dal potere. Oggi non si può parlare
di vera e propria censura come ai tempi di Mussolini
e del Minculpop o di Scelba e della Democrazia
Cristiana. Tuttavia, esiste una forma più moderna
di controllo, basata su tagli sistematici, comprese le
ultime disposizioni sul Fondo Unico dello Spettacolo.
La censura è, per così dire, finanziaria e da questa
procede una sottile forma di autocensura in virtù
della quale i giovani registi si orientano verso temi,
schemi e soluzioni meno rischiosi: per esempio verso
la commedia o verso le ambientazioni di un passato
remoto o di un futuro improbabile. Rispetto alle
contraddizioni del presente, invece, ci si muove con
troppa cautela.
Esiste un rapporto di causalità
che, negli anni ottanta,
ha legato l’affermazione
delle televisioni commerciali
al progressivo declino
del cinema italiano?
intervista
20. 20
ebbe una distribuzione locale proprio grazie a certi
proprietari di sale. Attualmente un paio di soggetti
accentrano la distribuzione, dividendosi le pellicole
e risultando sostanzialmente intercambiabili. Poi c’è
qualcuno, come De Laurentis, che si specializza nella
distribuzione di certi generi, ma certe soddisfazioni
non lo incoraggiano a puntare su opere più impegnate
o diverse, bensì a reiterare la formula del successo.
Un tempo la distribuzione – perfino quella regionale
– sapeva pesare anche sulle scelte realizzative. Per
non dire dell’America, dove un film distribuito dalla
Paramount era distinguibilissimo da uno distribuito
dalla Metro-Goldwyn-Mayer. Esprimevano filosofie,
prospettive e punti di vista diversi.
Non è questione di essere favorevole o
meno. È un elemento imprescindibile e
obbligatorio. Qualsiasi Stato serio non
può esimersi dall’investire nella cultura così come
dovrebbe investire nella scuola e nella sanità. È quello
Hanno sempre inciso e pesato, perché il cinema
italiano non è mai stato un fenomeno industriale.
Quando è nato il neorealismo non si parlava
d’industria, al massimo di artigianato. Ognuno si
faceva il suo cinema, inventando praticamente tutto:
dalle luci alla pellicola. Si trattava letteralmente
di un’attività manuale. Certo, ci sono stati degli
imprenditori illuminati. Ma adesso anche quei pochi
mi pare che abbiano lasciato il posto a dei contabili,
gente che prima d’investire calcola il massimo
margine di guadagno, puntando su televisioni e
coproduzioni. Oggi non si può davvero parlare di
industria cinematografica. Anche la distribuzione è un
problema. Ho attraversato molte stagioni di cinema e
ricordo un periodo in cui la distribuzione non esisteva
neppure. C’erano degli esercenti locali in varie regioni
che avevano coraggio e curiosità. Alcuni miei lavori
sono stati distribuiti proprio da loro. Per esempio,
Trevico-Torino, un mio film non di grande successo,
Cinema
e Stato
Industria e
Distribuzione
21. che accade in paesi come la Francia o l’Inghilterra.
Rinunciare a investimenti pubblici sarebbe come
pensare di chiudere le scuole solo perché, in una
certa annata, il rendimento degli studenti è stato
particolarmente basso. Lo Stato non deve guardare
all’esito commerciale dei film, deve garantire un
servizio che è di sua competenza.
Sono d’accordo sulla rivoluzione, meno
d’accordo sul cambiare il mondo. Il
cinema non ha mai cambiato nulla,
però può – e deve – aiutare a comprendere il mondo.
È la gente che, dopo aver compreso, deve provare a
modificare l’esistente. Tocca al popolo, non al cinema.
Per quanto riguarda la rivoluzione, è innegabile che
se ne percepisca l’urgenza. Ma si tratta d’inventarne
una nuova, fuori dagli schemi e diversa dai grandi
mutamenti del passato. L’Italia non ha mai fatto una
vera e propria rivoluzione. È tempo di farne una che
sia dei giovani e che sappia guardare al lato luminoso
della vita. Non si può continuare a ripetere: «Ha da
passà ’a nuttata». Bisogna cominciare a pensare che
«Domani è un altro giorno». Comunque vedo segnali
incoraggianti, che lasciano ben sperare.
Ho cominciato a leggerlo nel secondo
dopoguerra, intorno al 1947-48.
Carlo Salinari era mio professore al
“Liceo Umberto” e quindi cominciai a
interessarmi alla rivista grazie a lui. Non ostentavamo
alcun atteggiamento di spocchia e non consideravamo
Il Calendario del Popolo una rivista per operai
o analfabeti. Coltivavamo il mito di Di Vittorio e
leggevamo i suoi interventi sul quindicinale. Ho
continuato a leggere la testata negli anni cinquanta
e sessanta. Da giovane comunista figurava tra i miei
riferimenti, insieme ai titoli degli Editori Riuniti e via
dicendo. Ha senza dubbio contribuito alla formazione
della mia generazione come “nutrimento” culturale.
Leggeva Il Calendario?
Ha conosciuto i suoi
direttori storici?
Monicelli e
la Rivoluzione
intervista
46
22. 22
intervista a DANIELE VICARI
Se la domanda si riferisce al cosiddetto
“cinema d’impegno civile”, credo che
Regista e sceneggiatore. Vincitore di due David di Donatello, nel
2003 come miglior regista esordiente con Velocità Massima e nel
2007 con il documentario Il mio paese.
Breve filmografia: Il passato è una terra straniera (2008)
Diaz. Non pulire questo sangue (2011).
Impegno In Velocità massima (2002)
in tutto il mondo ci siano registi che continuano
instancabilmente a fare film incarnati nella realtà,
critici e non accomodanti. È un fenomeno che è
nato con il cinema e morirà con il cinema. Stesso
discorso vale per l’opposto, il cinema cosiddetto
“d’evasione”. Sono tendenze connaturate al mezzo
che è nato come fenomeno da baraccone, non
dobbiamo mai dimenticarlo, a fatica ha conquistato
la nobiltà dell’espressione artistica. La verità è che le
tendenze si mescolano a volte imprevedibilmente e
meravigliosamente, e il più grande errore che possa
fare un cineasta è rinchiudersi da solo in un recinto,
anche se nobile come quello del “cinema d’impegno
civile”.
Oggi il cinema, dopo aver dominato senza rivali la
scena dei media, svolge un ruolo meno rilevante, ma
conserva lo scettro della creatività e della narrazione
audiovisiva. In questo senso il “cinema d’impegno
civile” ha una maggiore responsabilità che in passato:
quella di portare lo sguardo laddove la televisione e
gli altri media audiovisivi non possono o non sanno
portarlo, cioè nelle zone d’ombra dell’animo umano e
dell’organizzazione sociale. Da questo punto di vista
la “pura denuncia” non regge più la sfida del grande
schermo, perché il ruolo della denuncia si esaurisce
nell’incredibile velocità dell’informazione in tempo
reale, basta pensare alle riprese effettuate con i
telefonini dai manifestanti della primavera araba,
che all’istante finiscono nella rete allertando il mondo
intero, scavalcando censure feroci e pericolosissime.
I “film di denuncia” non possono più solo essere
tali, devono essere sempre più complessi, meno
schematici. Questi film, senza perdere la capacità
di comunicazione, devono andare sempre più al
fondo dei fenomeni che rappresentano, cioè devono
partire dalla denuncia e approdare in territori meno
cronachistici, altrimenti sono inutili.
Sono almeno due decenni che
si parla di “neo-neorealismo”.
Ma la definizione secondo me
non regge se non in termini
genericamente morali. Il
neorealismo è stata una delle
avanguardie cinematografiche
più importanti e influenti
hai raccontato gli scorci
d’una Roma obliqua e
sotterranea: quella delle
corse clandestine.
Quale “realtà” sta al centro
della tua cinematografia?
della storia del cinema (insieme al cinema russo
degli anni venti, alla Nouvelle Vague francese e
alla New Hollywood degli anni settanta). Dentro
questa avanguardia si sono fuse varie tendenze
cinematografiche che, a ridosso del boom economico,
si sono dissolte e hanno dato vita al fenomeno degli
“autori”. Noi siamo in una fase storica che certamente
ha bisogno di una nuova spinta “morale” e artistica,
ma temo che, se non si individua una strada davvero
innovativa e incisiva, non si potrà parlare di una nuova
“ondata”. Ciò non esclude che ci siano o possano
esserci dei grandi autori all’altezza dei “padri” del
neorealismo. Il nostro cinema sta scandagliando la
“realtà” a trecentosessanta gradi. Credo che l’aggancio
con la realtà l’abbiamo certamente ritrovato. È per
questo che il cinema italiano, con tutte le sue difficoltà
e insufficienze, dà ancora fastidio ai padroni delle
ferriere. La questione di fondo però è: le opere che
stiamo realizzando sono all’altezza del compito?
Beh, ho già accennato a
questo argomento nella prima
risposta. Dal mio punto di
vista non esiste mai una
separazione netta tra generi
e tendenze, se non nella
produzione seriale. I generi
sono la tavolozza sulla quale il
regista mescola i colori. E qui
entrano in gioco due cose: la
libertà espressiva e la capacità
artistica di ciascun cineasta. Il
Con Il passato è una terra
straniera (2008) hai scan-dagliato
la Bari segreta del
gioco d’azzardo, portando
sul grande schermo il
romanzo di uno scrittore
come Gianrico Carofiglio,
ritenuto un esponente della
crime story italiana.Cinema
d’evasione e d’autore
si intrecciano o si
distinguono ancora?
23. 23
cinema contemporaneo deve poi fare i conti con un
pubblico davvero sfuggente, che reagisce a pulsioni
imprevedibili, a volte dettate da dosi massicce di
marketing, altre volte da sotterranei sommovimenti
che portano in sala persone che normalmente non ci
vanno. Il più delle volte il pubblico contemporaneo
si sente respinto dai film “impegnati” o “d’autore”.
Questi fenomeni non possono lasciarci indifferenti,
bisogna comunicare con gli spettatori, accettare la
sfida, individuare un pubblico, altrimenti si smette
semplicemente di fare il cinema. Oppure si deve
avere il coraggio di fare scelte radicali come quella
di Corso Salani: fuori da ogni schema, fuori da ogni
sistema. Con tutti i rischi di marginalità e anche di
mancanza di mezzi che comporta. Nella marginalità
non è detto che non si possano fare grandi cose, basta
pensare a Jean Vigo.
Nel mio piccolo io perseguo la strada opposta,
non disdegno il confronto con modelli narrativi di
“genere”, e con il “sistema” produttivo, prima di
tutto perché il cinema è il mio mestiere, per me non
è una missione astratta, poi perché ritengo che certi
modelli non siano né esauriti, né scandagliati fino
in fondo, né tantomeno ingabbianti se frutto di una
scelta libera e consapevole. Il cinema “dei generi”
non è un fenomeno commerciale e basta, altrimenti
dovremmo buttare alle ortiche l’esperienza di cineasti
come Kubrick, Scorsese, Cronenberg, i Cohen e molti
altri che, in un continuo “dentro-fuori” con i generi,
hanno rivoluzionato e rivoluzionano il cinema.
Provo a fare un
ragionamento a ruota
libera. Secondo me il
problema principale
è la mancanza di
coraggio da parte di
autori e produttori. Se
queste due categorie
prendono in mano il
loro destino, si può parlare di tutto, non c’è al mondo
nessuna entità che possa fermare o deviare un progetto
ben strutturato, a meno che il regista o il produttore
non siano disposti a mollare o non vengano eliminati
fisicamente come si fa in Iran, dove i cineasti finiscono
in galera come fossero assassini o stupratori. Che poi
ci siano soggetti che non hanno piacere che si trattino
certi argomenti non c’è dubbio, ma questo fa parte
della normale dialettica che deve esserci tra Titti e
Gatto Silvestro: se non c’è la dialettica non c’è la storia.
Purtroppo noi molto spesso tra Titti e Gatto Silvestro
scegliamo la Nonnina che vuole farli convivere a ogni
costo, e finiamo per fare film indecisi e fragili. Non
c’è dubbio poi che i dirigenti delle grandi società che
dovrebbero avere come scopo quello di finanziare
bei film e realizzare grandi incassi a prescindere
dall’appartenenza ideologica del regista, siano molto
sensibili ai temi che possono dar fastidio a chi comanda.
Ma altrettanto importante è il fenomeno delle “vestali”,
delle verità assolute che si appropriano di fatti e pezzi di
storia, ne fanno quando va bene una missione e quando
va male un mestiere, e allora tutto si cristallizza in
dibattiti stucchevoli su chi ne sa di più e chi ha diritto di
parlarne e chi no, così la libertà di interpretazione di un
fenomeno va a farsi benedire ancora prima che un film
venga realizzato. Questo problema però riguarda anche
la produzione legislativa e persino quella industriale.
L’Italia, tra veti incrociati e lotte intestine, sta dando
uno spettacolo desolante dinanzi al mondo intero: ecco
che i diritti civili o la costruzione di un inceneritore
diventano casus belli che durano decenni, senza
che nessuno si prenda la responsabilità di proporre
soluzioni serie ed efficaci. Per tornare al cinema, qui da
noi può facilmente verificarsi il fenomeno tragicomico
dei film di cui si è solo parlato ma che non ha mai visto
o non vedrà mai nessuno.
Per me esiste “il luogo” solo
come “personaggio” del film. Se
un luogo non vive e non significa,
Hai appena finito di girare
Diaz. Non pulire questo sangue.
Il G8 di Genova è uno dei coni
d’ombra della recente storia italiana.
Pensando a ciò che è accaduto con
La prima linea di Renato De Maria,
credi che ci sia un’avversione nei
confronti di chi tenta di narrare
determinati momenti del passato?
Quanto conta l’aderenza
ai luoghi nel tuo
approccio al cinema?
intervista
24. 24
In Europa nessun paese ha abolito il
finanziamento pubblico per il cinema, ma
in tutti i paesi si è sviluppato un sistema
Cinema
e Stato
produttivo basato su un mix di finanziamenti. Il
presupposto per il buon funzionamento di questo
mix è la limpidezza assoluta del percorso produttivo
e distributivo dei film. Mi chiedo da molto tempo chi
da noi ha davvero interesse a fare chiarezza. Basta
veramente poco per far sì che il cinema finanzi sé
stesso, attraverso lo sbigliettamento, una tassa di
scopo, un sacrosanto obbligo per le TV di finanziare
i film visto che spolpano il cinema vecchio e nuovo
in ogni modo.
Mario era un uomo dolcissimo e
intelligentissimo, di sicuro non si
sarebbe stupito se gli avessi chiesto:
Monicelli e
la Rivoluzione
«scusa, ma qual è la prima?»
Non saprei se il cinema può cambiare il mondo, di
certo può contribuire a addormentare le coscienze
o a svegliarle, dipende però anche da quanto sonno
hanno queste coscienze.
magari va benissimo per andarci in vacanza ma non
va bene per il cinema.
Industria e
Distribuzione
Per rispondere a questa domanda ci vorrebbe
un trattato di storia economico-politica del
cinema italiano. Siccome l’ultima impresa di
questo genere la fece il dimenticato Lorenzo Quaglietti,
mi limito a dire tre cose banali:
1. In Italia ci vuole una seria normativa “antitrust”.
Questa cosa è più urgente della legge sul conflitto
di interessi, perché l’Italia è il paese degli oligopoli.
La quotazione dei diritti per la TV dei film italiani
la fanno due o tre soggetti, che generalmente sono
d’accordo fra loro nel tenerla talmente bassa che
nessun produttore può farci conto per produrre un
film (problema che non tocca le nobildonne dell’Est
Europa). Addirittura può succedere, a causa di questo
oligopolio, che un film di grande successo commerciale
oltre che di enorme successo critico come Il Divo non
venga acquistato da nessuna televisione per due anni,
finché La7 non decide di mandarlo meritoriamente in
onda, ma con una valutazione economica ovviamente
commisurata alla dimensione della rete. Ecco che il
produttore la prossima volta ci penserà bene prima di
impegnarsi per una cifra che il “mercato” italiano non
mette a disposizione.
2. In Italia, nei posti dirigenziali come in quelli
intermedi, ci vuole gente che si assuma la piena
responsabilità delle proprie scelte, delle proprie
opinioni e dei propri errori, altrimenti non usciremo
mai dal pantano in cui siamo.
Questo vale purtroppo per quasi tutti i settori
dell’apparato pubblico e privato, quindi anche per
il cinema.
3. Una seria industria cinematografica ha bisogno di
un quadro normativo che renda agevole realizzare
vendere e distribuire film di ogni genere, forma e
dimensione. Il quadro legislativo che abbiamo in
Italia fa il mestiere contrario, complica. E complica
davvero molto.
25. intervista
25
intervista a MASSIMO GAUDIOSO
Essendo cresciuto in un’epoca in cui la
parola “impegno” era pane quotidiano,
Impegno
non posso dire – soprattutto a posteriori – di non
averci mai creduto. Finita l’infatuazione, però, e con
l’esperienza maturata nel tempo, posso affermare
che, quando sento parlare di cinema impegnato oggi,
avverto qualcosa che non mi piace affatto. Preferisco
parlare di cinema fatto bene, con onestà, passione
e competenza: ecco, se c’è un impegno, è quello
morale con sé stessi e con la materia che si decide di
raccontare.
È difficile parlare di una sola realtà,
oggi come sempre, le realtà che
Neo-neorealismo
vengono rappresentate nel nostro cinema sono
molteplici così come molteplici sono le interpretazioni
di quelle realtà e gli stili, i linguaggi con cui vengono
rappresentate.
Quando ero un semplice spettatore non riuscivo
a comprendere le suddivisioni in categorie, anche
se ammetto che mi aiutavano a distinguere uno
stile, un approccio da un altro; ora che il cinema “lo
faccio” sono diventato ancora più refrattario alle
categorie, non riesco a riconoscermi in nessuna di
esse. Il termine neo-neorealismo non so cosa sia,
di sicuro non è una definizione che userei per i film
che ho fatto, nemmeno quelli fatti insieme a Matteo.
Ma se s’intende che nella scelta e nella creazione di
una storia non sono uno che ama viaggiare di primo
acchito con la fantasia ma preferisce prendere spunto
dalla realtà, dalle cose che vive o che conosce, allora
va bene.
Quando faccio un film
devo conoscere a fondo
la realtà che racconto, mi
sembra una cosa normale
o perlomeno è una cosa
che faccio naturalmente.
Se è una realtà che non conosco ma suscita per
qualche motivo il mio interesse allora mi ci devo
compenetrare completamente. Non ho una grande
fantasia, o meglio non ce l’ho durante la costruzione
di uno scenario o dei personaggi, preferisco
“appoggiarmi” alle cose che conosco, al mio vissuto o
a quello di qualcun altro. Se, come spesso succede, si
tratta di realtà che non conosco, cerco di farle mie, di
conoscere le problematiche dei vari personaggi che
ne sono protagonisti, le loro contraddizioni, i sogni,
le paure, le motivazioni che li spingono a compiere
determinate azioni, insomma tutto quello che mi
può aiutare a farli agire in un modo “naturale” e
ovviamente in questo rientrano anche i paesaggi, gli
ambienti in cui vivono...
Che vuol dire autorialità
più aperta? Che non
c’è un solo autore?
Certo, il cinema è
un’arte collettiva nel
senso che è il risultato
di diversi contributi
“artistici”; ci sono gli autori della sceneggiatura, della
fotografia, del suono, del montaggio, delle musiche…
e naturalmente c’è il regista, che sceglie i suoi
collaboratori, il progetto da realizzare e gli dà la sua
impronta decisiva durante tutte le fasi di lavoro, a cui
danno il loro contributo creativo i suoi collaboratori.
Io amo fare quello che faccio: in un certo modo credo
sia lo stesso approccio al cinema che ha Matteo,
per questo ci siamo subito trovati, perché avevamo
delle affinità nel modo d’intendere questo mestiere,
di pensare e di fare un film, che è un approccio
sicuramente diverso da quello di altri… non migliore
né peggiore, solo diverso.
La nostra non è una relazione esclusiva, lo diventa
però nel momento in cui decidiamo di intraprendere
una nuova storia che è un po’ come partire insieme
per un viaggio. Quando faccio film con altri registi
cerco innanzitutto di ricreare la stessa intesa che
ho con Matteo, ma non è così facile trovare sempre
Quanto conta l’aderenza
ai luoghi, alle città,
l’interesse per la più remota
provincia italiana,
nelle tue sceneggiature?
Regista, sceneggiatore e attore, vincitore del David di Donatello 2003
per il soggetto per L’imbalsamatore con Ugo Chiti e Matteo Garrone
(Garrone, 2002), firma la sceneggiatura di Gomorra (Garrone, 2008).
È regista de Il caricatore (1996), Un caso di forza maggiore (1997),
La vita è una sola (1999).
La scrittura cinematografica presuppone
un’autorialità più “aperta” di quella let-teraria.
Come influisce sul tuo lavoro il
rapporto privilegiato con Matteo Garrone?
In che termini l’occhio del regista e le
attitudini degli attori mutano lo script?
26. 26
delle persone con cui sei in perfetta sintonia, delle
cui scelte ti fidi ciecamente, a cui non devi spiegare il
motivo per cui fai o dici una determinata cosa. Una
sceneggiatura subisce sempre delle modifiche durante
le riprese. È inevitabile. Un film viene riscritto sul
set e ancora una volta durante il montaggio, io la
penso così ed è una cosa che accetto, non ho la tipica
frustrazione dello sceneggiatore che resta sempre
deluso dal risultato finale e pensa: “io non l’avrei
fatto così”. Insomma… diciamo che mi succede meno
quando lavoro con Matteo perché so esattamente
come lavora e quello che vuole, anzi quello che non
vuole, e quasi sempre lo condivido… Per questo cerco
di essere presente il più possibile anche durante
queste due fasi del lavoro.
L’occhio del regista conta eccome! Nel caso di Matteo
questo è ancora più evidente dal momento che lui è
anche l’operatore alla macchina dei suoi film e poi ama
girare le scene in ordine cronologico, modificando la
dinamica della storia giorno per giorno se necessario
o perlomeno seguendo le suggestioni che derivano
dalla realtà dei posti e, perché no, anche dalle
attitudini degli attori. Quindi sono sempre pronto a
“riscrivere” quella che è diventata per sua natura una
cosa diversa da ciò che avevamo scritto.
Il libro di Roberto era
talmente vasto che ci
siamo subito resi conto
dell’impossibilità di
farne un solo film.
Questa è stata la
nostra fortuna, perché
abbiamo deciso in
pochissimo tempo
che strada prendere e
Quali difficoltà hai incontrato
nell’adattare per il grande schermo
un libro sfuggente e inclassificabile
come quello di Roberto Saviano?
Perché nella trasposizione filmica
avete modificato l’inquietante scena
iniziale al porto di Napoli con una
concitata sequenza di conflitto a
fuoco in stile gangster movie?
cosa lasciare fuori. Con Matteo ci siamo subito trovati
d’accordo nell’eliminare il personaggio che fa da
collante nel libro, cioè il giornalista che gira in vespa
(ovvero lo stesso Roberto), che con tutto il materiale
che c’era risultava anacronistico. In quel modo era
chiaro che non ci sarebbe stato né un protagonista,
né un trait d’union ma tanti protagonisti e tante
27. 27
storie. Siccome un film ti costringe (per la sua durata
limitata) a delimitare i confini, e siccome a Matteo
(come a me) piace soffermarsi sui personaggi –
sulla loro umanità (o disumanità) – dilatare certi
momenti, era naturale che restringessimo il campo a
pochi personaggi e a poche storie, un po’ sull’esempio
di Paisà di Rossellini (un film che abbiamo rievocato
spesso). Anche la scelta dei personaggi e quindi delle
storie è stata una naturale conseguenza di questo
ragionamento e della nostra predisposizione verso
l’aspetto “umano” piuttosto che quello politico-sociale.
La scena iniziale al porto di Napoli è quella che
ci ha fatto innamorare del libro (come credo sia
successo a molti). Matteo ci teneva molto a metterla
ma piano piano si è (o meglio, lo abbiamo) convinto
che non aveva nulla a che vedere con il resto del
film e come spesso succede l’immagine “ispiratrice”
è scomparsa dal film. L’agguato iniziale invece era
parte integrante della storia di ben tre personaggi
– anche se inizialmente non era stato pensato
così, Matteo è stato ispirato da quello che ha visto
durante i sopralluoghi – oltre a essere una scena
perfetta per introdurre il contesto in cui si svolgeva
l’intero film.
Lo conservo, certo, ma dal momento
che non mi piace perseguire in
modo monolitico un’idea lascio
anche che prenda il sopravvento…
è normale, nel mio metodo di
lavoro, che questo succeda, ma
forse più che prendere il sopravvento direi che la mia
“ispirazione” è continuamente sollecitata da fattori
esterni che attraverso un processo mentale tortuoso
e spesso imprevedibile me la rendono un po’ alla
volta sempre più chiara...
Io ho sempre pensato che i grandi film
popolari fossero anche grandi film
d’autore, questo perché i film con cui
sono cresciuto erano film di grande
successo e solo in seguito ho scoperto
che erano di Kubrick, Spielberg,
Come autore conservi
sempre il controllo sulla
storia che stai narrando
o a volte hai l’impressione
che prenda il sopravvento?
Ha ancora senso
distinguere tra
cinema d’evasione
e cinema d’autore?
Attualmente i due
generi si intrecciano?
28. 28
Coppola eccetera… Si trattava di film innovativi sul
piano del linguaggio e dei contenuti, oppure erano
ottimi film di genere. Ho sempre cercato di fare
cinema seguendo quell’esempio ma evidentemente
i primi risultati non sono stati all’altezza delle mie
aspettative. È chiaro che quando si fa un film si
vorrebbe che venisse visto da più gente possibile, ma
non sempre i gusti, le idee, la sensibilità degli autori
sono in sintonia con quelli del pubblico. Magari
mi sbaglio ma purtroppo oggi i film d’evasione mi
sembrano sempre meno “cinematografici” e sempre
più vicini a uno stile televisivo, quindi sempre più
inconciliabili col cinema d’autore. Ultimamente ho
finalmente convinto i produttori che ero in grado
di fare film popolari, come le commedie che ho
sempre adorato, che i film cosiddetti di genere non
devono essere per forza volgari, stupidi, da TV...
Intorno a me vedo che qualcosa sta cambiando, che
si sta recuperando quella tradizione tutta italiana
che riusciva a coniugare l’intrattenimento con la
“autorialità”, se così si può dire.
Ovviamente incidono tanto. L’assistenzialismo
statale è stato smantellato (per me
giustamente…) ma la politica non è ancora
stata capace di creare un sistema industriale
non assistito. Comunque io ho poca fiducia nelle
istituzioni e credo che le soluzioni siano sempre
altrove. Purtroppo non potremo mai contare su un
mercato “colonizzato” come la Francia e l’Inghilterra,
e come al solito dovremo sperare negli sprazzi di
genio italico… La televisione, che ha avuto uno
sviluppo di tipo industriale, avrebbe dovuto investire
anche nel cinema ma purtroppo la maggior parte dei
produttori televisivi ha avuto sempre una visione
ristretta, esclusivamente incentrata sul guadagno
e sulla crescita personali. Ma anche in questo caso
le cose stanno cambiando. Ci sono produttori più
“illuminati” che producono film che non hanno
solo una destinazione televisiva. Poi ci sono realtà
come la rete, che, mi auguro, saranno in grado di
scardinare le modalità della distribuzione e dunque
anche l’oligopolio attuale potrebbe essere superato
dal nuovo che avanza… perlomeno per un po’...
Sono convinto che grazie alle nuove tecnologie, che
sono sempre più accessibili a tutti (come auspicava
cinquant’anni fa Truffaut, facendo il paragone con la
diffusione della scrittura), non solo si possono fare
i film senza produttori ma si possono mostrare a
un pubblico altrettanto vasto di quello che va nelle
sale senza bisogno delle grandi distribuzioni, anzi
nonostante loro. Lo stato, anziché sperperare i soldi
continuando a creare istituzioni che negli intenti
dovrebbero essere di sostegno al cinema, mentre
nella realtà servono soltanto a elargire ennesime
cariche e poltrone che a chi fa cinema non servono
affatto, potrebbe pensare e mettere in funzione
forme di sostegno al cinema italiano, più mirate e
meno settarie del finanziamento pubblico. Forme
che tengano conto dei grandi cambiamenti che ci
sono stati, che a esempio aiutino la diffusione del
cinema nelle scuole, che ne favoriscano lo sviluppo
con un’autentica politica culturale senza lasciare che
tutto venga delegato alla logica del mercato (una
logica assurda). Ma appena dico queste cose mi
rendo conto di quanto siano ingenue...
Si dice che la destra attacca il cinema
perché lo avverte come uno strumento
della sinistra e in parte è vero, se si
pensa che il 99% di chi fa cinema (ma vale anche per il
mondo dell’arte e della cultura in generale) si dichiara
di sinistra o professa idee cosiddette di sinistra. Ma
se così non fosse stato dubito che avrebbe fatto chissà
che… Berlusconi invece avversa l’assistenzialismo
statale in parte per gli stessi motivi e in parte perché,
essendo a capo di una società che per motivi che è
ormai vano riesumare è diventata leader nel settore,
ovvero la Medusa, non capisce perché lo stato debba
buttare via i soldi per un cinema che non solo non
corrisponde ai suoi gusti personali (e a quelli dei suoi
sodali) ma non riesce quasi mai a risultare “attivo”,
economicamente parlando (anche in questo caso
i motivi per cui questo accade sono noti a molti e
riguardano proprio la politica culturale sviluppata
in questo ventennio da Berlusconi e la situazione di
duopolio distributivo). Ma non è che la sinistra, dopo
varie solenni dichiarazioni, avesse fatto granché. Non
c’è stato il tempo! Così si suol dire…
Industria e
Distribuzione
Cinema
e berlusconismo
29. 29
intervista a WILMA LABATE
Credo che il concetto di cinema impegnato
sia superato e obsoleto. All’ultima
edizione della Mostra del cinema di Venezia, in una
congiuntura di pesante crisi economica e di profondi
mutamenti politici come quelli in atto nel Maghreb,
ha vinto il film – particolare e meraviglioso – di
Aleksandr Sokurov. È un segnale che fa riflettere
inevitabilmente sull’usura di una formula canonica
come quella di “cinema engagé”.
A mio avviso è una categoria
fuorviante, anche perché – oggi – la
realtà è in un’evoluzione continua, sorprendente e
imprevedibile. Il cinema ha un dovere, lo stesso che
ha avuto durante il Novecento: quello di prevedere,
di precorrere i tempi. È una tensione che ha sempre
animato la ricerca cinematografica, evidente in
un movimento come quello della Nouvelle Vague.
Essere un passo avanti rispetto alla storia significa
interpretare il futuro prima che accada.
Oggi è tutto più complesso, perché una realtà sfumata
e sfuggente spinge al racconto del presente secondo
una rappresentazione confortante e stereotipata.
E invece il confronto con il reale dovrebbe essere
condotto sulla base dell’invenzione di nuovi linguaggi,
di una nuova scrittura. Mi piacerebbe che il cinema
italiano raccontasse il demone del denaro, svelasse il
grande bluff della finanza internazionale, palesasse
l’inganno del capitalismo. Per articolare questo
tipo di narrazione, però, bisognerebbe inventare un
linguaggio profondamente diverso ed emancipato
dall’eredità novecentesca.
Devo confessare
che ho scelto di
raccontare quella
storia perché volevo
comprendere l’oggi
e non per il fascino
di un evento di
ieri. M’interessava
raccontare l’inizio della fine, l’incipit di una tendenza
articolata di cui – oggi – vediamo il punto estremo.
Ho un grande interesse per il cosiddetto materiale di
repertorio. Nel 1996 realizzai Lavorare stanca, un
film di puro montaggio. Ne posso parlar bene, perché
non ho girato neppure un metro di pellicola. Era un
film sul lavoro, realizzato interamente con materiali
delle Teche RAI. A volte dimentichiamo che la RAI
è stata una grande televisione. Gli ultimi vent’anni
non devono occultarne il valore passato. Gli archivi
rappresentano una risorsa straordinaria, ma – al
tempo stesso – possono costituire una trappola,
perché tendono a forzare la mano e rischiano di
risultare didascalici. L’uso che ne fa Pietro Marcello ne
La bocca del lupo è di grande spessore, perché si basa
su un esercizio di appropriazione e destrutturazione,
perfino di stravolgimento.
Rispetto alla problematicità dei racconti su certi
eventi della storia, senza dubbio esiste un inveterato
pregiudizio dei produttori: la paura è che il pubblico
non sia interessato a narrazioni di quel tipo e diserti
i botteghini. La questione del gusto degli spettatori
è un problema complessissimo, perché – in realtà –
è impossibile dire con esattezza ciò che il pubblico
desidera vedere. Forse le commedie riscuotono tanto
successo perché, per venticinque anni, si è girato poco
altro. In Francia, per esempio, questo non accade.
Un film crudo, durissimo come Hunger, con Steve
McQueen alla regia, in Italia è andato malissimo. A
me, dall’altra parte delle Alpi, è capitato di vederlo
sottotitolato, in una normale multisala piena di
spettatori. Quello che bisognerebbe fare è ragionare
sulla distribuzione, sui meccanismi che la governano
e su quanto incide nella formazione del gusto. È vero
che il pubblico tradisce un certo tipo di film, ma è
anche vero che, se continuiamo a imporre la dittatura
della commedie, il risultato è inevitabile. Una vera
produzione cinematografica dev’essere capace di
garantire un’offerta molteplice.
Impegno
Neo-neorealismo
In Signorina Effe (1980) hai parlato
dei trentacinque giorni ai cancelli di
Mirafiori. Era l’ultima battaglia di una
stagione ormai al tramonto.
Come ti rapporti all’uso dei materiali
storici? Credi che ci sia un’avversione
nei confronti di chi tenta di narrare
determinati momenti del passato?
Regista di La mia generazione (1996), Un altro mondo è possibile
(2001), Domenica (2001) e Signorina Effe (2007). Sceneggiatrice di
La pecora nera (Ascanio Celestini, 2010). Attrice nel documentario
Fuori fuoco (Federico Greco, Mazzino Montinari, 2005).
intervista
30. 30
Negli anni sessanta le commedie erano “cattivissime”:
potremmo dire impegnate. Oggi non si riesce a
raggiungere quel livello, perché è indispensabile fare
i conti con le pretese dei produttori e con il presunto
gusto del pubblico.
Ho scelto di misurarmi
col tema del lavoro
operaio perché oggi
percepiamo tutti i più
brutali effetti della
crisi del fordismo e
delle ristrutturazioni in
fabbrica. In Signorina
Effe ero interessata a
rappresentare l’uomo a
Ti sei misurata con un
tema delicatissimo come quello
delle condizioni del lavoro
in fabbrica. Proviamo a fare
il controcampo: cosa pensi della
rappresentazione cinematografica
del lavoro precario inchiodata
nella cornice della commedia
sentimentale e generazionale?
lavoro fissandolo nell’interazione con la macchina. È
una cosa che generalmente si vede pochissimo, perché
purtroppo è quasi impossibile girare in fabbrica.
Rispetto a quello che avrei voluto in partenza,
emerge poco anche in Signoria Effe. Evidentemente
il cinema riesce a confrontarsi più agevolmente con
i temi della disoccupazione, del precariato, delle
migrazioni, occultando la ferocia del rapporto tra
lavoratore e mezzo di produzione. Volendo forzare,
potrei dire che siamo quasi fermi a Chaplin. E poi c’è
il pregiudizio che la classe operaia non esista più.
L’Italia berlusconiana è televisiva.
Lui ha avuto il genio di modellare un
intero paese sul registro Mediaset.
Ha reso tutto TV, compreso il cinema,
imponendo alla cultura lo “stile del
Cinema
e berlusconismo
Monicelli e
la Rivoluzione
tanga”. Basterebbe questo per andare alla rivoluzione
che auspicava Monicelli.
31. intervista
31
intervista a STEFANO RULLI
Impegno C’è stato un periodo storico in cui
quest’espressione ha avuto un significato
univoco. Parlo del dopoguerra in particolare, ma
anche degli anni sessanta e settanta. La necessità,
l’utilità, di quel cinema era legata alla consapevolezza
dell’esistenza di cose che non venivano messe a
conoscenza dei cittadini. Così, il cinema – oltre a
produrre racconto, fare “romanzo”, suscitare emozioni,
creare personaggi – aveva il dovere morale di
informare, di fare emergere realtà segrete o
sconosciute. Una pietra miliare di questo approccio è
Salvatore Giuliano, in cui si mescolano grande
cinema, modernità di stile e analisi giornalistica. In
altre parole: tutti i requisiti del miglior cinema
impegnato. I lavori di Rosi, per esempio Le mani sulla
città, nascevano da un clima politico, ma anche
dall’intenzione di rivolgersi a un pubblico ampio. Oggi
le cose sono cambiate. Il problema non è il difetto,
bensì l’eccesso di informazione che finisce per
disinformare. Oggi il grande pubblico è disorientato
dalla televisione, dal surplus di notizie, pareri, analisi.
Davanti a una situazione di questo tipo il cinema deve
assumersi la responsabilità di offrire allo spettatore
uno sguardo sulla realtà. È nello sguardo, nella
capacità d’interpretazione, nella definizione di un
punto di vista, che il cinema rende il massimo servizio.
In questo senso si può ancora parlare di impegno,
anche se la parola non è la più adatta a designare
questo tipo di attitudine: ovvero quella di aiutare lo
spettatore a guardare con occhi diversi ciò che sembra
ovvio e scontato. Spesso nel linguaggio non conta
tanto il significato delle parole, bensì quello che le
parole nascondono. Il cinema ha una capacità di
racconto superiore ad altre forme di arte, perché
intreccia immagini e parole. Per me, come
sceneggiatore, scrivere non significa scommettere su
battute che illustrano o spiegano un personaggio,
bensì insistere sul rapporto tra ciò che un personaggio
dice e quello che fa, il modo in cui si comporta, la
Sceneggiatore. - Breve filmografia: Il muro di gomma
(Marco Risi, 1991), Il ladro di bambini (Gianni Amelio, 1992),
La tregua (Francesco Rosi, 1997), La meglio gioventù
(Marco Tullio Giordana, 2003), Romanzo criminale (Michele Placido,
2005), Baciami ancora (Gabriele Muccino, 2010).
gestualità che usa, quello che non fa vedere
immediatamente.
Credo che ci sia ancora spazio per un cinema che aiuti
a comprendere la realtà. Non so se si possa parlare
di impegno vero e proprio, ma di una utilità critica,
sì. E oggi, rispetto al passato, il discorso sullo stile è
ancora più importante. Lo sguardo è stile, e quindi il
problema del come raccontare è davvero ineludibile.
La piovra è stato il primo
tentativo di portare in televisione
temi che non erano propri della
fiction. Attraverso una narrazione
“romanzesca”, abbiamo cercato
di restituire il sentimento politico
di un’epoca. La TV si prestava
bene come mezzo espressivo
per impostare il racconto della
storia d’Italia in quanto storia di
misteri. Avevamo scelto dei meccanismi narrativi
che ammiccavano esplicitamente alle tecniche del
romanzo popolare: storie truci, rimbalzi attraverso
il tempo, fatti remoti che rimandavano al presente e
via dicendo. Era impossibile comprendere le vicende
della prima Repubblica senza considerare l’attività
del controspionaggio americano. Alcuni personaggi
ambigui, legati alla politica, ai servizi segreti, al crimine
organizzato, hanno attraversato gli anni cinquanta,
sessanta e settanta, dipanando il filo rosso – o meglio
“nero” – di un’invisibile continuità. Questi motivi non
erano frutto dell’invenzione, bensì parte costitutiva
della nostra storia.
Oggi ho l’impressione che prevalga la sufficienza dei
modelli narrativi, cui non corrisponde il disvelamento
delle dinamiche politiche e sociali di un periodo.
Romanzo criminale è stato un tentativo di narrare,
attraverso le vicende di un gruppo di proletari romani,
una pagina degli anni settanta segnata dall’attività
dei servizi e dall’ombra lunga di un enigmatico
burattinaio. In altri lavori che ho seguito, la questione
Oltre che per il cinema,
lei ha scritto per la TV.
Tra le altre cose, è l’autore
di alcune serie di una
fiction leggendaria come
La piovra. In che termini
si è trasformata la scrittura
televisiva di argomento
criminale?
32. 32
della mafia, ad esempio, si è piegata maggiormente
alle necessità del manicheismo buoni-cattivi. In questi
casi l’elemento dell’indagine politica si perde negli
schemi delle narrazioni popolari, nei motivi universali
della vendetta o delle grandi passioni. Ne La piovra, al
contrario, praticavamo una lettura plastica, alludendo
al rapporto tra mafia e P2, tra P2 e politica. Cambiano
gli stili, mutano i periodi storici, ma l’importante
è continuare a interpretare il reale, a offrire una
prospettiva, un punto di vista. Bisogna preservare
quest’approccio dall’omologazione stilistica dei format
odierni, dal taglio paternalistico con cui ci si rivolge a
un pubblico, trattato – troppo spesso – alla stregua di
un bambino spaventato.
Faccio sempre un discorso di tendenza, perché
ogni film ha una storia diversa. Credo che la
comicità di Virzì sia erede della commedia all’italiana
e del suo rapporto con la realtà. Pensiamo al tema del
precariato, per esempio.
Senza dubbio ci sono altre commedie che concedono
troppo al meccanismo del racconto sentimentale,
a volte bozzettistico, in cui prevale l’istanza
dell’intrattenimento, del coinvolgimento spensierato.
Nel cinema, però, c’è posto per tutto. La lezione
della commedia all’italiana rivive – a mio avviso
– ne La scuola di Luchetti, in cui si sviluppava una
critica a un certo modello di istruzione. Ho fatto altri
tentativi con Petraglia in lavori che non hanno avuto
particolare successo, per esempio in Arriva la bufera.
Raccontavamo di un giudice che andava al Sud,
finendo per misurarsi con una corruzione pervasiva
e diffusa. Erano gli anni in cui si contrapponeva la
politica corrotta alla società civile onesta. Si trattava
di una dicotomia banale che volevamo smontare. Il
film non ebbe successo, forse perché il pubblico non
si divertì a riconoscere certe condotte nella vita d’ogni
giorno. Tangentopoli andava bene finché il corrotto
era il politico o il banchiere, ma quando la mazzetta
Commedia
33. All’inizio degli anni ottanta,
lei ha realizzato dei documentari
sui sobborghi romani.
33
Tre decenni dopo sono le borgate
che si stanno imborghesendo
oppure è la borghesia
che si sta “imborgatando”?
potevi prenderla anche tu o il tuo vicino, allora c’era
poco da divertirsi. Realizzammo in grande libertà un
prodotto parossistico che provava a dislocare su un
altro piano la satira politica. Il Divo di Sorrentino
non è un film comico, però ha degli elementi di satira
così alta che rappresenta un avanzamento rispetto ai
modelli della commedia all’italiana. In fondo, lo stesso
Nanni Moretti, regista particolarmente serio, ha la
capacità di esprimere una comicità a tratti surreale.
Se decidiamo di non applicare uno schema rigido
e proviamo a emanciparci dalla grande tradizione
che – a volte – finisce per gravare sulle nostre spalle,
credo che esistano autori in grado di sperimentare
innovazioni significative. La comicità nasce quando ci
si rende conto che la risata non è frutto della battuta
facile, ma un aspetto intrinseco della realtà da cogliere
ed evidenziare. Questa disposizione comica si esprime
in altre forme, pur non costituendosi come genere, al
contrario della comicità sentimentale.
Ricordo le demolizioni
del vecchio Tiburtino e la
costruzione delle nuove
abitazioni a trecento metri
di distanza. La gente
traslocava con carretti e
camioncini. Raccogliemmo le
testimonianze di chi viveva al
Tiburtino III, le storie del dopoguerra, delle lotte per
le nuove case. Parlavano con l’orgoglio di chi aveva
un’identità, di chi aveva lottato per un’esistenza
dignitosa. Finalmente avevano vinto. Li filmammo
mentre si traferivano e la cosa che emergeva era un
sentimento di disorientamento. Cessavano di essere
proletari, poveri ma con un’identità, e si ritrovavano
in queste abitazioni moderne, col balconcino privato,
dopo trent’anni di ballatoi, di un’esistenza condivisa,
della cultura di una comunità, del tempo trascorso
insieme nella piazza o all’osteria. I gruppi di vicini
intervista
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non erano stati trasferiti in modo omogeneo, bensì
divisi secondo criteri matematici. La stessa “stecca”,
costruita lungo un viale privo di piazza, finiva per
cancellare una storia. Istintivamente mi viene da dire
che questa vicenda è emblematica dell’incompiuto
passaggio dallo stato popolare alla condizione
piccolo-borghese. Si tratta di una sospensione
tra un’identità legata al passato e un presente
profondamente segnato dalla crisi economica. Forse,
l’imborghesimento più che ascesa a un paradiso è
transito in un purgatorio. Ricordo San Basilio in
quei «deliziosi anni di merda», come Altan definì gli
ottanta. Colpiva il vuoto, il soffocamento, la rabbia
dei giovani delle borgate. Credo che la modernità
abbia appiattito le vecchie connotazioni sociali, e che
la conseguente insoddisfazione, l’assenza di ruoli, la
claustrofobia riguardino ormai l’intera società.
Il vero problema è la difficoltà delle piccole
produzioni indipendenti a trovare spazi. È
vero che si registra la moltiplicazione del numero
di sale, ma questa crescita riguarda solo un certo
tipo di cinema. Da una recente rilevazione risulta
che le pellicole di registi di fascia alta, come Virzì,
Archibugi, Luchetti, puntano su una distribuzione
legata a sale generalmente collocate nel centro
delle città. Parlo di cinema come il Metropolitan a
Roma che stanno scomparendo. In una città come
Perugia, nell’arco di quindici anni, sei o sette cinema
hanno chiuso. Eppure in periferia hanno aperto due
grandi multiplex. Tecnicamente Perugia ha più sale
di prima, ma bisogna chiedersi per quale tipo di
film. Per i lavori dei registi cui ho fatto riferimento
prima, diventa tutto più difficile. L’incasso tende a
diminuire del 10-20%, ma non perché vanno meno
bene nelle sale in cui erano passate le pellicole
precedenti. Semplicemente perché quelle sale non
esistono più e quindi l’incasso complessivo si riduce.
È vero che dall’inizio degli anni novanta il cinema
Industria e
Distribuzione
35. intervista
35
italiano ha ricominciato a crescere dal punto di vista
dei numeri, ma bisogna ragionare anche sul tipo di
pubblico. Come associazione degli autori, i Cento
Autori, abbiamo il dovere di elaborare un modello di
fruizione che sia radicalmente alternativo a quello dei
multiplex, caratterizzati da precise ragion d’essere,
da uno specifico tipo di prodotti, dall’organizzazione
di determinati spazi intorno ai cinema. Bisogna fare
qualcosa di analogo per favorire non solo la fruizione
di un cinema diverso, ma anche un uso diverso
del tempo libero. Il cinema non è mai stato solo il
momento della proiezione, bensì un evento che crea
un tessuto di relazioni, forme di socialità, momenti
di confronto. Quando chiude una sala, si disgrega
questa trama di rapporti sociali. Nelle città in cui il
centro storico perde sale, è un modello intellettuale e
relazionale a disgregarsi. È fondamentale preservare,
e rilanciare, differenti forme di aggregazione culturale
e sociale.
Il primo livello dell’intervento pubblico
dovrebbe orientarsi – in termini di
agevolazioni fiscali o di accesso ai finanziamenti –
verso quei gestori che favoriscono le aggregazioni
socio-culturali. Parlo di un’ampia platea di soggetti
che comprendono non solo privati, ma anche
associazioni culturali disseminate in provincia.
Puntare sulla digitalizzazione, per esempio, mi
pare una scommessa imprescindibile. Non credo
che si debba semplicemente riaprire le sale che
hanno chiuso. Penso che occorra anche rinnovarle.
Non si deve proiettare solo il cinema di finzione,
ma bisogna valorizzare anche generi alternativi
come il documentario. Inoltre, lo sviluppo delle
nuove tecnologie, offre la concreta la possibilità di
organizzare un vero e proprio palinsesto, di pianificare
una programmazione. L’esercente è in condizione di
trasformarsi in operatore culturale, scommettendo
sull’accostamento tra offerta tradizionale e prodotti
Cinema e Stato